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RICOSTRUZIONE DEL PROCESSO CONTRO GESU'

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    00 09/07/2019 15:33

    IL PROCESSO SOTTO PROCESSO 

    Quale fu, per così dire, la goccia  che fece traboccare il calice del disaccordo tra i capi giudei e Gesù?
    Un rimprovero, una sfida? No. Fu un atto di bontà, una manifestazione d’amore: la risurrezione di Lazzaro. “Lazzaro, vieni fuori!” A questo breve ordine, quell’uomo sepolto da quattro giorni salì i gradini della tomba, mani e piedi legati da bende, alla vista di una piccola folla sconcertata (cfr. Gv 11, 43-44).

       Avvertiti dell’accaduto, i pontefici e i farisei convocarono il consiglio e gli sottoposero senza giri di parole la questione: “Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in Lui…” (Gv 11, 47-48). Su istigazione di Caifa, sommo sacerdote in carica, i membri della grande assemblea decisero di uccidere l’Uomo-Dio. Così, senza essere nemmeno citato e interrogato, Gesù fu condannato a morte per il “crimine” di “moltiplicare i miracoli”.

       Non avendo, tuttavia, ancora mezzi per passare dalla decisione all’esecuzione, i Pontefici e i Farisei si limitarono a prendere alcuni provvedimenti per localizzarLo e catturarLo.

       Erano in attesa di un’occasione favorevole per mettere le mani su Gesù senza provocare turbamento nel popolo, quando un visitatore in tutto e per tutto inatteso venne a offrire loro la realizzazione immediata dei loro nefasti disegni:

       — Che mi darete in cambio se ve Lo consegno? – chiese loro l’Iscariota.

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    Cattura di Gesù nell’Orto, del Maestro di Rubiò - Museo Episcopale di Vic (Spagna)

       Combinarono il prezzo di trenta monete d’argento, il valore di uno schiavo, e il traditore condusse gli sbirri del Sinedrio nell’Orto degli Ulivi, dove indicò loro con un bacio l’Uomo che essi cercavano. Quindi arrestarono Gesù, Gli legarono le mani e Lo trascinarono nella casa di Anna, suocero di Caifa, e infine in quella di quest’ultimo.

    Trasgredirono la Legge di Dio e le leggi umane

       La trasgressione della Legge di Dio è solitamente accompagnata dalla violazione delle leggi umane, e questo è quello che è successo a Gesù. Da un punto di vista giuridico, il suo arresto fu propriamente un sequestro, poiché la giurisdizione poliziesca del Sinedrio era limitata all’area del Tempio. Era la prima di una serie di gravi irregolarità procedurali.

       Il Sanhedrîn o Sinedrio era il tribunale supremo degli ebrei. Era composto di settantuno membri ed era diviso in tre camere: quella dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. Molto è stato scritto sulla condotta abominevole di questo tribunale fino al momento in cui Pilato, “il giudice che commise il crimine professionale più mostruoso della Storia”,2 condannò alla crocefissione l’Innocente per eccellenza.  

       Tra le diverse opere dedicate a questo tema, vale la pena citare lo studio preciso e interessante svolto da due sacerdoti francesi, intitolato Valore dell’assemblea che ha pronunciato la condanna a morte contro Gesù Cristo. 3

       I suoi autori erano fratelli gemelli appartenenti a una famiglia israeliana benestante e aristocratica di Lione, in Francia. Toccati dalla grazia assistendo ad alcune cerimonie cattoliche, iniziarono ancora nell’infanzia la via della conversione, culminata all’età di diciotto anni, con la ricezione del Santo Battesimo. Favoriti dalla loro conoscenza della lingua ebraica, i fratelli Lémann fecero ricerche in buone fonti sulla legislazione penale in vigore in Israele all’epoca della condanna a morte di Gesù. Essi, così, poterono redigere un elenco di ventisette irregolarità commesse nel corso delle varie procedure giuridiche, ciascuna delle quali sufficiente per annullare l’intero procedimento.

       Ne menzioneremo a seguire alcune fra le più interessanti.

    Dare un’aura di formalità a una sentenza già emessa

       Dopo aver catturato Gesù nell’Orto degli Ulivi, gli sbirri Lo condussero alla casa di Caifa, dove era già riunito il Sanhedrîn per giudicarLo (cfr. Mt 26, 57). Grave trasgressione della legge, poiché questa proibiva tali giudizi di sera, sotto pena di nullità. Inoltre, la riunione si svolse il primo giorno degli azzimi, vigilia della grande festa della Pasqua; ora, il Sanhedrîn non poteva giudicare alla vigilia del sabato né in quella di un giorno di festa.

       Lo stesso Caifa che, in occasione della risurrezione di Lazzaro, si costituì accusatore di Gesù, ora Lo interroga come giudice; inoltre, come presidente del tribunale! Una mostruosità giuridica, inammissibile in qualsiasi paese civile.

       Essendo Gesù già condannato in anticipo, il vero obiettivo di questa riunione era di dare un’aura di formalità legale alla sentenza pronunciata giorni prima. Per questo, il Sanhedrîn ascoltò la deposizione di numerosi falsi testimoni, senza un’analisi preliminare delle loro qualifiche e senza nemmeno esigere da loro il giuramento. Tuttavia, essi non erano d’accordo tra loro e Caifa fu obbligato a cercare una via d’uscita dall’impasse, interrogando il Divino Maestro: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Mt 26, 63). 

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    Gesù davanti a Pilato, di Jaime Ferrer
    - Museo Episcopale di Vic (Spagna)

       Domanda capziosa: se avesse risposto negativamente, sarebbe stato condannato come impostore; se la sua risposta fosse stata affermativa, come blasfemo. Inoltre, era vietato esigere dall’accusato un giuramento, perché ciò implicava l’imporgli un dilemma: commettere spergiuro o incriminare se stesso. L’iniquo tribunale non pretese dai testimoni il giuramento che era tenuto a esigere e chiese all’accusato una cosa che gli era proibito di fare.

       E Gesù diede una risposta sublime: “Tu l’hai detto, anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo” (Mt 26, 64). Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti, dicendo: “Ecco, ora avete udito la bestemmia! Che ve ne pare?” E i membri del Sanhedrîn risposero: “È reo di morte!” (cfr. Mt 26, 65-66).

    Cercando disperatamente la pena capitale

       Alle irregolarità di cui sopra se ne aggiunsero altre, di non minore gravità.

       Sentita la risposta del reo, spettava a Caifa analizzarlo con serena imparzialità per poi sottoporre il caso al voto di tutti i membri del tribunale. Lui non lo fece. Al contrario, era così agitato dall’odio che si strappò l’abito sacerdotale, atteggiamento che era assolutamente proibito al sommo sacerdote. La frenetica agitazione lo portò persino a infrangere varie altre norme giuridiche, delle quali ne evidenziamo tre, tutte di fondamentale importanza. 

       La prima, l’imposizione del voto congiunto di tutti i membri del Sanhedrîn, quando per legge dovevano votare individualmente, uno per uno: “Io condanno”, o “Io assolvo”, tutto debitamente registrato dai funzionari competenti. La seconda, la sentenza fu pronunciata lo stesso giorno in cui iniziò il processo, mentre la legislazione prescriveva che, nei casi di pena capitale, la sentenza dovesse essere rinviata al giorno seguente. La terza, la sentenza di morte fu pronunciata nella casa di Caifa, mentre per legge, le condanne a morte erano valide solo quando pronunciate nella Sala Gazith, denominata anche Sala delle Pietre Tagliate, situata in una delle dipendenze del Tempio. 

       Per il fatto che la Giudea era stata ridotta allo stato di provincia romana, il Sanhedrîn aveva perso lo ius gladii, ossia, il diritto sovrano di applicare la pena di morte. In pratica, quindi, non sarebbe stato di alcuna utilità per i sinedriti tutto quello sforzo notturno per arrestare e condannare Gesù, se non avessero ottenuto la sentenza di condanna pronunciata dal governatore romano. Condussero, dunque, in tutta fretta Gesù dalla casa di Caifa al pretorio di Pilato, dove iniziarono un’altra battaglia, infame e ingloriosa tanto quanto la prima.

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    Flagellazione, del Maestro di Rubiò
    - Museo Episcopale di Vic (Spagna)

       Sapendo per dura esperienza che il magistrato romano non avrebbe prestato la minima attenzione a un’accusa di blasfemia o qualcosa del genere, si videro costretti a presentare Gesù come un criminale politico, un rivoltoso, un ribelle del popolo, contrario al pagamento del tributo a Roma; in una parola, un nemico di Cesare.

       Insicuro e pavido, Pilato fece diversi tentativi per liberare il Divino Prigioniero, poiché ben percepiva che gli scribi e i sacerdoti non procedevano con la retta intenzione. Questi, tuttavia, istigavano la plebaglia a reclamare con forti grida la condanna a morte di Gesù: “CrocifiggiLo, crocifiggiLo! […] Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare” (Gv 19, 6.12).

       Sentendo questa minaccia, il poco coraggio di Pilato si dissolse e consegnò loro l’Innocente affinché fosse crocefisso. Proprio come gli ebrei preferirono un comune bandito invece del Redentore, il vigliacco governatore sacrificò la Verità a beneficio della sua mediocrità, con il suo gesto simbolico di lavarsi le mani.

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    Cristo Risorto - Basilica di San Marco, Venezia

    Il più splendido trionfo della Storia

       Si era concluso, così, il processo più abominevole della Storia. Nostro Signore Gesù Cristo, condannato alla più ignominiosa delle morti, partì portando la Croce fino in cima al Calvario. Gli sbirri, i sacerdoti e gli scribi non risparmiarono nulla di quello che potevano fare per aumentare i suoi tormenti di corpo e anima. L’Agnello di Dio fu infine immolato.

       Dopo aver detto “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30), Cristo chinò il capo e spirò. Il Padre Eterno stesso Si incaricò di celebrare i solenni funerali del suo Divino Figlio: il sole si oscurò, lasciando la terra avvolta nelle tenebre; il velo del Tempio si strappò o da cima a fondo, in due parti; la terra tremò; le pietre si ruppero; le tombe si aprirono e si videro i corpi dei defunti camminare per le strade della città deicida, rimproverando gli ebrei. 

       Agli occhi degli amici del mondo, Cristo era uno sconfitto, il male aveva prevalso. La Santissima Vergine, tuttavia, rimaneva in piedi accanto alla Croce, col cuore trafitto dal gladio del dolore, ma convinta che a questo apparente fallimento sarebbe presto seguita una splendida vittoria. Nostro Signore Gesù Cristo aveva vinto la morte e il male per sempre, resuscitando il terzo giorno e aprendoci le porte del Cielo: lungi dall’essere una sconfitta, l’olocausto del Giusto fu in realtà il più splendido trionfo della Storia. (Rivista Araldi del Vangelo, Marzo/2018, n. 178, p. 16 - 19)


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    00 12/07/2019 19:36
    RICOSTRUZIONE DEL PROCESSO A GESU' NELLE VARIE FASI

     Introduzione


     Le vicende dell'arresto, del processo e della condanna a morte di Gesù Cristo secondo quanto raccontato nei Vangeli canonici presentano una serie di anomalie quando vengono esaminate alla luce delle conoscenze attuali sul diritto processuale ebraico del periodo. Secondo la descrizione tradizionale Gesù viene prima arrestato, quindi frettolosamente processato davanti ai sacerdoti, infine consegnato al prefetto (questo era il titolo esatto posseduto dal governatore romano a quel tempo, come testimonia una epigrafe rinvenuta a Cesarea di Palestina nel 1961) Ponzio Pilato che rappresentava l'autorità romana in Giudea a quel tempo, affinchè sia definitivamente condannato a morte. Le modalità dell'arresto e della condanna da parte della corte ebraica, in particolare l'estrema frettolosità con cui venne emessa una sentenza di condanna a morte dell'imputato, come vedremo non sono assolutamente compatibili con quanto riportato nel Sanhedrin, un antico trattato rabbinico facente parte del Talmud Babilonese che descrive le funzioni e le caratteristiche del Sinedrio. Si deve comunque evidenziare che oggi non è nota con precisione la procedura processuale ebraica del I secolo dopo Cristo. Inoltre sappiamo che a quel tempo la situazione della Giudea era alquanto complessa, non esisteva il re che era sostituito dal governatore inviato da Roma, il Sinedrio aveva in teoria giurisdizione nell'amministrazione della giustizia ma è plausibile che in qualche modo i Romani avessero limitato le funzioni del Sinedrio ed è anche ammissibile che le stesse funzioni siano cambiate nel corso di pochi anni a seconda delle circostanze e della particolare situazione politica. Gran parte delle nostre conoscenze su come venivano gestiti i processi provengono dal Talmud Babilonese, una raccolta di scritti rabbinici che costituiscono l'antica legge orale messa per iscritto a partire dal II secolo dopo Cristo in poi, dopo la caduta di Gerusalemme nella guerra del 66-74 dopo Cristo contro i Romani. Accanto alla legge mosaica, che costituiva la legge scritta raccolta nella Torah, i primi cinque libri della Bibbia, esisteva fin da tempi molto antichi anche la legge orale che non era codificata in alcun documento scritto, al contrario della Torah ebraica, ma veniva tramandata oralmente dalle varie scuole rabbiniche e "ricordata" di generazione in generazione. E' solo dal II secolo dopo Cristo con la diaspora degli Ebrei che questa legge orale viene in qualche modo codificata e messa per iscritto, sulla base di antichi ricordi e di quanto tramandato dai rabbini più autorevoli fino a quel momento. E' possibile quindi che il Talmud Babilonese contenga delle imprecisioni e non fotografi la situazione particolare della Giudea al tempo di Pilato, che è il periodo storico che poi interessa nella presente trattazione. Inoltre esso descrive il Sinedrio così come dovrebbe essere, non tenendo conto delle varie e travagliate situazioni politiche che si verificarono di volta in volta nella Palestina del I secolo dopo Cristo. Il Talmud Babilonese è costituito da vari trattati scritti dai rabbini, quello che si occupa dettagliatamente del Sinedrio prende il nome di Sanhedrin, contiene 11 Capitoli i quali al loro interno sono divisi in due "livelli" testuali, la Misnah, che costituisce la documentazione più antica sulla legge orale raccolta dai rabbini, e la Gemarah, il commentario alla Misnah, raccolto in tempi più recenti fino al V-VI secolo dopo Cristo. Nel presente lavoro faremo riferimento al Sanhedrin, edizione del rabbi I. Epstein (editor), pubblicato dalla Soncino Press London, 1935-1948, in lingua inglese.

     

    NOTA: il Talmud Babilonese nell'edizione inglese del rabbi I. Epstein è consultabile online in rete al seguente link:

     

    http://www.come-and-hear.com/tcontents.html

     

     

     

    1.  Le procedure processuali del Sinedrio

     

     

    2.1 Il Sinedrio

     

     

    Il Sinedrio (termine che deriva dal greco synèdrion che significa “assemblea”) era un'alta corte di giustizia di cui si fa per la prima volta menzione nella Bibbia come istituzione nel primo Libro dei Maccabei (v. 14:28). Il trattato talmudico noto come Sanhedrin afferma che esisteva un Grande Sinedrio, composto da settantuno elementi, e un Piccolo Sinedrio composto da ventitre membri soltanto. Ma sul numero di componenti del Grande Sinedrio non c'è accordo, lo stesso Sanhedrin nella Ghemarah, il commentario alla Misnah, riporta che secondo il rabbi Judah il Grande Sinedrio era composto da settanta elementi soltanto. Le cause civili meno importanti potevano essere risolte da un numero di giudici ridotto, il Sanhedrin all'inizio del Cap. 1 elenca le tipologie di reati e il numero di giudici necessari. Per le cause capitali occorrevano almeno ventitre giudici, quindi si doveva convocare il Piccolo Sinedrio. Una tribù di individui che avessero commesso assieme un fatto perseguibile, un falso profeta  o il sommo sacerdote potevano essere processati solo davanti al Grande Sinedrio al gran completo, composto da settantuno elementi (Sanhedrin, Cap. 1, folio 2a). La definizione di Piccolo Sinedrio e l'osservazione che secondo il Sanhedrin i reati minori potevano essere giudicati da tribunali ridotti fa pensare che esistessero in realtà più sinedri, in varie città della Giudea. Questo peraltro sembra confermato dal Nuovo Testamento che parla di tribunali al plurale utilizzando proprio la parola greca al plurale sunšdria (cfr. Matteo 10:17). Del resto è impossibile pensare che tutte le cause della Giudea, anche le più semplici e insignificanti, venissero discusse sempre dallo stesso organo visto come un tribunale unico. Come apprendiamo anche dal Nuovo Testamento a Gerusalemme esisteva un Grande Sinedrio, presieduto dal Sommo Sacerdote. Probabilmente si trattava certo del tribunale più importante della Giudea. Esso teneva le sue riunioni in un’apposita ala del Tempio di Gerusalemme. Il Sinedrio disponeva di un proprio corpo di guardia e quindi era in parte responsabile dell’ordine pubblico, come apprendiamo dal Nuovo Testamento. Il Talmud Babilonese (in part. nel trattato noto come Sanhedrin) afferma che nell'epoca del secondo tempio il Sinedrio si occupava soprattutto di cause religiose e civili, sia capitali che non, che avevano una qualche relazione con la legge mosaica. Le sue decisioni avevano valore di legge e venivano accettate dall’autorità romana, sebbene durante il periodo dei procuratori romani i rapporti tra l'autorità romana e il Sinedrio non sono chiari in quanto mancano soprattutto documenti storicamente attendibili al di fuori di quanto riportato nel Nuovo Testamento. Pare che come istituzione il Sinedrio non sia sopravvissuto e sia stato sciolto definitivamente dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio durante la guerra del 66-74 dopo Cristo.

     

    In epoca romana erano quindi di competenza del Grande Sinedrio di Gerusalemme:

     

    •  la difesa dell’ordine pubblico, soprattutto nell’area del tempio, per questo era a disposizione del Sinedrio un corpo di guardia comandato dal capitano del tempio, come apprendiamo dal Nuovo Testamento (cfr. Atti 4:1-2);

     

    •  la potestà ordinaria giudiziale religiosa e civile per tutti i casi che riguardavano la legge mosaica; il Sanhedrin elenca tutti i casi in cui i reati erano di competenza del Sinedrio, si andava dai reati religiosi, agli abusi sessuali, alle cause civili inerenti questioni monetarie, ecc... Da alcuni passi del Nuovo Testamento pare che le decisioni del Sinedrio fossero riconosciute dall’autorità romana che occupava la Palestina.

     

    •   il potere esecutivo per il cui esercizio, così come per la tutela dell’ordine pubblico, poteva anche ricorrere alle coorti romane; secondo il Nuovo Testamento romani e giudei collaborano per arrestare Gesù.

     

    Il Sinedrio gestiva in particolare le cause civili e religiose per le quali era applicabile la Legge Giudaica. Il processo si divideva in varie fasi: il controllo e la verifica dei testimoni, il dibattimento che consisteva in giudizio (esame dell’accusato) e infine l’emissione di un verdetto (la sentenza), raggiunto per votazione da parte dei membri del Sinedrio, che poteva anche essere la pena di morte per i reati più gravi nelle cause capitali o si limitava a un semplice esborso monetario per le cause civili. Si giungeva al processo dopo un arrestodell’imputato (autorizzato da un mandato legale) che doveva avvenire sempre di giorno salvo casi eccezionali (la nostra “flagranza” di reato). Esistevano regole ben precise per le sedute del processo: come per l’arresto, le sedute processuali dovevano sempre tenersi durante il giorno (prima del tramonto). Il Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a, stabilisce che tutte le cause, siano esse civili o capitali, richiedono per la loro conclusione delle indagini e un interrogatorio. Esso distingue poi le procedure da seguire nel caso delle cause non capitali (o civili) e delle cause capitali:

     

    Cause non capitali: la causa inizia sempre durante il giorno e può concludersi nel corso dello stesso giorno oppure durante la notte; nella Ghemarah, il commentario alla Mishnah contenuta nel Sanhedrin, è citato a sostegno di questa procedura il passo di Esodo 18:22 che dice: "essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza", quindi anche di notte o dopo il tramonto. Per le cause non capitali bastava la maggioranza di un solo giudice del Sinedrio per condannare o assolvere l'imputato. Inoltre nell'esaminare la causa si doveva sempre iniziare con gli argomenti a favore dell'accusa.

     

    Cause capitali: il Sanhedrin prescrive che le cause capitali si possono concludere il giorno stesso in cui sono iniziate solo se il verdetto è di assoluzione altrimenti vengono interrotte prima della sera e riprendono il giorno dopo ma sempre in modo che si concludano di giorno (Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a). In pratica, avvicinandosi il tramonto, al termine della prima seduta si tiene una prima votazione: se l’esito è favorevole all’imputato allora questi viene immediatamente rilasciato, anche se il pronunciamento avviene ormai verso il tramonto. Se invece l’esito è sfavorevole all’imputato oppure la seduta si protrae oltre i limiti di legge allora la seduta viene sospesa e può riprendere solo il giorno seguente. Il commentario alla Misnah cita il passo di Esodo 25:4 a sostegno di questa procedura: "fa appendere al palo i colpevoli, davanti al Signore, al sole", una condanna a morte deve avvenire solo in pieno giorno, davanti al sole. Secondo la Misnah del Sanhedrin, poi, afferma che nel caso di una causa capitale occorre una maggioranza di almeno due giudici per emettere una sentenza di condanna, mentre basta una maggioranza di un solo giudice per prosciogliere l'imputato. Nella cause capitali, poi, il procedimento deve sempre iniziare con la discussione degli argomenti a sostegno dell'innocenza dell'imputato.

     

    Il Sanhedrin ordina poi esplicitamente che le cause non si dibattano mai alla vigilia di un sabato oppure di una qualunque festività (cfr. Sanhedrin, Cap. IV, folio 32a).

     

     


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    00 12/07/2019 19:38

    CONTINUAZIONE

    2.2 Tutela dell’imputato

      

    L’imputato aveva il diritto di utilizzare consulenza legale. Se non poteva disporre di un difensore, o non aveva le possibilità economiche per pagarlo, ne veniva nominato appositamente uno per lui che agisse in sua difesa. Per la legge mosaica non poteva venire richiesto a un accusato di testimoniare a proprio sfavore. Anche per la legge ebraica in generale una confessione volontaria non sembra essere sufficiente per ottenere una condanna. In pratica la legge ebraica non ammetteva la “confessione” del crimine da parte di un imputato. L'esame dei testimoni era eseguito molto scrupolosamente per evitare che un imputato venisse accusato ingiustamente. Quando un processo capitale è terminato e l'accusato è riconosciuto colpevole del reato il condannato è portato via per essere giustiziato.  La condanna più diffusa nel mondo ebraico era la lapidazione. Prima dell'esecuzione o durante la stessa, è possibile che intervenga qualcuno a portare nuovi elementi a discolpa del condannato; persino lo stesso condannato può interrompere l'esecuzione chiedendo di ritornare in tribunale e fino a quattro cinque volte, purchè le sue dichiarazioni siano significative (Sanhedrin, Cap. VI, folio 42b). Inoltre un araldo deve annunciare la sentenza di condanna a morte in modo che questa sia resa pubblica ed eventuali testimoni possano ancora intervenire per discolpare l'imputato. Viene raccontato il caso di Gesù secondo cui la sua condanna venne annunciata per ben quaranta giorni, sebbene la Ghemarah, il commento alla Misnah, lo citi come palese esagerazione, in realtà il tempo che deve trascorrere dall'emissione del verdetto all'esecuzione materiale della condanna è molto breve (Sanhedrin, Cap. VI, folio 43a). Queste procedure descritte nel Talmud Babilonese dimostrano comunque una certa tutela dell'imputato, si cerava di impedire che qualcuno potesse essere ucciso ingiustamente.

     

    2.3 I testimoni

      

    Il ruolo dei testimoni nel processo ebraico è di fondamentale importanza. Infatti non c’è una accusa ufficiale o un pubblico ministero che accusa di qualche reato l’imputato. Sono i testimoni che fungono da pubblica accusa. Oppure sostengono la tesi di una parte piuttosto che dell'altra. In genere venivano ascoltati, singolarmente uno dopo l’altro, prima i testimoni dell’accusa e poi quelli che parlavano a difesa dell’imputato. Risulterebbe certo che la condanna per un reato capitale non è possibile se questa è basata sulla testimonianza accusatoria di un solo testimone. Un solo testimone sembra avere lo stesso valore di nessun testimone. Nel caso ci siano solo due testimoni, cioè il numero legale minimo, questi devono concordare in ogni più piccolo particolare nelle loro versioni dei fatti. Il fondamento di questa norma del resto lo troviamo ancora oggi nel Deuteronomio e nei Numeri:

     

    Deuteronomio 17:6 Colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o di tre testimoni; non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimonio.

     

    Deuteronomio 19:15 Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni.

     

    Numeri 35:30 Se uno uccide un altro, l'omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una persona.

     

    Del resto anche il Sanhedrin prevedeva almeno due testimoni concordi tra loro nel formulare un capo di accusa per procedere nel dibattimento, prendendo ispirazione da questi passi della Torah. I testimoni venivano portati in una stanza e  letteralmente "terrorizzati". Il ruolo fondamentale da loro giocato doveva essere ben chiaro onde evitare che potessero dichiariare il falso. Dopodichè iniziava un esame dei testimoni ad uno ad uno, iniziando da quello più anziano. Dopo l'interrogatorio del primo testimone veniva data udienza a un secondo testimone. Se le due testimonianze erano concordi si procedeva all'esame del caso. Altrimenti si procedeva a incrociare le varie testimonianze in modo da trovarne almeno due tra loro concordi e coerenti. L'affidabilità dei testimoni veniva valutata molto attentamente (Sanhedrin, Cap. 3, folio 29a).  Nelle cause monetarie non capitali i falsi testimoni potevano riparare pagando ma nel caso una falsa testimonianza provocasse la morte di un imputato innocente il falso testimone poteva essere processato e se la sua falsa testimonianza veniva provata allora veniva condannato a morte (Sanhedrin, Cap. IV, folia 37a e 37b).

     

    Non risulta che i testimoni dovessero sottostare ad alcun giuramento. Si supponeva infatti che il comandamento mosaico “non fornirai falsa testimonianza” fosse sufficiente ad evitare spergiuri e menzogne. A questo si aggiungevano ulteriori deterrenti: un testimone che mentiva nel corso di un processo per reati capitali punibili con la pena di morte diventava lui medesimo passibile di condanna capitale. Quindi è presumibile che i testimoni pesassero con cura le proprie dichiarazioni in tali circostanze per non subire sanzioni. Se l’accusato veniva condannato alla pena di morte i testimoni erano obbligati a presenziare all’esecuzione, nel caso della lapidazione dovevano iniziare a scagliare per primi le pietre. Secondo il Deuteronomio i testimoni che avevano causato la messa a morte dovevano essere i primi ad eseguire la sentenza di morte. L'usanza è del resto raccolta anche nel Sanhedrin. Questo coinvolgimento in prima persona e responsabilizzazione della figura del testimone si rendevano necessari data la particolare delicatezza della funzione che essi espletavano.

     

    Dt 17:7 La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo; così estirperai il male in mezzo a te.

     

    Dt 19:16-20 Qualora un testimonio iniquo si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione, i due uomini fra i quali ha luogo la causa compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giudici indagheranno con diligenza e, se quel testimonio risulta falso perché ha deposto il falso contro il suo fratello, farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello. Così estirperai il male di mezzo a te. Gli altri lo verranno a sapere e ne avranno paura e non commetteranno più in mezzo a te una tale azione malvagia.

     

     

    2.4 La corte giudicante

     

     

    La corte giudicante è il Sinedrio. Abbiamo accennato che per i reati minori esistevano dei tribunali più piccoli nelle varie città. Il Grande Sinedrio di Gerusalemme era probabilmente l’unica assise con giurisdizione sui crimini punibili con la pena di morte. Abbiamo comunque notizie dal Nuovo Testamento che alcuni Giudei tentano di lapidare Gesù anche in città diverse da Gerusalemme. Il Grande Sinedrio di Gerusalemme era una corte di settanta (o settantuno) membri, presieduta secondo il Nuovo Testamento dal Sommo Sacerdote (ma alcuni sostengono che invece fosse presieduta da due soggetti, per cui i membri sarebbero in questo caso settantuno invece che settanta) e composta da una “camera/sezione” religiosa di ventitrè membri (sadducei), da una “camera/sezione” legale di ventitrè scribi (esperti della Legge, di estrazione farisea) ed una terza “camera/sezione” popolare di ventitrè membri anziani (sadducei). L’istituzione di questa assise viene fatta risalire alle istruzioni impartite da Mosè (nel Libro dei Numeri, 11:16-17):

     

    Numeri 11:16-17 Il Signore disse a Mosè: “Radunami settanta uomini tra gli anziani d’Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi; conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e parlerò in quel luogo con te; prenderò lo spirito che è su di te per metterlo su di loro, perché portino con te il carico del popolo e tu non lo porti più da solo”.

     

    In tutto l’A.T. si ha notizia di una “assemblea di sacerdoti” nel Primo Libro dei Maccabaei (14:28) ma il termine “Sinedrio” (che deriva dal greco synèdrion) compare in modo sistematico solo nel Nuovo Testamento. Nel Sinedrio erano presenti rappresentanti dei due maggiori partiti religiosi del periodo: i Sadducei ed i Farisei, la maggioranza dei membri (il 65% circa) era comunque di estrazione sadducea. I sadducei appartenevano alla classe più abbiente della società giudaica. I farisei invece erano di estrazione popolare, appartenevano alla gente comune, ed erano più legati alla Sinagoga che non al Tempio di Gerusalemme, al contrario dei Sadducei. Gli Scribi erano in maggioranza farisei, ed erano gli esperti della legge. Il gruppo degli anziani era invece costituita da persone altolocate, capi del popolo e notabili, quasi tutti sadducei. Veniva usata una grande cura nella scelta dei membri della corte giudicante. L’età minima era di quarant’anni ed ogni membro doveva avere avuto esperienze in almeno tre “uffici” pubblici di crescente dignità. Ogni membro doveva essere di impeccabile dignità e tenuto nella più alta considerazione dai suoi concittadini. Il Sanhedrin prescrive che per cause capitali dovevano essere scelti come giudici soltanto sacerdoti e scribi mentre per le cause civili potevano andare bene anche giudici di rango inferiore. I membri del Sinedrio agivano sia come giudici sia come giuria dovevano essere ebrei stretti (cioè sia da parte di madre che di padre). Ogni membro che avesse particolari interessi nell’esito del giudizio veniva escluso. La corte doveva decidere innocenza o colpevolezza solo sulla base delle prove e delle testimonianze presentate in aula. Il Sinedrio si riuniva in un’ala del Tempio di Gerusalemme. Il Sommo Sacerdote poteva giudicare ma anche essere a sua volta giudicato, poteva testimoniare ma subire anche una testimonianza contro di lui. Il re, invece, non poteva essere giudicato dal Sinedrio e non poteva neppure sedere in giudizio, nè poteva testimoniare o subire testimonianze. Il suo potere era quindi del tutto indipendente dal Sinedrio. (Sanhedrin, Cap. 2). Il Sinedrio aveva anche il dovere di proteggere e difendere l’accusato durante il processo, fino alla emissione della sentenza definitiva. In nessun caso i membri della corte potevano permettersi di colpire o percuotere l’accusato.

     


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    00 12/07/2019 19:39

    2.5 Procedura processuale per le cause capitali


     


     


    I giudizi non avevano luogo il sabato o nei giorni di festa. In particolare nessun giudizio era possibile durante tutta la settimana pasquale ebraica, dal 14 al 21 del mese di Nisan. Anche la vigilia del sabato e dei giorni di festa non potevano essere istituiti dei processi. Sembra che la procedura processuale avvenisse in questo modo. Nel corso di una “udienza preliminare”, dopo aver selezionato i testimoni e averne trovati almeno due concordi nell'accusa, un giudice portava all’attenzione della corte un sommario di tutte le prove e di tutte le testimonianze a favore dell’accusato in ordine a un determinato fatto o ipotesi di reato. Poi venivano discusse tutte le prove a sostegno della colpevolezza. Questa fase del dibattimento era pubblica. Poi venivano allontanati gli eventuali spettatori e si procedeva ad una votazione, per maggioranza semplice. Se la votazione era per l’assoluzione il processo si concludeva immediatamente e l’eventuale “difensore” veniva immediatamente esonerato dall’incarico: il giorno stesso veniva quindi emesso un verdetto di non colpevolezza. Per prosciogliere l'imputato bastava un solo voto in più a favore. Se invece veniva votata l’imputabilità (occorrevano almeno due voti in più a favore dell'accusa) e le prove e testimonianze erano quindi state convincenti, iniziava una seconda procedura. Nessun “verdetto”, dopo la votazione a favore della imputabilità, poteva venire pronunciato in quel giorno. La corte doveva aggiornarsi per un giorno solare intero e il processo veniva sospeso. I giudici potevano recarsi a casa ma no dovevano permettere ai propri pensieri divagazioni od occuparsi in affari e attività sociali. Il loro compito durante questa fase era quello di considerare e riconsiderare le prove e di ritornare il giorno seguente per discutere e deliberare nuovamente. Si teneva quindi una seconda riunione, sempre rigorosamente di giorno, che aveva lo scopo di emettere il verdetto definitivo (assoluzione o condanna). Nel corso della prima votazione poiché si era arrivati alla imputabilità c’erano stati più giudici che avevano votato per la colpevolezza che giudici “innocentisti”. Nel corso della seconda e definitiva votazione i giudici innocentisti non potevano modificare il voto che avevano dato nella prima votazione. Tutto si giocava quindi sui giudici colpevolisti della prima votazione. Se un numero sufficiente di questi cambiava idea, allora l’accusato veniva assolto altrimenti veniva condannato. Non era possibile che il verdetto di colpevolezza fosse stato votato da tutti i giudici all’unanimità. Ci doveva essere almeno un voto “innocentista”. Una condanna all’unanimità dell’imputato era vista come una forma persecutoria e cospiratoria nei confronti dell’imputato, e di conseguenza non era permessa. Paradossalmente se ciò avveniva l’imputato veniva immediatamente assolto e rilasciato.


     


     


    2.6 Reati particolari


     


     


    Non sappiamo esattamente quali fossero i reati di competenza del Sinedrio di Gerusalemme e quali invece dell’autorità romana. Certamente tutti i processi per cause “religiose” anche con possibilità di pena capitale erano gestiti dal Sinedrio. Pare invece che i reati per “sedizione” fossero di competenza dell’autorità romana. Nel caso di Gesù, visto che, come vedremo, ci sono numerose anomalie procedurali secondo quanto ci hanno narrato gli evangelisti, è possibile che egli sia stato esaminato in modo informale e consegnato ai romani per condannarlo per il reato di sedizione, reato non di competenza del Sinedrio. Conveniva agire in questo modo anche perché c’erano alcuni membri del Sinedrio che erano seguaci o simpatizzanti di Gesù e avrebbero potuto votare per l’innocenza (una cosa simile avviene in occasione del processo a Pietro da parte del Sinedrio, descritto negli Atti degli Apostoli). La tesi secondo cui in alcuni anni dell’occupazione romana fosse impedito al Sinedrio di emettere sentenze capitali (riservandole all’autorità romana) non è inverosimile. Infatti la Palestina in quei tempi era una terra ribelle e in costante tensione. Il Sinedrio avrebbe potuto condannare a morte molti ebrei favorevoli ai romani, e questo non era visto di buon occhio. I reati capitali che venivano giudicati dall’autorità romana passavano dal procuratore romano. Egli doveva riesaminare tutto il caso e tutte le prove che erano state presentate. Il verdetto era emesso personalmente dal procuratore e sembra che non si avvalesse di alcuna corte (questa procedura fortemente accentrata in genere era usata dai romani nelle zone di occupazione difficili e ribelli).


     


     


    2.7 Esecuzione della sentenza di morte


     


     


    Il Sinedrio aveva adottato come pena capitale la lapidazione ma vi erano quattro modi per eseguire la condanna a morte: in ordine di gravità, lapidazione, rogo, decapitazione e impiccagione (Sanhedrin, Cap. VII). In genere la lapidazione era la condanna tipica adottata dal Sinedrio. La crocifissione era praticata solo dai Romani e da altre popolazioni, non dagli ebrei. Prima dell'esecuzione l'imputato veniva svestito e denudato. Un uomo veniva lapidato nudo al contrario di una donna (Shanerin, Cap. VI, folio 44b). La lapidazione, che era la punizione capitale per eccellenza nel mondo ebraico a quel tempo, era iniziata dai testimoni. Se il condannato non moriva subito allora anche altre persone potevano partecipare all'esecuzione: era questa un'altra forma per responsabilizzare i testimoni (Sanhedrin, Cap. VI, folio 45a). La lapidazione era considerata la pena di morte più severa ed infamante nel mondo ebraico, come attesta lo stesso Sanhedrin. Era riservata ai bestemmiatori (Levitico 24:14-16) e agli ebrei che adoravano gli idoli stranieri (Deuteronomio 17:2-5). Veniva lapidato anche chi aveva commesso particolari abusi sessuali: incesto, brutalità con animali, omosessualità, ecc... oppure reati quali la magia, stregoneria, idolatria, inosservanza del sabato (Sanhedrin, folia 53a e 53b). Gesù può essere accusato di aver violato il sabato o di essere un bestemmiatore (per aver affermato di essere il Messia) quindi il Nuovo Testamento dà testimonianza di alcuni casi in cui tentarono di lapidarlo. Anche i suoi miracoli invece che opere prodigiose potevano essere viste come opere magiche, per le quali era prevista la lapidazione. La Ghemarah del Sanhedrin sostiene che il rogo era meno infamante della lapidazione, veniva condannata a questo supplizio per esempio la figlia di un sacerdote che fosse trovata in adulterio.  La morte di spada era riservata ad esempio alle città che si ribellavano al monoteismo giudaico, in accordo a Deuteronomio 13:13-19. L'impiccagione era ad esempio riservata a quelli che non onoravano il padre e la madre (Sanhedrin, Cap. 7, Folio 49b e segg.). Secondo Il Cap. X del Sanhedrin un falso profeta o uno che profetizza nel nome di un idolo deve essere impiccato. Contro i falsi profeti vedi anche il folio 89a del Cap. 10 del Sanhedrin. Non è ben chiaro allo stato delle conoscenze attuali se durante il periodo dell’occupazione romana, nel cosiddetto periodo dei procuratori, il potere di condannare a morte (lo jus gladii) avesse subito delle limitazioni e certi tipi di reato che prevedevano la pena di morte, se non tutti i reati punibili con sentenze capitali, fossero di competenza del procuratore romano (vedi Cap. 2.8).


     


     


    2.8 Il potere di condanna a morte


     


     


    Sul reale potere di mandare a morte i condannati al termine di una causa capitale esiste una certa discussione perché non è ben chiaro se il Sinedrio avesse effettivamente questa competenza da un punto di vista pratico, oppure se venisse delegata al procuratore romano. Il Talmud Babilonese, infatti, descrive un Sinedrio ideale, supponendo che lo stato ebraico non fosse soggetto ad influenze esterne come ad esempio la dominazione romana. Il Talmud, per esempio, ipotizza che vi sia il re e descrive i rapporti tra questi e il Sinedrio: ma al tempo di Gesù, dopo la destituzione di Archelao, non esiste più un sovrano ebreo a Gerusalemme, se si esclude il breve regno di Agrippa I che possedette la Giudea dal 41 al 44 d.C., l'anno in cui morì. La Giudea verso il 30 dopo Cristo era amministrata da un governatore romano, per cui si pone il problema di stabilire quali fossero i rapporti tra il Sinedrio e l'autorità romana. Non è noto con certezza se e quali particolari reati fossero di competenza del solo governatore così come se spettasse sempre e solo al governatore la decisione finale di mandare a morte un cittadino, confermando l'esito del processo del Sinedrio: probabilmente durante le varie epoche storiche del periodo dei governatori si è avuta una modifica delle competenze del Sinedrio, a seconda delle circostanze e della situazione dell'ordine pubblico in Giudea. Giuseppe Flavio afferma che Coponio, il primo procuratore romano dopo la destituzione di Archelao, in carica dal 6 d.C. al 9 d.C., aveva il potere di mandare a morte i Giudei: "essendo stato ridotto a provincia il territorio di Archelao vi fu mandato come procuratore Coponio, un membro dell'ordine equestre dei Romani, investito da Cesare anche del potere di condannare a morte" (Guerra Giudaica, 2.117; Antichità Giudaiche, 18.2). Si consideri poi che, come abbiamo detto, gran parte delle nostre conoscenze in questa materia derivano dal Talmud Babilonese, un'opera messa per iscritto molto tardi rispetto alle vicende che coinvolsero Gesù. E proprio leggendo il Talmud Babilonese apprendiamo che non sempre il Sinedrio poteva promulgare autonomamente delle sentenze di morte (vedi Sanhedrin, folio 41a). Nella versione del Sanhedrin del rabbi I. Epstein leggiamo:


     


    Talmud Bab., Sanhedrin, folio 41a - "Il rabbi Johanan ben Zakkai diceva che quarant'anni prima della distruzione del Tempio i sinedriti furono esiliati e si stabilirono in Hanut. Riguardo a ciò il rabbi Isaac ben Abudimi diceva: 'questo è per insegnare che essi non discutevano i casi di Kenas. Casi di Kenas! Come si può davvero pensare questo? Diciamo piuttosto che non discutevano le cause capitali'."


     


    Data l'importanza di questo passo nell'ambito della materia che stiamo trattando, riportiamo il brano per intero nella versione originale inglese di I. Epstein, comprensiva delle note a piè di pagina:


     



    Babylonian Talmud, Sanhedrin, folio 41a - "Forty years before the destruction of the Temple, the Sanhedrin were exiled [42] and took up residence in Hanuth. [43] Whereon R. Isaac b. Abudimi said: This is to teach that they did not try cases of Kenas. [44] 'Cases of Kenas!' Can you really think so! [45] Say rather, They did not try capitol charges. [46]"
     

    Notes:
    [42] From the Hall of Hewn Stones. V. infra p. 205, n. 5.
    [43] [H] A place on the Temple Mount outside the hewn chamber where they had temporary residence. (Derenbourg, Essai, p. 467, and Krauss, REJ, LXIII, 66f., identify it with the 'Chamber of the sons of Hanan' (a powerful priestly family, cf. Jer. XXXV, 4) mentioned in J. Pe'ah I, 5.] 
    [44] V. Glos.; Kenas = a fine or penalty (as distinct from actual monetary loss caused), to be paid by certain classes of wrongdoers, e.g., a seducer.
    [45] That these, like capital charges, could be tried only in the chief seat of the Sanhedrin — the Hall of Hewn Stones! These cases could, in fact, be tried anywhere in Palestine. 
    [46] V. A.Z. 8b on Deut. XVII, 10: And thou shalt do according to the tenor of the sentence which they shall declare unto thee, from that place; this implies that it is the place that conditions the authority of the Sanhedrin in respect of the death sentence. [J. Sanh. I, 1 has, 'the right to try capital cases was taken away from them, i.e., by the Romans. For a full discussion of the subject v. Juster. op. cit, II, 138ff.]

     

    Quaranta anni prima della distruzione del Tempio, avvenuta nel 70 d.C., siamo verso il nel 30 d.C., al tempo di Pilato e proprio nell'intorno degli anni in cui venne condannato a morte Gesù Cristo. Secondo la Gemarah del Talmud Babilonese, il rabbi Johanan ben Zakkai insegnava che a quel tempo il Sinedrio aveva cambiato sede e si era trasferito (venne obbligato a farlo) in Hanut, un luogo che secondo il commento di I. Epstein si trovava nei pressi dell'area del Tempio di Gerusalemme. In seguito a questo cambiamento il Sinedrio non poteva discutere i casi di Kenas, particolari reati della legge ebraica, ma il rabbi Isaac ben Abudimi sosteneva che questo non era credibile, in quanto i reati possono essere discussi in qualunque luogo della Palestina, non necessariamente nella precedente sede del Sinedrio. Piuttosto, osservava Isaac ben Abudimi, bisognava dire che nella nuova sede i sinedriti non potevano più discutere le cause che prevedevano la condanna a morte. In una delle note a questo passo I. Epstein osserva inoltre che anche il Talmud di Gerusalemme riporta che "il diritto di discutere le cause capitali fu loro tolto" dove il "loro" è riferito ai Romani (cfr. Talmud Gerusalemme, Sanhedrin 1.18a e 7.24b). Anche il trattato 'Abodah Zarah, facente parte del Talmud Babilonese e citato da Epstein nella nota 46 del prec. passo del Sanhedrin, riporta che:

     

    Babylonian Talmud, 'Abodah Zarah, folio 8b - "Forty years before the Temple was destroyed did the Sanhedrin abandon [the Temple] and held its sittings in Hanuth. [...] But said R. Nahman b. Isaac: Say not that 'cases of fines' ceased, but that capital cases ceased. Why? — Because when the Sanhedrin saw that murderers were so prevalent that they could not be properly dealt with judicially, they said: Rather let us be exiled from place to place than pronounce them guilty [of capital offences] for it is written: And thou shalt do according to the sentence, which they of that place which the Lord shall choose shall tell thee, which implies that it is the place that matters."

     

    Secondo questo trattato proprio verso il 30 d.C., quarant'anni prima della distruzione del Tempio, i casi discussi che prevedevano la messa a morte erano talmente numerosi che il Sinedrio decise di non emettere più sentenze capitali (ma forse fu obbligato in questo dall'autorità romana) e cambiò la sua sede trasferendosi in Hanuth. Altri spostamenti del Sinedrio, compreso questo in Hanuth, sono testimoniati anche dal Rosh Hashanah, un'altro trattato del Talmud Babilonese (cfr. folia 31a e 31b). Inoltre Giuseppe Flavio nel riferire l'episodio del processo a Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù, un fatto avvenuto nel 62 dopo Cristo, sostiene che il Sinedrio non poteva neppure riunirsi autonomamente senza il consenso del procuratore romano (cfr. Antichità Giudaiche, 20,197-203): così il sommo sacerdote Anano verrà destituito dal procuratore Lucceio Albino per aver convocato il Sinedrio senza il suo permesso e condannato a morte Giacomo il Giusto. Queste informazioni sembrano confermare che, almeno in alcune fasi storiche, il Sinedrio non poteva emettere in modo autonomo delle sentenze capitali, essendo la sua attività controllata dal procuratore romano. Viene in mente quanto afferma Giovanni nel suo Vangelo, con riferimento ai sacerdoti, i quali ricordano a Pilato: "a noi non è consentito mettere a morte nessuno" (Giovanni 18:31). Una fase alquanto incerta è costituita dal breve regno di Agrippa I in Giudea (41-44 d.C.), quando i Romani non amministravano più direttamente Gerusalemme. Secondo gli Atti, Agrippa I aveva potere di arrestare e uccidere: "in quel tempo il re Erode [Agrippa I] cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, il fratello di Giovanni; vedendo che questo era gradito ai Giudei fece arrestare anche Pietro" (cfr. Atti, 12:1). Il Talmud sembra quindi descrivere il funzionamento di un Sinedrio ideale, senza tenere conto delle varie limitazioni che dovette subire nel corso del travagliato periodo dei procuratori romani. Occorre quindi molta prudenza nell'utilizzare questa importante fonte.

     

     

     

     


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    00 12/07/2019 19:41

    3. Il processo e la condanna di Gesù secondo Matteo


     


     


    3.1 I possibili capi di accusa secondo i Sinottici


     


     


    Prima dell’arresto e della condanna in occasione dell’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme c’erano stati numerosi motivi di conflitto tra Gesù e i capi religiosi ebraici. Gesù aveva dato prova più volte di violare formalmente la legge ebraica.


     


    Uno dei primi episodi è quello della guarigione della “mano inaridita”, raccontato da tutti i Vangeli sinottici, avvenuto probabilmente nella città di Cafarnao:


     


    Matteo 12:9-14 Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. Ed ecco, c'era un uomo che aveva una mano inaridita, ed essi chiesero a Gesù: «È permesso curare di sabato?». Dicevano ciò per accusarlo. Ed egli disse loro: «Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in una fossa, non l'afferra e la tira fuori? Ora, quanto è più prezioso un uomo di una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato». E rivolto all'uomo, gli disse: «Stendi la mano». Egli la stese, e quella ritornò sana come l'altra. I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo.


     


    Marco 3:1-6 Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.


     


    Luca 6:6-11 Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. Ora c'era là un uomo, che aveva la mano destra inaridita. Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva di sabato, allo scopo di trovare un capo di accusa contro di lui. Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». L'uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?». E volgendo tutt'intorno lo sguardo su di loro, disse all'uomo: «Stendi la mano!». Egli lo fece e la mano guarì. Ma essi furono pieni di rabbia e discutevano fra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.


     


    In questo episodio è raccontato in particolare per la ripetuta e recidiva violazione del sabato (l’episodio segue un altro esempio di violazione del sabato). Anche Giovanni racconta di come Gesù fosse solito violare le sacre leggi del sabato, e di come questo irritasse i sacerdoti. Il Vangelo di Giovanni è proprio quello che riporta più episodi in cui si tenta di eliminare Gesù. La violazione del sabato era considerata gravissima secondo le leggi mosaiche. Per questo reato era prevista la condanna a morte, come leggiamo nel libro dell’Esodo:


     


    Esodo 31:12-17 Il Signore disse a Mosè: «Quanto a te, parla agli Israeliti e riferisci loro: In tutto dovrete osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno tra me e voi, per le vostre generazioni, perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. Osserverete dunque il sabato, perché lo dovete ritenere santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà eliminato dal suo popolo. Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro di sabato sarà messo a morte. Gli Israeliti osserveranno il sabato, festeggiando il sabato nelle loro generazioni come un'alleanza perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli Israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato».


     


    Esodo 35:1-3 Mosè radunò tutta la comunità degli Israeliti e disse loro: «Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare: Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. Non accenderete il fuoco in giorno di sabato, in nessuna delle vostre dimore».


     


    Il libro dei Numeri riporta un caso pratico di violazione della legge del sabato. Un uomo sorpreso a raccogliere legna in tale giorno sacro, viene lapidato in ottemperanza al comandamento di Dio:


     


    Numeri 15:32-36 Mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. Quelli che l'avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: «Quell'uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell'accampamento». Tutta la comunità lo condusse fuori dell'accampamento e lo lapidò; quegli morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mosè.


     


    Questi brani biblici mostrano quindi come fosse importante nel mondo ebraico fin dai tempi più antichi il rispetto della legge del sabato. Secondo il Talmud Babilonese chi violava il sabato era punito con la lapidazione, la pena di morte più infamante nel mondo ebraico (Sanhedrin, Cap. 7, folia 53a e 53b). Ma una sorte simile era inoltre prevista anche per chi veniva condannato per magia o stregoneria, come attesta il Sanhedrin. E' noto che molte delle pratiche e attività di Gesù, i cosiddetti "miracoli" furono considerati dagli ebrei come opere magiche, come apprendiamo ad esempio dalla lettura del Contra Celsum di Origene. Nella sua polemica contro Celso, Origene ci ha conservato alcune delle critiche degli ebrei contro la figura di Gesù. Così Celso pensava che:


     


    Origene, Contra Celsum, I, 28 "[Gesù] spinto dalla miseria andò in Egitto a lavorare a mercede ed avendo quindi appreso alcune di quelle discipline occulte per cui gli Egizi sono celebri tornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese e si proclamò da solo Dio a motivo di esse."


     


    Nel Talmud Babilonese compare poi un passo che la tradizione ebraica attribuisce a Gesù: "egli [Gesù] esce per essere lapidato, perchè ha praticato la magia e sobillato Israele" (Sanhedrin, Cap. 5, folio 43a).


     


     


    3.2 Gesù a Gerusalemme


     


     


    L’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme inizia con una visita al tempio nella quale Gesù compie atti che disturbano la quiete pubblica:


     


    Matteo 21:12-13 "Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: «La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri»."


     


    Non è qui ben chiaro come gesti del genere (disturbare le attività pubbliche nel tempio) fossero possibili senza determinare l’intervento del capitano del tempio e delle guardie. Probabilmente si trattava di gesti simbolici e di scarsa rilevanza “fisica”, cioè nel mezzo di particolari discorsi a carattere etico e morale è possibile che Gesù, preso dallo sdegno, abbia ribaltato qualche tavolo e qualche sedia ma senza creare troppo scompiglio. Gesù è sempre presente nel tempio, nel giorno e nei giorni seguenti dove tiene numerosi discorsi. Questi discorsi sono particolarmente duri e critici nei confronti dei sacerdoti del tempio, dei sadducei e dei farisei. Si legga ad esempio il discorso dei due figli in Mt 21:28-32 in cui Gesù rivolto ad alcuni sacerdoti del tempio conclude quel discorso con queste frasi:


     


    Matteo 21:28-32 «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli».


     


    Segue questo discorso la parabola dei vignaioli perfidi, che si può leggere in Mt 21:33-45. Questa parabola è un’altra durissima invettiva contro i sommi sacerdoti del tempio. I vignaioli perfidi sono in realtà i sommi sacerdoti che di fatto hanno ucciso i profeti nel passato. Tutti questi discorsi non possono non suscitare l’ira di coloro ai quali sono rivolti. E difatti Mt 22:45 dice:


     


    Matteo 21:33-45 "Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta."


     


    In Mt 22:15-17 ci viene raccontato come i sacerdoti cerchino dei pretesti, dei capi di imputazione per mettere a tacere in qualsiasi modo quel personaggio alquanto scomodo:


     


    Matteo 22:15-17 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?»


     


    Quella del tributo a Cesare era una questione spinosissima. Quando dopo la morte di Erode il grande e la destituzione di Archelao la Giudea passò direttamente sotto l’amministrazione romana, nel 6 d.C., venne organizzato un censimento per contare la popolazione e fissare i tributi che gli ebrei dovevano pagare ai romani. Sottostare al pagamento di tributi a una potenza straniera era per i giudei motivo di grande scandalo e vergogna, e non mancarono rivolte contro i romani. La più famosa rivolta contro il censimento e i conseguenti tributi fu quella di Giuda di Gamala (detto anche Giuda il Galileo), che venne repressa duramente dai romani. E’ evidente quindi come i sommi sacerdoti cercano di far pronunciare a Gesù frasi politicamente scorrette verso i romani. Abbiamo appreso poco prima quindi che i sacerdoti vogliono eliminare Gesù perché per loro è diventato un personaggio molto scomodo e imbarazzante (vedi tutte le invettive pronunciate), tuttavia non hanno il coraggio di eliminarlo direttamente pare per paura della folla e delle conseguenze. Qest’ultimo passo citato sembra che ci faccia capire che i sacerdoti tentano di attirare l’attenzione dei romani verso Gesù, in modo che siano loro a compiere il “lavoro sporco” di eliminarlo. Secondo Matteo Gesù rispose molto evasivamente alla domanda sulla liceità dei tributi ai romani. Subito dopo questi discorsi, già molto duri, ha luogo secondo Mt il discorso più duro mai pronunciato contro la casta sacerdotale di Gerusalemme. Ci viene raccontato tutto nel capitolo 23 del Vangelo di Matteo. Vale la pena di riportare per intero tutto il discorso, rivolto alla folla:


     


    Matteo 23:1-39 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.


    Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre all'interno sono pieni di rapina e d'intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l'interno del bicchiere, perché anche l'esterno diventi netto! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri! Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l'altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».


     


    Questo lungo discorso è una lunga e durissima invettiva, nel corso della quale gli scribi e i farisei di Gerusalemme sono definiti addirittura “serpenti” e “razza di vipere”. E’ una critica fortissima a tutta una gerarchia e tutto un’intero sistema ecclesiastico, pronunciata davanti a un pubblico che possiamo immaginare numeroso. Fino a questo momento quali reati ha commesso Gesù, dopo il suo arrivo a Gerusalemme? Ha creato un po’ di confusione nel tempio con i tavoli dei cambiavalute rovesciati, ma pare più un gesto simbolico visto che non sembra sia intervenuto nessuno a riportare l’ordine. In occasione di quegli incidenti nel tempio pare ci sia stato un velato accenno alla questione della messianicità di Gesù, infatti Mt dice:


     


    Matteo 21:15-16 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide», si sdegnarono e gli dissero: «Non senti quello che dicono?». Gesù rispose loro: «Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode


     


    Confermando le parole dei fanciulli che lo accolgono come “figlio di Davide” Gesù indirettamente vuole dire che è il Messia anche se il riferimento è molto debole e velato. Auto proclamarsi Messia è un reato gravissimo, come vedremo, sarà il capo fondamentale di accusa del sommo sacerdote per portare Gesù Cristo davanti a Pilato. Fino a questo momento, rileggendo tutto quanto riportato nel Vangelo di Matteo, Gesù è perseguibile secondo la legge mosaica per aver profanato il sabato, per aver compiuto opere che possono essere riguardate come stregoneria oppure magia e per aver fatto intuire, sebbene ancora non esplicitamente, che si riteneva il Messia. Ma il motivo fondamentale per cui i Farisei e i Sadducei possono aver maturato l’idea di sbarazzarsi di Gesù è legato alla gravità e alla pericolosità (o presunta tale) dei discorsi pronunciati nei loro confronti. Certamente i sacerdoti e gli altri capi del Sinedrio sono a conoscenza della messianicità rivendicata da Gesù, hanno assistito all’ingresso in Gerusalemme, hanno avuto notizia di quello che Gesù ha detto e compiuto nelle altre città della Palestina e anche in occasione di altre venute a Gerusalemme. Ma adesso, con questi discorsi pronunciati nel tempio, la misura è colma e siamo allo scontro frontale. Ma bastano le parole pronunciate nel tempio per essere trascinati davanti al Sinedrio e condannati addirittura a morte? Occorre trovare capi di imputazione più solidi e mirati, provare apertamente la violazione della legge mosaica, trovare testimoni in grado di sostenere l'accusa contro Gesù su qualche capo di imputazione. Un altro dato di fatto è che fino a questo momento non c’è alcun motivo per cui i Romani debbano preoccuparsi di Gesù, in nessun punto Gesù pronuncia frasi ostili all’autorità del procuratore romano o dell’esercito, neppure quando gli viene chiesto insidiosamente che cosa pensi del tributo da versare a Roma. Dopo le invettive, gravissime, contro i sacerdoti si chiude l’attività pubblica di Gesù a Gerusalemme. Il Vangelo di Matteo riporta il discorso sulla predizione degli ultimi tempi in cui l’annuncio della distruzione di Gerusalemme (che sarebbe avvenuta una quarantina di anni dopo) prefigura la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova alleanza fra Dio e gli uomini. Inoltre Matteo è anche l’unico evangelista che descrive in modo diretto ed esplicito la scena della “fine del mondo” e del “giudizio finale”, in uno dei passi più toccanti e commoventi del Nuovo Testamento. Si tratta di discorsi pronunciati “ai suoi discepoli” (quali? i dodici? oppure anche davanti ad altri seguaci?) e che difficilmente possono essere perseguibili, in essi Gesù non accenna alle sue pretese messianiche, non inveisce contro i farisei e neppure contro i Romani. Parla della venuta del “Figlio dell’uomo” ma non afferma pubblicamente di essere lui il “Figlio dell’uomo”. I sommi sacerdoti preoccupati ed indignati dal comportamento tenuto da Gesù si riuniscono per vedere come procedere per toglierlo di mezzo. Probabilmente non hanno ben chiaro di che cosa accusare formalmente Gesù. Mt 26:1-5 ci parla di una riunione che sarebbe avvenuta nel palazzo del sommo sacerdote Caifa a Gerusalemme:


     


    Matteo 26:1-5 Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». Allora i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire. Ma dicevano: «Non durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo».


     


    Può darsi che questa riunione sia terminata con un nulla di fatto, cioè tecnicamente non si è trovato di che cosa accusare Gesù oppure si ha paura della reazione della folla favorevole a Gesù che potrebbe rivoltarsi contro i sacerdoti e impedire addirittura lo svolgimento del processo. L’unica cosa certa è che i sommi sacerdoti sono ormai in maggioranza risoluti ad eliminare Gesù, non importa come. Un problema "tecnico" è l'avvicinarsi della festa della Pasqua ebraica (la cosiddetta Pesah). Questa festa era spesso fonte di tumulti e sedizioni, la rivolta giudaica del 66-74 dopo Cristo inizierà proprio in prossimità di una Pasqua. Molti pellegrini si ammassavano a Gerusalemme in questa occasione per celebrare la Pasqua così le occasioni di scontro si moltiplicavano.


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    Credente
    00 12/07/2019 19:44

    3.3 Alcuni sacerdoti non sono ostili a Gesù


     


     


     


    Ma tutti i sommi sacerdoti sono contro Gesù? Sappiamo da alcuni passi del Vangelo che almeno due membri del Sinedrio sono favorevoli a Gesù, e si potrebbero definire suoi seguaci. Uno di questi è Giuseppe di Arimatea che dopo la morte di Gesù richiederà addirittura il corpo per seppellirlo. Tutti e quattro gli evangelisti concordano circa la posizione di Giuseppe:


     


    Mt 27:57-58 Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatèa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato.


     


    Mc 15:42-43 Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d'Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù.


     


    Lc 23:50-51 C'era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio.


     


    Gv 19:38 Dopo questi fatti, Giuseppe d'Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.


     


    Un altro personaggio non ostile a Gesù è il fariseo Nicodemo di cui abbiamo notizia solo in Giovanni e che pare abbia aiutato Giuseppe di Arimatea a seppellire Gesù. Ci racconta Giovanni:


     


    Gv 3:1-2 C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui».


     


    Nicodemo svolge, secondo Giovanni, un ruolo molto attivo nei confronti di Gesù, lo difenderà addirittura pubblicamente davanti ai Giudei in una occasione. Ne parleremo quando ci occuperemo diffusamente del punto di vista di Giovanni relativamente alla condanna di Gesù. Negli Atti degli Apostoli compare addirittura un alto membro del Sinedrio che non è ostile a Gesù, si tratta di Gamaliele, secondo la tradizione maestro del fariseo Saulo (che poi diverrà Paolo) di Tarso. Oltre a questi capi illustri sappiamo che ci sono anche altri capi religiosi non ostili a Gesù. Mt racconta infatti di uno dei capi dei giudei che crede in Gesù e si reca da lui affinché resusciti la figlia morta:


     


    Mt 9:18-19 Mentre diceva loro queste cose, giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli.


     


    Si tratta di Giairo, uno dei capi della sinagoga di Cafarnao (cfr. Marco 5:21-43). Possiamo immaginare che dopo la guarigione della figlia che si trovava in fin di vita anche Giairo abbia sostenuto la causa di Gesù. In Israele esistevano quindi persone, anche influenti, che non erano affatto ostili a Gesù. Una parte degli onorevoli membri del Sinedrio avrebbe potuto quindi essere dalla parte di Giuseppe, di Nicodemo e quindi di Gesù, ed influenzare molti altri membri del Sinedrio a prosciogliere Gesù da una eventuale accusa formale. Non è escluso quindi che un regolare processo tenuto secondo tutti i canoni della legge ebraica e nel pieno rispetto delle regole sarebbe potuto terminare con un’esito favorevole a Gesù e con la conseguente scarcerazione. Soprattutto se non era ben chiaro di cosa accusare esattamente Gesù davanti alla legge mosaica.


     


     


     


    3.4 Vicinanza della Pasqua ebraica


     


     


    Da Mt 26:1-5 apprendiamo inoltre un altro aspetto fondamentale. Siamo ormai prossimi alla Pasqua ebraica, un periodo sacro che dura una settimana, quella che va dal 14 del mese di Nisan al 21 del mese di Nisan. Nel calendario lunare ebraico il giorno termina sempre al tramonto, quindi la sera del giorno 14 di Nisan coincide con l’inizio del giorno 15 di Nisan. Alla sera del 14 avveniva il tradizionale banchetto della Pasqua ebraica, dopo che nel pomeriggio nel tempio di Gerusalemme erano stati immolati gli agnelli pasquali da mangiare la sera in occasione del banchetto. Lo storico Giuseppe Flavio di da testimonianza delle attività che avvenivano nel tempio nel pomeriggio del 14 di Nisan giorno della Pasqua ebraica. I sette giorni che vanno dal 15 di Nisan al 21 di Nisan vengono detti “degli Azzimi” perché in tutti questi giorni non si può consumare pane lievitato. Certamente per tutto il periodo della Pasqua era impossibile eseguire processi e condanne a morte secondo le leggi giudaiche, almeno da un punto di vista formale. Oltretutto c’era il divieto di eseguire lavori, come nel giorno del sabato ebraico. Le usanze non erano però uniformi per tutto il popolo ebraico. Al riguardo pare che in Giudea ci fosse l’usanza di lavorare fino al mezzogiorno del 14 di Nisan, ma per esempio in Galilea non si faceva alcun lavoro già a partire dal 14 di Nisan. Il Talmud Babilonese riporta che i processi non potevano essere iniziati la vigilia del sabato o di una qualunque altra festività (cfr. Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a). Abbiamo quindi compreso come sia imminente la Pasqua ebraica, che è un periodo solenne nel quale non è possibile formalmente tenere processi, oltretutto i sacerdoti sono impegnati nelle attività e nelle celebrazioni solenni nel tempio, a partire dal pomeriggio del 14 di Nisan. Secondo Mt i sommi sacerdoti si riuniscono per togliere di mezzo Gesù prima della festa, che ormai si sta avvicinando, e con un inganno per evitare forse le complesse e macchinose procedure del sinedrio, evitare scomodi confronti con l’opinione pubblica, e infine non rischiare “colpi di mano” a sorpresa da parte di alcuni franchi tiratori del Sinedrio non ostili a Gesù.


     


    A questo punto entra in scena Giuda, uno dei dodici apostoli che secondo Mt si reca dai sommi sacerdoti per consegnargli Gesù tradendolo:


     


    Matteo 26:14-15 Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: «Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d'argento. Da quel momento cercava l'occasione propizia per consegnarlo.


     


    Giuda conosce tutti gli spostamenti e le abitudini di Gesù e degli altri discepoli, quindi è veramente adatto al compito. Secondo l’evangelista i sommi sacerdoti hanno anche questa fortuna: Giuda spontaneamente si reca da loro per consegnargli Gesù. A questo punto abbiamo una grossa complicazione nel racconto dei Sinottici. La Pasqua ebraica che inizia la sera del 14 di Nisan è imminente. Giuda è già andato a parlare con i sacerdoti per consegnare Gesù prima della festa di Pasqua, eppure il racconto prosegue in Mt 26:17-19 con queste parole:


     


    Matteo 26:17-19 Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà». Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?».


     


    Quale Pasqua devono preparare i discepoli per mangiarla assieme a Gesù? E’ abbastanza inverosimile che sia la Pasqua ebraica della sera del 14 di Nisan ebraico perché se così fosse si dovrebbe ammettere che tutte le attività successive (arresto di Gesù, varie riunioni del sinedrio, convocazione di testimoni, consegna al procuratore Pilato) sono avvenute in pieno periodo Pasquale e questo è assai poco credibile e va contro ogni logica. Durante il periodo pasquale era impossibile processare e addirittura condannare a morte una persona. Possiamo anche immaginare che i Romani – che occupavano la Palestina e Gerusalemme – rispettassero questo periodo dell’anno, così sacro e solenne per gli ebrei. Come abbiamo detto, il Talmud Babilonese riporta chiaramente che era vietato iniziare un processo la vigilia del sabato o di una qualunque altra festività giudaica (cfr. Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a). Se non è la Pasqua dei giudei quella celebrata da Gesù, allora si tratta di un banchetto, una cena che si è svolta qualche giorno prima della Pasqua tradizionale. Si tratta di una cena che viene comunque chiamata “Pasqua” nel Nuovo Testamento ma viene festeggiata prima della Pesah ebraica. Questa tesi è oggi largamente diffusa in quanto è in grado di spiegare molte anomalie che emergono leggendo i testi canonici e pare essere confermata anche dai ritrovamenti dei frammenti calendariali ritrovati nel sito archeologico di Qumran presso il Mar Morto. All’epoca di Gesù non esisteva un unico calendario valido indistintamente per tutti gli ebrei e in tutta la Palestina. Il calendario seguito a Gerusalemme era quello tradizionale ebraico, di tipo lunare, con i giorni che iniziavano e terminavano da tramonto a tramonto. A Qumran è stato invece ritrovato un calendario diverso, di tipo lunisolare, con i giorni che iniziano all’alba e terminano all’alba successiva (quindi molto più simili a come immaginiamo il trascorrere di una giornata noi oggi). Calendario lunare e calendario lunisolare hanno un numero di giorni per anno diverso così la festa della Pasqua, che per definizione deve cadere in un giorno fisso, il 14 del mese di Nisan, cade di fatto in giorni diversi a seconda che si segua un calendario oppure un'altro. Sfortunatamente non conosciamo esattamente la struttura del calendario lunare ebraico così come era nel I secolo dopo Cristo in quanto il calendario attuale è basato su regole più recenti emanate dal patriarca Hillel II nel IV secolo dopo Cristo. Inoltre sappiamo che il calendario lunisolare di Qumran era costruito su un anno solare di 364 giorni (così il 14 del mese di Nisan cadeva sempre di martedì, secondo questo calendario) ma non sappiamo come si eseguiva l'intercalazione al fine di sincronizzare il calendario con il ciclo di rotazione della Terra attorno al Sole che è di 365,25 giorni. Senza un qualche meccanismo di intercalazione progressivamente le stagioni del calendario non coincidono più con le stagioni "vere" e un mese invernale dopo un certo numero di anni può cadere in estate e viceversa. Sono state proposte alcune ipotesi di ricostruzione del calendario qumranico e di quello lunare ebraico. Da queste ricostruzioni emerge che era possibile che in determinati anni la Pasqua secondo il calendario di Qumran cadesse un giorno prima della Pasqua secondo il calendario lunare. Questa osservazione potrebbe spiegare quindi quale genere di Pasqua abbia festeggiato Gesù con i dodici. Indipendentemente dal calendario qumranico la tesi dell'utilizzo di un diverso calendario da parte di Gesù è oggi accettata anche dalla C.E.I., la Conferenza Episcopale Italiana, nella nota al v. Giovanni 18:28 della Bibbia C.E.I. (1974) scrive: "Gesù a differenza dei sinedriti ha già celebrato la cena pasquale; il calendario religioso non era allora uniforme per tutti" per spiegare le anomalie che si riscontrano nei Sinottici e nel Vangelo di Giovanni.


     


    Per un approfondimento, vedi:


     


     


    Calendario lunisolare e problema della data dell'ultima cena


     


     


    3.5 Arresto di Gesù e primo interrogatorio


     


     


    Mt afferma che quella sera Gesù con i discepoli consumò la cena di Pasqua, istituendo il rito dell’eucaristia. Come abbiamo osservato molto probabilmente non si tratta della tradizionale Pesah ebraica festeggiata secondo il calendario dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, ma una Pasqua anticipata di qualche giorno. Al termine della cena pasquale, che, ripetiamo, sicuramente non è la cena pasquale dei Giudei perché risulta molto difficile giustificare le attività che ebbero luogo successivamente e le contraddizioni tra i Sinottici e Giovanni, Gesù esce dalla sala in cui si è tenuta la cena per recarsi con i discepoli al Getsemani:


     


    Matteo 26:36 Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare».


     


    Giuda al termine della cena o poco dopo deve essersi allontanato da Gesù e dai discepoli, anche se Mt non lo dice esplicitamente ma vediamo dal corso degli eventi che deve essere successo questo. Siamo in piena notte, nel podere del Getsemani e Gesù sta parlando con i suoi discepoli dopo le preghiere. Matteo prosegue la narrazione:


     


    Matteo 26:47-50 Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». E subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.


     


    Giuda, che conosce le abitudini di Gesù e dei suoi discepoli, è evidentemente andato dai sommi sacerdoti perché si è manifestata l’occasione propizia per catturare Gesù senza dare nell’occhio. Infatti siamo in piena notte, in un luogo presumibilmente poco frequentato. Inoltre è la notte di Pasqua, anche se probabilmente non si tratta della Pasqua ebraica. Non ci devono essere molti  altri possibili sostenitori di Gesù in giro capaci di impedire l’arresto. Gesù viene quindi arrestato: Matteo afferma esplicitamente che il corpo di guardia fu inviato dai sacerdoti e dagli anziani del popolo. L’arresto è evidentemente irregolare in quanto secondo le leggi ebraiche è proibito arrestare una persona di notte, a meno che non venga arrestata in flagranza di reato. Ma Gesù, secondo Mt, non stava commettendo alcun reato. Il gruppo di guardie che arresta Gesù pare essere abbastanza numeroso, non sappiamo se si trattava di soldati romani o di guardie giudee, oppure di un gruppo misto. Tuttavia è molto probabile la seconda ipotesi, in quanto viene detto che i soldati sono stati inviati dai sommi sacerdoti e dagli anziani. Gesù viene portato presso il Sommo sacerdote capo del Sinedrio che in quel periodo era Caifa:


     


    Matteo 26:57 Ora quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli anziani.


     


    Seguendo la narrazione di Mt sembra che Gesù venga portato davanti al Sinedrio di notte, immediatamente dopo l’arresto. Si configura quindi una prima riunione del Sinedrio con gli scribi e gli anziani. Riunione che evidentemente è irregolare in quanto per qualunque causa (capitale o non capitale) il Sinedrio dovrebbe riunirsi solo di giorno, prima del tramonto, per giudicare l’imputato, come attesta il Talmud Babilonese (cfr. Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a). Con qualche forzatura rispetto al testo si può anche ipotizzare che la prima riunione del Sinedrio sia avvenuta in realtà la mattina successiva alla notte dell’arresto e che Gesù abbia passato la notte in carcere. Questa prima seduta del Sinedrio pare pubblica, addirittura Pietro è presente tra i servi per vedere l’esito della seduta. La spiegazione più verosimile è che questa non sia affatto una riunione regolare del Sinedrio. La riunione si svolge in un periodo proibito, la notte, in tutta fretta, mancano testimoni, all'imputato è impedito di cercare testimonianze a propria discolpa. La gravissima irregolarità della riunione notturna (anche se qualcuno ha avanzato l’ipotesi che Mt non specifichi che la prima riunione sia avvenuta il giorno seguente) potrebbe essere quindi giustificata dal fatto che in realtà si trattava di una riunione non formale. Gesù era stato frettolosamente (e irregolarmente) arrestato, si trattava ora di avere le idee chiare per stabilire di cosa accusarlo. Sappiamo che per Gesù non verrà di fatto emessa alcuna sentenza dopo le varie riunioni del Sinedrio, ma si stabilirà soltanto di accusarlo davanti a Pilato, il prefetto della Giudea in quel periodo. L'estrema vicinanza al periodo pasquale, la conseguente frettolosità e irregolarità di tutte le fasi processuali, se così possiamo definirle, lasciano solo intuire che i sacerdoti stessero cercando dei pretesti per far condannare Gesù dai Romani, nel tempo più veloce possibile e prima della Pasqua, cosa che sarebbe stata impossibile seguendo macchinose regole burocratiche del processo ebraico. Ricordiamo anche che il processo a Gesù, per la gravità dei reati di cui fu presumibilmente accusato (violazione del sabato, falso profeta, blasfemia, forse magia e stregoneria) era un processo capitale, quindi c'era il rischio che dovesse proseguire il giorno successivo. Il Talmud Babilonese afferma che una sentenza capitale di condanna non può essere mai pronunciata di notte (cfr. Sanhedrin, Cap. 4, folio 32a).


     


    Il processo ebraico non si svolge con un magistrato o con un pubblico ministero che conduce l’accusa. Occorrono dei “testimoni”, cioè persone che affermino che Gesù ha infranto qualche legge ed è perseguibile. I testimoni avevano un ruolo importantissimo nel processo, dalla loro testimonianza e dipendeva l'esito dello stesso.


     


    Matteo 26:59-61 I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: «Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»


     


    Secondo Matteo si presentano quindi molti falsi testimoni, la cui debolezza è però palese. Le testimonianze non sono concordi e si fa fatica a trovarne almeno due che non si contraddicano. Una situazione del genere, almeno in una seduta formale del Sinedrio per la discussione di una causa capitale, non sembra molto credibile perché proprio per non accusare ingiustamente un imputato i testimoni erano considerati responsabili delle loro affermazioni e a loro volta perseguibili con la pena capitale in caso testimoniassero il falso.  Il Talmud Babilonese elenca le modalità con cui i testimoni dovevano essere attentamente valutati e interrogati, i giudici prima del processo facevano tutto il possibile per evidenziare loro tutta la gravità del caso e distoglierli dal dire il falso quindi l'attendibilità delle singole testimonianze era valutata "incrociandole" tra loro. (cfr. Sanhedrin Cap. 4, folia 37a e 37b; Cap. 5 folio 40a). Quando un accusato veniva condannato a morte per lapidazione, il Talmud Babilonese afferma che erano proprio i primi testimoni che lo avevano fatto condannare a gettare le prime pietre (cfr. Sanhedrin, Cap. 6, folio 45a).  Quindi una testimonianza doveva essere certamente ben ponderata, non doveva essere portata con leggerezza. E' del tutto evidente che la gestione talmudica dei testimoni contrasta con la narrazione dei Vangeli. Con molta fatica sembrano emergere due testimoni concordi tra loro secondo i quali: «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni». Due testimoni concordi sono il numero minimo richiesto per poter iniziare il processo vero e proprio (cfr. Sanhedrin Cap. 3, folio 29a); in questo caso la narrazione evangelica è coerente con le regole processuali del Talmud Babilonese.


     


    L'affermazione sulla distruzione del tempio era stata pronunciata da Gesù un po’ di tempo prima nel tempio di Gerusalemme e ci è nota da Gv 2:18-21:


     


    Giovanni 2:18-21 Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.


     


    Giovanni inserisce l’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio e questa affermazione di Gesù subito all’inizio del suo Vangelo, poi parla di altro e nella parte conclusiva si ricollega agli eventi immediatamente successivi alla cacciata dei mercanti dal tempio. E’ verosimile che questa frase sia stata pronunciata da Gesù  qualche giorno prima rispetto alla seduta del Sinedrio, per questo i due testimoni concordi sono in grado di ricordarla con sufficiente precisione. Una simile imputazione potrebbe far pensare che Gesù sia processabile come falso profeta, avendo profetizzato un fatto che sicuramente, secondo i sinedriti, non è in grado di compiere, nè di verificarsi da solo. L’affermazione in sé, inoltre, può essere interpretata in modo molto grave in quanto Gesù afferma di voler distruggere addirittura il Tempio di Gerusalemme (Gv da invece una visione spirituale della frase). E’ chiaro che si tratta di una frase che fa pensare che Gesù potesse provocare una rivolta o una sommossa. Ma anche che Gesù fosse un falso profeta. Anche per i falsi profeti era prevista la condanna a morte, come attesta il Talmud Babilonese, Sanhedrin, Cap. 10, folio 89a.


     


    Matteo 26:63-67 Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l'hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico:


    d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo


    seduto alla destra di Dio,


    e venire sulle nubi del cielo».


    Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: «Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E quelli risposero: «È reo di morte!». Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, dicendo: «Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?».


     


    Questo brano ci fa pensare sempre più che la prima seduta del Sinedrio fosse del tutto informale e avesse solo lo scopo di capire di che cosa si poteva accusare Gesù per ottenere una condanna certa. Dopo l’accusa di sedizione e distruzione del tempo, il Sommo sacerdote, che dirigeva il processo, cerca di indagare da un punto di vista religioso, per vedere se Gesù afferma di essere il Messia inviato da Dio. In pratica sta cercando di estorcere una confessione a Gesù. Ma noi sappiamo che secondo le regole formali del processo del Sinedrio non si poteva accusare un uomo sulla base di una confessione spontanea. Anche questa regola viene dunque infranta. Secondo il Talmud Babilonese l'imputato dovrebbe difendersi producendo tutte le prove a sua discolpa e dovrebbero essere ascoltati preventivamente i testimoni a favore del proscioglimento. Ma Gesù non parla neppure, non produce alcuna testimonianza a sua discolpa e non tenta neppure di difendersi davanti al Sinedrio. Non esiste alcun testimone che abbia il coraggio di parlare a suo favore, tutti i discepoli sono fuggiti e si sono nascosti (vedi le negazioni di Pietro). Poi alla fine Gesù non riesce a trattenersi e afferma pubblicamente davanti al Sinedrio di essere il Messia. A questa affermazione il sommo sacerdote si straccia le vesti, che è un segno di gravissima indignazione e costernazione. L’affermazione «Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni?» suona come una liberazione. Non solo Gesù è perseguibile come falso profeta, ma addirittura dichiara di essere il Messia. Formalmente per celebrare un regolare processo e condannare a morte Gesù ci volevano più testimoni che potessero affermare che Gesù si comportava come il Messia e intendesse agire di conseguenza. Una confessione volontaria non è mai valida, non si dovrebbe condannare una persona sulla base della propria confessione e basta. Tuttavia la frase di Gesù pronunciata davanti al Sinedrio rende in pratica “testimoni” tutti quelli che l’hanno udita. Abbiamo quindi i due elementi che si prefigurano per una accusa a Gesù: la sedizione(«Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere») e la blasfemia («Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?»). Il reato di bestemmia, come quello della violazione delle leggi del sabato, era considerato gravissimo in base alla legge mosaica. Leggiamo infatti nel Levitico:


     


    Lev 24:16 Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte.


     


    Anche il Talmud Babilonese prevedeva la lapidazione, la pena di morte più infamante secondo gli ebrei, per i bestemmiatori. Questi elementi sono ritenuti sufficienti per eliminare Gesù, che era diventato un personaggio estremamente scomodo per le gerarchie ecclesiastiche di Gerusalemme, a causa dei suoi discorsi e del suo operato. I capi di imputazione tecnici per la messa a morte sono la sedizione e la blasfemia (farsi “figlio di Dio”) ma è assai probabile che in realtà Gesù, secondo Mt, venga eliminato perché attacca duramente da un punto di vista politico i farisei e i sadducei, minando alla base il loro potere e la loro funzione sociale e religiosa agli occhi del popolo. Infatti i discorsi pronunciati a Gerusalemme nel tempio contro i farisei e i sadducei sono gravissimi.


     


    Mt di nuovo poi ci da testimonianza di gravi irregolarità durante questa prima seduta:


     


    Matteo 26:67 Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, dicendo: «Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?».


     


    Infatti Gesù non è ancora stato condannato, secondo le regole ci vuole un’altra seduta del Sinedrio, oltretutto distanziata temporalmente di un giorno. Tutta questa prima seduta è stata condotta irregolarmente, a cominciare dall’arresto per finire con la condotta del sommo sacerdote. Si conclude con un’altra gravissima irregolarità, cioè le percosse all’imputato che ancora non è stato giudicato regolarmente e non ha subito alcun verdetto.


     


     


    3.6 La seconda riunione del Sinedrio


     


     


     


    Il seguente brano ci fa sospettare sempre più che la prima seduta (formale o meno che fosse) sia stata tenuta proprio di notte subito dopo l’arresto di Gesù. Leggiamo infatti:


     


    Matteo 27:1-2 Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.


     


    La frase "venuto il mattino" indica che l'interrogatorio precedente, iniziato di notte, si è concluso la notte precedente. Finalmente avviene una riunione del Sinedrio in pieno giorno, cioè regolare secondo le regole talmudiche. Non sappiamo se questa seconda seduta si debba intendere come la seconda e definitiva seduta del processo oppure come la prima seduta “regolare” del processo, dopo che la notte precedente aveva avuto luogo solo un interrogatorio del tutto “informale”. Se è vera la prima ipotesi allora il processo si è chiaramente macchiato di gravissime irregolarità procedurali. Oppure potrebbe essere vera la seconda ipotesi, ma in tal caso non ci sarebbe tempo per aspettare l’ulteriore e conclusiva seduta. Secondo il Vangelo di Giovanni che è più preciso nelle date siamo infatti ormai al 14 di Nisan giudaico e quindi non c’è tempo per celebrare processi, essendo giunta la Pasqua dei Giudei. Non è possibile iniziare un processo regolare il 14 di Nisan, giorno di Pasqua. E’ peraltro possibile che dopo la prima seduta gravemente irregolare della notte precedente i sacerdoti con una seconda seduta stabiliscano di fare condannare Gesù direttamente dai Romani come rivoltoso. Questa soluzione infatti garantirebbe in più aspetti il Sinedrio, in quanto:


     



    •  scarica la responsabilità della condanna sui romani, i sinedriti fanno solo la parte di quelli che hanno consegnato un pericoloso brigante all'autorità romana che amministrava la Giudea;


     



    •  evita tutta la procedura formale del sinedrio, lenta e macchinosa per le cause capitali;


     



    •  evita che alcuni membri del Sinedrio favorevoli a Gesù ribaltino l’esito del processo, anche considerando le gravi irregolarità dell’arresto di Gesù;


     



    •  accelera la condanna a morte ed evita di finire col processo in pieno periodo pasquale (giudaico).


     


    Quindi, ricapitolando quando discusso, il motivo fondamentale della condanna a morte di Gesù che emerge dalla lettura del Vangelo di Matteo è nelle accuse rivolte da Gesù alla classe sacerdotale di Gerusalemme come appare in tutto il capitolo 23 del Vangelo stesso. I capi decidono quindi di arrestarlo e di eliminarlo, messe insieme un po’ di opzioni trovano che è possibile accusarlo di sedizione davanti al procuratore romano, oppure accusarlo per motivazioni religiose. Giudicano la seconda strada più difficilmente percorribile – oltre che più lunga e insidiosa – e pertanto optano alla fine per la prima. Oltretutto sono avvantaggiati dal fatto che Pilato si trova a Gerusalemme in occasione della Pasqua ebraica (la residenza ufficiale del governatore era infatti a Cesarea Marittima) per vigilare personalmente sull’ordine pubblico.


     


    Sappiamo che il Talmud Babilonese prevede una serie di procedure a tutela dell'imputato anche dopo la sua condanna a morte. Un araldo doveva innanzitutto annunciare pubblicamente la sentenza in modo che eventuali testimonianze dell'ultimo minuto potessero scagionare in extremis l'imputato, ormai già condannato (cfr. Sanhedrin, Cap. 6, folio 43a). Il Talmud Babilonese, Sanhedrin, Cap. VI, folio 43 a, riporta un esempio che tradizionalmente è sempre stato associato anche dagli ebrei alla vicenda processuale di Gesù Cristo:


     


    Sanhedrin, Cap. 6, folio 43a - Alla vigilia della Pasqua [ebraica], Yeshu fu appeso. Per quaranta giorni prima dell'esecuzione, un araldo gridava "Egli sta per essere lapidato perché ha praticato la stregoneria e ha condotto Israele verso l'apostasia. Chiunque sappia qualcosa a sua discolpa venga e difenda il suo operato". Poichè nulla fu mai portato in suo favore, egli fu appeso alla vigilia della Pasqua.


     


    Alcune versioni del Talmud aggiungono a Gesù la parola Nazareno e precisano che la condanna si svolse "alla vigilia del sabato della Pasqua", coincidendo con le sequenze temporali del Vangelo di Giovanni. Il passo informa che Gesù venne condannato a morte per lapidazione a causa delle sue pratiche magiche (i miracoli), come sostenuto anche da Celso, e per aver condotto Israele lontano da Dio. E' interessante notare che anche il Talmud conferma che la condanna originaria del Sinedrio in realtà poi viene commutata in un supplizio diverso, "Gesù fu appeso" è scritto all'inizio del passo, forse si intende qui alludere alla crocifissione ordinata da Pilato su istigazione dei Giudei. Il passo talmudico compare in realtà nella Ghemarah, il commentario alla Minshah del Sanhedrin, quindi è presumibilmente molto tardo. Potrebbe essere stato inserito per rispondere alla tradizionale visione neotestamentaria di un processo condotto in modo frettoloso e in spregio della legge processuale ebraica. L'araldo che per ben quaranta giorni annunciò la sentenza è forse una esagerazione volta a mettere in luce come tutto il processo fu svolto con cura e precisione in ottemperanza alla legge talmudica: la stessa Ghemarah osserva infatti che questa fase di annuncio doveva durare molto meno.


     


     


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    00 12/07/2019 19:46

    3.7 Procedure seguite dal Sinedrio in altri processi


     


     


    3.7.1 Il processo a Stefano


     


     


     


    Ci sono anche forti interrogativi sulla reale possibilità che aveva il Sinedrio, ai tempi di Gesù, di eseguire una condanna a morte. Alcune considerazioni generali sono state riportate nel Capitolo 2.1 di questo articolo. Mancano tuttavia certezze storiche relativamente al periodo in cui venne condannato Gesù, ovvero al tempo in cui era governatore della Giuda Ponzio Pilato (26-36 d.C.). Era tra i poteri del Sinedrio condannare a morte un cittadino durante il periodo di Gesù? Gesù non fu lapidato o giustiziato dai Giudei per una precisa volontà oppure perchè il Sinedrio non aveva formalmente il potere di eseguire una condanna a morte? Oppure in alcuni periodi dell'anno questa pratica era vietata da particolari leggi religiose? Sappiamo che qualche anno dopo i fatti di Gesù Stefano verrà condannato a morte direttamente dal Sinedrio, presieduto da Sommo Sacerdote, come riportato negli Atti degli Apostoli. Questo episodio viene fatto risalire al 36-37 dopo Cristo, stando almeno alla nota della Bibbia edizione C.E.I., qualche anno dopo il processo di Gesù ma comunque nel periodo dei procuratori romani. Resta da verificare se è possibile che la condanna a morte di Stefano sia avvenuta al tempo del regno di Agrippa I (41-44 d.C.), in tal caso sembra logico che il Sinedrio potesse autonomamente condannare a morte un imputato dal momento che l'autorità romana era assente.


     


    Atti 7:54-60 All'udire queste cose, fremevano in cuor loro e digrignavano i denti contro di lui. Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio». Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Poi piegò le ginocchia e gridò forte: «Signore, non imputar loro questo peccato». Detto questo, morì.


     


    Questo brano racconta la conclusione del processo a Stefano. Esso ci mostra chiaramente come al termine della seduta Stefano viene lapidato dagli stessi Giudei senza coinvolgere l'amministrazione romana. Nulla comunque viene raccontato sulla regolarità del processo. Stefano viene accusato, portato davanti al Sinedrio e quindi condannato a morte. Non è precisato se in realtà la procedura sia stata più complessa e si siano tenute due sedute. Stefano viene condannato a morte per lapidazione per motivi esclusivamente religiosi. E’ possibile che il Sinedrio potesse avere il potere di condannare a morte per gravi reati religiosi ma non per altri reati e che il reato di “sedizione” e di “ribellione” politica fosse sanzionato dall’autorità romana. La dinamica dell’accusa e del processo a Stefano è raccontata in Atti 6: 8-14:


     


    Atti 6:18-14 Stefano intanto, pieno di grazia e di fortezza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo. Sorsero allora alcuni della sinagoga detta dei «liberti» comprendente anche i Cirenei, gli Alessandrini e altri della Cilicia e dell'Asia, a disputare con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava. Perciò sobillarono alcuni che dissero: «Lo abbiamo udito pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo trascinarono davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero: «Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè».


     


    Il tema della distruzione del luogo santo è comparso anche in occasione del processo a Gesù: «Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni». Ma in occasione del processo a Stefano l’accusa sembra riguardare più motivazioni religiose che non di sedizione o di rivolta: «Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè».


     


     


    3.7.2 Processo a Pietro e a Giovanni


     


     


     


    Un altro processo che viene raccontato nel Nuovo Testamento è quello agli Apostoli Pietro e Giovanni che vengono però liberati. L’episodio è importante in quanto viene riportato all’inizio degli Atti e quindi sembra molto vicino nel tempo ai fatti di Gesù. Pietro e Giovanni vengono arrestati perché si trovano nel tempio a Gerusalemme e parlano al pubblico ivi presente di Gesù. E’ interessante notare che l’arresto avviene di giorno e viene eseguito dal corpo di guardia del tempio (l’autore del brano cita l’intervento del capitano del tempio). Sembra qui rispettata la procedura formale dell’arresto secondo le leggi giudaiche: esso avviene di giorno e siccome sta per farsi sera, Pietro e Giovanni sono condotti in carcere perché il giudizio può avvenire solo di giorno.


     


    Atti 4:1-21 Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del tempio e i sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti. Li arrestarono e li portarono in prigione fino al giorno dopo, dato che era ormai sera. Molti però di quelli che avevano ascoltato il discorso credettero e il numero degli uomini raggiunse circa i cinquemila. Il giorno dopo si radunarono in Gerusalemme i capi, gli anziani e gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti. Fattili comparire davanti a loro, li interrogavano: «Con quale potere o in nome di chi avete fatto questo?». Allora Pietro, pieno di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è


     


    la pietra che, scartata da voi, costruttori,


    è diventata testata d'angolo.


     


    In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e considerando che erano senza istruzione e popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per coloro che erano stati con Gesù; quando poi videro in piedi vicino a loro l'uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa rispondere. Li fecero uscire dal sinedrio e si misero a consultarsi fra loro dicendo: «Che dobbiamo fare a questi uomini? Un miracolo evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme che non possiamo negarlo. Ma perché la cosa non si divulghi di più tra il popolo, diffidiamoli dal parlare più ad alcuno in nome di lui». E, richiamatili, ordinarono loro di non parlare assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù. Ma Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Quelli allora, dopo averli ulteriormente minacciati, non trovando motivi per punirli, li rilasciarono a causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l'accaduto. L'uomo infatti sul quale era avvenuto il miracolo della guarigione aveva più di quarant'anni.


     


    Dopo l’auto difesa di Pietro il Sinedrio tiene probabilmente una votazione al termine della quale riconosce la non colpevolezza dei due Apostoli. Questo processo, per quello che ci è dato di conoscere, avviene quindi nel pieno rispetto delle procedure del Sinedrio.


     


     


    3.7.3 Secondo processo a Pietro e ad altri Apostoli


     


     


     


    L’ordine di non parlare più di Gesù e di non diffondere le sue dottrine viene naturalmente infranto da Pietro, Giovanni e dagli altri Apostoli. Si giunge così poco tempo dopo a un nuovo arresto di Pietro ed alcuni Apostoli, eseguito sempre dal capitano del tempio. Questo episodio è importante in quanto mostra cosa sarebbe potuto accadere anche nel caso che il processo di Gesù si fosse svolto rispettando le regole del Sinedrio, con una discussione tra tutti i membri del sinedrio e una votazione. Non tutti i membri del Sinedrio, come abbiamo osservato, sono avversi a Gesù e ai suoi seguaci. In occasione di questo processo Gamaliele si alza e parla sostanzialmente a favore degli Apostoli. Non è escluso che anche altri sinedriti fossero dello stesso parere. La maggioranza del Sinedrio è quindi del parere di non condannare a morte gli Apostoli, Pietro e i suoi compagni se la cavano con la fustigazione.


     


    Atti 5:26-40 Allora il capitano uscì con le sue guardie e li condusse via, ma senza violenza, per timore di esser presi a sassate dal popolo. Li condussero e li presentarono nel sinedrio; il sommo sacerdote cominciò a interrogarli dicendo:  «Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avevate ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui». All'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte. Si alzò allora nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele, dottore della legge, stimato presso tutto il popolo. Dato ordine di far uscire per un momento gli accusati, disse: «Uomini di Israele, badate bene a ciò che state per fare contro questi uomini. Qualche tempo fa venne Tèuda, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s'erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anch'egli perì e quanti s'erano lasciati persuadere da lui furono dispersi. Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!». Seguirono il suo parere e, richiamati gli apostoli, li fecero fustigare e ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù; quindi li rimisero in libertà.


     


     


    3.7.4 Interrogatorio di Paolo


     


     


     


    L’interrogatorio di Paolo, che secondo il Nuovo Testamento è un ebreo ma con cittadinanza romana, è più complesso dei casi precedenti. Pur essendo romano, Paolo viene fatto comparire davanti al Sinedrio. Gli Atti ci raccontano che in occasione di un viaggio a Gerusalemme Paolo è oggetto delle ire dei Giudei in prossimità del Tempio. Il tribuno Claudio Lisia, comandante della coorte acquartierata nella fortezza Antonia, all’angolo nord-ovest della spianata del tempio, interviene liberando Paolo dai Giudei. Paolo viene così arrestato dai romani, e secondo gli Atti sembra venire confuso dal tribuno probabilmente con il brigante Eleazaro, un egiziano di cui parla anche Giuseppe Flavio. Secondo lo storico romano Eleazaro raccolse una turba di circa trentamila persone con le quali si apprestava a entrare in Gerusalemme, ai tempi del procuratore Antonio Felice (il suo mandato fu nel periodo 52-60 d.C.). Prima che sia troppo tardi Paolo chiarisce l’equivoco con il tribuno romano, ma quest’ultimo obbliga il Sinedrio a riunirsi per capire perché Paolo è tanto inviso ai Giudei.


    Quando Paolo compare davanti al Sinedrio, il tribuno sa già che egli è un ebreo con cittadinanza romana. Il Sinedrio non può quindi che giudicarlo in modo non formale. Qualunque decisione sulla eventuale punizione per Paolo sarà comunque di competenza dell’autorità romana.


     


    Atti 22:30-23:4 Il giorno seguente, volendo conoscere la realtà dei fatti, cioè il motivo per cui veniva accusato dai Giudei, gli fece togliere le catene e ordinò che si riunissero i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio; vi fece condurre Paolo e lo presentò davanti a loro. [Il tribuno romano ordina una convocazione del Sinedrio]. Con lo sguardo fisso al sinedrio Paolo disse: «Fratelli, io ho agito fino ad oggi davanti a Dio in perfetta rettitudine di coscienza». Ma il sommo sacerdote Anania ordinò ai suoi assistenti di percuoterlo sulla bocca. Paolo allora gli disse: «Dio percuoterà te, muro imbiancato! Tu siedi a giudicarmi secondo la legge e contro la legge comandi di percuotermi?». E i presenti dissero: «Osi insultare il sommo sacerdote di Dio?». Rispose Paolo: «Non sapevo, fratelli, che è il sommo sacerdote; sta scritto infatti: Non insulterai il capo del tuo popolo».


     


    Il brano ci mostra come essendo del tutto informale la seduta (il Sinedrio è stato fatto riunire dal tribuno, e si sa che è stato convocato per esprimere un parere e non per decidere alcunché) vengono violate le procedure formali del Sinedrio, analogamente a quanto successe nel caso di Gesù. Paolo viene percosso e Paolo stesso osserva: «Tu siedi a giudicarmi secondo la legge e contro la legge comandi di percuotermi?» rendendo testimonianza della irregolarità di quella seduta (e in effetti sappiamo che è irregolare).


     


    Privata di qualunque autorità, l’assemblea degenera presto:


     


    Atti 23:10 La disputa si accese a tal punto che il tribuno, temendo che Paolo venisse linciato da costoro, ordinò che scendesse la truppa a portarlo via di mezzo a loro e ricondurlo nella fortezza. [Qui capiamo che il tribuno non ha consegnato Paolo al sinedrio perchè venga giudicato ma solo perchè venga interrogato e quindi chiarito il motivo della ostilità nei suoi confronti]


     


    Ma Paolo è anche un cittadino romano e quindi il tribuno romano ordina di condurlo via. La sua sorte infatti non può venire certo decisa dal Sinedrio. Tuttavia i Giudei sono risoluti ad uccidere in qualunque modo Paolo. Alcuni di loro tentano di corrompere il Sinedrio per ordine un inganno e uccidere così Paolo:


     


    Atti 23:12-15 Fattosi giorno, i Giudei ordirono una congiura e fecero voto con giuramento esecratorio di non toccare né cibo né bevanda, sino a che non avessero ucciso Paolo. Erano più di quaranta quelli che fecero questa congiura.  Si presentarono ai sommi sacerdoti e agli anziani e dissero: «Ci siamo obbligati con giuramento esecratorio di non assaggiare nulla sino a che non avremo ucciso Paolo. Voi dunque ora, insieme al sinedrio, fate dire al tribuno che ve lo riporti, col pretesto di esaminare più attentamente il suo caso; noi intanto ci teniamo pronti a ucciderlo prima che arrivi».


     


    In conclusione questo modo di comportarsi del Sinedrio (fretta nelle procedure, violazione delle procedure perché tanto la seduta è di per se irregolare) è caratteristico delle situazioni contingenti, dove si vuole a tutti i costi eliminare un imputato da parte di alcuni e dove gli accusatori sanno o di non avere alcun potere (come nel caso del processo di Paolo) o di non avere tutte le certezze che il processo si concluda a loro favore (come forse nel caso di Gesù). E’ in queste situazioni disperate che nascono gli inganni e vengono orditi tranelli, come quello di presentare Gesù ai romani e farlo accusare da loro come rivoltoso, oppure quello di assassinare con l’inganno Paolo.


     


     


    3.7.5 Il processo a Giacomo il Giusto


     


     


    Nelle Antichità Giudaiche (Libro 20, 197-203) lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci fornisce un esempio di processo molto interessante. Siamo nel periodo in cui il procuratore della Giudea Festo è morto e il suo successore Albino, designato da Roma, è in viaggio e non è ancora arrivato a Cesarea, la sede dei procuratori romani di Giudea. L'episodio avviene quindi nel 62 dopo Cristo, circa trent'anni dopo il processo di Gesù. In questa situazione storica il sommo sacerdote Anano convoca il Sinedrio di cui è presidente e fa processare per violazione della legge mosaica un certo Giacomo identificato con Giacomo il Giusto (o, anche, il Minore), il fratello di Gesù Cristo dallo stesso Giuseppe Flavio. Il processo si conclude con la condanna a morte di Giacomo per lapidazione. Quello che qui interessa è che Anano poco dopo verrà punito da Albino e perderà la carica di Sommo Sacerdote perchè, secondo quanto riferisce Giuseppe Flavio, non aveva alcun potere di convocare il Sinedrio senza il consenso del procuratore.


     


     


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    00 12/07/2019 19:47

    3.8 Gesù portato dal prefetto Ponzio Pilato


     


     


    3.8.1 Pilato governatore della Giudea


     


     


    Ponzio Pilato fu il quinto (ma secondo alcuni studiosi solo il quarto) governatore della provincia romana della Giudea. Come testimonia una epigrafe ritrovata a Cesarea Marittima nel 1961 il titolo di Pilato era prefetto (lat.: praefectus); solo in anni successivi i governatori della Giudea verranno chiamati col titolo di procuratori e il titolo di prefetto cadrà in disuso. Secondo lo storico giudeo Giuseppe Flavio il suo mandato cominciò nel 27 d.C. e terminò nel 37 d.C. La regione amministrata da Pilato comprendeva non solo la Giudea, ma anche la Samaria e l’Indumea. Sotto questo territorio si trovavano due città importanti: Gerusalemme, centro religioso ebreo e città santa, e Cesarea Marittima che era invece la residenza ufficiale del prefetto romano e il quartier generale delle truppe ausiliarie. Cesarea Marittima era una grande città portuale sul Mar Mediterraneo costruita da Erode il Grande, capitale romana della provincia di Giudea e di Samaria. Questa città non è da confondere con Cesarea di Filippo, un’altra città che sorgeva nell’interno, nell’Iturea, a nord del Mare di Galilea. Il procuratore formalmente dipendeva dal Legato di Siria, che era il suo diretto superiore, ma di fatto conservava grande autonomia per quanto riguardava la sua zona da amministrare. Prima del suo arrivo in Giudea Pilato è uno sconosciuto e non sappiamo che incarichi ricoprisse. Sicuramente doveva possedere relazioni influenti alla corte imperiale di Roma, requisito indispensabile per ottenere incarichi di alto livello politico. Di fatto per i primi sei anni del mandato di Pilato non esisteva un Legato in Siria e quindi Pilato aveva delle serie difficoltà a richiedere truppe e rinforzi in caso di necessità in quanto mancava un diretto superiore al quale rivolgersi. Questo è stato visto da alcuni come uno dei motivi della particolare durezza di Pilato nel reprimere i minimi accenni di rivolta o di protesta: bisognava difatti spegnere sul nascere ogni minimo tentativo di ribellione prima che queste diventassero troppo vaste per essere fermate. Il predecessore di Pilato, Valerio Grato, nominò ben quattro sommi sacerdoti (questa nomina era a carico dell’autorità romana) l’ultimo dei quali fu Caifa. Pilato invece pare che non ne abbia mai nominato nessuno durante il suo mandato (Caifa, nominato da Grato, restò quindi in carica fino dal 37 d.C. e poco oltre).


     


    Nel corso del suo mandato si verificarono alcuni incidenti, quelli noti oggi sono:


     



    •  Episodio degli stendardi: Ponzio Pilato, secondo Giuseppe Flavio, fa portare in piena notte in Gerusalemme degli stendardi che recavano le immagini degli imperatori di Roma. Questa era una grave offesa per i costumi ebraici, secondo i quali erano proibite le immagini, che non potevano essere ammesse all'interno della città santa, e il loro culto era un abominio. Di conseguenza vi furono grandi proteste a Gerusalemme e davanti alla residenza di Pilato a Cesarea Marittima, dove i contestatori si sdraiarono per cinque giorni e cinque notti. Alla fine Pilato cedette e fece ordinare il ritiro delle immagini offensive. Questo episodio è datato dagli studiosi fra il 26 e il 27 d.C. L'episodio è narrato sia nella Guerra Giudaica (2,169-174) che nelle Antichità Giudaiche (18,55-59) di Giuseppe Flavio.


     



    •  Episodio dell’acquedotto: Giuseppe Flavio racconta che Pilato utilizzò parte del sacro tesoro del tempio per costruire un acquedotto. Ci furono molti tumulti in occasione di una visita a Gerusalemme di Pilato, che il procuratore non esitò a far reprimere nel sangue. I morti furono numerosi. L'episodio è narrato sia nella Guerra Giudaica (2,175-177) che nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (18,60-62).


     



    •  Episodio degli scudi: Pilato fece appendere degli scudi nell’ex palazzo di Erode il Grande a Gerusalemme. Seppure privi di immagini gli scudi destarono scandalo in quanto facevano esplicito riferimento alla divinità dell’imperatore di Roma, un sacrilegio per i Giudei. Questo episodio ci è stato tramandato da Filone di Alessandria (cfr. Legatio ad Caium, 299-305) ma non da Giuseppe Flavio.


     



    •  Episodio dei Samaritani. Questo episodio, accaduto dopo la condanna di Gesù Cristo, segnò di fatto la fine della carriera politica di Pilato, almeno in Palestina. Una figura Messianica convinse un gruppo di Samaritani, debitamente armati, a salire sul sacro monte Garizìm. Pilato li fece bloccare dalle sue truppe e ci furono scontri con numerosi morti, seguiti da arresti ed esecuzioni capitali. I Samaritani allora protestarono presso il Legato di Siria Vitellio per quanto era successo. La Samaria era una regione da sempre fedele a Roma e Vitellio destituì Pilato rimandandolo a Roma (prime settimane del 37 d.C.). Di questo fatto ci è stata data notizia da Giuseppe Flavio (cfr. Ant. 18,85-89).


     


    La figura storica di Pilato ci è stata raccontata da un punto di vista letterario da Giuseppe Flavio (nelle Antichità Giudaiche e nella Guerra Giudaica) e da Filone di Alessandria. Ma esiste anche una testimonianza archeologica diretta: nel 1961 a Cesarea Marittima (residenza ufficiale di Pilato) è stata trovata una lapide recante una iscrizione con il suo nome e l'indicazione di "Ponzio Pilato prefetto della Giudea". Sono poi state ritrovate varie monete di bronzo, coniate fra il 29 d.C. e il 32 d.C. Queste monete non vennero evidentemente considerate offensive, malgrado le immagini, in quanto il loro utilizzo proseguì indisturbato anche nei primi anni del regno di Agrippa.


     


     


    3.8.2 Pilato a Gerusalemme


     


     


    Da molti anni gli archeologi stanno cercando di identificare dove potesse essere la residenza di Pilato a Gerusalemme, il pretorio. Non va poi dimenticato che a Gerusalemme risiedeva stabilmente anche un tribuno. Il tribuno comandava una guarnigione romana costituita da una coorte di circa mille uomini tra fanti e cavalieri. Il tribuno era un alto ufficiale che aveva come inferiori un certo numero di centurioni. In quei giorni quindi Gerusalemme sarebbe stata doppiamente sorvegliata, dai soldati del tribuno e da quelli del procuratore. Inoltre secondo Luca in quei giorni si trovava a Gerusalemme anche il re Erode Antipa che non governava la Giudea ma la Galilea. Secondo Filone di Alessandria l’episodio degli scudi sarebbe avvenuto nel palazzo di Erode il Grande quindi sembrerebbe ovvio che Pilato risiedesse in quel luogo quando si trovava a Gerusalemme. Tuttavia in prossimità del Palazzo di Erode il Grande non è stato ritrovato alcun luogo che possa rassomigliare al Litostroto di cui ci racconta Giovanni, un luogo costituito da un grande pavimento lastricato, da cui il nome, posizionato in posizione sopraelevata. Un luogo del genere è stato ritrovato invece vicino alla Torre Antonia. Nella Guerra Giudaica, Giuseppe Flavio descrive in questi termini la Torre Antonia:


     


    Guerra Giudaica, 5.5.8 Sorgeva all’angolo dove si incontravano l’ala nord e l’ala ovest del portico di recinzione del Tempio, su una prominenza rocciosa. […] Era stata fabbricata da Erode [il Grande], che vi aveva sfoggiato tutto il suo naturale trasporto per la sontuosità. […] L’interno aveva l’ampiezza e la sistemazione di una reggia; infatti era suddiviso in appartamenti di ogni forma e destinazione, con bagni e ampie cisterne, sì da sembrare una città perché era fornita di tutto il necessario, ed una reggia per la sua magnificenza. […] Aveva quattro torri […] e dalla sua sommità si poteva spaziare su tutto il Tempio. […] Al suo interno era sempre acquartierata una coorte romana, che nelle feste si schierava in armi sopra ai portici per vigilare sul popolo e impedire qualche sommossa. Se il Tempio dominava la città come una fortezza, l’Antonia a sua volta dominava il Tempio, e chi la occupava dominava su tutti e tre, anche se la città aveva la propria rocca nel Palazzo di Erode [il Grande].


     


    Il passo citato, fra l’altro, mette in evidenza la particolare cura e attenzione con cui venivano seguite le feste religiose dei giudei, per paura di tumulti e turbative dell’ordine pubblico. Se si seguono le argomentazioni storiche e letterarie (Filone di Alessandria e Giuseppe Flavio) Pilato quando si trovava a Gerusalemme doveva risiedere nel Palazzo di Erode il Grande e il tribuno nella Torre Antonia. Ma se si seguono invece le indicazioni archeologiche sin qui note allora Pilato doveva risiedere nella Torre Antonia e il Tribuno nel Palazzo di Erode il Grande. Erode Antipa in quei giorni poteva risiedere in un altro palazzo importante di Gerusalemme, il Palazzo degli Asmonei. L’esistenza di questo antico palazzo ci è stata tramandata dagli scritti di Giuseppe Flavio, ma bisogna sottolineare che nessuno scavo archeologico ha mai messo in evidenza resti di questo edificio, fino a questo momento.


     


     


    3.8.3 L’interrogatorio: Gesù condannato e Barabba libero


     


     


    Ritornando all’esito del processo a Gesù, il Sinedrio ha ormai stabilito di consegnare Gesù al governatore Ponzio Pilato. Il governatore romano in quei giorni si trovava a Gerusalemme. Abbiamo visto come la sua residenza ufficiale fosse a Cesarea Marittima, tuttavia pare che in alcune occasioni importanti egli si recasse a Gerusalemme. Giuseppe Flavio racconta che:


     


    Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, 2.223 - "Essendosi la folla raccolta a Gerusalemme per la festa degli Azzimi ed essendosi schierati la coorte romana sopra al portico del Tempio, giacchè usavano vigilare in armi in occasione delle feste per evitare che la folla, raccolta insieme, desse inizio a qualche sommossa [...]"


     


    Questo passo riferisce un episodio che accadde quando Cumano era procuratore della Giudea (48-52 dopo Cristo) e testimonia come l'esercito romano presidiasse la città durante le feste principali per evitare tumulti nel popolo. La vicenda che stiamo esaminando avviene durante la Pasqua dei Giudei e secondo questa interpretazione Pilato sarebbe a Gerusalemme a capo delle sue truppe per controllare l’ordine pubblico e la città durante la festa.


     


    Matteo 27:11-14 Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l'interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose «Tu lo dici». E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante cose attestano contro di te?». Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.


     


    Il procuratore si dimostra subito alquanto perplesso. Gesù gli viene presentato come Re dei Giudei. Egli stesso ha dichiarato di essere il Messia davanti al sommo sacerdote. Se agli occhi degli ebrei essere Messia può anche avere un significato religioso e sacerdotale, come testimoniano i manoscritti di Qumran con la doppia visione del Messia di Israele e di Aronne, essere un Messia agli occhi dell'autorità romana era certamente molto negativo. L'ultimo Re dei Giudei era stato Archelao che nel 6 dopo Cristo era stato destituito e sostituito proprio dai governatori nominati direttamente da Roma. E' evidente che i sacerdoti hanno la necessità di far passare Gesù come rivoltoso, o come re usurpatore del potere del governatore e quindi di Roma. Hanno ormai scelto questa strada per sbarazzarsi di lui e stanno evidenziando davanti a Pilato gli aspetti più politici e pratici del titolo di Messia che Gesù si è auto attribuito, stanno presentando Gesù come Messia davidico o di Israele, per riprendere una definizione che compare nella letteratura qumranica. Accentuando il risvolto politico della faccenda possono sperare di ottenere l’interessamento al caso da parte dell'autorità romana e ottenere una condanna a morte. Ben difficilmente il governatore romano poteva essere competente in materia religiosa o intervenire nelle diatribe dei giudei sul ruolo dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei nell'ambito della società giudaica. L'unica preoccupazione del governatore era il mantenimento dell'ordine pubblico e della pace, quindi possiamo immaginare che un rivoltoso venisse evidentemente eliminato il prima possibile per evitare che coinvolgesse la popolazione in tumulti e rivolte. Matteo accenna poi a una sconosciuta usanza pasquale di liberare un carcerato in occasione della Pasqua dei Giudei a Gerusalemme. Questa presunta usanza desta molto scalpore in quanto non abbiamo alcuna testimonianza, al difuori dei Vangeli, che in Giudea i procuratori concedessero simili grazie. Giuseppe Flavio e altri storici non menzionano mai una simile pratica. L'unico documento attestante la scarcerazione di un detenuto in circostanze simili a quelle che stiamo indagando è un papiro datato all'85 dopo Cristo dal quale apprendiamo che il prefetto d'Egitto rilasciò un malfattore che era stato condannato alla flagellazione in grazia alle folle (cfr. G. Vitelli, Papiri Fiorentini, Milano, 1906, Vol. I, pp. 113-116). Il detenuto che viene liberato al posto di Gesù si chiama Barabba. In aramaico Bar Abbà significa “Figlio del Padre”. Oltretutto in alcuni manoscritti del Vangelo di Matteo, vedi ad esempio il codice Koridethianus, il vero nome del prigioniero Barabba sarebbe curiosamente Gesù Barabba che significherebbe in aramaico Gesù Bar Abbà = Gesù “Figlio del Padre”. E’ singolare quindi che venga rilasciato questo Gesù “Figlio del Padre” mentre viene giustiziato un altro Gesù, presentato come re dei Giudei. Mt non fornisce molte informazioni sull’identità di questo detenuto, è detto soltanto che si trattava di un “prigioniero famoso”. Probabilmente un rivoltoso, un capo politico. Ma non è molto semplice credere che Pilato liberasse un capo popolo, soprattutto in una terra ribelle come la Palestina di quegli anni, con sommosse e rivolte che scoppiavano dappertutto. Questa doppia presenza di Gesù Cristo e di (Gesù) Figlio del Padre è stata interpretata da alcuni come se fossero davvero presenti due figure e non un solo Gesù, un Messia davidico avente pretese regali e politiche (sarebbe il Gesù condannato a morte da Pilato) e un Messia aronitico, sacerdotale, liberato da Pilato.


     


    Matteo 27:15-23 Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: «Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia. Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua». Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: «Chi dei due volete che vi rilasci?». Quelli risposero: «Barabba!». Disse loro Pilato: «Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?». Tutti gli risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli aggiunse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora urlarono: «Sia crocifisso!».


     


    Il governatore secondo Mt pressato dalla folla alla fine rilascia Barabba e condanna alla crocifissione Gesù:


     


    Matteo 27:24-26 Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: «Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli». Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.


     


    Ponzio Pilato era conosciuto come un governatore assai privo di scrupoli e piuttosto duro e severo nei suoi atti. Il ritratto che ci è pervenuto dagli scrittori antichi (v. Giuseppe Flavio) non è dei più lusinghieri. Resta quindi misterioso come il procuratore tentasse fino all’ultimo di non condannare Gesù, soprattutto se questo viene presentato come ribelle e rivoltoso. Altrettanto misteriosa è la liberazione di Barabba, chiunque egli fosse. In una terra ribelle e non facilmente governabile come la Palestina non è facile credere che dei pericolosi criminali e sobillatori venissero rilasciati con tanta leggerezza. Difatti nessuno scrittore antico, come detto, ci parla dell’usanza di liberare prigionieri Giudei in occasione della Pasqua ebraica. Seguendo la logica, risulta quindi difficile pensare che un governatore potesse liberare un capo di una rivolta, un "brigante" nella terminologia di Giuseppe Flavio. Tuttavia vogliamo qui segnalare la seguente pratica, riferita proprio da Giuseppe Flavio, vigente al tempo del mandato di Lucceio Albino (62-64 d.C.). Secondo Giuseppe Flavio Albino,


     


    "...non soltanto commetteva ruberie a danno di tutti nella trattazione del pubblici affari nè si limitava a schiacciare tutto il popolo sotto il peso dei tributi ma prendeva denaro per riconsegnare in libertà ai parenti quelli che per brigantaggio erano stati carcerati dalle autorità delle loro città o dai precedenti procuratori, sicchè soltanto chi non pagava rimaneva in prigione come un delinquente. Allora a Gerusalemme crebbe l'ardire dei rivoluzionari poichè i loro capi comprarono per denaro Albino facendosi garantire da lui l'impunità per le loro macchinazioni e la parte del popolo che non era amante dell'ordine passò dalla parte dei complici di Albino" (Guerra Giudaica, 2.273-274)


     


    Sebbene questi rivoltosi fossero una palese minaccia per la sicurezza dei Romani in Giudea e per la stabilità politica della regione Giuseppe riferisce che Albino, un procuratore evidentemente corrotto, dietro il versamento di illecite somme di denaro era solito liberarne qualcuno. Una pratica simile era probabilmente seguita anche dal successore di Albino, il procuratore Gessio Floro (64-66 d.C.) che secondo Giuseppe Flavio fu persino peggio di Albino, "nessun guadagno lo saziava, era una persona che ignorava la differenza tra i guadagni più grandi e i più modesti, tanto che si associava persino ai briganti" (Ant. 20,11,1). Contrariamente a ogni logica Albino e probabilmente anche Floro rilasciavano dei detenuti già arrestati e carcerati, proprio come Barabba, dietro il pagamento di vere e proprie tangenti. Se questi passi di Giuseppe Flavio certamente non provano nulla relativamente a Ponzio Pilato, testimoniano comunque come alcuni governatori rilasciassero dei pericolosi criminali per brama di guadagni personali.


     


    Resta poi un ulteriore mistero, cioè come tanta folla potesse essere improvvisamente ostile a Gesù. Nel giro di pochi giorni tutta la folla che ha accolto Gesù al suo arrivo a Gerusalemme avrebbe all’improvviso cambiato opinione e sarebbe così sicura che Gesù è un malfattore da gridare: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. Un’altra questione poco chiara è quella della doppia punizione. La flagellazione è già una condanna, seppure non a morte. La crocifissione sarebbe quindi una seconda, definitiva, condanna. Perché c’era bisogno di flagellare Gesù, se questi era già stato condannato a morte? L’iscrizione che viene posta sulla croce secondo Matteo reca scritto: “Questi è Gesù il re dei Giudei”. I romani condannano quindi Gesù come sedicente re dei Giudei e pericoloso ribelle. E’ l’accusa con la quale i sommi sacerdoti lo hanno condotto da Pilato, accentuando le accuse “politiche” al fine di ottenere una condanna dai romani altrimenti impossibile da ricevere.


     


     


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    00 12/07/2019 19:49

    1.  Condanna a morte di Gesù secondo Marco


     


     


    Il racconto dell’arresto, del processo e della condanna di Gesù da parte di Marco è molto simile a quello fatto da Matteo. Secondo Marco lo scenario al solito è quello Pasquale in quanto:


     


    Marco 14:1 Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo».


     


    Come Matteo anche Marco mette in evidenza la volontà da parte dei sacerdoti di uccidere Gesù (anche Marco racconta delle invettive di Gesù contro i sacerdoti gerosolimitani).


     


    I due Vangeli sono poi in accordo sulla data dell’ultima cena:


     


    Marco 14:12 Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?».


     


    e quindi anche Marco lascia aperta una ambiguità legata al tipo di Pasqua che dovevano festeggiare Gesù e gli Apostoli. Per tutto quello che seguirà dopo, non sembra possibile che si tratti della Pasqua dei giudei.


     


    L’arresto di Gesù avviene la notte dell’ultima cena, con modalità pressoché identiche a quelle narrate in Mt. Anche Marco ci parla di una folla mandata dal Sinedrio per arrestare Gesù in piena notte, contro le regole:


     


    Marco 14:43-46 E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Chi lo tradiva aveva dato loro questo segno: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Allora gli si accostò dicendo: «Rabbì» e lo baciò. Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono.


     


    Gesù viene portato davanti al sommo sacerdote e all’assemblea (o parte di essa):


     


    Marco 14:53-65 Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote; e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. Intanto i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti attestavano il falso contro di lui e così le loro testimonianze non erano concordi. Ma alcuni si alzarono per testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo». Ma nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde. Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all'assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono!


    E vedrete il Figlio dell'uomo


    seduto alla destra della Potenza


    e venire con le nubi del cielo».


    Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Allora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: «Indovina». I servi intanto lo percuotevano.


     


    L’interrogatorio pare svolgersi in piena notte, coerentemente con il racconto di Matteo. Abbiamo però un particolare in più in Mc che non viene raccontato in Mt: Pietro, che aveva seguito senza dare nell’occhio Gesù mentre lo conducevano via, se ne sta seduto tra i servi scaldandosi al fuoco. Questo sembra confermare l’ipotesi che l’interrogatorio si svolga proprio di notte: è buio e fa freddo, siamo solo in primavera nel periodo della Pasqua. Numerosi testimoni vengono scartati perché non concordi. Alla fine rimane in piedi la testimonianza di due (il numero legale minimo per una base di accusa) che sembrano concordi nell’affermare che Gesù distruggerà il tempio di Gerusalemme. L’interrogatorio, che non può essere un processo formale, scivola verso il fallimento. L’arresto è irregolare, i testimoni si contraddicono tra loro, ci sono solo due testimoni che peraltro hanno prove molto deboli. Una seduta regolare da tenersi l’indomani scivolerebbe probabilmente verso l’insuccesso. Anche perché nel Sinedrio ci sono alcuni membri favorevoli a Gesù. Il sommo sacerdote interroga allora direttamente Gesù e questi afferma di essere il Messia figlio di Dio. La dichiarazione che cercava viene quindi fatta da Gesù, l’interrogatorio viene interrotto e Gesù viene consegnato ai suoi carcerieri sino alla mattina successiva. In spregio alle leggi giudaiche Gesù viene percosso e oltraggiato. Probabilmente l’interrogatorio aveva lo scopo di convincere tutti che era giusto condannare a morte Gesù, sia perché le sue critiche colpivano direttamente la classe sacerdotale, sia perché affermava per la prima volta direttamente in prima persona di essere il Messia. Il mattino successivo si tiene una seconda riunione del Sinedrio. Si deve infatti stabilire con che accusa portare Gesù davanti a Pilato. I sacerdoti sembra infatti che abbiano deciso di far eliminare Gesù dai romani, per evitare tutte le complicazioni che abbiamo descritto, non ultima l’incertezza di una votazione regolare.


     


    Marco 15:1-2 Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo consegnarono a Pilato. Allora Pilato prese a interrogarlo: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici».


     


    Da questo brano si vede come secondo Mc Gesù viene portato davanti a Pilato con l’accusa di essere il re dei Giudei. Il Messia era anche il re dei Giudei secondo la tradizione. E’ evidente che i sacerdoti davanti a Pilato, che non si interessava delle questioni religiose dei giudei, devono accentuare l’accusa da un punto di vista  “politico” per ottenere la condanna da parte del procuratore. Il capo di accusa davanti a Pilato secondo Mc è identico a quanto leggiamo in Mt. Anche Marco racconta dell’episodio di Barabba. Il procuratore, in nome di una tradizione secondo la quale era solito liberare un detenuto per la festa di Pasqua (tradizione sconosciuta), chiede alla folla se vuole libero Gesù, appena consegnato, oppure Barabba. Secondo Matteo, assai avaro di notizie su questo personaggio, Barabba è semplicemente “un prigioniero famoso”. Ma Marco racconta qualcosa in più di Barabba:


     


    Marco 15:6-8 Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta. Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio. La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva.


     


    Questo tale Barabba, prigioniero famoso, si trovava in carcere perché “nel tumulto avevano commesso un omicidio”. E’ singolare il fatto che Mc dica: “nel tumulto”, non in “un tumulto” generico e magari passato da un certo tempo. Di quale tumulto si trattava? Era collegato con quanto successo a Gesù? C’era stato un tumulto in seguito all’arresto di Gesù? Barabba si trova in carcere assieme a dei ribelli. E’ molto strano che un governatore duro e inflessibile come Pilato rilasci un pericoloso criminale ribelle come Barabba. Durante il mandato di Pilato (26-36 d.C.) sappiamo che ci furono almeno due fatti di sangue di una certa importanza a Gerusalemme, essi ci sono stati raccontati da Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica (ma gli stessi episodi sono peraltro confermati anche nelle Antichità Giudaiche):


     


    G. Flavio, Guerra Giud., Libro II, 170-174 – Pilato, che Tiberio aveva inviato a governare la Giudea come procuratore, una notte introdusse in Gerusalemme avvolti in una copertura i ritratti dell'imperatore che sono chiamati immagini. Fattosi giorno, la cosa suscitò la più grande eccitazione fra i giudei; infatti a quella vista restarono subito costernati per l’offesa alle loro leggi - dato che essi non ammettono che nella città sia eretta alcuna immagine - e lo sdegno dei cittadini fece accorrere in massa la folla dal contado. Recatisi in tutta fretta da Pilato a Cesarea, lo pregarono di rimuovere le immagini da Gerusalemme e di rispettare le loro tradizioni, e avendo Pilato risposto con un rifiuto, si prostrarono con la faccia a terra intorno alla sua residenza e vi re­starono immobili per cinque giorni e cinque notti. Il giorno dopo Pilato, si assise sul suo tribunale nel grande stadio, ed essendo stata convocata la folla come se vo­lesse dar loro una risposta, fece ai soldati un segnale convenuto perché circondassero i giudei in assetto di combatti­mento. Rinchiusi da una schiera su tre righe, i giudei rimasero attoniti a quella vista inattesa, e Pilato minacciò che li avrebbe fatti massacrare se non avessero accolte le immagini di Cesare, e fece segno ai soldati di sguainare le spade. I giudei, come se si fossero messi d’accordo, si gettarono tutt'insieme in ginoc­chio e, protendendo il collo, dichiararono che erano pronti piuttosto a morire che a violare la legge. Pilato restò vivamente impressionato da un così intenso spirito religioso, e comandò di ritirate immediatamente le immagini da Gerusalemme.


     


    G. Flavio, Guerra Giud., Libro II, 175-177 – Tempo dopo Pilato provocò un altro tumulto impiegando il tesoro sacro, che si chiama korbonàs, per un acquedotto che faceva arrivare l’acqua da una distanza di quattrocento stadi. La folla ribolliva di sdegno, e una volta che Pilato si trovava in Gerusalemme ne circondò il tribunale con grandi schiamazzi. Quello, che già sapeva della loro intenzione di tumultuare, aveva sparpagliato fra la folla i soldati, armati e vestiti in abiti civili, con l’ordine di non usare le spade, ma di picchiare con bastoni i dimostranti, e a un certo punto diede il segnale. I giudei furono percossi, e molti morirono per i colpi ricevuti, molti calpestati da loro stessi nel fuggi fuggi. Terrorizzata dalla sorte delle vittime, la folla ammutolì.


     


    E’ possibile che sia uno di questi due “il tumulto” di cui parla Marco (in particolare il secondo avvenuto secondo Giuseppe Flavio proprio mentre Pilato si trovava a Gerusalemme; il primo episodio risulterebbe essere avvenuto invece a Cesarea Marittima dove si trovava la residenza ufficiale di Pilato) in occasione del quale è stato arrestato Barabba. Inoltre Marco, diversamente da Matteo, sembra affermare con la frase:  “La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva” che l’usanza di rilasciare un detenuto per Pasqua fosse radicata nonostante gli storici del tempo non ne parlino. Certamente rilasciare un detenuto accusato di sedizione e reati politici sarebbe stato un atto sconsiderato da parte di Pilato ed è poco credibile che il prefetto abbia preso una simile decisione. Se si ipotizza che il tumulto in occasione del quale venne arrestato Barabba qualche giorno prima l’arresto di Gesù fosse dovuto all’episodio dell’acquedotto  e che Barabba fosse un dimostrante qualunque (anche che avesse compiuto un omicidio, o abbia approfittato dei disordini per uccidere qualcuno o tentare una rapina) dal momento che questo episodio non era un tentativo di colpo di stato e non aveva dei capi organizzati, a quanto ci è dato di capire, potrebbe essere credibile che Pilato abbia rilasciato un detenuto. In fondo l’incidente era nato per causa di Pilato, non era un tentativo esterno di sovvertire l’ordine pubblico per prendere il potere (come in altri casi era successo e sarebbe successo molte volte in futuro). Seguendo questa chiave di lettura l’episodio dell’acquedotto sarebbe avvenuto in concomitanza con l’arresto di Gesù avvenuto qualche giorno dopo, mentre Pilato si trovava proprio a Gerusalemme in occasione della Pasqua Ebraica; il procuratore in occasione di feste e ricorrenze religiose di particolare importanza, quando il numero di visitatori e di persone dentro la città cresceva enormemente, si recava a Gerusalemme per vigilare di persona sull’ordine pubblico e impartire ordini in modo da stroncare subito qualunque tentativo di rivolta o disturbo la quiete pubblica. Siamo comunque nel campo delle ipotesi. Anche Marco nel complesso rende testimonianza della riluttanza di Pilato nel condannare Gesù. Non racconta però nulla relativamente al gesto di “lavarsi le mani” di Pilato come a scaricare ogni responsabilità morale della condanna ai sacerdoti. E non dice neppure che i sacerdoti pronunciarono la famosa frase: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”, al contrario di Matteo. Gesù viene quindi umiliato e percosso anche dai soldati romani. Quindi viene condotto per essere giustiziato. L’iscrizione posta sopra la croce secondo Marco recava scritto: “Il re dei Giudei”. Questa riassumeva il motivo della condanna. Arrestato per motivazioni religiose Gesù viene quindi fatto passare per un sedicente “re dei Giudei” politico dai romani.


     


     



    1.  Condanna a morte di Gesù secondo Luca


     


     


    Il racconto di Luca dell’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme inizia con la cacciata dei mercanti dal tempio, come raccontato negli altri due sinottici:


     


    Luca 19:45-48 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, dicendo: «Sta scritto:


     


    La mia casa sarà casa di preghiera.


    Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!».


     


    Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.


     


    I discorsi di Gesù a Gerusalemme sono la goccia che fa traboccare il vaso. I capi dei giudei hanno ormai deciso di eliminare Gesù:


     


    Luca 22:1-6 Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua, e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come toglierlo di mezzo, poiché temevano il popolo. Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici. Ed egli andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani. Essi si rallegrarono e si accordarono di dargli del denaro. Egli fu d'accordo e cercava l'occasione propizia per consegnarlo loro di nascosto dalla folla.


     


    In questo e nel precedente passo Luca mette in evidenza come il progetto di eliminare Gesù, divenuto troppo scomodo, sia ostacolato dalla folla che lo segue negli insegnamenti. Occorre trovare l’occasione propizia per arrestare Gesù, in modo che possa intervenire meno gente possibile. Come già in Mt e in Mc la data dell’ultima cena viene fissata nel “giorno degli Azzimi”, che probabilmente non coincide con la Pasqua e gli Azzimi dei Giudei, ma lo anticipa di qualche giorno. Dopo la cena, come raccontato in Mt ed in Mc, Gesù e gli Apostoli escono in piena notte verso il Getsemani. E’ il momento propizio per catturarlo, seguendo le indicazioni di Giuda:


     


    Luca 22:47-54 Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?». Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l'orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate, basta così!». E toccandogli l'orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre». Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano.


     


    Anche Luca precisa da chi siano stati inviati i soldati per arrestarlo, come in Mt e Mc. Dal racconto sembra comunque che la folla sia numerosa. Segue un tentativo di resistenza da parte di uno dei discepoli che reagisce e colpisce un servo del sommo sacerdote. Rispetto ai racconti di Mt e Mc sembra più chiaro l’elemento della congiura: sembra quasi che i sacerdoti e parte dei membri del sinedrio si rechino in prima persona al Getsemani o presenzino all’arresto. E’ possibile comunque che in realtà che abbiano mandato personale fidato per paura che la congiura venga scoperta troppo presto. Ricordiamoci che Luca descrive la paura che avevano i sacerdoti della folla, perché questa era favorevole a Gesù. Subito dopo l’arresto Gesù viene condotto a casa del sommo sacerdote Caifa:


     


    Luca 22:54 Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano.


     


    Il racconto di Luca inizia qui a diversificarsi rispetto agli altri due racconti di Mt e di Mc. Intanto apprendiamo che il primo interrogatorio, avvenuto in un luogo non specificato in Mc e in Mt, sarebbe avvenuto secondo Luca presso l’abitazione del sommo sacerdote Caifa. In teoria una riunione del Sinedrio si sarebbe dovuta tenere nella sede appropriata, cioè presso il tempio. Tuttavia è evidente che si sta operando del tutto fuori delle regole, l’arresto è irregolare, avviene di notte ed è impensabile recarsi nel tempio a quell’ora, rischiando oltretutto di attirare una folla immensa (che secondo Luca i sacerdoti temevano). Luca non dice nulla circa quello che è avvenuto a casa di Caifa. Probabilmente Gesù viene consegnato alle guardie perché lo custodiscano in un luogo sicuro:


     


    Luca 22:63 Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: «Indovina: chi ti ha colpito?».


     


    La condotta delle guardie è evidentemente irregolare, dal momento che Gesù non è ancora stato condannato.


     


    Luca colloca il secondo interrogatorio, come Mt e Mc, al mattino successivo. La dichiarazione di Gesù di essere il Messia pronunciata davanti all’assemblea sarebbe avvenuta secondo Luca in questa seconda seduta, più regolare di quella della notte precedente:


     


    Luca 22:66-71 Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, diccelo». Gesù rispose: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza di Dio». Allora tutti esclamarono: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli disse loro: «Lo dite voi stessi: io lo sono». Risposero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca».


     


    Secondo le regole processuali, questa sarebbe una prima udienza formalmente valida al termine della quale, dopo una votazione, Gesù sarebbe stato condannato. Ma per la condanna definitiva sarebbe necessaria una seconda udienza, dopo un giorno solare intero da questa, e una successiva e conclusiva votazione.


     


  • OFFLINE
    Credente
    00 12/07/2019 19:50

    5.1 Gesù è condotto da Pilato


     


     


    I membri del Sinedrio decidono però di portare Gesù davanti a Pilato anziché seguire le procedure formali. Abbiamo avanzato nei capitoli precedenti alcune possibili spiegazioni (fretta per l’approssimarsi della Pasqua dei giudei, paura della folla, timore che una votazione “regolare” potesse far propendere i membri “incerti” del sinedrio verso l’innocenza, impossibilità di eseguire la condanna a morte). Gesù viene presentato quindi a Pilato accentuando gli aspetti politici. Tre sono gli elementi presentati per ottenere una condanna: Gesù avrebbe impedito di pagare i tributi a Roma, sobillato il popolo e affermato di essere Cristo Re. Tutti elementi che agli occhi di Pilato presentano Gesù come uno dei tanti ribelli ostili ai romani. Ma il governatore non è convinto delle affermazioni dei giudei. E allora compie una azione che non ci è raccontata dagli altri evangelisti. Poiché Erode Antipa, re della Galilea e della Perea, si trova in città a Gerusalemme Pilato pensa di fare esaminare preliminarmente Gesù dal re, che sicuramente conosce molto meglio di lui le questioni ebraiche. Secondo Luca sono presenti in quei giorni a Gerusalemme il procuratore Pilato (che solitamente risiedeva a Cesarea Marittima) ed il re Erode Antipa, uno dei figli di Erode il Grande. Antipa si trovava occasionalmente a Gerusalemme (forse per la Pasqua?) in quanto re della Galilea e della Perea.


     


    Luca 23:4-12 Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo». Ma essi insistevano: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro.


     


    Va qui osservato che il fatto che Erode Antipa rilasci Gesù senza accusarlo di nulla (come si vedrà anche in seguito) è molto strano. Infatti è lo stesso Luca ad informarci dell’ostilità di Erode Antipa nei confronti di Gesù:


     


    Luca 13:31 In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere».


     


    Erode Antipa era in genere molto sospettoso con i profeti o presunti tali che sobillavano il popolo ed attiravano a se grandi folle. I Vangeli raccontano che fu proprio Erode Antipa a fare incarcerare e giustiziare Giovanni Battista. Anche lo storico giudeo Giuseppe Flavio racconta dell’uccisione di Giovanni Battista imputandola a Erode Antipa, timoroso del potere carismatico esercitato sulle folle da Giovanni. Pilato, vedendosi rimandato senza colpa Gesù, è molto riluttante nel condannare Gesù:


     


    Luca 23:13-16 Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: «Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo; ecco, l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode, infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò».


     


    Nonostante il tentativo di Pilato, l’ira dei sacerdoti non si placa. Ormai sono decisi ad andare fino in fondo. Luca non racconta direttamente dell’usanza di liberare un detenuto per la Pasqua dei giudei. Tuttavia anche secondo Luca viene rilasciato il misterioso Barabba mentre alla fine Gesù viene condannato. Barabba è secondo Luca un prigioniero arrestato per “sommossa ed omicidio”. Questi fatti sarebbero stati commessi a Gerusalemme.


     


    Luca 23:18-25 Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «A morte costui! Dacci libero Barabba!». Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.


     


    Dal racconto di Luca sembra che la folla presente presso Pilato non sia numerosissima come in Mt. Questo è coerente con il fatto che sin dall’inizio della vicenda Luca ci informa che i sacerdoti temevano la folla perché favorevole a Gesù. Infatti non si capisce perché solo qualche giorno prima la folla accoglie festante Gesù e qualche giorno dopo all’unanimità è pronta a richiederne in massa la morte presso Pilato. Dove sono tutte quelle persone che accoglievano Gesù all’ingresso in Gerusalemme? Sono state avanzate varie ipotesi e teorie per spiegare questa contraddizione. Per alcuni studiosi Gesù era il Messia degli “esseni”, la setta ebraica di cui si ritiene di avere trovato l’antico insediamento a Qumran in Galilea presso il Mar Morto. Gli esseni non erano confinati solo a Qumran e dintorni, molti ebrei esseni erano presenti anche a Gerusalemme e in altre città della Palestina. Secondo queste teorie, Gesù avrebbe proprio celebrato la Pasqua secondo il calendario e le usanze degli esseni, nel corso dell’ultima cena. La Pasqua essenza cadeva qualche giorno prima della Pasqua dei Giudei, perché era diverso il modo di computare il tempo presso gli esseni. I sommi sacerdoti, che già da tempo avevano stabilito di eliminare Gesù, avrebbero quindi individuato il momento propizio per compiere l’azione nell’intervallo di tempo che va dalla Pasqua essena alla Pasqua dei giudei. Nella notte della Pasqua essena e nel giorno degli Azzimi “esseno” infatti era facile catturare Gesù senza l’intervento della componente ebraica essena. Ma per fare ciò occorreva fare molto in fretta, sia per evitare il più possibile l’intervento della folla favorevole a Gesù, sia perché la Pasqua giudea era alle porte e non si poteva operare in quel periodo. Di qui l’idea di catturare Gesù e consegnarlo ai romani per la parte sporca del lavoro. Affinché il procuratore romano lo condannasse a morte, era però necessario presentare Gesù come rivoltoso e sobillatore del popolo, come un sedicente e usurpatore (del potere di Roma) “re dei Giudei”. E così fecero:


     


    Luca 23:38 C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.


     


     



    1.  Condanna a morte di Gesù secondo Giovanni


     


     


    Il racconto di Giovanni è molto interessante in quanto è molto chiaro e preciso nel testimoniare che la Pasqua giudaica avviene sicuramente dopo l’arresto e la condanna di Gesù, tanto che esso diventa conciliabile con i racconti di Mt, Lc e Gv solo se si ammette che “il primo giorno degli Azzimi” di cui parlano i tre sinottici non è quello della Pasqua dei Giudei e che l’ultima cena non avviene il 14 di Nisan secondo il calendario dei Giudei. Giovanni non parla dell’ultima cena come se fosse un banchetto pasquale, sembra essere una cena qualunque in una sera qualunque prossima alla Pasqua dei Giudei. Sono i sinottici a dire che l’ultima cena è una cena Pasquale. Anche se per tutto quello che segue quella cena è davvero arduo pensare che la cena pasquale dei sinottici possa essere avvenuta la sera della Pasqua ebraica. Durante la settimana di Pasqua era infatti impossibile condannare a morte qualcuno, i sacerdoti non si impegnavano in processi di qualunque tipo e inoltre dal sommo sacerdote in giù erano impegnati nelle solenni celebrazioni della Pasqua. Come vedremo secondo Giovanni la Pasqua dei Giudei cadeva di sabato, nell’anno della crocifissione di Gesù. Una anomalia nel Vangelo di Giovanni è la collocazione dell’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio di Gerusalemme. I tre sinottici infatti collocano questo importante episodio in occasione dell’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme, in occasione della Pasqua ebraica. Giovanni invece colloca questo episodio sempre durante una Pasqua, ma in apertura del suo Vangelo.


     


    Giovanni 2:13-21 Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora. Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.


     


    Il gesto di Gesù sembra molto forte, in quanto l’evangelista afferma che tutti vennero cacciati fuori dal tempio. In realtà è molto difficile che Gesù abbia potuto disturbare sino a questo punto le ordinarie attività che si svolgevano nel tempio, senza provocare l’intervento immediato del corpo di guardia e del capitano del tempio. A meno che Gesù non fosse il capo di una banda armata che aveva occupato con la forza il tempio. La questione della “distruzione del tempio” come abbiamo visto è l’elemento che mette d’accordo i due testimoni nei Vangeli di Mt e di Mc. Questi Vangeli narrano che durante il primo interrogatorio di Gesù (immediatamente dopo l’arresto) si trovarono con molta fatica i due testimoni concordi tra loro (necessari per una parvenza di regolarità a un processo macchiato di gravissime scorrettezze) sulla base di questa affermazione fatta da Gesù. E’ possibile ipotizzare che questo episodio sia avvenuto durante l’ultima Pasqua vissuta da Gesù, quella dell’arresto e della condanna, quando era ancora vivo il ricordo della frase «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» da poter essere citato dai testimoni.


     


     


    6.1 I precedenti nel Vangelo di Giovanni


     


     


    Giovanni riporta numerosi episodi in cui si cerca di eliminare Gesù. L’episodio seguente secondo Giovanni avvenne a Gerusalemme, e potrebbe essere avvenuto durante una Pasqua:


     


    Gv 5:1-18 Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. V'è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l'acqua; il primo ad entrarvi dopo l'agitazione dell'acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto.] Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l'acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina». E sull'istante quell'uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare. Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all'uomo guarito: «È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio».  Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina». Gli chiesero allora: «Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina?». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio». Quell'uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato.  Ma Gesù rispose loro: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero». Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.


     


    Questo è il primo scontro tra i farisei e Gesù di cui ci da testimonianza Giovanni. Gesù viene accusato secondo Giovanni sia di violare le sacre leggi relative al sabato ebraico, sia di affermare di avere un rapporto molto speciale con Dio. Entrambe queste imputazioni sono di natura esclusivamente religiosa. Abbiamo visto che violare le leggi del sabato era considerato gravissimo, nel libro dell’Esodo (31:12-17) è prevista addirittura la condanna a morte e nel libro dei Numeri (15:32-36) troviamo un esempio di applicazione di questo. In questo primo episodio, non ci sono accuse di Gesù nei confronti dei farisei, non leggiamo le invettive che compaiono invece ad esempio in Mt e che potevano effettivamente destare le ire dei farisei e dei sadducei. Secondo Giovanni, Gesù si manifesta in pubblico molto più apertamente che non quanto raccontano i sinottici. Frasi del tipo:


     


    Giovanni 5:36-40 Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita.


     


    Giovanni 5:43 Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste.


     


    Giovanni 5:46-47 Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».


     


    che vengono pronunciate direttamente ai farisei (non ai discepoli) sono una manifestazione pubblica molto più aperta che non quanto appare in Mt ed in Mc. Parallelamente Giovanni fa qualche accenno alla visione “politica” del Messia. Dopo l’episodio della “moltiplicazione dei pani” la folla vuole addirittura nominare re Gesù:


     


    Giovanni 6:15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.


     


    Un episodio importante narrato da Giovanni è relativo alla partecipazione di Gesù alla festa delle capanne a Gerusalemme. Gesù si reca alla festa e insegna nel Tempio, dove sono presenti i sacerdoti, i farisei e i sadducei. Nel suo discorso, Gesù si dimostra consapevole che i giudei vogliono eliminarlo, infatti dice:


     


    Giovanni 7:19 Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?».


     


    Tuttavia non è ben chiaro se l’affermazione di Gesù è di tipo profetico, ovvero Gesù afferma che i giudei vogliono eliminarlo prima che questi abbiano ancora concretamente deliberato di farlo, oppure se veramente i giudei avevano già stabilito di ucciderlo. Il discorso nel tempio prosegue con la difesa di Gesù dalle gravi accuse di violare il sabato (implicavano da sole la messa a morte secondo la legge mosaica):


     


    Giovanni 7:21-24 Rispose Gesù: «Un'opera sola ho compiuto, e tutti ne siete stupiti. Mosè vi ha dato la circoncisione - non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi - e voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito interamente un uomo di sabato? Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio!».


     


    Sempre durante questa festa Gesù si manifesta sempre più apertamente alla folla. Giovanni ci narra che le guardie del tempio tentarono di arrestarlo per ben due volte, ma senza successo. Viene accennato anche alla figura di Nicodemo, un membro del Sinedrio che è dalla parte di Gesù (infatti aiuterà Giuseppe di Arimatea a seppellire il corpo di Gesù).


     


    Giovanni 7:25-53 Intanto alcuni di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo?  Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: «Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?».  I farisei intanto udirono che la gente sussurrava queste cose di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo. Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato. All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Questi è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Questi è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?». E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!». Ma i farisei replicarono loro: «Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». Disse allora Nicodèmo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». E tornarono ciascuno a casa sua.


     


    Giovanni 8:19-20 Gli dissero allora: «Dov'è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio». Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora.


     


    Durante la festa della Dedicazione, avviene un episodio chiave. Secondo Giovanni Gesù confessa in maniera equivocabile la sua messianicità: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. E’ chiaro che l’affermazione è gravissima e i giudei tentano di metterlo a morte direttamente.


     


    Giovanni 10:22-33 Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola». I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio».


     


    I giudei probabilmente considerano Gesù un visionario, un pazzo, un falso profeta che parla falsamente nel nome di Dio. Nel Deuteronomio è bene espresso il trattamento che deve essere riservato ai falsi profeti:


     


    Deuteronomio 13:2-6 Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima. Seguirete il Signore vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, obbedirete alla sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto l'apostasia dal Signore, dal vostro Dio, che vi ha fatti uscire dal paese di Egitto e vi ha riscattati dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore tuo Dio ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male da te.


     


    In questo primo brano del Deuteronomio è scritto come deve essere considerato un falso profeta chi, pur compiendo segni e prodigi, cerca di distogliere il popolo dal culto ebraico e propone di adorare dei stranieri. Il falso profeta deve essere condannato a morte. Ma il falso profeta non è solo colui che, pur compiendo prodigi, propone al popolo di seguire un culto diverso da quello dell’ebraismo monoteistico; il falso profeta è anche colui che afferma di parlare in nome di Dio quando questo non è vero, oppure colui che profetizza opere che poi non si avverano:


     


    Deuteronomio 18:20-22 Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire. Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore; l'ha detta il profeta per presunzione; di lui non devi aver paura.


     


    Affermare di essere Dio (concetto sintetizzato nella frase “Io e il Padre siamo una cosa sola”) oppure profetizzare fatti che difficilmente la mente umana può credere e concepire (sintetizzati nella affermazione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», infatti i giudei increduli rispondono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?») valgono la condanna a morte, ancor più della violazione del sacro giorno del sabato. Anche l’accusa di bestemmia è gravissima e vale la condanna a morte. Sappiamo che il Talmud Babilonese prevedeva la condanna a morte  per coloro che erano condannati come falsi profeti (cfr. Sanhedrin, Cap. 10, folio 89a).


     


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    00 12/07/2019 19:53

    6.2 Come i Giudei decidono di eliminare Gesù


     


     


    Giovanni è l’autore che più di altri racconta di come i Giudei tentassero in ogni modo di eliminare Gesù, come visto nel paragrafo precedente. Il Capitolo 11 del Vangelo di Gv racconta con grande cura il miracolo della risurrezione di Lazzaro e l’autore prende le mosse da questo evento per spiegare perché il Sinedrio avesse deciso di eliminare Gesù:


     


    Giovanni 11:45-54 Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui. Ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: «Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione». Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli.


     


    Secondo Giovanni accanto alle grosse violazioni della dottrina mosaica formale, alle violazioni del sabato i capi dei giudei sono anche preoccupati del fatto che molta gente si sta raccogliendo attorno a Gesù e agli apostoli. Giovanni non parla, come i sinottici, di accuse di Gesù e discorsi pubblici contro i farisei e i sadducei. Piuttosto pone l’enfasi sulla paura che il movimento che si stava creando attorno a Gesù potesse diventare “pericoloso”. E’ il sommo sacerdote capo del Sinedrio che delibera di uccidere Gesù per evitare che il suo movimento cresca troppo e provochi l’intervento dei romani o una rivolta generalizzata contro l’autorità. Nella Palestina di quel periodo ci furono vari predicatori e messia sia prima di Gesù, sia dopo la morte di Gesù. I movimenti politici di ribellione culmineranno, come noto, con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio ad opera dei romani nel 70 d.C., dopo la guerra giudaica. In un certo senso quindi Caifa aveva ragione a temere i movimenti messianici. Giuseppe Flavio ci racconta che Giovanni Battista, personaggio aggregatore di folle molto simile a Gesù, venne eliminato da Erode Antipa perché questi temeva il potere carismatico di Giovanni e le folle che via via andavano sempre più raccogliendosi attorno a lui. Anche Giovanni ci da notizia che l’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme avviene durante una Pasqua, detta dei “giudei” per distinguerla probabilmente dalla Pasqua festeggiata da Gesù. Dopo la riunione del Sinedrio e il pronunciamento di Caifa, dopo i vari tentativi di arrestare Gesù o lapidarlo come bestemmiatore o falso profeta a Gerusalemme ormai si è stabilito di prenderlo a tutti i costi:


     


    Giovanni 11:55-57 Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e stando nel tempio dicevano tra di loro: «Che ve ne pare? Non verrà egli alla festa?». Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo.


     


    Secondo Giovanni proprio l’ingresso trionfale a Gerusalemme è motivo di forte preoccupazione per Gesù. Infatti il numero dei seguaci cresce giorno dopo giorno, così che è sempre meno facile arrestare Gesù e condannarlo a morte pubblicamente davanti a tutti. Oltretutto il Sinedrio, organo supremo che amministrava i processi capitali, aveva all’interno alcuni membri favorevoli a Gesù così che un processo regolare poteva avere un esito niente affatto scontato.


     


    Giovanni 12:17 Intanto la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo risuscitò dai morti, gli rendeva testimonianza. Anche per questo la folla gli andò incontro, perché aveva udito che aveva compiuto quel segno. I farisei allora dissero tra di loro: «Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!».


     


    Inizia quindi il racconto dell’ultima cena, la cena di Pasqua del Signore. Vedremo più avanti che Giovanni fa coincidere la Pasqua dei Giudei con il sabato. L’ultima cena avviene qualche giorno prima. Giovanni tuttavia – e questo è un punto importante – non afferma mai che Gesù nell’ultima cena abbia festeggiato una Pasqua (diversa da quella dei giudei). Di Pasqua ed Azzimi festeggiati da Gesù parlano solo i sinottici (Mt, Mc e Lc). Poiché risulta arduo credere che Gesù sia stato processato ed ucciso durante la settimana della Pasqua dei Giudei, e poiché i sinottici ci dicono che egli ha festeggiato una Pasqua, è evidente che la Pasqua di Gesù è diversa da quella dei Giudei, e cade qualche giorno prima. Non è inverosimile che coincida con la Pasqua degli Esseni, che cadeva qualche giorno prima della Pasqua dei Giudei. Questa soluzione mette d’accordo Giovanni con i sinottici e con la logica che vuole che nessun processo o condanna a morte fosse possibile durante la settimana della Pasqua giudaica.


     


    Giovanni 13:1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.


     


    Il racconto dell’arresto, del tutto irregolare, è simile a quello dei sinottici:


     


    Giovanni 18:1 Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli. Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi. Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano». Perché s'adempisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?».


     


    C’è un particolare aggiuntivo in Giovanni che non compare nei sinottici. Infatti l’autore dice espressamente che il discepolo che colpì il servo del sommo sacerdote era Pietro, mentre nei sinottici l’autore del gesto è (volutamente?) celato. Una spiegazione potrebbe essere che i sinottici volevano proteggere l’identità dell’autore del gesto (forse perché era ancora perseguibile quando sono stati scritti?) mentre quando è stato scritto il testo di Giovanni (abbondantemente dopo i sinottici, e con Pietro sicuramente non più in vita) ormai era superfluo proteggere l’identità del discepolo. Inoltre Giovanni sembra essere molto preciso relativamente all’indicazione numerica delle forze che arrestarono Gesù. Il brano di sopra è la traduzione C.E.I. del Nuovo Testamento e indica che Gesù venne arrestato da un “distaccamento di soldati” e delle “guardie fornite dai sommi sacerdoti e farisei”. Se leggiamo il testo latino della Vulgata abbiamo:


     


    Giovanni 18:3 Iudas ergo cum accepisset cohortem et a pontificibus et Pharisaeis ministros venit illuc cum lanternis et facibus et armis.


     


    Il testo latino riporta la parola cohortem che deriva dal latino cohors, parola che indica una coorte romana costituita da ben seicento soldati armati. In latino cohors può anche significare “stuolo”, “corteo”, “turba”, “moltitudine”, “folla numerosa” di persone o anche di cose. Per esempio Orazio Flacco parla di cohors febrium per dire una “moltitudine di mali”. Tuttavia il testo greco riporta la parola speiran che è la forma accusativa di speira, termine che viene fatto derivare proprio dal latino cohors che significa coorte. Questo fa pensare che l’autore si riferisca proprio a una coorte di seicento soldati armati. In effetti nel versetto:


     


    Giovanni 18:12 cohors ergo et tribunus et ministri Iudaeorum conprenhenderunt Iesum et ligaverunt eum.


     


    si dice che la coorte, il tribuno e i servi dei giudei misero le mani addosso a Gesù e lo legarono. Dunque l’unità militare era comandata da un tribuno, che era proprio il comandante di una coorte. Da notare che questi stessi termini vengono utilizzati in At 21:17-40 per descrivere l’arresto di Paolo ad opera di un tribuno che comandava una coorte, anche se la coorte era stata mobilitata in questo caso per sedare un tumulto in città e occasionalmente si occupa dell’arresto di Paolo. Rimane da spiegare perché una forza così ingente sia stata mandata ad arrestare Gesù. I sinottici non fanno riferimento alla presenza di una intera coorte romana comandata addirittura dal suo tribuno sul Monte degli Ulivi, e si esprimono in termini molto più vaghi. Per esempio in Mc e Lc (versione della Vulgata latina) al posto del termine cohortem troviamo il termine turba che significa moltitudine o folla disordinata; Mt parla invece di turba multa ovvero di gran moltitudine o gran folla. Nessuno dei tre sinottici accenna poi alla presenza di un tribunus nella folla che arresta Gesù.


     


    Giovanni si discosta dal racconto dei sinottici. Infatti secondo l’evangelista Gesù viene prima di tutto portato davanti ad Anna. Da quello che sappiamo, Anna era una sorta di eminenza grigia del Sinedrio. Era stato sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C.; dopo di lui e prima di Caifa, che è suo suocero, erano stati sommi sacerdoti tutti i suoi figli. Anna non ha più un peso politico, ma ha un peso morale come consigliere autorevole del Sinedrio. Da notare come la traduzione C.E.I. del Nuovo testamento sostituisca alla parola “coorte” intesa come unità militare di seicento uomini la parola “distaccamento” e alla parola “tribuno” intesa come comandante di una coorte, la parola generica di “comandante”.


     


    Giovanni 18:12-14 Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno. Caifa poi era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo».


     


    Anche secondo Giovanni questo primo interrogatorio pare svolgersi in piena notte in quanto fa freddo e viene acceso il fuoco. L’interrogatorio non può quindi essere regolare perché avviene di notte e alla presenza di Caifa.


     


    Giovanni 18:18 Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.


     


    Anna interroga direttamente Gesù. Giovanni a differenza dei sinottici non racconta i problemi che ci furono con i testimoni, anche se questi sono messi in relazione all’interrogatorio di Caifa.


     


    Giovanni 18:19 Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote.


     


    Giovanni non chiarisce se effettivamente quella notte ci fu un solo interrogatorio (irregolare, si vedano anche le percosse da parte della guardia) da parte di Anna, oppure se ci fu anche un secondo interrogatorio da parte di Caifa o se suocero e genero abbiano ascoltato Gesù assieme. All’alba del giorno successivo Gesù viene preso e portato nel pretorio, che era la residenza del procuratore romano (Ponzio Pilato) a Gerusalemme. A quanto pare questo avviene proprio il 14 di Nisan ebraico, cioè la vigilia di Pasqua. Nel pomeriggio si dovevano immolare gli agnelli nel tempio e la sera i giudei dovevano festeggiare la Pasqua ebraica (la Pasqua dei giudei di Giovanni):


     


    Giovanni 18:28 Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.


     


     


    6.3 Gesù davanti a Pilato


     


     


    Anche il Vangelo di Giovanni afferma dunque che Gesù viene portato da Pilato per essere giudicato. Il procuratore romano, che solitamente risiedeva a Cesare Marittima, in occasione della festa di Pasqua si trovava a Gerusalemme per controllare l’ordine pubblico. Con il termine pretorio si intende infatti la residenza del procuratore romano a Gerusalemme. Per ottenere una condanna da parte di Pilato che deresponsabilizzi il Sinedrio agli occhi del popolo occorre naturalmente presentare Gesù come un malfattore o un rivoltoso. Mai e poi mai i romani avrebbero messo a morte Gesù per motivazioni legate alla legge ebraica che neppure conoscevano approfonditamente. Anche Giovanni parla della misteriosa usanza di liberare un detenuto per la festa di Pasqua che vale la salvezza a Barabba, questo misterioso personaggio ci cui abbiamo già parlato. Anche Giovanni definisce Barabba come un “brigante”: sembra strano che Pilato abbia potuto liberare un personaggio del genere. Giovanni afferma che Gesù viene in un primo momento portato nel pretorio cioè presso la residenza di Pilato a Gerusalemme. Pilato interroga Gesù ma non pare trovare elementi per condannarlo a morte e cerca di convincere anche la folla che glielo ha consegnato.


     


    Giovanni 18:29-40 Uscì dunque Pilato verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest'uomo?». Gli risposero: «Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si adempivano le parole che Gesù aveva detto indicando di quale morte doveva morire. Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?». Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos'è la verità?». E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa. Vi è tra voi l'usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.


     


    I Giudei però sono irremovibili nelle loro posizioni. Piuttosto preferiscono la liberazione del misterioso Barabba (secondo una usanza, quella di liberare un detenuto per la Pasqua, di cui non abbiamo tracce se non nei Vangeli). Pilato fa allora flagellare Gesù ipotizzando che questa severa punizione sia sufficiente a placare le ire dei Giudei. Ma si sbaglia: i Giudei pretendono una condanna a morte.


     


    Gv 19:1-12 Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l'uomo!». Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio». All'udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: «Di dove sei?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Rispose Gesù: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande». Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare».


     


    L’interrogatorio di Gesù non avviene dentro il pretorio nel quale peraltro i Giudei non possono entrare perché lo considerano un luogo pagano e quindi impuro (siamo proprio alla vigilia della Pasqua). Esso avviene in un luogo detto in greco Lithostrotos che indica un luogo lastricato con grosse pietre. Il termine Gabbatà in realtà non è ebraico bensì aramaico e indica un luogo posto in alto, una altura. In questo luogo, fuori dal pretorio, si trova il tribunale dove Pilato interroga e ascolta Gesù.


     


    Gv 19:13-16 Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via, via, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i sommi sacerdoti: «Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.


     


    Il processo e la condanna da parte di Pilato avvengono il 14 di Nisan, che secondo la cronologia di Giovanni è un venerdì. Quella sera al tramonto si festeggia la Pasqua ebraica (al tramonto scatta il 15 di Nisan, il primo giorno degli Azzimi che da inizio alla settimana pasquale, perché gli ebrei usavano far iniziare le giornate dal tramonto). Il processo termina presumibilmente la mattina e Gesù viene condotto per essere crocifisso. La morte sulla croce avviene quindi nel pomeriggio del 14 di Nisan, secondo il calendario dei giudei. Mentre Gesù è in agonia e sta morendo alle tre del pomeriggio parallelamente al tempio di Gerusalemme iniziano i sacrifici degli agnelli che vengono sgozzati per essere mangiati quella sera in occasione della Pasqua ebraica. Giovanni accosta quindi la morte in croce di Gesù alla morte degli agnelli nel tempio. Nel versetto 19:31 difatti la Pasqua ebraica secondo Giovanni veniva festeggiata quell’anno un Sabato (la Preparazione sarebbe il 14 di Nisan, un venerdì, il 15 di Nisan, sabato solenne, inizia la sera del 14 di Nisan).


     


    Giovanni 19:31 Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via

    tratto dal sito:

    https://digilander.libero.it/Hard_Rain/processogesu.htm 

     


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    00 19/07/2019 14:25

    Gli eventi, in sinossi, secondo quanto riportato dai Vangeli canonici

    I quattro vangeli canonici sono le uniche fonti storiche[9] che descrivano da punti di vista diversi gli avvenimenti del processo di Gesù. Si nota tra i vangeli una sostanziale concordanza negli eventi narrati ma anche differenze nei particolari e relativamente alla cronologia e gli studiosi individuano anche alcune discordanze non facilmente conciliabili. Dalle narrazioni è possibile evidenziare un doppio procedimento inquisitorio contro Gesù intentato prima dalle autorità ebraiche e poi dinanzi a quella romana, rappresentata da Ponzio Pilato, unico detentore dello "ius gladii"[10].

    Sinossi degli eventi del processo[11][12][13]
    MatteoMarcoLucaGiovanni
    Ultima cena e Arresto
    - - - Condotto prima all'(ex) sommo sacerdote Annasuocero di Caifa (18,12-13), interrogatorio (18,19-23)
    Condotto al palazzo di Caifa, Prima riunione del Sinedrio (di notte), interrogatorio, Gesù si dichiara Figlio di Dio, condanna, maltrattamenti (26,57-68) Condotto al sommo sacerdote Caifa, Prima riunione del Sinedrio (di notte), interrogatorio, Gesù si dichiara Figlio di Dio, condanna, maltrattamenti (14,53-65) Condotto alla casa del sommo sacerdote Caifa (22,54-55), maltrattamenti (22,63-65) Anna lo invia da Caifa(18,24)
    Seconda riunione del Sinedrio (al mattino) (27,1-2) Seconda riunione del Sinedrio (al mattino) (15,1) Prima ed unica riunione del Sinedrio (al mattino), interrogatorio, Gesù si dichiara Figlio di Dio, condanna (22,54-71; 23,1) -
    Condotto da Pilato (27,1-2) Condotto da Pilato (15,1) Condotto da Pilato (23,1) Al mattino condotto da Pilatonel Pretorio (18,28)
    Interrogatorio di Pilato; "Sei tu il Re dei Giudei ?" (27,11-14) Interrogatorio di Pilato; "Sei tu il Re dei Giudei ?" (15,2-5) Interrogatorio di Pilato; "Sei tu il Re dei Giudei ?" ; Pilato lo ritiene innocente (23,2-5) Interrogatorio di Pilato in privato; "Sei tu il Re dei Giudei ?" ; Pilato lo ritiene innocente (18,28-38)
    - - Pilato lo invia a Erode, maltrattamenti da parte sua e dei suoi soldati, rinviato a Pilato (23,6-12) -
    Intervento della moglie di Pilato, liberazione di Barabba, la folla invoca la crocifissione, Pilato lo trova innocente e si lava le mani, flagellazione (27,15-26) Liberazione di Barabba, la folla invoca la crocifissione, Pilato lo trova innocente, flagellazione (15,6-15) Pilato lo trova innocente, annuncia di voler castigare severamente (flagellazione) Gesù e poi rilasciarlo, la folla invoca la crocifissione, Pilato ribadisce la non colpevolezza, liberazione di Barabba (23,13-25) Liberazione di Barabba, flagellazione (18,39-19,1)
    Maltrattamenti e coronazione di spine da parte della coorte(romana) nel pretorio (27,27-31) Maltrattamenti e coronazione di spine da parte della coorte(romana) nel cortile-pretorio(15,16-20) - Maltrattamenti e coronazione di spine da parte dei soldati (romani) (19,2-3)
    - - - Ecce Homo, nuovo colloquio privato Pilato-Gesù, i capi sacerdoti e le guardie invocano la crocifissione, ora sesta (mezzogiorno) (19,4-15)
    Esecuzione della sentenza per crocifissione

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    00 19/07/2019 23:14


    Marco 14,61-63-
    61 Da capo il sommo sacerdote lo domandò, e gli disse: Sei tu il Cristo, il Figliuol del Benedetto? 
    62. E Gesù disse: Io lo sono;

    Sìa Matteo che Marco, per amore di brevità, dànno, riunite in una sola, le due interrogazioni del sommo sacerdote, e similmente fanno per la risposta di Cristo; onde ne avvenne l'erronea conclusione che i Giudei del tempo di Cristo, o almeno il Sinedrio, riguardassero come eguale bestemmia appropriarsi Gesù il titolo di "Messia" e quello di "Figliuolo del Benedetto", oppure che l'uno e l'altro titolo venissero considerati coesistenti nelle attese messianiche dei giudei.
    Ma questo è contraddetto dai passi dei Vangeli in cui vien ricordata l'opinione del popolo, quando Cristo prendeva per sé l'uno o l'altro di quegli appellativi.
    E, come per togliere ogni dubbio a questo riguardo, troviamo il medesimo Santo Spirito che ispirava i due primi Evangelisti, guidare Luca, nel suo racconto, benché più breve, a separare distintamente le interrogazioni fatte dal sommo sacerdote, ed esporre più chiaramente i termini in cui il Signore rispose a ciascuna.
    Per quanto consta a noi, 99 commentatori su 100 pare che non pongano mente a tale distinzione.
    Prendendo il racconto di Luca 22,67. come base del nostro commento su questa parte del giudizio, e combinando con esso quello degli altri Evangelisti, troviamo che la prima domanda fatta da Caifa fu:
    "Sei tu il Cristo? diccelo".
    Matteo riferisce che la domanda fu posta sotto la forma d'un solenne giuramento che costringeva la persona a cui era indirizzata a dire la verità, come alla presenza di Dio: "io ti scongiuro per l'Iddio vivente che tu ci dica se tu sei il Cristo" ecc.; ma avuto riguardo a quanto fu detto precedentemente dello avere Matteo riunite in una sola le due interrogazioni del sommo sacerdote, questo giuramento, deferito a Gesù, è da riferirsi non già alla prima, bensì alla seconda domanda, a cui Gesù rispose categoricamente.

    -------

    Quando il sommo sacerdote ebbe fatta la domanda se egli era il Cristo, la sua risposta prese dapprima la forma di una protesta intorno alla inutilità della domanda; imperocché essi erano determinati di non lasciarsi convincere, quantunque la testimonianza di Giovanni Battista, i suoi propri miracoli, le sue dottrine, e il consenso generale del popolo non lasciassero luogo a dubitare ch'egli fosse il Cristo.
    "Ed egli disse loro: Benché io vel dica, voi non lo crederete",
    vale a dire: "Poiché avete resistito al cumulo di prove che vi fu posto davanti negli ultimi tre anni, il mio semplice asserto del fatto, non varrà a convincervi". "E se altresì io vi facessi qualche domanda, voi non mi risponderete, e non mi lascerete andare", cioè: "Se entro con voi in argomento per provare che sono il Messia, e vi faccio delle interrogazioni intorno al significato dei passi della legge e dei profeti che hanno in me il loro adempimento, né mi risponderete né mi lascerete in libertà. Io so che avete fermo nell'animo di uccidermi". Ma dopo aver fatta questa protesta, risponde alla domanda col dichiarare che verrebbe giorno in cui i suoi più fieri nemici e i giudici che eran assetati del suo sangue si sarebbero convinti ch'egli era il Messia.

    62 e voi vedrete il Figliuol dell'uomo

    Matteo introduce questo detto con la parola ma, nondimeno, la quale si adatta assai appropriatamente alla protesta che Gesù aveva pocanzi espressa: "Sebbene non vogliate credere a me, né rispondermi in modo da lasciar che trionfi la giustizia; sebbene mi disprezziate e mi trattiate come un delinquente, pur nondimeno vi dico", ecc. "Il figliuol dell'uomo" è il titolo con cui Gesù parlava quasi invariabilmente di sé durante il suo soggiorno sulla terra.

    Paragonando, in Daniele 8, i quattro primi regni, rappresentati da belve feroci, sorte dal mare, col quinto di cui "l'Antico dei giorni" investiva "uno simile ad un figliuol d'uomo", che scendeva dal trono di Dio sulle nuvole del cielo, è facile accorgersi che quel titolo indica assai più che la semplice umanità. Gesù si applica dunque questo appellativo davanti al Sinedrio per indicare esser egli stesso la personificazione di quel figliuol d'uomo a cui in visione eran commessi l'impero e i destini di quel regno che veniva da Dio, in altre parole esser proprio lui realmente il Messia. 

    sedere alla destra della Potenza,

    l'Onnipotente. Iddio è qui descritto a bello studio con quell'attributo che incute maggiore sgomento nei cuori degli uomini colpevoli.

    e venire con le nuvole del cielo.

    Quando Gesù s'intitola il Figliuol dell'uomo, e dichiara che i suoi giudici lo vedranno sedere alla destra di Dio e venire con le nuvole del cielo, è ovvio che si riferisce alla profezia di Daniele e designa sé come il Messia a cui fu dato il regno eterno. Queste sue parole sembrano inoltre riferirsi in parte alla sua esaltazione, in parte al progresso del suo regno, in parte al suo venire, provvidenzialmente, a punire la nazione giudaica; ma ultimamente e principalmente al suo venire a giudicare il mondo nell'ultimo giorno. I suoi giudici potevano ricusar di credere alla sua missione divina, respingerlo, metterlo a morte; ma egli persisteva a reclamare i titoli suoi, e sebbene stesse ora deriso e insultato davanti al loro tribunale, verrebbe il giorno in cui essi starebbero davanti al suo.

    63. E il sommo sacerdote, stracciatesi le vesti, disse:

    Era costume tra i Giudei in tempo di cordoglio, sì pei morti che per qualunque altra grande calamità, di stracciarsi le vesti, del che troviamo frequente menzione nel Vecchio Testamento. Ma nella legge levitica, al sommo sacerdote era solennissimamente proibito di osservare questa pratica Levitico 10,6- 21,10.
    Parrebbe tuttavia dal Targum di Gionata e dal Mishna che, coll'andar del tempo, avessero trovato modo di "annullare" anche questa legge, permettendo, al sommo sacerdote dì stracciarsi le vesti soltanto dalla cintola in giù, mentre gli altri sacerdoti le stracciavano dalla cintola in  È possibile tuttavia che questo stracciarsi le vesti fosse permesso al sommo sacerdote, solo quando fosse stato commesso in sua presenza il peccato di bestemmia o altro enormissimo, onde esprimere ufficialmente la sua detestazione non meno che il suo gran dolore.

    Che abbiam noi più bisogno di testimoni?

    Non fu immediatamente dopo che nostro Signore ebbe pronunziato le parole dei vers. 62, implicando ch'egli era il Messia che Caifa procedette a stracciarsi le vesti. Riferendoci nuovamente a Luca 22,70, è evidente che il Sinedrio aveva inteso, per la risposta di nostro Signore, ch'egli asseriva competergli qualche cosa di più alto  di ciò ch'essi intendevano per la dignità di Messia, e quindi la seconda domanda che gli fu rivolta, sotto l'obbligazione solenne d'un giuramento, ed alla quale sì associò, come ad una voce, tutta quanta l'assemblea.
    "E tutti dissero: Sei tu dunque il Figlio di Dio?"
    Fu a seguito della risposta di Gesù a questa seconda domanda che Caifa stracciò le sue vesti.

    In prova che i Giudei credevano il Messia essere un mero uomo e non un ente divino, Tritone, in risposta all'argomento di Giustino Martire diretto a provare che Gesù era non solo il Messia ma anche il vero Figlio di Dio, replica: "Che questo Cristo esistesse al pari di Dio prima del mondo, e che poi si sottomettesse a divenire e nascere uomo, e che egli non fosse semplicemente un uomo generato dall'uomo, mi sembra non solo incredibile ma assurdo. A me pare molto più credibile la dottrina di coloro che dicono che egli (Gesù) nascesse uomo e per elezione fosse unto e fatto Cristo, che non ciò che voi affermate. Perchè noi tutti ancora crediamo che il Cristo deve essere un uomo nato da umani genitori".
    Questo soggetto è trattato assai completamente da Treffry nella sua opera: "Ricerche intorno alla dottrina dell'eterna figliazione di nostro Signore Gesù Cristo", dove si trovano prove ancora più ampie. Nelle narrazioni degli Evangelisti vi è molto a conferma dell'opinione che al tempo di nostro Signore sia il popolo giudaico che i suoi capi si aspettavano che il loro Messia sarebbe stato semplicemente un uomo e non una persona divina. Quando Gesù richiese i Farisei intorno al Cristo, dicendo:
    "Di chi è egli figlio?" Mt 22,42-45, essi risposero senza esitare: "Di Davide"; ma quando procedette a domandar loro intorno alla sua più alta natura aggiungendo: "Come dunque Davide lo chiama  ispiratamente Signore?",  essi non sapevano capacitarsi come i caratteri apparentemente contraddittori di figlio e di Signore di Davide, dovessero riscontrarsi nel medesimo individuo. Inoltre, sebbene i capi giudei rifiutassero di riconoscere Gesù per Messia a ragione della sua povertà ed umile condizione, il popolo era generalmente disposto ad ammettere il suo diritto a tale dignità, e nessuna accusa di bestemmia fu mossa giammai sia contro di lui che contro qualsiasi altro a tale riguardo. Il popolo avrebbe, voluto impadronirsene e farlo suo re dopo il miracolo operato presso Betsaida;  Bartimeo, la donna sirofenice, il popolo radunato in Gerusalemme all'ultima, pasqua celebrata da Gesù, tutti insomma lo salutarono col nome di "Figlio di Davide", per il quale notoriamente si designava il Messia.
    Gli stessi suoi nemici riconobbero l'influenza che egli avea sopra il popolo, e temevano che il riconoscimento del preteso suo diritto avrebbe potuto provocare una lotta coi Romani, la quale avrebbe distrutta la nazione 
     ma essi non pretendevano di trattare quella pretesa come una bestemmia.
    Il più che essi potessero fare per comprimere la sempre crescente ammirazione del popolo per lui, era di scomunicare temporaneamente coloro che lo riconoscevano per Messia.
    Ma si noti la differenza rimarchevole nel trattamento che Gesù ebbe dal popolo stesso che credeva in lui come Messia o lo ammirava, come profeta, ogni qual volta però lo intese pretendere di essere "Il Figlio di Dio", uguale a Dio. Essi presero subito delle pietre per lapidarlo, supplizio dovuto al bestemmiatore, secondo la loro legge.
    Giovanni ricorda quattro differenti occasioni in cui questo, accadde.
    Citeremo solo il primo a mo' d'esempio. Avendo Gesù, all'accusa di violare il sabato, affermato la sua suprema autorità col dire: "Il mio padre opera infino ad ora ed io ancora opero", il suo uditorio intese perfettamente il significato delle sue parole e ne rimase offeso. "Perciò adunque i Giudei cercavano  ancor più d'ucciderlo perché non solo violava il sabato ma  diceva Iddio esser suo proprio padre, FACENDOSI UGUALE A Dio".
    Il termine "il Figlio di Dio", normalmente nella mente dei giudei significava solo una generica figliolanza divina in quanto essi non potevano concepire che qualcuno potesse rivendicare di esserlo in senso proprio senza usurpare la loro mal compresa unicità di Dio, come invece Gesù in vari momenti aveva fatto intendere di essere, e cioè mostrando di avere prerogative che si addicevano solo alla divinità.
    Nel salmo 2 troviamo un passaggio chiaramente messianico in cui il personaggio destinato a regnare con Dio viene anche detto esplicitamente Figlio di Dio.  

    Sal 2,7
           Io annuncerò il decreto:
    Il SIGNORE mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
    oggi io t'ho generato.
    8 Chiedimi, io ti darò in eredità le nazioni
    e in possesso le estremità della terra.

    E quindi profeticamente Davide aveva indicato la coesistenza di queste due caratteristiche nello stesso soggetto. Tuttavia nella interpretazione corrente degli ebrei, anche questa connotazione di "Figlio di Dio", stando alla loro ferma convinzione della impossibilità che oltre la Persona del Padre vi potesse essere un'altra Persona che ne fosse il vero Figlio, da lui GENERATO (cf sal 109,3  e 2,7), si attribuiva a questo passo come anche in diversi altri casi, un significato puramente generico come per altri brani riferiti ad altri personaggi.
    Ma sulla bocca e nei gesti eclatanti di Gesù la connotazione di Figlio di Dio, era recepita dai giudei per ciò che effettivamente il protagonista mostrava di essere, vale a dire il vero FIGLIO DI DIO, e non un generico essere creato sia pur importante. 
    Questo spiega la ragione della seconda interrogazione fatta a Gesù dal sommo sacerdote sotto il vincolo del giuramento, come riportato da Luca 22,70:  "Ed egli disse loro: Voi lo dite  perché io lo sono".
    Non poteva trattarsi come è evidente, di un titolo generico come per altri casi. Se così fosse stato Gesù avrebbe precisato, dando una precisa testimonianza di come esattamente avrebbe dovuto essere considerato.
    Ma la precisa testimonianza da parte di Gesù, fu appunto di confermare quello che gli veniva attribuito riguardo al suo dichiararsi Figlio di Dio, in senso proprio e non metaforico e che, così come veniva da essi considerato, risultava ai sinedristi come BLASFEMO.
    Non sarebbe stato considerato blasfemo invece se  al termine "figlio di Dio" di cui l'Imputato si stava fregiando, essi avessero dato solo una generica valenza come erano soliti fare nelle loro interpretazione delle Scritture del VT.

    Vi è un forte contrasto fra la maniera in cui Gesù rispose alla prima interrogazione e la risposta apertissima e senza ombra di reticenza che diede a quest'altra, contrasto che non si spiega semplicemente col dire che ora Gesù era vincolato dal giuramento e prima non lo era. La prima interrogazione era affatto superflua, in quanto il Sinedrio aveva mezzi amplissimi di conoscere che egli pretendeva essere il Messia; ma siccome credevano che il Messia fosse  semplicemente un uomo, gli fecero questa seconda domanda alla quale Gesù soltanto poteva rispondere, e sebbene egli sapesse che così facendo poneva li suggello alla propria condanna, egli non esitò a confermare di essere IL FIGLIO DI DIO, proprio nel senso che gli veniva in quel momento attribuito dal Sinedrio.

     



     


    [Modificato da Credente 20/07/2019 11:15]
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    00 26/12/2021 16:26
    Dalla ricostruzione fatta da due fratelli ebrei: Agostino e Giuseppe Lémann

    L’INIQUA ASSEMBLEA CHE CONDANNÒ IL MESSIA


    “La casa di Caifa,
    in cui costui ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato
    dalla più assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per
    verificarsi nel pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò
    il sinedrio, di cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari,
    che dev’essere valutato in maniera definitiva!”

    Nel corso dell’improvvisato processo a Gesù furono commesse per lo meno ventisette
    irregolarità contro la legislazione penale e processuale del popolo ebraico.
    Il libro dei Lémann le pone in evidenza, studiando le ragioni del comportamento
    di quel sinedrio.

    I fratelli Lémann, Agostino e Giuseppe, erano gemelli, ebrei, francesi,
    nati nel 1836, e morti rispettivamente nel 1669 e nel 1915. Sì convertirono
    al cattolicesimo, furono ordinati sacerdoti e scrissero, fra le altre cose, opere
    destinate a chiarire la storia cristiana ai loro fratelli di etnia e cultura. Fra
    queste opere, la presente, breve, concisa, essenziale, molto ben documentata, è
    uno studio sul Sinedrio, l’assemblea di settantatre membri che condannò a
    morte Gesù, senza averne la competenza, e costrinse Pilato a pronunciare la
    condanna effettiva.

    ------------------------------------------------------
    VIOLAZIONE DA PARTE DEL SINEDRIO DI TUTTE LE NORME E
    DI OGNI FORMA DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO A GESÙ

    (Seduta notturna)

    Al processo a Gesù
    vennero consacrate due sessioni. La prima si tenne nel corso della notte del 14 nisan
    (aprile), e il resoconto ci vien fatto da Giovanni, da Matteo e da Marco: la seconda,
    convocata al mattino di quello stesso giorno, viene registratata da questi ultimi
    due, ma soltanto Luca ne fa un dettagliato racconto.

    Dunque, il sinedrio si è riunito, stavolta però, non in segreto: si
    tratta di processare il Messia in maniera pubblica. Non è in funzione il sinedrio,
    come dire l’assemblea delle tre camere che rappresentano l’intera nazione, dei sacerdoti,
    degli scribi e degli anziani? La cosa dev’essere affrontata pubblicamente. I soldati,
    preso Gesù, lo condussero al palazzo del principe dei sacerdoti, Caifa, in
    cui tutti i sacerdoti, gli scribi e gli anziani erano riuniti in assemblea plenaria”
    (Mt 26, 57; Mc 14, 53).

    “Era di notte” – precisa Giovanni – : “erat autem nox“.
    “E la coorte degli aiutanti dei sacerdoti lo condussero, armati di spade e di
    bastoni, alla luce di lanterne e di torce” (Gv 13, 30; 18, 3). Ecco una
    prima irregolarità, giacché la legge giudaica proibiva che si
    giudicasse alcuno nelle ore notturne: “Se si ha per le mani un affare punibile
    con la pena capitale, lo si tratti durante il giorno, ma lo si sospenda col giungere
    della notte” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

    Anche il sacrificio vespertino aveva avuto termine, e di qui proviene una seconda
    irregolarità: “Non siederanno in giudizio che dal mattino sino alla
    sera” (Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin“,
    c. 1, 19).

    Era infine il primo giorno degli azzimi, vigilia della grande solennità della
    Pasqua, il che costituisce una terza irregolarità: “Non giudicherete
    alcuno né la vigilia del sabato, né la vigilia di un giorno di festa”
    (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

    continua sotto


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    00 26/12/2021 16:27
    PRIMO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA

    “Nel frattempo Caifa
    interrogava Gesù” (Gv 18, 19). È Caifa in persona che interroga,
    quel medesimo Caifa che aveva dichiarato qualche tempo prima, nel corso dell’assemblea
    generale del sinedrio tenutasi nel suo palazzo a motivo della risurrezione di Lazzaro,
    che il bene pubblico esigeva imperiosamente la morte di Gesù il Nazareno.
    È mai possibile? Colui che si è costituito accusatore si permette di
    sedere in veste di giudice, e ancor peggio, come presidente del processo giudiziale!
    Siamo di fronte a una quarta irregolarità, una disgustosa irregolarità,
    poiché tutte le legislazioni umane, e in particolare quella ebraica, rifiutano
    all’accusatore il diritto di sedere come giudice: “Se […] un testimone comincia
    a accusare un uomo d’aver violato la legge, in questa lite, essi si presenteranno
    entrambi dinanzi al Signore, alla presenza dei sacerdoti e dei giudici che saranno
    allora in funzione” (Deut. 19, 16-17). Di qui si vede come l’accusatore
    e il giudice debbano essere distinti tra di loro; non dovendosi confondere i ruoli!
    Qui invece la confusione è evidente: Caifa, che ieri aveva accusato il Cristo,
    oggi siede nell’assemblea e si accinge a giudicare. Mostruosità giudiziaria,
    che Giovanni ha tenuto a mettere in risalto soprattutto nel suo racconto della Pasqua:
    “Caifa era colui che prima aveva dato il consiglio secondo cui il popolo poteva
    avvantaggiarsi dalla morte di quel solo uomo” (Cf Gv 18,14).

    “Lo interrogava sui suoi discepoli e sulla dottrina da lui predicata” (Gv
    18, 19). Caifa, che è insieme e giudice e accusatore, anziché cominciare
    col produrre dei testimoni e indicare i capi d’accusa, come esigeva la legge ebraica
    (“Se si troverà in mezzo a voi un uomo o una donna che sia stato accusato
    di aver commesso il male davanti al Signore, voi indagherete accuratamente se il
    suo accusatore è credibile […] e sulla deposizione di due o tre testimoni
    … ; vedi Deut 17, 2-6), dunque, Caifa, comincia il dibattimento con un interrogatorio
    capzioso, in modo da poter prendere in fallo Gesù per proprie ammissioni.
    Tale modo di procedere costituisce una quinta irregolarità, poiché
    non vi poteva essere niente di più inaccettabile che di fare ammettere alcunché
    a un uomo sul conto del quale non vi è nulla di cui lo si possa ritenere colpevole.
    Cosa può esservi di più inaudito che cominciare un processo chiedendo
    a una persona di accusare se stesso e senza presentargli invece un qualche capo d’accusa!

    “Gesù gli rispose: ‘Ho parlato in pubblico, ho sempre insegnato nelle
    sinagoghe e nel Tempio ove si radunano i giudei, senza dir mai nulla in segreto:
    di cosa dunque mi interroghi? Interroga coloro che mi hanno ascoltato, essi sanno
    quel che ho detto pubblicamente, e potranno perciò risponderti'” (Gv
    18, 20-21).

    La risposta del Cristo pone in piena luce l’illegalità che Caifa stava commettendo
    dando inizio all’interrogatorio senza aver formulato contro di lui, preliminarmente,
    alcun capo d’imputazione. Prima d’interrogare l’imputato, i giudici hanno l’obbligo
    di produrre qualche preciso capo d’accusa, precisando le imputazioni su cui poi i
    giudici dovranno pronunziarsi. “Perché non mi interrogate voi?”,
    o meglio: “Vorreste che io accusi me stesso? Non avete voi qualcosa da rimproverarmi?
    Se l’avete, presentatemi l’oggetto della mia accusa, e chiedetemi se io lo ammetto.
    Se invece non avete nulla da ridire sul mio conto né da parte vostra e neppure
    in base a testimonianze altrui, qualcosa inerente la dottrina da me pubblicamente
    esposta, come potete pretendere che io mi dichiari colpevole, accusando me stesso?
    O, in altri termini, non vi rendete conto che agendo così, voi stessi mi assolvete
    da ogni accusa, e in base alla nostra legge mi assolvete, se vi appoggiate unicamente
    a una mia eventuale ammissione di colpevolezza?”. “Per noi è norma
    fondamentale che nessuno può recare pregiudizio a sé stesso [Nemo tenetur
    laedere seipsum]” (Mishna, trattato “Sanhédrin“, c.
    6, 2).

    “Aveva appena risposto con quelle parole, che un inserviente là presente
    gli diede uno schiaffo, dicendo: ‘Così rispondi al pontefice?'” (Gv
    18, 22).

    In questa inaudita brutalità da parte di un servo del tribunale alla presenza
    del presidente e dei giudici vi è una sesta irregolarità. È
    infatti un’ingiustizia che grida vendetta al cospetto del cielo il permettere, presidente
    e giudici, che in loro presenza si osi maltrattare senza motivo né autorizzazione
    l’imputato comparso in tribunale. Non si ordina forse, in tutte le legislazioni civili,
    che chiunque sia accusato debba godere della protezione della legge e dei giudici,
    fintanto che la sua colpa non sia stata dimostrata? Qui, il silenzio che accompagna
    l’ingiusta aggressione e l’impunità concessa all’inserviente facile a menar
    le mani, sono un’ulteriore riprova che quell’assemblea ratifica e accetta l’illegalità.
    Sono prove evidenti della non equità dei giudici e in particolare di colui
    che presiedeva. Poiché se la Bibbia e la Mischna ingiungono d’impiegare nei
    confronti dell’accusato modi ispirati all’umanità e alla benevolenza (“Figlio
    mio, confessa la tua colpa […]. Mia cara figlia, qual’è stata la causa del
    tuo peccato?” (Gs 7, 19). – Mischna, trattato “Sota“,
    c. 1, 4), a maggior ragione viene a essere proibito ogni ricorso a una violenza ingiusta
    e alla brutalità

    “Gesù gli rispose: ‘Se ho detto qualcosa di male, dimmi dove ho sbagliato;
    se invece parlo bene, perché mi percuoti?'” (Gv 18, 23).

    Voleva dire: “Se mi sono espresso male contro il pontefice o contro la verità,
    dimmi dove ho mancato, fammelo capire. Ma se invece non l’ho offeso in alcun modo,
    né ho detto cose palesemente contro la verità; se mi sono limitato
    a indicare, com’era mio diritto, l’ordine naturale del procedere ma senza usare parole
    offensive contro nessuno, allora perché mi picchi?”. Cristo avrebbe potuto
    anche usare parole assai più forti non solo contro quell’indegno inserviente,
    ma contro il sommo sacerdote che, da presidente, autorizzava tranquillamente una
    così violenta reazione. “Se non lo fece, fu perché non voleva
    disonorare il sacerdozio nemmeno in una persona che cosi indegnamente ricopriva quell’alto
    incarico. Tuttavia non mancò di difendere con forza dignitosa la propria innocenza”
    (San Cipriano, “Epist. 55 ad Corn.“, p. 144).
    DEPOSIZIONE
    DEI TESTIMONI
    “Nel frattempo i
    principi dei sacerdoti e l’intero consiglio cercavano un falso testimone contro Gesù
    per aver di che condannarlo a morte, ma essi non riuscivano a trovarne, di validi,
    sebbene diversi si fossero presentati [con quell’intento]”, (Mc 14, 55.
    – Mt 26, 59-60).

    Dopo la risposta di Gesù, che aveva fatto formale richiesta che si sentissero
    eventuali testimoni, diventava impossibile condannarlo se non ci fosse stato nessun
    testimone a deporre contro di lui. Cosa fa a quel punto il sinedrio? Sguinzaglia
    tra la folla degli incaricati per cercare gente disposta a giocare quel ruolo; si
    giunge perfino a subornare qualcuno di pochi scrupoli. È una mostruosa iniquità!
    Commettendo una settima irregolarità non solo ci si astiene dall’esaminare
    con cura la qualità e credibilità dei testimoni e la verità
    di quel che avrebbero dichiarato ma si arriva, ed è un’ottava irregolarità,
    a violare la legge fondamentale che prescriveva ai giudici nel far prestar giuramento
    ai testimoni, di non dire null’altro che la verità: “Bada che su di te
    pesa una grave responsabilità…” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
    c. 4, 5). Ma v’è di peggio: quei giudici iniqui, subornando falsi testimoni,
    cadono anch’essi sotto i colpi minacciati dalla Legge, che faceva loro espresso obbligo
    di punire i falsi testimoni: “Li tratteranno come se avessero macchinato di
    tradire un loro fratello; vita per vita, dente per dente, occhio per occhio!”
    (Deut 19, 18,19. 2 1). Eppure essi violano apertamente quella legge, sia essi
    stessi, sia inducendo a violarla altre persone. È la nona irregolarità!
    Possiamo affermarlo: non siamo più di fronte a dei giudici ma a un raduno
    di omicidi, assetati del sangue di un giusto. Nulla può servire da paragone
    se non quell’altra iniquità che venne compiuta per ordine di Gezabele, quando
    si trattò di condannare l’innocente Naboth.

    “Essa scrisse lettere a proposito di Naboth, col sigillo del re. Poi le inviò
    agli anziani e agli uomini principali della città in cui Naboth abitava. Nelle
    lettere scrisse: ‘Bandite un digiuno e fate sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
    Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino dicendo: ‘Hai maledetto
    Dio e il re!’ Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia’. Gli uomini della
    città, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come
    aveva ordinato loro Gezabele, ossia come si ordinava nelle lettere che aveva loro
    spedito. Bandirono il digiuno e fecero sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
    Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Naboth
    davanti al popolo affermando: ‘Naboth ha maledetto Dio e il re!’ Allora lo condussero
    fuori della città e lo uccisero lapidandolo” (1 Re, 21, 8-14).

    Ma proseguiamo nella deposizione dei testimoni.

    “Molti attestavano il falso contro di lui ma le loro testimonianze contro di
    lui non erano però concordi. Alcuni si alzarono per testimoniare il falso,
    dicendo: ‘Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio
    fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani
    d’uomo’. Però nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde”
    (Mc 14, 56-61). – cf Mt 24, 60).

    Prima di esaminare questa doppia deposizione nettamente formulata, cominciamo col
    segnalare una decima irregolarità: due testimoni si presentano e depongono
    assieme, il che è contro la legge. I testi infatti non dovevano deporre se
    non separatamente l’uno dall’altro: “Separateli tra loro, quindi li esaminerete”
    (Dan 13, 51).

    E veniamo al contenuto delle deposizioni. Stavolta sarebbero state d’importanza capitale.
    Sappiamo quanto il popolo giudaico fosse geloso della gloria rappresentata dal Tempio.
    Per aver annunziato che “Dio ridurrà un giorno il Tempio nelle stesse
    condizioni di Silo, ossia in un deserto” (Ger 26, 6. 19), Geremia aveva
    rischiato d’essere lapidato dai sacerdoti e dal popolo; se era scampato da una morte
    sicura, ciò fu dovuto all’intervento di possenti signori, che avevano influenza
    sul tribunale. L’accusa formulata contro Gesù dai due testimoni era di sicuro
    della massima gravità. L’attenzione dell’intero sinedrio si ravvivò,
    e si cominciò a sperare d’aver trovato infine un motivo sufficiente per convincere
    i giudici di una sua colpevolezza e di poterlo giuridicamente condannare.

    Ciò a patto che la deposizione dei testimoni fosse stata vera e concorde.
    Ma lungi dall’avere tali qualità rigorosamente esigite dalla legge ebrea,
    ciascuna delle deposizioni, come vedremo, si rivelò falsa e discorde tra loro.

    Erano false perché:

    1°) – Non riferivano in realtà le parole pronunziate dall’autore. Gesù
    infatti non aveva detto né “io posso distruggere”, né “io
    distruggerò” – come avevano affermato i due testi, per gettare gravi
    ombre su di lui – ma “distruggete!”. “Distruggete questo tempio e
    io lo ricostruirò entro tre giorni!” (Gv 2, 19); parole ipotetiche, insufficienti
    a costituire un carico serio contro l’imputato, poiché esse potevano significare:
    “Supponete che questo tempio venga distrutto, ecc.”. Orbene, per poter
    fornire al sinedrio che era impaziente di sentirlo accusare di un delitto davvero
    grave e punibile con la morte, i testimoni cercano di porre, inutilmente, sulle labbra
    del Cristo queste parole, assolute e minacciose: “Io posso distruggere, io distruggerò!”

    2°) – Poi i testimoni erano falsi anche perché attribuivano alle parole
    del Cristo un senso del tutto diverso da quello inteso da lui. Gesù infatti,
    nel pronunziare la frase, aveva fatto allusione al tempio vivo che era il suo corpo,
    ed era perciò lontanissimo dal far riferimento al tempio materiale di Gerusalemme.
    Giovanni, che le aveva sentite di persona, lo afferma espressamente: “Egli intendeva
    parlare del proprio corpo” (Gv 2, 21). Del resto, per esserne pienamente
    convinti, basterà esaminare le parole precise usate dal Cristo. Proprio per
    non lasciare spazio al minimo dubbio circa la propria intenzione, Gesù aveva
    usato la parola “solvite“, termine che i falsi testimoni vorrebbero
    far equivalere a “distruggere” ma che, nella sua più ovvia e naturale
    accezione sta per “rompere i legami: sciogliere”. È chiaro il riferimento
    al corpo animato, tempio vivo, di cui si può rompere o sciogliere il legame
    con l’anima mediante la morte; e dunque ogni riferimento al tempio materiale è
    del tutto abusivo. Però quel che conferma definitivamente il vero senso inteso
    dal Cristo, lo si ricava dalle parole finali di quella frase: “E in tre giorni
    io lo farò risorgere. Lo richiamerò in vita!”. Se insomma Gesù
    avesse inteso alludere al tempio materiale di Gerusalemme, si sarebbe servito delle
    parole “distruggere” e “riedificare”; ma siccome egli non aveva
    in mente nient’altro che il tempio mistico che era il suo sacro corpo, egli aveva
    volutamente usato i termini “rompere i legami” e “risuscitare”.
    Il parallelismo di queste espressioni, impiegate a ragion veduta, dovrebbero essere
    sufficienti per discolpare Gesù da ogni intenzione iconoclasta, il cui oggetto
    sarebbe stato il Tempio di Gerusalemme. E la conclusione, relativamente ai testimoni,
    non poteva essere che la seguente. Delle due, l’una: o avevano capito male la frase
    detta da Gesù (come l’avevano fraintesa altri giudei, lì presenti,
    che avevano ribattuto: “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei
    anni, e tu lo ricostruiresti in soli tre giorni?!”), oppure ne avevano afferrato
    benissimo il pensiero, ma con maligna intenzione lo stavano presentando in tutt’altro
    senso da quello in cui era stato detto. E allora essi erano doppiamente dei falsi
    testimoni: perché non solo attribuivano a Gesù le parole “io posso
    distruggere!”, “io distruggerò!”, mai pronunziate né
    intese dal Cristo, ma ancora perché riferivano in malafede al Tempio di Gerusalemme
    parole che non si riferivano a esso. In sostanza, perché consapevolmente falsano
    il significato di quelle parole.

    Ma v’è di più. Anche nel caso che essi avessero deposto il vero e Cristo
    avesse realmente pronunziato le parole che essi gli ponevano sulla bocca, la loro
    deposizione non poteva essere giuridicamente accettabile. E diciamo subito il perché.
    Stando alla legge ebraica, “una testimonianza perdeva ogni suo valore se chi
    la faceva non era d’accordo con essa in tutte le sue parti” (Mischna, trattato
    “Sanhédrin” 5, 2). Se ad esempio si trattava del crimine
    d’idolatria, ritenuto il peggiore dall’antico stato giudaico, “se un testimone
    assicurava di aver visto un israelita adorare il sole, mentre un secondo dichiarava
    di averlo visto in adorazione della luna, sebbene entrambi i particolari facessero
    pensare a riti idolatrici, la prova era da scartare come incompleta, e l’accusato
    veniva rimesso in libertà” (Maimonide, trattato “Sanhédrin”
    c. 20 e sgg.). Qualcosa del genere si ripeteva nel caso dei due falsi testimoni alzatisi
    ad accusare il Cristo, alla presenza dei giuristi del sinedrio.

    Sostenendo che Gesù aveva detto: “Io distruggerò questo tempio
    fatto da mani d’uomo”, il primo di essi gli attribuiva il disegno di attentare
    contro la religione e contro un bene del patrimonio nazionale; mentre dall’altra
    deposizione “Io posso distruggere il tempio di Dio” del secondo testimone
    si poteva solamente indurre a pensare in una parola uscita dalla bocca di un fanfarone
    o megalomane. Dunque non vi era conformità tra le due testimonianze, come
    fa notare opportunamente S. Marco (“Nemmeno su questo punto la loro testimonianza
    era concorde” – Mc 14, 59), di conseguenza, a meno di commettere un’undicesima
    irregolarità, Gesù aveva ogni diritto d’essere rimesso in libertà,
    pienamente assolto!
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    Credente
    00 26/12/2021 16:29
    SECONDO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA

    E invece, detta undicesima
    irregolarità venne realmente commessa. Anziché scartarle come gli imponeva
    un’equa amministrazione della giustizia, Caifa prende per buone le discordanti deposizioni,
    e ne fa anzi il punto di partenza d’un secondo interrogatorio.

    “Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò
    Gesù dicendo:’Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te?'”
    (Mc 14, 60).

    Era come dirgli: “Non ti rendi conto della gravità delle accuse che ti
    rivolgono costoro? Perché te ne stai zitto. Parla, dunque…” Caifa attendeva
    che il Cristo, toccato nell’amor proprio, desse delle spiegazioni e fosse condotto
    dalle sue stesse parole dove magari non avrebbe voluto.

    “Ma egli continuava a tacere, e non rispose nulla” (Mc 14, 61).

    La causa di Gesù si difendeva da sé, ed egli non aveva da far nulla
    per tutelarla. Avendo fatto allusione non al Tempio materiale di Gerusalemme bensì
    al mistico tempio del proprio corpo, la spiegazione della frase incriminata la si
    poteva trovare unicamente nel significato letterale delle parole da lui dette e non
    già nelle ambigue allusioni attribuitegli dai falsi testimoni. Quanto a Caifa,
    Gesù non gli risponde parola per fargli comprendere che aveva inteso quale
    fosse il suo gioco. Il suo silenzio era un rimprovero fin troppo eloquente. In quel
    momento si stava compiendo una profezia di Davide: “Coloro che cercano un pretesto
    per togliermi la vita e vorrebbero perdermi affermando falsità, non pensano
    che a tendermi tranelli. Ma io sarò verso di loro come un sordo che non sente
    quel che gli dicono, e come un muto che non apre bocca” (Sal 37, 13 -15).

    È stupefacente che questo tranquillo e maestoso silenzio di Gesù non
    abbia aperto gli occhi ai giudici. È davvero cosa assai strana restarsene
    in silenzio dinanzi a situazioni in cui si sta correndo il rischio d’essere messo
    a morte! Tra non molto Pilato, quantunque sia pagano, resterà colpito da un
    analogo, maestoso silenzio che il Cristo manterrà in sua presenza; verrà
    assalito dal dubbio e dal rispetto per quell’uomo, e farà non pochi sforzi
    per cercare di risparmiargli la vita. Ma qui Caifa e il sinedrio, anziché
    riconoscere dal volontario silenzio Colui di cui aveva profetizzato Isaia, proprio
    riferendosi al silenzio e all’atteggiamento remissivo: “Egli resterà
    in silenzio come un agnello davanti a chi lo tosa” (Is 53,7), Caifa e
    l’assemblea si sentono invadere da un crescente furore. Vogliono far cessare quel
    silenzio accusatore che li confonde e li domina. Occorre trovare un via d’uscita!
    Una via che consenta di porre termine a quell’assurda situazione. E Caifa alla fine
    riuscirà a trovarla…
    TERZO
    INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA
    “Di nuovo il sommo
    sacerdote lo interrogò, dicendogli: “Ti scongiuro per il Dio vivente,
    di dirci se tu sei il Messia, l’Eletto, il figlio di Dio benedetto!” (Mc
    14, 6 1; Mt 24, 63).

    Una cosa della massima importanza da tener presente è che ha avuto luogo un
    improvviso cambio nel capo d’accusa. Infatti non si parla più né di
    testimoni né di testimonianze; Caifa, per così dire, le ha buttate
    nel cestino della carta straccia e, tutto a un tratto, riconosce insufficienti tutte
    le deposizioni così affannosamente cercate e esposte fin allora con pessimi
    risultati; egli confessa, data la medesima necessità in cui si vede stretto
    d’interrogare egli stesso Gesù, che non possedeva uno straccio di prova da
    produrre contro di lui. Ma allora, ci si chiede, perché Gesù è
    li davanti a lui e al sinedrio strettamente legato? Perché lo si è
    trascinato davanti all’assemblea come un malfattore, se ancora non si sa praticamente
    nulla di lui, e ci si sforza di ottenere queste informazioni dalla sua stessa voce?

    I testi e le loro fasulle deposizioni dunque sono state scartate. Cambio di scena,
    in cui ha rilievo soltanto lui, Caifa. Lui, già giudice e presidente del tribunale,
    si abbassa al rango dei testimoni e assume per la seconda volta il ruolo di accusatore.
    Ma nel dichiararsi fino a quel punto contrario a Gesù, mentre che le sue funzioni
    istituzionali gli vieterebbero ogni altra cosa che non sia quella d’essere giudice
    sia sulle accuse, sia sulla difesa dell’imputato, ecco profilarsi una dodicesima
    irregolarità.

    E subito appresso, una tredicesima, che si trova nella richiesta supplicante
    che rivolge al Cristo: “‘Ti scongiuro per il Dio vivente, di dirci se tu sei
    il Cristo!” Questa impegnativa richiesta avrebbe dovuto venir rivolta ai testimoni,
    per scongiurarli di dire solo la verità. Lo esigeva la Legge: “Bada che
    ti stai caricando di una grave responsabilità [ … 1 Se tu facessi condannare
    ingiustamente l’accusato, Dio te ne chiederà conto, come lo richiese a Caino
    del sangue di Abele! ” (Mischna, trattato “Sanhédrin”
    c. 4, 5). Ma se il giuramento era obbligatorio per i testimoni, non era consentito
    all’accusato poiché lo avrebbe messo nell’alternativa di essere sper-giuro
    o di incriminare sé stesso: “Per noi è basilare che nessuno possa
    arrecare danno a sé stesso” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
    c.. 6, 2). Ora, in quell’iniquo processo non era stato richiesto alcun giuramento
    dai testimoni, e lo si esige dall’accusato! Questa grave infrazione alla morale e
    alla giurisprudenza, un profeta l’aveva preannunziata e stigmatizzata [e di ciò
    portiamo di seguito due versioni:, che però fondamentalmente concordano]:
    “Ti han sempre sulla bocca, o mio Dio, nella speranza di riuscire nei disegni
    criminosi. Sono tuoi nemici, e osano ugualmente invocare il tuo nome! ” (dalla
    Volgata) “Essi parlano di te nei loro letti infamanti e giurano il falso nelle
    tue città” (la moderna versione della Cei). (Sal 138, 20).

    Riguardo all’interrogazione, nel suo contenuto, non era altro che un trabocchetto
    da parte di Caifa. Chiedendo a Gesù che, nel nome del Dio vivente, dichiarasse
    se era o meno Figlio di Dio, Caifa prevedeva che, qualunque fosse stata la sua risposta,
    non poteva avere per conseguenza se non la pena di morte. Infatti, se Gesù
    (pensava Caifa) nega d’essere Figlio di Dio, sarà condannato in quanto impostore
    poiché pubblicamente aveva insegnato il contrario. Se invece avesse osato
    dichiararsi Figlio di Dio, la condanna non era meno sicura, perché si sarebbe
    reso colpevole di bestemmia. Dunque la negazione era un crimine, e del pari l’ammissione.

    Gesù diede questa risposta: “Lo sono, come hai detto tu!” (Mc
    16, 61-62).

    Gesù si inchina dinanzi alla maestà di Dio, perfino sulle labbra del
    sommo sacerdote. Egli cede a una domanda di cui conosce la recondita malizia, ma
    che è rivestita di ciò che vi è di più augusto nella
    religione. Non si era ingannato circa la simulazione del pontefice, ma egli vuole
    onorare il nome divino di cui quell’uomo si serve per nascondere la propria malizia.

    LA CONDANNA PRONUNZIATA DAL SINEDRIO

    “Allora il principe
    dei sacerdoti si strappò le vesti, dicendo: ‘Ha bestemmiato! A questo punto,
    abbiamo ancora bisogno di testimoni? Tutti voi avete appena adesso sentito la bestemmia.
    Che ve ne pare?” (Mt 24, 65-66).



    Siamo ormai al sipario che cala, mentre le irregolarità quasi non si contano
    più. Il sommo sacerdote si strappa le vesti. Un giudice che si irrita fino
    al punto di lacerarsi l’abito pontificale! Non vi è solo una quattordicesima
    irregolarità in materia di giustizia, ma il venir meno a quella dolcezza
    e a quel rispetto che la legge prescriveva al giudice nei confronti dell’accusato,
    [e qui riportiamo un testo già più volte citato]: “Figlio mio,
    ammetti la tua colpa [ … I. Mia cara figliola, qual’è la causa che ti indotto
    in peccato?” (Gs 7, 19. – Míschna, trattato “Sota”
    c. 1, 4).

    E vi è inoltre violazione della legge religiosa, che espressamente proibisce
    al sommo sacerdote di strapparsi le vesti. Tale gesto poteva essere compiuto da qualunque
    ebreo, in segno di grande dolore. Ma non era consentito al grande pontefice: glielo
    proibiva un divieto assoluto poiché le sue vesti, stabilite da Dio, erano
    figura del sacerdozio in sé stesso: “Il pontefice, cioè colui
    che rappresenta il sommo sacerdote tra i suoi fratelli, sulla cui testa è
    stato versato l’olio dell’unzione, le cui mani sono state consacrate per compiere
    le funzioni sacerdotali ed è rivestito dei santi abiti, non strappi mai queste
    sue vesti” (Lev 21, 10). Strappa le tue vesti, Caifa! Non sarà
    trascorso un giorno, che il velo del Tempio lo sarà del pari, per far capire
    a tutti che il sacerdozio d’Aronne e il sacrificio della Legge di Mosè sono
    stati ormai aboliti, al fine di lasciare spazio all’eterno sacerdozio del Pontefice
    della Nuova Alleanza!

    “Costui ha bestemmiato!’. In questo grido convergono due nuove irregolarità.
    Una quindicesima poiché in quel modo si incriminava la risposta dell’accusato
    prima di aver concluso l’esame. La risposta era stata data negli stessi termini in
    cui Caifa aveva avanzato la domanda. Aveva chiesto a Gesù: “Sei tu il
    figlio di Dio?” e Gesù aveva risposto: “Lo sono”. Doveva a
    quel punto esaminarsi se il Cristo diceva il vero: lo esigeva l’equità. Comandate
    che vengano presentati i libri santi, apriteli dinanzi al tribunale, richiamate alla
    memoria a uno a uno tutti i caratteri del Messia, cercate soprattutto se egli debba
    essere Figlio di Dio. Fatto questo, confrontate gli elementi raccolti dalla Scrittura
    e raffrontateli con l’uomo che vi sta davanti, e che si proclama figlio di Dio. Se
    di tutti gli elementi annunziati dai profeti ne mancasse anche soltanto uno, allora
    sì, potete dire, anzi dichiarare solennemente che egli ha bestemmiato! Ma
    incriminare la sua risposta prima di averla sottoposta a una sia pure superficiale
    indagine, non equivale a commettere un atto iniquo e palesemente odioso? Non è
    un insultare la giustizia? Non è violare i più elementari doveri del
    vostro incarico, che è quello di esaminare per bene ogni cosa? “Quando,
    dopo un approfondito esame – dice il Deuteronomio – voi avrete riconosciuto, ecc
    (Deut 19, 18). Avete sentito? “Dopo un esame accurato!” E qui, invece,
    non vi è nemmeno l’ombra di un qualsiasi esame! I giudici soppeseranno ogni
    cosa nella sincerità della propria coscienza”, aggiunge la Mischna (trattato
    “Sanhédrin” 4, 5), ma qui in cambio la coscienza viene a
    essere soffocata…

    L’altra irregolarità, la sedicesima, commessa da Caifa quando grida:
    “Ha bestemmiato!”, sta nel fatto che egli si permette di prevenire i pareri
    degli altri giudici li presenti. Qualificando di bestemmia la risposta dell’accusato,
    egli priva di ogni libertà nel suffragio che competeva ai giudici subalterni.
    “Io assolvo” oppure “Io condanno” doveva essere, secondo la Mischna
    (trattato “Sanhédrin” c. 5, 5), la formula mediante cui esprimere
    il proprio voto. Gridando invece “Egli ha bestemmiato!”, Caifa non lascia
    più ai suoi colleghi la possibilità di emettere una diversa opinione,
    poiché l’autorità del sommo sacerdote era, presso i giudei, ritenuta
    infallibile.

    Eccolo però farsi ancor più ingiusto: “Che bisogno abbiamo noi
    di testimoni?” Come! Un giudice che osa proclamare che si può fare a
    meno di testimoni, mentre è la Legge che lo esige! Non sa forse che la Legge
    spesso scende fino ai dettagli più piccoli? Non ha forse determinato che a
    ciascun testimone dovranno essere poste sette precise domande? Le abbiamo viste di
    già, però qui tornano assai utili. “Era l’anno del giubileo? O
    era invece un anno ordinario? In che mese la cosa ha avuto luogo? In quale giorno
    del mese? A che ora? Dov’è successo? Si tratta di questa persona qui?”
    (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 5, 1). Ma Caifa, che non
    attende altro che di vederlo condannato e al più presto, calpesta l’intera
    procedura processuale, e quel che è peggio, addirittura la sopprime: ed è
    una diciassettesima irregolarità.

    E ne commette subito appresso un’altra: “Cosa ne pensate di costui?”. Nulla
    vi era di più irregolare che chiedere che il suffragio venisse espresso pubblicamente
    e in generale. “Ciascuno parlerà quando sarà il suo turno – dice
    la Mischna -, i giudici si esprimeranno per assolvere o condannare” (trattato
    “Sanhédrin” c. 15, 5). Ciascuno al suo proprio turno, Caifa!
    Tu invece fai emettere una condanna, e tutti in massa! E poi, quale amara derisione!
    Dopo essersi stracciate le vesti con le espressioni dell’orrore più profondo;
    dopo aver, con quel gesto, trasmesso agli astanti una sorta di terrore religioso;
    dopo aver qualificato come orribile bestemmia la risposta di Gesù; dopo aver
    dichiarato che non c’era più bisogno di nuove testimonianze per condannare
    quest’uomo alla pena capitale, chiedere ai propri colleghi cosa gliene sembrasse,
    non è la più amara delle derisioni?

    E la risposta del sinedrio fu quella che egli aveva previsto.

    Tutti risposero: “È degno di morte!” (Mt 26, 66; Mc
    14, 64). Quante irregolarità in questa sentenza!

    Eccone una diciannovesima, perché non vi fu nessuna deliberazione legale
    e i giudici, andando dietro all’asserzione di Caifa, espressero precipitosamente
    una sentenza di morte: “dopo aver giudicato la questione, i giudici si riuniranno
    e riprenderanno tra loro l’esame della causa” (Míschna, trattato “Sanhédrin“,
    c. 5, 5).

    Vi fu ancora una ventesima irregolarità, poiché la sentenza
    è stata emessa lo stesso giorno in cui il processo aveva avuto inizio, mentre
    che, stando alla Legge, essa doveva essere differita all’indomani. “Ogni giudizio
    criminale può aver termine nel medesimo giorno d’inizio se la sentenza è
    favorevole all’imputato. Ma se dovrà essere eseguita una condanna a morte,
    il processo non potrà dirsi concluso se non il giorno appresso” (Mischna,
    trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

    Ed ecco una ventunesima irregolarità, poiché i due scribi segretari
    non avevano raccolto i voti, e addirittura i giudici non avevano votato: “Ad
    ognuna delle estremità del sinedrio prendevano posto dei segretari incaricati
    di raccogliere i voti: uno, quelli che assolvevano; l’altro, quelli che condannavano”
    (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 3).

    Ecco come si svolse quella sessione notturna, profeticamente descritta in un oracolo
    pronunziato da Davide: “Un’assemblea di malvagi mi ha trascinato in mezzo a
    essa. Uomini peccatori si sono dati appuntamento, aspettando solo l’occasione buona
    per perdermi” (sal 21 e 118). Ventuno irregolarità vennero
    commesse quella notte, e non un solo giudice si levò a protestare. E quel
    che sottolinea il Vangelo: “Omnes – ossia tutti -, gridarono assieme:
    ‘Merita la morte!'” (cf Mc 14, 64). Non è senza motivo che l’evangelista
    rimarcò la cosa. Equivale a un’esclamazione sentenziosa, come un gemito di
    dolore per uno scandalo, come un mettere in risalto una grande sorpresa. Essa significa
    che è stupefacente che, tra le settantadue persone che avrebbero dovuto essere
    presenti in un’assemblea plenaria del sinedrio, non se ne sia trovata una sola con
    quel minimo di coscienza e di coraggio per protestare contro una così illegale
    e inaudita maniera di procedere. I partecipanti all’assemblea erano devoti e forse
    succubi di Caifa, e corrotti al pari di lui. Così, non vi fu alcuna protesta
    contro quel cumulo di irregolarità.

    Nessuna voce, neppure una, a favore della sua difesa. E dire che la Legge giudaica
    autorizzava chiunque a prendere la parola a favore dell’imputato; era un intervento
    considerato come un atto di attenzione misericordiosa: “Quando io mi recavo
    alla porta della città [per giudicare chi avesse bisogno], ero capace di spezzare
    le mascelle all’ingiusto, strappandogli la preda di bocca” (Gb 29, 16-17)

    Però va detto che in quella seduta notturna, gli unici due membri del sinedrio
    che avrebbero sicuramente preso la parola in favore dell’accusato – Giuseppe d’Arimatea
    e Nicodemo -, non erano presenti! Essi si erano rifiutati di partecipare a una seduta
    irregolare, che si era voluto convocare nottetempo e alla vigilia della solennità
    pasquale. Anche se già in anticipo potevano dichiararsi sicuri che le loro
    voci non sarebbero state ascoltate (già in un precedente consiglio la protesta
    di Nicodemo era stata sdegnosamente respinta: “Numquid et tu Galileus es?[,
    ossia]: per caso sei anche tu seguace del Galileo [Gesù]?”; Gv
    7, 52), entrambi si erano dissociati dai disegni e dagli atti illegali del sinedrio.
    Il Vangelo lo dice espressamente di Giuseppe d’Arimatea: “Egli non aveva aderito
    alla decisione e all’operato degli altri […] e aspettava il regno di Dio”
    (Lc 23, 50-51). Non possiamo dubitare che la medesima cosa si sarebbe potuta
    ripetere di Nicodemo, che aveva preso coraggiosamente le difese del Cristo.

    Così, il povero accusato rimase lì in mezzo, solo e senza nessuno che
    cercasse di difenderlo. Quando gli undici figli di Giacobbe si accordarono di mettere
    a morte Giuseppe, due di essi, Ruben e Giuda, presi dai rimorsi, alzarono la voce
    per dire almeno: “Sarà meglio che lo vendiamo agli ismaeliti, senza macchiarci
    le mani, poiché alla fin fine è nostro fratello e partecipe della medesima
    carne” (Gn 37, 27).

    E quando il traditore Achitofel persuase nel consiglio presieduto da Absalon di perseguitare
    e far morire Davide, uno straniero, Cusai d’Arachi, prese le difese dello sfortunato
    monarca, tradito dai propri sudditi e inseguito dal proprio figliolo (2 Sam 15,
    32 e 17, 1-14). Qua invece, non una sola voce si leva compassionevole in favore di
    colui che era nostro fratello più che Giuseppe, più re e padre che
    Davide. Il povero innocente vide compiersi alla lettera la profezia annunziante che
    sarebbe stato abbandonato alla più completa indifferenza: “Sono caduto
    in oblio come un morto” (Sal 30,13).

    Allorché il sinedrio, interpellato da Caifa, ebbe dichiarato all’unanimità
    che Gesù meritava la morte, si fece segno alla soldataglia di prenderlo in
    consegna e di custodirlo a vista per il resto della notte.

    E una strana scena ebbe luogo.

    “Gli sputavano in viso e lo colpivano con dei pugni; altri gli bendarono gli
    occhi e dopo averlo schiaffeggiato, gli chiedevano: ‘Cristo, fa’ il profeta e dicci
    chi ti ha colpito adesso?'” (Mt 26, 67-68; Mc 14, 65).

    Quindi, dopo la condanna, Gesù fu abbandonato ai soldati e agli uomini della
    polizia, lasciandoli liberi di sfogare sulla sua persona ogni specie d’oltraggi che
    avessero voluto. Più di un autore ha considerato quella notte crudele come
    uno dei tormenti maggiori dell’intera Passione sofferta da Gesù Cristo. Una
    cosa à certa: che dal punto di vista giuridico, vi fu una vera e propria scelleratezza.
    In tutte le nazioni civili, un condannato, per quanto possa essere criminale, fino
    al momento dell’esecuzione resta sotto la protezione della legge; e mai si è
    visto dei giudici tollerare che da parte dei soldati e delle forze dell’ordine tali
    e tanti eccessi rivoltanti contro non solo la giustizia, ma la natura e la stessa
    ragione umana.

    Essendo tale enormità compiuta al termine della seduta notturna, potremmo
    aggiungere ulteriori irregolarità al numero di quelle di già registrate.
    Ma vergogna, mille volte vergogna a Caifa che, tollerando che quell’abuso e quegli
    eccessi si verificassero nella sua stessa casa, assunse sul proprio capo qualcosa
    che superò le villanie compiute dai Filistei contro la persona di Sansone
    (Gdc 16, 25). Come Sansone, che di Lui era stato figura, così il Cristo
    venne circondato da gente che, facendosi beffe della sua disgrazia, si divertì
    a sputargli in viso, facendolo oggetto di scherzi volgari. Si consentì che
    chiunque lo potesse insultare, colpire, saziandosi degli obbrobri che poterono escogitare.
    Ma in quelle ore si stavano compiendo delle altre profezie: “Non hanno avuto
    vergogna di sputarmi in faccia”, aveva scritto Giobbe, riferendosi al Messia;
    “mi han fatto mille oltraggi, mi han colpito vergognosamente, si sono – in una
    parola – saziati dei miei tormenti!” (Gb 16,11; 30,10).

    continua
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    Credente
    00 26/12/2021 16:30
    VIOLAZIONE
    DA PARTE DEL SINEDRIO DI OGNI NORMA GIURIDICA

    (Seduta del venerdi mattina)
    “Dal mattino presto,
    con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedríio dopo aver tenuto consiglio,
    strinsero in catene Gesù, al fine di metterlo a morte, e lo consegnarono a
    Pilato (Mc 15, 1; cf. Lc 22, 66; Mt 27, 1)”. Caifa e i
    membri del sinedrio avevano ogni interesse a che l’illegale procedura notturna e
    la condanna pronunziata contro Gesù non apparisse macchiata d’irregolarità.
    Di irregolarità, come s’è visto, ne erano state commesse a non finire,
    e era sempre possibile che dal popolo si levassero a un tratto voci di protesta:
    quella riunione notturna, del tutto inusitata, i testimoni che si erano contraddetti,
    quel giudizio precipitoso, ecc. D’altra parte, approfittando di una rinnovata confessione
    dell’imputato si sarebbe potuto rinnovare con ogni solennità possibile la
    sua condanna. Perciò l’intero sinedrio si radunò il mattino presto
    per decidere contro Gesù, e mandarlo a morte.

    Però, attenzione. Non si trattava di rivedere la sentenza pronunziata poche
    ore prima. Gesù è condannato, irrevocabilmente condannato. Si tratta
    unicamente di avviarlo a morte cercando di rispettare certe forme di giustizia e
    un apparato legale che possa chiudere la bocca al popolo.

    Resta solo da trovare una forma giuridica adatta; e vedremo che, rimanendo sempre
    nella più ampia illegalità, si aggiungeranno nuove irregolarità
    a quelle di già accumulatesi nella seduta notturna.

    ‘Fin dall’alba di quel gran giorno di festa, il sinedrio si riunì” (cf
    Mc 15, 1; Lc 22, 66), e da questa riunione precipitosa scaturisce una
    ventiduesima irregolarità. Infatti era vietato di incominciare una
    riunione prima che avesse avuto termine il sacrificio del mattino: “Si raduneranno
    dopo il sacrifico del mattino, fino all’ora in cui inizierà quello della sera”
    (Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin” cap. 1, 19).
    Riunendosi fin dalle prime ore del giorno, i giudici non avevano atteso la fine del
    primo sacrificio, dato che questo sacrificio iniziava precisamente all’alba di un
    nuovo giorno (per fissare il tempo del sacrificio, la Bibbia si limita a parlare
    di “mattino” e di “sera”: “Voi sacrificherete ogni giorno,
    senza eccezioni, due agnelli di un anno, uno al mattino e l’altro la sera” (Es
    29, 38-39). Ma lo storico Giuseppe Flavio fornisce particolari precisazioni: “La
    Legge ordina che si immoli ogni giorno due agnelli d’un anno, quando comincia la
    giornata, e quando essa termina”; “Antiq.” L. 3, c. 10, 1),
    e occorreva almeno un’ora perché la vittima potesse dirsi immolata, scuoiata,
    offerta e consumata tra le preghiere d’uso. Dunque era stato in un’ora indebita che
    il sinedrio si era riunito.

    E inoltre, era quel giorno la grande solennità di Pasqua, in cui ogni giudizio
    era rigorosamente interdetto. Se infatti era stato vietato ogni processo di sabato
    (“Non si giudicherà di sabato, né in altro giorno festivo”
    – Mischna, trattato “Betza“, c. 5, 2), a più forte ragione
    tale divieto valeva in un giorno tanto solenne qual’era quello della Pasqua. Perciò
    ecco una ventitreesima irregolarità. Origene, uno dei più celebri
    commentatori della Bibbia, riportando queste parole del Signore ai giudei contemporanei
    d’Isaia: “Io detesto le vostre festività, non riesco a sopportarle”
    (Is 1,14), aggiunge, con ragione, “Fu profeticamente che Dio fece dire
    di aver in orrore le feste della Sinagoga, poiché, mettendo a morte Gesù
    in giorno di Pasqua, i giudei hanno commesso un crimine” (“Comment.
    in Joan.“).
    NUOVO
    E SOMMARIO INTERROGATORIO DI GESÙ
    “Lo condussero davanti
    al sinedrio, e gli chiesero: ‘Se tu sei il Cristo, diccelo'” (Lc 22,
    66).

    Vale la pena ribadirlo di nuovo: il precedente sistema procedurale è stato
    completamente abbandonato. Non ci si sforza di cercare e far venire avanti nuovi
    testimoni; non si fa più conto di parole contro Gesù che egli non aveva
    potuto pronunziare. Un tale modo di procedere si era rivelato inefficace la sera
    avanti, e ormai il sinedrio si è reso conto che tornando su quella via non
    potrà ottenere quel che si era proposto. Sa anche che Gesù non mentirà
    mai né a se stesso, né ad altri, e che se gli fosse posta di nuovo
    la stessa domanda, si potrà dalla sua risposta trovare conferma per la sentenza
    di condanna.

    “Gesù rispose loro: ‘Se ve lo dicessi, non mi credereste, e se vi interrogassi,
    non potreste rispondermi. A ogni modo, d’ora in poi il Figlio dell’uomo si siederà
    alla destra della potenza di Dio” (Lc 22, 67-69).

    Da questa risposta Gesù fa chiaramente intendere ai giudici che essi non lo
    interrogano spinti dal desiderio di conoscere la verità ma soltanto per trovarlo
    in fallo, e ribadire la condanna. Tuttavia non tralascia di aggiungere: “Da
    questa assemblea che ha congiurato ai miei danni e da questi legami che stringono
    i miei polsi, io saprò liberarmi; e a dispetto di tutto quel che si potrebbe
    escogitare contro di me, io andrò a sedermi sul trono dell’Onnipotente, alla
    destra di Dio”.

    “Allora gli chiesero tutti assieme: ‘Tu allora saresti il Figlio di Dio’? (Lc
    22, 70).

    La conclusione tratta dal sinedrio era di una rigorosa esattezza. L’espressione uscita
    dalle labbra del Cristo – “sedersi alla destra di Dio”- non poteva convenire
    a una semplice creatura. Perciò i giudici compresero perfettamente che dicendo
    che lo avrebbero visto “seduto alla destra della potenza dell’Altissimo”,
    Gesù si attribuiva il medesimo onore che appartiene a Dio, lo stesso potere,
    la stessa maestà, e per conseguenza, la stessa natura di Dio.

    “E Gesù rispose: ‘È come avete detto: io lo sono!'” (Lc
    22, 70).

    Gesù ripete le stesse parole e con identica solennità la confessione
    che aveva rilasciato nella seduta notturna. All’interrogatorio di Caifa: “Sei
    tu il Cristo, Figlio di Dio?”, egli aveva risposto: “Tu lo hai detto: lo
    sono!”. E ora che il sinedrio gli chiede unanime: “Tu allora saresti il
    Figlio di Dio?”, risponde: “Voi lo avete detto: io lo sono!”.
    IL SINEDRIO
    RINNOVA LA SENTENZA DELLA VIGILIA
    “Ed essi ripeterono:
    ‘Che bisogno abbiamo di altre testimonianze? Lo abbiamo sentito dalla sua stessa
    bocca!'” (Lc 22, 70-71).

    In questo modo la seconda assemblea generale ha di che confermare la precedente sentenza.
    Tutti i membri del sinedrio pronunziarono una identica sentenza di morte; e i giudici,
    bramosi di passare all’esecuzione dell’imputato, dichiararono chiusa la seduta. Ogni
    ulteriore esame, ogni indagine, per quanto minuziosa, sarà ormai inutile.

    Il procedimento è chiuso, uomini del sinedrio, ma non l’accumularsi delle
    vostre scorrettezze!

    Siamo infatti a una ventiquattresima irregolarità poiché da
    parte vostra, come pure vi era stata nella notte, ecco un’altra votazione in massa,
    cosa assolutamente proibita dalla Legge: “Ciascuno, a suo turno, dovrà
    esprimersi assolvendo o condannando” (Mischna, trattato “Sannédrin”
    c. 5, 5).

    E un’ennesima irregolarità viene adesso ad aggiungersi alle altre, poiché
    avevate l’obbligo di controllare con attenzione la risposta dell’accusato. Avendo
    voi postagli la questione: “Sei tu il Figlio di Dio?” e avendo egli risposto:
    “Sì, lo sono!”, voi avevate il dovere di sottomettere immediatamente
    al più accurato esame le due proposizioni contenute nella risposta data dal
    Cristo: 1) 1l Messia dev’essere Figlio di Dio?”, e 2) Gesù è Figlio
    di Dio?”. Non avendolo fatto, voi avete compiuto una venticinquesima
    irregolarità.

    E anche una ventiseiesima, poiché voi avete pronunziato immediatamente
    una sentenza che, in ogni caso, doveva essere differita. Quella infrazione giudiziaria,
    già commessa nella vigilia, voi la ripetete questa mattina. Per dargli una
    forma regolare, la sentenza avrebbe dovuto essere rimandata al sabato mattina. Il
    processo, infatti, iniziatosi nella notte tra il giovedì e il venerdì,
    faceva parte del giorno di venerdì, giacché è usanza degli ebrei
    contare un giorno da un tramonto all’altro. Il primo giorno del processo andava dal
    giovedì sera al venerdì sera. Orbene, essendovi l’obbligo (lo abbiamo
    di già fatto notare) di lasciar trascorrere una notte d’intervallo tra la
    fine di un dibattimento e l’enunciazione della sentenza […], ne seguiva che non
    poteva essere né il giovedì sera, né il venerdì mattina,
    né il venerdì sera, ma unicamente il sabato mattina che la sentenza
    poteva essere regolarmente emessa.

    Ma questa non è l’ultima delle irregolarità: ve n’è ancora un’altra:
    la ventisettesima.

    La decisione di condannare a morte Gesù è invalida poiché era
    stata emessa in un locale proibito, nella casa cioè di Caífa, mentre
    doveva essere pronunziata nella sala delle pietre squadrate, obbligatoriamente stabilita
    per ogni giudizio criminale, sotto pena di nullità: “Non poteva esservi
    condanna a morte se non quando il sinedrio sedeva nella sala prefissata, ossia nella
    sala delle pietre squadrate” (Talmud di Babilonia, trattato “Abboda-Zara
    o dell’idolatria”, c. 14).. Gli autori talmudici han ben compreso la gravità
    di quest’ultima irregolarità se si sono sforzati di precisare in vari luoghi
    che Gesù sarebbe stato condotto, giudicato e condannato nella “sala delle
    pietre squadrate”, dove il sinedrio si sarebbe recato espressamente per compiere
    quest’atto. Perciò si legge nelle “Thosephthot o Aggiunte”
    del Talmud di Babilonia, (trattato “Sanhédrin” c. 4, 37, recto):
    ‘Va messo in chiaro che ogni volta che lo richiedesse una causa, il sinedrio tornava
    nella sala Gazitk o delle pietre squadrate, come fu fatto nella causa contro Gesù
    e altre simili”.

    Però non è null’altro che una supposizione ridicola, immaginata sei
    secoli più tardi, nel tentativo di discolparsi. La verità storica infatti
    stabilita dal Vangelo e confermata dal rapporto di testimoni oculari assicura invece
    che Gesù venne condotto, giudicato e condannato in casa di Caifa. E nessuno
    potrà mai smentire o cancellare la breve ma perentoria espressione che l’apostolo
    Giovanni usa: “Essi condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio di
    Pilato! ” (Gv 18, 26).

    E dunque, la cosa è fatta: il Cristo è stato condannato! I sacerdoti,
    gli scribi e gli anziani si precipitano dai propri posti; e mentre la vittima viene
    legata, si lanciano correndo dove si trova Pilato per richiedere la ratifica della
    sentenza e far eseguire la condanna (cf Mt 27, Mc 15, 1; 2; Lc
    18, 1; Gv 18, 28).

    Molte e commoventi cose si potrebbero porre in luce sulla colpevolezza della folla
    che, istigata dai sacerdoti e dagli scribi, prese a reclamare quanto prima la morte
    di Gesù. Ma oltre a essere oggetto di un altro scritto, dobbiamo far attenzione
    a non uscire dal tema che ci siamo proposti, e cioè stigmatizzare il sinedrio,
    un’assemblea di iniqui. È stato appunto il sinedrio che ha chiesto la comparizione
    del Cristo, che lo ha giudicato e infine condannato. La casa di Caifa, in cui costui
    ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato dalla più
    assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per verificarsi nel
    pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò il sinedrio, di
    cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari, che dev’essere
    valutato in maniera definitiva!
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    Credente
    00 26/12/2021 16:32
    CONCLUSIONE

    Lo scopo che ci siamo prefissi
    nel prendere in esame il sinedrio che giudicò il Cristo ha un duplice aspetto:
    esaminare dapprima i suoi membri, quindi il valore degli atti dibattuti.

    Adesso che siamo giunti al termine di molte, (e a nostro avviso, possiamo aggiungere
    leali e scrupolose) ricerche, cosa abbiamo ottenuto?

    Nei membri che la componevano, questa corte d’assise che si chiama sinedrio ci si
    è presentata come un coacervo di uomini per la maggior parte indegni delle
    funzioni che erano chiamati a svolgere. Privi di pietà, di dirittura e di
    valore morale: perfino gli storici della nostra stessa nazione li hanno bollati.

    Nei loro atti giudiziari, – ossia nella loro maniera di procedere – abbiamo constatato
    un numero impressionante di enormità, ben ventisette irregolarità,
    delle quali sarebbe bastata una sola per rendere invalido il giudizio! Quelle irregolarità
    le abbiamo individuate confrontando l’operato del sinedrio con il diritto penale
    ebraico allora in vigore; e qualora lo commisurassimo con il più raffinato
    diritto dei popoli moderni, ne scopriremmo chissà quante di più.

    Nessun valore morale nei giudici, nessun valore giuridico nella loro sentenza; ecco,
    israeliti, la valutazione che siamo costretti a emettere (e lo stesso farebbe qualunque
    spirito sincero, qualsiasi coscienza onesta) dopo aver letto queste pagine.

    Ebbene, lasciateci chiedere: dinanzi a simile spettacolo: non esiste per ogni ebreo
    una ragione d’onore, diremmo di più, una ragione di giustizia che obbliga
    a non ratificare il giudizio del sinedrio, prima d’aver esaminato personalmente chi
    era in realtà il Cristo?

    Di certo, egli non doveva essere un uomo ordinario: lo dimostra da sola l’inusitata
    procedura che fu seguita nei suoi riguardi. Quando, in un processo, una irregolarità
    viene a essere individuata, da sola non equivale a una giustificazione dell’imputato,
    potendo trattarsi di una disattenzione o di un caso. Però se, nell’intera
    trama di una procedura, da un capo all’altro di una seduta in tribunale, vedessimo
    apparire e accavallarsi l’una all’altra ben ventisette irregolarità, tutte
    gravi, tutte scandalose, tutte ostinatamente prodotte dagli attori, non è
    questa una prova irrefragabile che l’accusato, vittima di simili maniere di procedere,
    doveva essere una persona eccezionale?…

    Dunque, chi poteva essere questo eccezionale accusato?…

    Il giorno in cui egli fece l’ingresso trionfale (ne mancavano cinque al processo),
    dei giudei venuti da lontano per partecipare alle feste di Pasqua, provenienti dal
    paese dei Parti, dalla Media, dalla Persia, dalla Mesopotamia, dal Ponto, dalla Frigia,
    da ogni località dell’Asia, dai confini della Libia, della Cirenaica, da Creta,
    dall’Egitto, dall’Arabia e da Roma, questi giudei, davanti allo spettacolo del suo
    trionfo e all’entusiasmo popolare, si chiedevano, ciascuno nella propria lingua:
    “Quis est hic: chi è mai costui?” (Mt 21, 10).

    Tale questione, israeliti, lo spettacolo dell’ingiustizia [di cui il Cristo sarà
    presto vittima], più ancora che quello del trionfo, vi pone innanzi oggi una
    precisa domanda

    “Chi è costui?”, nei cui riguardi il sinedrio ha violato ogni forma
    di giustizia…

    “Chi è costui?”, che non ha opposto altro che dolcezza alla violenza
    e ai soprusi dei propri giudici…

    “Chi è costui?”, che ha bevuto l’amara acqua del torrente Cedron
    come Davide, ed è stato venduto come Giuseppe…

    A diciannove secoli di distanza e quando gli animi si sono placati, è una
    questione che ogni ebreo leale, tenendo nelle mani la Bibbia, può agevolmente
    risolvere.

    Quanto a noi, vostri fratelli nella carne, dopo vent’anni di studi oggi sappiamo
    chi egli sia; e non ci torna mai alla memoria e agli occhi una pagina ispirata della
    Bibbia, che ci permetterete di collocare davanti ai vostri sguardi. Meditatela, quella
    pagina, o israeliti; essa vi rivelerà chi fu in realtà il condannato
    dal sinedrio, mentre vi aiuterà a conoscere quale dev’essere, qui in terra
    l’ultimo atto del popolo giudaico prima di entrare con le sue tribù e le sue
    famiglie nella terra promessa della Chiesa, e più tardi nella terra promessa
    dell’eternità.

    Ed ecco finalmente la pagina cui abbiamo fatto cenno, del profeta Zaccaria: “In
    quel giorno il Signore proteggerà gli abitanti di Gerusalemme; il più
    debole di loro diverrà come Davide medesimo e la casa di Davide come Dio.
    Effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito
    di grazia e di implorazione: essi si volgeranno a me che hanno trafitto. E piangeranno
    su di lui come si piange per un figlio unico; faranno per lui amaro cordoglio quale
    si fa per un primogenito. In quel giorno si leverà un gran pianto in Gerusalemme
    […]. Il paese sarà in pianto, clan per clan: il clan della casa di Davide
    da sé e le loro mogli da sé; a clan della casa di Natan da sé
    e le loro mogli da sé; il clan della casa di Levi da sé e le loro mogli
    da sé; il clan della casa di Simei e le loro mogli da sé: Così
    tutti gli altri clan: ogni clan da sé e le loro mogli da sé […] E
    se qualcuno gli domanderà: ‘Che sono quelle cicatrici sopra le tue mani?’,
    egli risponderà: ‘Quelle che ho ricevute in casa dei miei amici'” (Zc
    12, 8-14; 13, 6-9).

    Davanti a questa descrizione, davanti a questo dialogo e alle piaghe di quelle mani
    e di quei piedi, chi di voialtri, Israeliti, non riconoscerà, se agisce in
    buona fede e se la grazia si degnerà di aiutarlo, l’Uomo-Dio condannato dal
    sinedrio? Poiché le Scritture vi dicono il suo nome: era il Messia, il Signore!
    I nostri padri, purtroppo, non lo riconobbero. Ma i loro figli un giorno lo potranno
    riconoscere; ognuno di essi dirà: “Signor mio e Dio mio! ” E, nel
    riconoscerlo, gli chiederanno che conceda loro di poter contemplare ancora le piaghe
    delle mani e dei piedi; e su quelle piaghe lasceranno scorrere torrenti di lacrime.
    E la terra intera si commuoverà a quello spettacolo; tutti gli uomini si uniranno
    al pianto, “famiglia per famiglia”.

    Quel giorno meraviglioso per il commosso riconoscimento, a noialtri che scriviamo
    queste righe non sarà concesso di vederlo qui in terra: l’avremo abbandonata
    da molto tempo. Ma, dall’alto del cielo, dove Dio, così speriamo, ci farà
    la grazia di riceverci, ci uniremo al nostro popolo convertito e pentito. In cielo
    non vi sono lacrime: per questo motivo vi chiederemo in prestito un poco delle vostre,
    per offrire al Signore le lacrime della casa di Davide, della casa di Natan, della
    casa di Levi, della casa di Simei, quando finalmente albeggi il giorno di quel collettivo
    singhiozzare (“cosa sono quelle ferite che hai sulle mani?”); in quel giorno,
    sì, ricordatevi di questi due figli di Israele, sacerdoti di Gesù Cristo,
    che scrissero queste pagine. E in cambio delle ore che abbiamo dedicato a questo
    lavoro, versate in omaggio qualcuna delle vostre lacrime! Versatele nel suo nome!

    PER CHRISTUM ET CUM
    CHRISTO

    PAX SUPER ISRAEL

    testo tratto da: Agostino
    e Giuseppe Lémann, L’assembea che condannò il Messia, Firenze: LEF,
    pp. 17 e 98-130.