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2.5 Procedura processuale per le cause capitali


 


 


I giudizi non avevano luogo il sabato o nei giorni di festa. In particolare nessun giudizio era possibile durante tutta la settimana pasquale ebraica, dal 14 al 21 del mese di Nisan. Anche la vigilia del sabato e dei giorni di festa non potevano essere istituiti dei processi. Sembra che la procedura processuale avvenisse in questo modo. Nel corso di una “udienza preliminare”, dopo aver selezionato i testimoni e averne trovati almeno due concordi nell'accusa, un giudice portava all’attenzione della corte un sommario di tutte le prove e di tutte le testimonianze a favore dell’accusato in ordine a un determinato fatto o ipotesi di reato. Poi venivano discusse tutte le prove a sostegno della colpevolezza. Questa fase del dibattimento era pubblica. Poi venivano allontanati gli eventuali spettatori e si procedeva ad una votazione, per maggioranza semplice. Se la votazione era per l’assoluzione il processo si concludeva immediatamente e l’eventuale “difensore” veniva immediatamente esonerato dall’incarico: il giorno stesso veniva quindi emesso un verdetto di non colpevolezza. Per prosciogliere l'imputato bastava un solo voto in più a favore. Se invece veniva votata l’imputabilità (occorrevano almeno due voti in più a favore dell'accusa) e le prove e testimonianze erano quindi state convincenti, iniziava una seconda procedura. Nessun “verdetto”, dopo la votazione a favore della imputabilità, poteva venire pronunciato in quel giorno. La corte doveva aggiornarsi per un giorno solare intero e il processo veniva sospeso. I giudici potevano recarsi a casa ma no dovevano permettere ai propri pensieri divagazioni od occuparsi in affari e attività sociali. Il loro compito durante questa fase era quello di considerare e riconsiderare le prove e di ritornare il giorno seguente per discutere e deliberare nuovamente. Si teneva quindi una seconda riunione, sempre rigorosamente di giorno, che aveva lo scopo di emettere il verdetto definitivo (assoluzione o condanna). Nel corso della prima votazione poiché si era arrivati alla imputabilità c’erano stati più giudici che avevano votato per la colpevolezza che giudici “innocentisti”. Nel corso della seconda e definitiva votazione i giudici innocentisti non potevano modificare il voto che avevano dato nella prima votazione. Tutto si giocava quindi sui giudici colpevolisti della prima votazione. Se un numero sufficiente di questi cambiava idea, allora l’accusato veniva assolto altrimenti veniva condannato. Non era possibile che il verdetto di colpevolezza fosse stato votato da tutti i giudici all’unanimità. Ci doveva essere almeno un voto “innocentista”. Una condanna all’unanimità dell’imputato era vista come una forma persecutoria e cospiratoria nei confronti dell’imputato, e di conseguenza non era permessa. Paradossalmente se ciò avveniva l’imputato veniva immediatamente assolto e rilasciato.


 


 


2.6 Reati particolari


 


 


Non sappiamo esattamente quali fossero i reati di competenza del Sinedrio di Gerusalemme e quali invece dell’autorità romana. Certamente tutti i processi per cause “religiose” anche con possibilità di pena capitale erano gestiti dal Sinedrio. Pare invece che i reati per “sedizione” fossero di competenza dell’autorità romana. Nel caso di Gesù, visto che, come vedremo, ci sono numerose anomalie procedurali secondo quanto ci hanno narrato gli evangelisti, è possibile che egli sia stato esaminato in modo informale e consegnato ai romani per condannarlo per il reato di sedizione, reato non di competenza del Sinedrio. Conveniva agire in questo modo anche perché c’erano alcuni membri del Sinedrio che erano seguaci o simpatizzanti di Gesù e avrebbero potuto votare per l’innocenza (una cosa simile avviene in occasione del processo a Pietro da parte del Sinedrio, descritto negli Atti degli Apostoli). La tesi secondo cui in alcuni anni dell’occupazione romana fosse impedito al Sinedrio di emettere sentenze capitali (riservandole all’autorità romana) non è inverosimile. Infatti la Palestina in quei tempi era una terra ribelle e in costante tensione. Il Sinedrio avrebbe potuto condannare a morte molti ebrei favorevoli ai romani, e questo non era visto di buon occhio. I reati capitali che venivano giudicati dall’autorità romana passavano dal procuratore romano. Egli doveva riesaminare tutto il caso e tutte le prove che erano state presentate. Il verdetto era emesso personalmente dal procuratore e sembra che non si avvalesse di alcuna corte (questa procedura fortemente accentrata in genere era usata dai romani nelle zone di occupazione difficili e ribelli).


 


 


2.7 Esecuzione della sentenza di morte


 


 


Il Sinedrio aveva adottato come pena capitale la lapidazione ma vi erano quattro modi per eseguire la condanna a morte: in ordine di gravità, lapidazione, rogo, decapitazione e impiccagione (Sanhedrin, Cap. VII). In genere la lapidazione era la condanna tipica adottata dal Sinedrio. La crocifissione era praticata solo dai Romani e da altre popolazioni, non dagli ebrei. Prima dell'esecuzione l'imputato veniva svestito e denudato. Un uomo veniva lapidato nudo al contrario di una donna (Shanerin, Cap. VI, folio 44b). La lapidazione, che era la punizione capitale per eccellenza nel mondo ebraico a quel tempo, era iniziata dai testimoni. Se il condannato non moriva subito allora anche altre persone potevano partecipare all'esecuzione: era questa un'altra forma per responsabilizzare i testimoni (Sanhedrin, Cap. VI, folio 45a). La lapidazione era considerata la pena di morte più severa ed infamante nel mondo ebraico, come attesta lo stesso Sanhedrin. Era riservata ai bestemmiatori (Levitico 24:14-16) e agli ebrei che adoravano gli idoli stranieri (Deuteronomio 17:2-5). Veniva lapidato anche chi aveva commesso particolari abusi sessuali: incesto, brutalità con animali, omosessualità, ecc... oppure reati quali la magia, stregoneria, idolatria, inosservanza del sabato (Sanhedrin, folia 53a e 53b). Gesù può essere accusato di aver violato il sabato o di essere un bestemmiatore (per aver affermato di essere il Messia) quindi il Nuovo Testamento dà testimonianza di alcuni casi in cui tentarono di lapidarlo. Anche i suoi miracoli invece che opere prodigiose potevano essere viste come opere magiche, per le quali era prevista la lapidazione. La Ghemarah del Sanhedrin sostiene che il rogo era meno infamante della lapidazione, veniva condannata a questo supplizio per esempio la figlia di un sacerdote che fosse trovata in adulterio.  La morte di spada era riservata ad esempio alle città che si ribellavano al monoteismo giudaico, in accordo a Deuteronomio 13:13-19. L'impiccagione era ad esempio riservata a quelli che non onoravano il padre e la madre (Sanhedrin, Cap. 7, Folio 49b e segg.). Secondo Il Cap. X del Sanhedrin un falso profeta o uno che profetizza nel nome di un idolo deve essere impiccato. Contro i falsi profeti vedi anche il folio 89a del Cap. 10 del Sanhedrin. Non è ben chiaro allo stato delle conoscenze attuali se durante il periodo dell’occupazione romana, nel cosiddetto periodo dei procuratori, il potere di condannare a morte (lo jus gladii) avesse subito delle limitazioni e certi tipi di reato che prevedevano la pena di morte, se non tutti i reati punibili con sentenze capitali, fossero di competenza del procuratore romano (vedi Cap. 2.8).


 


 


2.8 Il potere di condanna a morte


 


 


Sul reale potere di mandare a morte i condannati al termine di una causa capitale esiste una certa discussione perché non è ben chiaro se il Sinedrio avesse effettivamente questa competenza da un punto di vista pratico, oppure se venisse delegata al procuratore romano. Il Talmud Babilonese, infatti, descrive un Sinedrio ideale, supponendo che lo stato ebraico non fosse soggetto ad influenze esterne come ad esempio la dominazione romana. Il Talmud, per esempio, ipotizza che vi sia il re e descrive i rapporti tra questi e il Sinedrio: ma al tempo di Gesù, dopo la destituzione di Archelao, non esiste più un sovrano ebreo a Gerusalemme, se si esclude il breve regno di Agrippa I che possedette la Giudea dal 41 al 44 d.C., l'anno in cui morì. La Giudea verso il 30 dopo Cristo era amministrata da un governatore romano, per cui si pone il problema di stabilire quali fossero i rapporti tra il Sinedrio e l'autorità romana. Non è noto con certezza se e quali particolari reati fossero di competenza del solo governatore così come se spettasse sempre e solo al governatore la decisione finale di mandare a morte un cittadino, confermando l'esito del processo del Sinedrio: probabilmente durante le varie epoche storiche del periodo dei governatori si è avuta una modifica delle competenze del Sinedrio, a seconda delle circostanze e della situazione dell'ordine pubblico in Giudea. Giuseppe Flavio afferma che Coponio, il primo procuratore romano dopo la destituzione di Archelao, in carica dal 6 d.C. al 9 d.C., aveva il potere di mandare a morte i Giudei: "essendo stato ridotto a provincia il territorio di Archelao vi fu mandato come procuratore Coponio, un membro dell'ordine equestre dei Romani, investito da Cesare anche del potere di condannare a morte" (Guerra Giudaica, 2.117; Antichità Giudaiche, 18.2). Si consideri poi che, come abbiamo detto, gran parte delle nostre conoscenze in questa materia derivano dal Talmud Babilonese, un'opera messa per iscritto molto tardi rispetto alle vicende che coinvolsero Gesù. E proprio leggendo il Talmud Babilonese apprendiamo che non sempre il Sinedrio poteva promulgare autonomamente delle sentenze di morte (vedi Sanhedrin, folio 41a). Nella versione del Sanhedrin del rabbi I. Epstein leggiamo:


 


Talmud Bab., Sanhedrin, folio 41a - "Il rabbi Johanan ben Zakkai diceva che quarant'anni prima della distruzione del Tempio i sinedriti furono esiliati e si stabilirono in Hanut. Riguardo a ciò il rabbi Isaac ben Abudimi diceva: 'questo è per insegnare che essi non discutevano i casi di Kenas. Casi di Kenas! Come si può davvero pensare questo? Diciamo piuttosto che non discutevano le cause capitali'."


 


Data l'importanza di questo passo nell'ambito della materia che stiamo trattando, riportiamo il brano per intero nella versione originale inglese di I. Epstein, comprensiva delle note a piè di pagina:


 



Babylonian Talmud, Sanhedrin, folio 41a - "Forty years before the destruction of the Temple, the Sanhedrin were exiled [42] and took up residence in Hanuth. [43] Whereon R. Isaac b. Abudimi said: This is to teach that they did not try cases of Kenas. [44] 'Cases of Kenas!' Can you really think so! [45] Say rather, They did not try capitol charges. [46]"
 

Notes:
[42] From the Hall of Hewn Stones. V. infra p. 205, n. 5.
[43] [H] A place on the Temple Mount outside the hewn chamber where they had temporary residence. (Derenbourg, Essai, p. 467, and Krauss, REJ, LXIII, 66f., identify it with the 'Chamber of the sons of Hanan' (a powerful priestly family, cf. Jer. XXXV, 4) mentioned in J. Pe'ah I, 5.] 
[44] V. Glos.; Kenas = a fine or penalty (as distinct from actual monetary loss caused), to be paid by certain classes of wrongdoers, e.g., a seducer.
[45] That these, like capital charges, could be tried only in the chief seat of the Sanhedrin — the Hall of Hewn Stones! These cases could, in fact, be tried anywhere in Palestine. 
[46] V. A.Z. 8b on Deut. XVII, 10: And thou shalt do according to the tenor of the sentence which they shall declare unto thee, from that place; this implies that it is the place that conditions the authority of the Sanhedrin in respect of the death sentence. [J. Sanh. I, 1 has, 'the right to try capital cases was taken away from them, i.e., by the Romans. For a full discussion of the subject v. Juster. op. cit, II, 138ff.]

 

Quaranta anni prima della distruzione del Tempio, avvenuta nel 70 d.C., siamo verso il nel 30 d.C., al tempo di Pilato e proprio nell'intorno degli anni in cui venne condannato a morte Gesù Cristo. Secondo la Gemarah del Talmud Babilonese, il rabbi Johanan ben Zakkai insegnava che a quel tempo il Sinedrio aveva cambiato sede e si era trasferito (venne obbligato a farlo) in Hanut, un luogo che secondo il commento di I. Epstein si trovava nei pressi dell'area del Tempio di Gerusalemme. In seguito a questo cambiamento il Sinedrio non poteva discutere i casi di Kenas, particolari reati della legge ebraica, ma il rabbi Isaac ben Abudimi sosteneva che questo non era credibile, in quanto i reati possono essere discussi in qualunque luogo della Palestina, non necessariamente nella precedente sede del Sinedrio. Piuttosto, osservava Isaac ben Abudimi, bisognava dire che nella nuova sede i sinedriti non potevano più discutere le cause che prevedevano la condanna a morte. In una delle note a questo passo I. Epstein osserva inoltre che anche il Talmud di Gerusalemme riporta che "il diritto di discutere le cause capitali fu loro tolto" dove il "loro" è riferito ai Romani (cfr. Talmud Gerusalemme, Sanhedrin 1.18a e 7.24b). Anche il trattato 'Abodah Zarah, facente parte del Talmud Babilonese e citato da Epstein nella nota 46 del prec. passo del Sanhedrin, riporta che:

 

Babylonian Talmud, 'Abodah Zarah, folio 8b - "Forty years before the Temple was destroyed did the Sanhedrin abandon [the Temple] and held its sittings in Hanuth. [...] But said R. Nahman b. Isaac: Say not that 'cases of fines' ceased, but that capital cases ceased. Why? — Because when the Sanhedrin saw that murderers were so prevalent that they could not be properly dealt with judicially, they said: Rather let us be exiled from place to place than pronounce them guilty [of capital offences] for it is written: And thou shalt do according to the sentence, which they of that place which the Lord shall choose shall tell thee, which implies that it is the place that matters."

 

Secondo questo trattato proprio verso il 30 d.C., quarant'anni prima della distruzione del Tempio, i casi discussi che prevedevano la messa a morte erano talmente numerosi che il Sinedrio decise di non emettere più sentenze capitali (ma forse fu obbligato in questo dall'autorità romana) e cambiò la sua sede trasferendosi in Hanuth. Altri spostamenti del Sinedrio, compreso questo in Hanuth, sono testimoniati anche dal Rosh Hashanah, un'altro trattato del Talmud Babilonese (cfr. folia 31a e 31b). Inoltre Giuseppe Flavio nel riferire l'episodio del processo a Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù, un fatto avvenuto nel 62 dopo Cristo, sostiene che il Sinedrio non poteva neppure riunirsi autonomamente senza il consenso del procuratore romano (cfr. Antichità Giudaiche, 20,197-203): così il sommo sacerdote Anano verrà destituito dal procuratore Lucceio Albino per aver convocato il Sinedrio senza il suo permesso e condannato a morte Giacomo il Giusto. Queste informazioni sembrano confermare che, almeno in alcune fasi storiche, il Sinedrio non poteva emettere in modo autonomo delle sentenze capitali, essendo la sua attività controllata dal procuratore romano. Viene in mente quanto afferma Giovanni nel suo Vangelo, con riferimento ai sacerdoti, i quali ricordano a Pilato: "a noi non è consentito mettere a morte nessuno" (Giovanni 18:31). Una fase alquanto incerta è costituita dal breve regno di Agrippa I in Giudea (41-44 d.C.), quando i Romani non amministravano più direttamente Gerusalemme. Secondo gli Atti, Agrippa I aveva potere di arrestare e uccidere: "in quel tempo il re Erode [Agrippa I] cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, il fratello di Giovanni; vedendo che questo era gradito ai Giudei fece arrestare anche Pietro" (cfr. Atti, 12:1). Il Talmud sembra quindi descrivere il funzionamento di un Sinedrio ideale, senza tenere conto delle varie limitazioni che dovette subire nel corso del travagliato periodo dei procuratori romani. Occorre quindi molta prudenza nell'utilizzare questa importante fonte.