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SECONDO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA

E invece, detta undicesima
irregolarità venne realmente commessa. Anziché scartarle come gli imponeva
un’equa amministrazione della giustizia, Caifa prende per buone le discordanti deposizioni,
e ne fa anzi il punto di partenza d’un secondo interrogatorio.

“Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò
Gesù dicendo:’Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te?'”
(Mc 14, 60).

Era come dirgli: “Non ti rendi conto della gravità delle accuse che ti
rivolgono costoro? Perché te ne stai zitto. Parla, dunque…” Caifa attendeva
che il Cristo, toccato nell’amor proprio, desse delle spiegazioni e fosse condotto
dalle sue stesse parole dove magari non avrebbe voluto.

“Ma egli continuava a tacere, e non rispose nulla” (Mc 14, 61).

La causa di Gesù si difendeva da sé, ed egli non aveva da far nulla
per tutelarla. Avendo fatto allusione non al Tempio materiale di Gerusalemme bensì
al mistico tempio del proprio corpo, la spiegazione della frase incriminata la si
poteva trovare unicamente nel significato letterale delle parole da lui dette e non
già nelle ambigue allusioni attribuitegli dai falsi testimoni. Quanto a Caifa,
Gesù non gli risponde parola per fargli comprendere che aveva inteso quale
fosse il suo gioco. Il suo silenzio era un rimprovero fin troppo eloquente. In quel
momento si stava compiendo una profezia di Davide: “Coloro che cercano un pretesto
per togliermi la vita e vorrebbero perdermi affermando falsità, non pensano
che a tendermi tranelli. Ma io sarò verso di loro come un sordo che non sente
quel che gli dicono, e come un muto che non apre bocca” (Sal 37, 13 -15).

È stupefacente che questo tranquillo e maestoso silenzio di Gesù non
abbia aperto gli occhi ai giudici. È davvero cosa assai strana restarsene
in silenzio dinanzi a situazioni in cui si sta correndo il rischio d’essere messo
a morte! Tra non molto Pilato, quantunque sia pagano, resterà colpito da un
analogo, maestoso silenzio che il Cristo manterrà in sua presenza; verrà
assalito dal dubbio e dal rispetto per quell’uomo, e farà non pochi sforzi
per cercare di risparmiargli la vita. Ma qui Caifa e il sinedrio, anziché
riconoscere dal volontario silenzio Colui di cui aveva profetizzato Isaia, proprio
riferendosi al silenzio e all’atteggiamento remissivo: “Egli resterà
in silenzio come un agnello davanti a chi lo tosa” (Is 53,7), Caifa e
l’assemblea si sentono invadere da un crescente furore. Vogliono far cessare quel
silenzio accusatore che li confonde e li domina. Occorre trovare un via d’uscita!
Una via che consenta di porre termine a quell’assurda situazione. E Caifa alla fine
riuscirà a trovarla…
TERZO
INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA
“Di nuovo il sommo
sacerdote lo interrogò, dicendogli: “Ti scongiuro per il Dio vivente,
di dirci se tu sei il Messia, l’Eletto, il figlio di Dio benedetto!” (Mc
14, 6 1; Mt 24, 63).

Una cosa della massima importanza da tener presente è che ha avuto luogo un
improvviso cambio nel capo d’accusa. Infatti non si parla più né di
testimoni né di testimonianze; Caifa, per così dire, le ha buttate
nel cestino della carta straccia e, tutto a un tratto, riconosce insufficienti tutte
le deposizioni così affannosamente cercate e esposte fin allora con pessimi
risultati; egli confessa, data la medesima necessità in cui si vede stretto
d’interrogare egli stesso Gesù, che non possedeva uno straccio di prova da
produrre contro di lui. Ma allora, ci si chiede, perché Gesù è
li davanti a lui e al sinedrio strettamente legato? Perché lo si è
trascinato davanti all’assemblea come un malfattore, se ancora non si sa praticamente
nulla di lui, e ci si sforza di ottenere queste informazioni dalla sua stessa voce?

I testi e le loro fasulle deposizioni dunque sono state scartate. Cambio di scena,
in cui ha rilievo soltanto lui, Caifa. Lui, già giudice e presidente del tribunale,
si abbassa al rango dei testimoni e assume per la seconda volta il ruolo di accusatore.
Ma nel dichiararsi fino a quel punto contrario a Gesù, mentre che le sue funzioni
istituzionali gli vieterebbero ogni altra cosa che non sia quella d’essere giudice
sia sulle accuse, sia sulla difesa dell’imputato, ecco profilarsi una dodicesima
irregolarità.

E subito appresso, una tredicesima, che si trova nella richiesta supplicante
che rivolge al Cristo: “‘Ti scongiuro per il Dio vivente, di dirci se tu sei
il Cristo!” Questa impegnativa richiesta avrebbe dovuto venir rivolta ai testimoni,
per scongiurarli di dire solo la verità. Lo esigeva la Legge: “Bada che
ti stai caricando di una grave responsabilità [ … 1 Se tu facessi condannare
ingiustamente l’accusato, Dio te ne chiederà conto, come lo richiese a Caino
del sangue di Abele! ” (Mischna, trattato “Sanhédrin”
c. 4, 5). Ma se il giuramento era obbligatorio per i testimoni, non era consentito
all’accusato poiché lo avrebbe messo nell’alternativa di essere sper-giuro
o di incriminare sé stesso: “Per noi è basilare che nessuno possa
arrecare danno a sé stesso” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
c.. 6, 2). Ora, in quell’iniquo processo non era stato richiesto alcun giuramento
dai testimoni, e lo si esige dall’accusato! Questa grave infrazione alla morale e
alla giurisprudenza, un profeta l’aveva preannunziata e stigmatizzata [e di ciò
portiamo di seguito due versioni:, che però fondamentalmente concordano]:
“Ti han sempre sulla bocca, o mio Dio, nella speranza di riuscire nei disegni
criminosi. Sono tuoi nemici, e osano ugualmente invocare il tuo nome! ” (dalla
Volgata) “Essi parlano di te nei loro letti infamanti e giurano il falso nelle
tue città” (la moderna versione della Cei). (Sal 138, 20).

Riguardo all’interrogazione, nel suo contenuto, non era altro che un trabocchetto
da parte di Caifa. Chiedendo a Gesù che, nel nome del Dio vivente, dichiarasse
se era o meno Figlio di Dio, Caifa prevedeva che, qualunque fosse stata la sua risposta,
non poteva avere per conseguenza se non la pena di morte. Infatti, se Gesù
(pensava Caifa) nega d’essere Figlio di Dio, sarà condannato in quanto impostore
poiché pubblicamente aveva insegnato il contrario. Se invece avesse osato
dichiararsi Figlio di Dio, la condanna non era meno sicura, perché si sarebbe
reso colpevole di bestemmia. Dunque la negazione era un crimine, e del pari l’ammissione.

Gesù diede questa risposta: “Lo sono, come hai detto tu!” (Mc
16, 61-62).

Gesù si inchina dinanzi alla maestà di Dio, perfino sulle labbra del
sommo sacerdote. Egli cede a una domanda di cui conosce la recondita malizia, ma
che è rivestita di ciò che vi è di più augusto nella
religione. Non si era ingannato circa la simulazione del pontefice, ma egli vuole
onorare il nome divino di cui quell’uomo si serve per nascondere la propria malizia.

LA CONDANNA PRONUNZIATA DAL SINEDRIO

“Allora il principe
dei sacerdoti si strappò le vesti, dicendo: ‘Ha bestemmiato! A questo punto,
abbiamo ancora bisogno di testimoni? Tutti voi avete appena adesso sentito la bestemmia.
Che ve ne pare?” (Mt 24, 65-66).



Siamo ormai al sipario che cala, mentre le irregolarità quasi non si contano
più. Il sommo sacerdote si strappa le vesti. Un giudice che si irrita fino
al punto di lacerarsi l’abito pontificale! Non vi è solo una quattordicesima
irregolarità in materia di giustizia, ma il venir meno a quella dolcezza
e a quel rispetto che la legge prescriveva al giudice nei confronti dell’accusato,
[e qui riportiamo un testo già più volte citato]: “Figlio mio,
ammetti la tua colpa [ … I. Mia cara figliola, qual’è la causa che ti indotto
in peccato?” (Gs 7, 19. – Míschna, trattato “Sota”
c. 1, 4).

E vi è inoltre violazione della legge religiosa, che espressamente proibisce
al sommo sacerdote di strapparsi le vesti. Tale gesto poteva essere compiuto da qualunque
ebreo, in segno di grande dolore. Ma non era consentito al grande pontefice: glielo
proibiva un divieto assoluto poiché le sue vesti, stabilite da Dio, erano
figura del sacerdozio in sé stesso: “Il pontefice, cioè colui
che rappresenta il sommo sacerdote tra i suoi fratelli, sulla cui testa è
stato versato l’olio dell’unzione, le cui mani sono state consacrate per compiere
le funzioni sacerdotali ed è rivestito dei santi abiti, non strappi mai queste
sue vesti” (Lev 21, 10). Strappa le tue vesti, Caifa! Non sarà
trascorso un giorno, che il velo del Tempio lo sarà del pari, per far capire
a tutti che il sacerdozio d’Aronne e il sacrificio della Legge di Mosè sono
stati ormai aboliti, al fine di lasciare spazio all’eterno sacerdozio del Pontefice
della Nuova Alleanza!

“Costui ha bestemmiato!’. In questo grido convergono due nuove irregolarità.
Una quindicesima poiché in quel modo si incriminava la risposta dell’accusato
prima di aver concluso l’esame. La risposta era stata data negli stessi termini in
cui Caifa aveva avanzato la domanda. Aveva chiesto a Gesù: “Sei tu il
figlio di Dio?” e Gesù aveva risposto: “Lo sono”. Doveva a
quel punto esaminarsi se il Cristo diceva il vero: lo esigeva l’equità. Comandate
che vengano presentati i libri santi, apriteli dinanzi al tribunale, richiamate alla
memoria a uno a uno tutti i caratteri del Messia, cercate soprattutto se egli debba
essere Figlio di Dio. Fatto questo, confrontate gli elementi raccolti dalla Scrittura
e raffrontateli con l’uomo che vi sta davanti, e che si proclama figlio di Dio. Se
di tutti gli elementi annunziati dai profeti ne mancasse anche soltanto uno, allora
sì, potete dire, anzi dichiarare solennemente che egli ha bestemmiato! Ma
incriminare la sua risposta prima di averla sottoposta a una sia pure superficiale
indagine, non equivale a commettere un atto iniquo e palesemente odioso? Non è
un insultare la giustizia? Non è violare i più elementari doveri del
vostro incarico, che è quello di esaminare per bene ogni cosa? “Quando,
dopo un approfondito esame – dice il Deuteronomio – voi avrete riconosciuto, ecc
(Deut 19, 18). Avete sentito? “Dopo un esame accurato!” E qui, invece,
non vi è nemmeno l’ombra di un qualsiasi esame! I giudici soppeseranno ogni
cosa nella sincerità della propria coscienza”, aggiunge la Mischna (trattato
“Sanhédrin” 4, 5), ma qui in cambio la coscienza viene a
essere soffocata…

L’altra irregolarità, la sedicesima, commessa da Caifa quando grida:
“Ha bestemmiato!”, sta nel fatto che egli si permette di prevenire i pareri
degli altri giudici li presenti. Qualificando di bestemmia la risposta dell’accusato,
egli priva di ogni libertà nel suffragio che competeva ai giudici subalterni.
“Io assolvo” oppure “Io condanno” doveva essere, secondo la Mischna
(trattato “Sanhédrin” c. 5, 5), la formula mediante cui esprimere
il proprio voto. Gridando invece “Egli ha bestemmiato!”, Caifa non lascia
più ai suoi colleghi la possibilità di emettere una diversa opinione,
poiché l’autorità del sommo sacerdote era, presso i giudei, ritenuta
infallibile.

Eccolo però farsi ancor più ingiusto: “Che bisogno abbiamo noi
di testimoni?” Come! Un giudice che osa proclamare che si può fare a
meno di testimoni, mentre è la Legge che lo esige! Non sa forse che la Legge
spesso scende fino ai dettagli più piccoli? Non ha forse determinato che a
ciascun testimone dovranno essere poste sette precise domande? Le abbiamo viste di
già, però qui tornano assai utili. “Era l’anno del giubileo? O
era invece un anno ordinario? In che mese la cosa ha avuto luogo? In quale giorno
del mese? A che ora? Dov’è successo? Si tratta di questa persona qui?”
(Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 5, 1). Ma Caifa, che non
attende altro che di vederlo condannato e al più presto, calpesta l’intera
procedura processuale, e quel che è peggio, addirittura la sopprime: ed è
una diciassettesima irregolarità.

E ne commette subito appresso un’altra: “Cosa ne pensate di costui?”. Nulla
vi era di più irregolare che chiedere che il suffragio venisse espresso pubblicamente
e in generale. “Ciascuno parlerà quando sarà il suo turno – dice
la Mischna -, i giudici si esprimeranno per assolvere o condannare” (trattato
“Sanhédrin” c. 15, 5). Ciascuno al suo proprio turno, Caifa!
Tu invece fai emettere una condanna, e tutti in massa! E poi, quale amara derisione!
Dopo essersi stracciate le vesti con le espressioni dell’orrore più profondo;
dopo aver, con quel gesto, trasmesso agli astanti una sorta di terrore religioso;
dopo aver qualificato come orribile bestemmia la risposta di Gesù; dopo aver
dichiarato che non c’era più bisogno di nuove testimonianze per condannare
quest’uomo alla pena capitale, chiedere ai propri colleghi cosa gliene sembrasse,
non è la più amara delle derisioni?

E la risposta del sinedrio fu quella che egli aveva previsto.

Tutti risposero: “È degno di morte!” (Mt 26, 66; Mc
14, 64). Quante irregolarità in questa sentenza!

Eccone una diciannovesima, perché non vi fu nessuna deliberazione legale
e i giudici, andando dietro all’asserzione di Caifa, espressero precipitosamente
una sentenza di morte: “dopo aver giudicato la questione, i giudici si riuniranno
e riprenderanno tra loro l’esame della causa” (Míschna, trattato “Sanhédrin“,
c. 5, 5).

Vi fu ancora una ventesima irregolarità, poiché la sentenza
è stata emessa lo stesso giorno in cui il processo aveva avuto inizio, mentre
che, stando alla Legge, essa doveva essere differita all’indomani. “Ogni giudizio
criminale può aver termine nel medesimo giorno d’inizio se la sentenza è
favorevole all’imputato. Ma se dovrà essere eseguita una condanna a morte,
il processo non potrà dirsi concluso se non il giorno appresso” (Mischna,
trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1).

Ed ecco una ventunesima irregolarità, poiché i due scribi segretari
non avevano raccolto i voti, e addirittura i giudici non avevano votato: “Ad
ognuna delle estremità del sinedrio prendevano posto dei segretari incaricati
di raccogliere i voti: uno, quelli che assolvevano; l’altro, quelli che condannavano”
(Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 3).

Ecco come si svolse quella sessione notturna, profeticamente descritta in un oracolo
pronunziato da Davide: “Un’assemblea di malvagi mi ha trascinato in mezzo a
essa. Uomini peccatori si sono dati appuntamento, aspettando solo l’occasione buona
per perdermi” (sal 21 e 118). Ventuno irregolarità vennero
commesse quella notte, e non un solo giudice si levò a protestare. E quel
che sottolinea il Vangelo: “Omnes – ossia tutti -, gridarono assieme:
‘Merita la morte!'” (cf Mc 14, 64). Non è senza motivo che l’evangelista
rimarcò la cosa. Equivale a un’esclamazione sentenziosa, come un gemito di
dolore per uno scandalo, come un mettere in risalto una grande sorpresa. Essa significa
che è stupefacente che, tra le settantadue persone che avrebbero dovuto essere
presenti in un’assemblea plenaria del sinedrio, non se ne sia trovata una sola con
quel minimo di coscienza e di coraggio per protestare contro una così illegale
e inaudita maniera di procedere. I partecipanti all’assemblea erano devoti e forse
succubi di Caifa, e corrotti al pari di lui. Così, non vi fu alcuna protesta
contro quel cumulo di irregolarità.

Nessuna voce, neppure una, a favore della sua difesa. E dire che la Legge giudaica
autorizzava chiunque a prendere la parola a favore dell’imputato; era un intervento
considerato come un atto di attenzione misericordiosa: “Quando io mi recavo
alla porta della città [per giudicare chi avesse bisogno], ero capace di spezzare
le mascelle all’ingiusto, strappandogli la preda di bocca” (Gb 29, 16-17)

Però va detto che in quella seduta notturna, gli unici due membri del sinedrio
che avrebbero sicuramente preso la parola in favore dell’accusato – Giuseppe d’Arimatea
e Nicodemo -, non erano presenti! Essi si erano rifiutati di partecipare a una seduta
irregolare, che si era voluto convocare nottetempo e alla vigilia della solennità
pasquale. Anche se già in anticipo potevano dichiararsi sicuri che le loro
voci non sarebbero state ascoltate (già in un precedente consiglio la protesta
di Nicodemo era stata sdegnosamente respinta: “Numquid et tu Galileus es?[,
ossia]: per caso sei anche tu seguace del Galileo [Gesù]?”; Gv
7, 52), entrambi si erano dissociati dai disegni e dagli atti illegali del sinedrio.
Il Vangelo lo dice espressamente di Giuseppe d’Arimatea: “Egli non aveva aderito
alla decisione e all’operato degli altri […] e aspettava il regno di Dio”
(Lc 23, 50-51). Non possiamo dubitare che la medesima cosa si sarebbe potuta
ripetere di Nicodemo, che aveva preso coraggiosamente le difese del Cristo.

Così, il povero accusato rimase lì in mezzo, solo e senza nessuno che
cercasse di difenderlo. Quando gli undici figli di Giacobbe si accordarono di mettere
a morte Giuseppe, due di essi, Ruben e Giuda, presi dai rimorsi, alzarono la voce
per dire almeno: “Sarà meglio che lo vendiamo agli ismaeliti, senza macchiarci
le mani, poiché alla fin fine è nostro fratello e partecipe della medesima
carne” (Gn 37, 27).

E quando il traditore Achitofel persuase nel consiglio presieduto da Absalon di perseguitare
e far morire Davide, uno straniero, Cusai d’Arachi, prese le difese dello sfortunato
monarca, tradito dai propri sudditi e inseguito dal proprio figliolo (2 Sam 15,
32 e 17, 1-14). Qua invece, non una sola voce si leva compassionevole in favore di
colui che era nostro fratello più che Giuseppe, più re e padre che
Davide. Il povero innocente vide compiersi alla lettera la profezia annunziante che
sarebbe stato abbandonato alla più completa indifferenza: “Sono caduto
in oblio come un morto” (Sal 30,13).

Allorché il sinedrio, interpellato da Caifa, ebbe dichiarato all’unanimità
che Gesù meritava la morte, si fece segno alla soldataglia di prenderlo in
consegna e di custodirlo a vista per il resto della notte.

E una strana scena ebbe luogo.

“Gli sputavano in viso e lo colpivano con dei pugni; altri gli bendarono gli
occhi e dopo averlo schiaffeggiato, gli chiedevano: ‘Cristo, fa’ il profeta e dicci
chi ti ha colpito adesso?'” (Mt 26, 67-68; Mc 14, 65).

Quindi, dopo la condanna, Gesù fu abbandonato ai soldati e agli uomini della
polizia, lasciandoli liberi di sfogare sulla sua persona ogni specie d’oltraggi che
avessero voluto. Più di un autore ha considerato quella notte crudele come
uno dei tormenti maggiori dell’intera Passione sofferta da Gesù Cristo. Una
cosa à certa: che dal punto di vista giuridico, vi fu una vera e propria scelleratezza.
In tutte le nazioni civili, un condannato, per quanto possa essere criminale, fino
al momento dell’esecuzione resta sotto la protezione della legge; e mai si è
visto dei giudici tollerare che da parte dei soldati e delle forze dell’ordine tali
e tanti eccessi rivoltanti contro non solo la giustizia, ma la natura e la stessa
ragione umana.

Essendo tale enormità compiuta al termine della seduta notturna, potremmo
aggiungere ulteriori irregolarità al numero di quelle di già registrate.
Ma vergogna, mille volte vergogna a Caifa che, tollerando che quell’abuso e quegli
eccessi si verificassero nella sua stessa casa, assunse sul proprio capo qualcosa
che superò le villanie compiute dai Filistei contro la persona di Sansone
(Gdc 16, 25). Come Sansone, che di Lui era stato figura, così il Cristo
venne circondato da gente che, facendosi beffe della sua disgrazia, si divertì
a sputargli in viso, facendolo oggetto di scherzi volgari. Si consentì che
chiunque lo potesse insultare, colpire, saziandosi degli obbrobri che poterono escogitare.
Ma in quelle ore si stavano compiendo delle altre profezie: “Non hanno avuto
vergogna di sputarmi in faccia”, aveva scritto Giobbe, riferendosi al Messia;
“mi han fatto mille oltraggi, mi han colpito vergognosamente, si sono – in una
parola – saziati dei miei tormenti!” (Gb 16,11; 30,10).

continua