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PRIMO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA

“Nel frattempo Caifa
interrogava Gesù” (Gv 18, 19). È Caifa in persona che interroga,
quel medesimo Caifa che aveva dichiarato qualche tempo prima, nel corso dell’assemblea
generale del sinedrio tenutasi nel suo palazzo a motivo della risurrezione di Lazzaro,
che il bene pubblico esigeva imperiosamente la morte di Gesù il Nazareno.
È mai possibile? Colui che si è costituito accusatore si permette di
sedere in veste di giudice, e ancor peggio, come presidente del processo giudiziale!
Siamo di fronte a una quarta irregolarità, una disgustosa irregolarità,
poiché tutte le legislazioni umane, e in particolare quella ebraica, rifiutano
all’accusatore il diritto di sedere come giudice: “Se […] un testimone comincia
a accusare un uomo d’aver violato la legge, in questa lite, essi si presenteranno
entrambi dinanzi al Signore, alla presenza dei sacerdoti e dei giudici che saranno
allora in funzione” (Deut. 19, 16-17). Di qui si vede come l’accusatore
e il giudice debbano essere distinti tra di loro; non dovendosi confondere i ruoli!
Qui invece la confusione è evidente: Caifa, che ieri aveva accusato il Cristo,
oggi siede nell’assemblea e si accinge a giudicare. Mostruosità giudiziaria,
che Giovanni ha tenuto a mettere in risalto soprattutto nel suo racconto della Pasqua:
“Caifa era colui che prima aveva dato il consiglio secondo cui il popolo poteva
avvantaggiarsi dalla morte di quel solo uomo” (Cf Gv 18,14).

“Lo interrogava sui suoi discepoli e sulla dottrina da lui predicata” (Gv
18, 19). Caifa, che è insieme e giudice e accusatore, anziché cominciare
col produrre dei testimoni e indicare i capi d’accusa, come esigeva la legge ebraica
(“Se si troverà in mezzo a voi un uomo o una donna che sia stato accusato
di aver commesso il male davanti al Signore, voi indagherete accuratamente se il
suo accusatore è credibile […] e sulla deposizione di due o tre testimoni
… ; vedi Deut 17, 2-6), dunque, Caifa, comincia il dibattimento con un interrogatorio
capzioso, in modo da poter prendere in fallo Gesù per proprie ammissioni.
Tale modo di procedere costituisce una quinta irregolarità, poiché
non vi poteva essere niente di più inaccettabile che di fare ammettere alcunché
a un uomo sul conto del quale non vi è nulla di cui lo si possa ritenere colpevole.
Cosa può esservi di più inaudito che cominciare un processo chiedendo
a una persona di accusare se stesso e senza presentargli invece un qualche capo d’accusa!

“Gesù gli rispose: ‘Ho parlato in pubblico, ho sempre insegnato nelle
sinagoghe e nel Tempio ove si radunano i giudei, senza dir mai nulla in segreto:
di cosa dunque mi interroghi? Interroga coloro che mi hanno ascoltato, essi sanno
quel che ho detto pubblicamente, e potranno perciò risponderti'” (Gv
18, 20-21).

La risposta del Cristo pone in piena luce l’illegalità che Caifa stava commettendo
dando inizio all’interrogatorio senza aver formulato contro di lui, preliminarmente,
alcun capo d’imputazione. Prima d’interrogare l’imputato, i giudici hanno l’obbligo
di produrre qualche preciso capo d’accusa, precisando le imputazioni su cui poi i
giudici dovranno pronunziarsi. “Perché non mi interrogate voi?”,
o meglio: “Vorreste che io accusi me stesso? Non avete voi qualcosa da rimproverarmi?
Se l’avete, presentatemi l’oggetto della mia accusa, e chiedetemi se io lo ammetto.
Se invece non avete nulla da ridire sul mio conto né da parte vostra e neppure
in base a testimonianze altrui, qualcosa inerente la dottrina da me pubblicamente
esposta, come potete pretendere che io mi dichiari colpevole, accusando me stesso?
O, in altri termini, non vi rendete conto che agendo così, voi stessi mi assolvete
da ogni accusa, e in base alla nostra legge mi assolvete, se vi appoggiate unicamente
a una mia eventuale ammissione di colpevolezza?”. “Per noi è norma
fondamentale che nessuno può recare pregiudizio a sé stesso [Nemo tenetur
laedere seipsum]” (Mishna, trattato “Sanhédrin“, c.
6, 2).

“Aveva appena risposto con quelle parole, che un inserviente là presente
gli diede uno schiaffo, dicendo: ‘Così rispondi al pontefice?'” (Gv
18, 22).

In questa inaudita brutalità da parte di un servo del tribunale alla presenza
del presidente e dei giudici vi è una sesta irregolarità. È
infatti un’ingiustizia che grida vendetta al cospetto del cielo il permettere, presidente
e giudici, che in loro presenza si osi maltrattare senza motivo né autorizzazione
l’imputato comparso in tribunale. Non si ordina forse, in tutte le legislazioni civili,
che chiunque sia accusato debba godere della protezione della legge e dei giudici,
fintanto che la sua colpa non sia stata dimostrata? Qui, il silenzio che accompagna
l’ingiusta aggressione e l’impunità concessa all’inserviente facile a menar
le mani, sono un’ulteriore riprova che quell’assemblea ratifica e accetta l’illegalità.
Sono prove evidenti della non equità dei giudici e in particolare di colui
che presiedeva. Poiché se la Bibbia e la Mischna ingiungono d’impiegare nei
confronti dell’accusato modi ispirati all’umanità e alla benevolenza (“Figlio
mio, confessa la tua colpa […]. Mia cara figlia, qual’è stata la causa del
tuo peccato?” (Gs 7, 19). – Mischna, trattato “Sota“,
c. 1, 4), a maggior ragione viene a essere proibito ogni ricorso a una violenza ingiusta
e alla brutalità

“Gesù gli rispose: ‘Se ho detto qualcosa di male, dimmi dove ho sbagliato;
se invece parlo bene, perché mi percuoti?'” (Gv 18, 23).

Voleva dire: “Se mi sono espresso male contro il pontefice o contro la verità,
dimmi dove ho mancato, fammelo capire. Ma se invece non l’ho offeso in alcun modo,
né ho detto cose palesemente contro la verità; se mi sono limitato
a indicare, com’era mio diritto, l’ordine naturale del procedere ma senza usare parole
offensive contro nessuno, allora perché mi picchi?”. Cristo avrebbe potuto
anche usare parole assai più forti non solo contro quell’indegno inserviente,
ma contro il sommo sacerdote che, da presidente, autorizzava tranquillamente una
così violenta reazione. “Se non lo fece, fu perché non voleva
disonorare il sacerdozio nemmeno in una persona che cosi indegnamente ricopriva quell’alto
incarico. Tuttavia non mancò di difendere con forza dignitosa la propria innocenza”
(San Cipriano, “Epist. 55 ad Corn.“, p. 144).
DEPOSIZIONE
DEI TESTIMONI
“Nel frattempo i
principi dei sacerdoti e l’intero consiglio cercavano un falso testimone contro Gesù
per aver di che condannarlo a morte, ma essi non riuscivano a trovarne, di validi,
sebbene diversi si fossero presentati [con quell’intento]”, (Mc 14, 55.
– Mt 26, 59-60).

Dopo la risposta di Gesù, che aveva fatto formale richiesta che si sentissero
eventuali testimoni, diventava impossibile condannarlo se non ci fosse stato nessun
testimone a deporre contro di lui. Cosa fa a quel punto il sinedrio? Sguinzaglia
tra la folla degli incaricati per cercare gente disposta a giocare quel ruolo; si
giunge perfino a subornare qualcuno di pochi scrupoli. È una mostruosa iniquità!
Commettendo una settima irregolarità non solo ci si astiene dall’esaminare
con cura la qualità e credibilità dei testimoni e la verità
di quel che avrebbero dichiarato ma si arriva, ed è un’ottava irregolarità,
a violare la legge fondamentale che prescriveva ai giudici nel far prestar giuramento
ai testimoni, di non dire null’altro che la verità: “Bada che su di te
pesa una grave responsabilità…” (Mischna, trattato “Sanhédrin“,
c. 4, 5). Ma v’è di peggio: quei giudici iniqui, subornando falsi testimoni,
cadono anch’essi sotto i colpi minacciati dalla Legge, che faceva loro espresso obbligo
di punire i falsi testimoni: “Li tratteranno come se avessero macchinato di
tradire un loro fratello; vita per vita, dente per dente, occhio per occhio!”
(Deut 19, 18,19. 2 1). Eppure essi violano apertamente quella legge, sia essi
stessi, sia inducendo a violarla altre persone. È la nona irregolarità!
Possiamo affermarlo: non siamo più di fronte a dei giudici ma a un raduno
di omicidi, assetati del sangue di un giusto. Nulla può servire da paragone
se non quell’altra iniquità che venne compiuta per ordine di Gezabele, quando
si trattò di condannare l’innocente Naboth.

“Essa scrisse lettere a proposito di Naboth, col sigillo del re. Poi le inviò
agli anziani e agli uomini principali della città in cui Naboth abitava. Nelle
lettere scrisse: ‘Bandite un digiuno e fate sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino dicendo: ‘Hai maledetto
Dio e il re!’ Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia’. Gli uomini della
città, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come
aveva ordinato loro Gezabele, ossia come si ordinava nelle lettere che aveva loro
spedito. Bandirono il digiuno e fecero sedere Naboth in prima fila tra il popolo.
Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Naboth
davanti al popolo affermando: ‘Naboth ha maledetto Dio e il re!’ Allora lo condussero
fuori della città e lo uccisero lapidandolo” (1 Re, 21, 8-14).

Ma proseguiamo nella deposizione dei testimoni.

“Molti attestavano il falso contro di lui ma le loro testimonianze contro di
lui non erano però concordi. Alcuni si alzarono per testimoniare il falso,
dicendo: ‘Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio
fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani
d’uomo’. Però nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde”
(Mc 14, 56-61). – cf Mt 24, 60).

Prima di esaminare questa doppia deposizione nettamente formulata, cominciamo col
segnalare una decima irregolarità: due testimoni si presentano e depongono
assieme, il che è contro la legge. I testi infatti non dovevano deporre se
non separatamente l’uno dall’altro: “Separateli tra loro, quindi li esaminerete”
(Dan 13, 51).

E veniamo al contenuto delle deposizioni. Stavolta sarebbero state d’importanza capitale.
Sappiamo quanto il popolo giudaico fosse geloso della gloria rappresentata dal Tempio.
Per aver annunziato che “Dio ridurrà un giorno il Tempio nelle stesse
condizioni di Silo, ossia in un deserto” (Ger 26, 6. 19), Geremia aveva
rischiato d’essere lapidato dai sacerdoti e dal popolo; se era scampato da una morte
sicura, ciò fu dovuto all’intervento di possenti signori, che avevano influenza
sul tribunale. L’accusa formulata contro Gesù dai due testimoni era di sicuro
della massima gravità. L’attenzione dell’intero sinedrio si ravvivò,
e si cominciò a sperare d’aver trovato infine un motivo sufficiente per convincere
i giudici di una sua colpevolezza e di poterlo giuridicamente condannare.

Ciò a patto che la deposizione dei testimoni fosse stata vera e concorde.
Ma lungi dall’avere tali qualità rigorosamente esigite dalla legge ebrea,
ciascuna delle deposizioni, come vedremo, si rivelò falsa e discorde tra loro.

Erano false perché:

1°) – Non riferivano in realtà le parole pronunziate dall’autore. Gesù
infatti non aveva detto né “io posso distruggere”, né “io
distruggerò” – come avevano affermato i due testi, per gettare gravi
ombre su di lui – ma “distruggete!”. “Distruggete questo tempio e
io lo ricostruirò entro tre giorni!” (Gv 2, 19); parole ipotetiche, insufficienti
a costituire un carico serio contro l’imputato, poiché esse potevano significare:
“Supponete che questo tempio venga distrutto, ecc.”. Orbene, per poter
fornire al sinedrio che era impaziente di sentirlo accusare di un delitto davvero
grave e punibile con la morte, i testimoni cercano di porre, inutilmente, sulle labbra
del Cristo queste parole, assolute e minacciose: “Io posso distruggere, io distruggerò!”

2°) – Poi i testimoni erano falsi anche perché attribuivano alle parole
del Cristo un senso del tutto diverso da quello inteso da lui. Gesù infatti,
nel pronunziare la frase, aveva fatto allusione al tempio vivo che era il suo corpo,
ed era perciò lontanissimo dal far riferimento al tempio materiale di Gerusalemme.
Giovanni, che le aveva sentite di persona, lo afferma espressamente: “Egli intendeva
parlare del proprio corpo” (Gv 2, 21). Del resto, per esserne pienamente
convinti, basterà esaminare le parole precise usate dal Cristo. Proprio per
non lasciare spazio al minimo dubbio circa la propria intenzione, Gesù aveva
usato la parola “solvite“, termine che i falsi testimoni vorrebbero
far equivalere a “distruggere” ma che, nella sua più ovvia e naturale
accezione sta per “rompere i legami: sciogliere”. È chiaro il riferimento
al corpo animato, tempio vivo, di cui si può rompere o sciogliere il legame
con l’anima mediante la morte; e dunque ogni riferimento al tempio materiale è
del tutto abusivo. Però quel che conferma definitivamente il vero senso inteso
dal Cristo, lo si ricava dalle parole finali di quella frase: “E in tre giorni
io lo farò risorgere. Lo richiamerò in vita!”. Se insomma Gesù
avesse inteso alludere al tempio materiale di Gerusalemme, si sarebbe servito delle
parole “distruggere” e “riedificare”; ma siccome egli non aveva
in mente nient’altro che il tempio mistico che era il suo sacro corpo, egli aveva
volutamente usato i termini “rompere i legami” e “risuscitare”.
Il parallelismo di queste espressioni, impiegate a ragion veduta, dovrebbero essere
sufficienti per discolpare Gesù da ogni intenzione iconoclasta, il cui oggetto
sarebbe stato il Tempio di Gerusalemme. E la conclusione, relativamente ai testimoni,
non poteva essere che la seguente. Delle due, l’una: o avevano capito male la frase
detta da Gesù (come l’avevano fraintesa altri giudei, lì presenti,
che avevano ribattuto: “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei
anni, e tu lo ricostruiresti in soli tre giorni?!”), oppure ne avevano afferrato
benissimo il pensiero, ma con maligna intenzione lo stavano presentando in tutt’altro
senso da quello in cui era stato detto. E allora essi erano doppiamente dei falsi
testimoni: perché non solo attribuivano a Gesù le parole “io posso
distruggere!”, “io distruggerò!”, mai pronunziate né
intese dal Cristo, ma ancora perché riferivano in malafede al Tempio di Gerusalemme
parole che non si riferivano a esso. In sostanza, perché consapevolmente falsano
il significato di quelle parole.

Ma v’è di più. Anche nel caso che essi avessero deposto il vero e Cristo
avesse realmente pronunziato le parole che essi gli ponevano sulla bocca, la loro
deposizione non poteva essere giuridicamente accettabile. E diciamo subito il perché.
Stando alla legge ebraica, “una testimonianza perdeva ogni suo valore se chi
la faceva non era d’accordo con essa in tutte le sue parti” (Mischna, trattato
“Sanhédrin” 5, 2). Se ad esempio si trattava del crimine
d’idolatria, ritenuto il peggiore dall’antico stato giudaico, “se un testimone
assicurava di aver visto un israelita adorare il sole, mentre un secondo dichiarava
di averlo visto in adorazione della luna, sebbene entrambi i particolari facessero
pensare a riti idolatrici, la prova era da scartare come incompleta, e l’accusato
veniva rimesso in libertà” (Maimonide, trattato “Sanhédrin”
c. 20 e sgg.). Qualcosa del genere si ripeteva nel caso dei due falsi testimoni alzatisi
ad accusare il Cristo, alla presenza dei giuristi del sinedrio.

Sostenendo che Gesù aveva detto: “Io distruggerò questo tempio
fatto da mani d’uomo”, il primo di essi gli attribuiva il disegno di attentare
contro la religione e contro un bene del patrimonio nazionale; mentre dall’altra
deposizione “Io posso distruggere il tempio di Dio” del secondo testimone
si poteva solamente indurre a pensare in una parola uscita dalla bocca di un fanfarone
o megalomane. Dunque non vi era conformità tra le due testimonianze, come
fa notare opportunamente S. Marco (“Nemmeno su questo punto la loro testimonianza
era concorde” – Mc 14, 59), di conseguenza, a meno di commettere un’undicesima
irregolarità, Gesù aveva ogni diritto d’essere rimesso in libertà,
pienamente assolto!