È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Nuova Discussione
Rispondi
 

CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
13/08/2014 07:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Ponziano Papa e martire

13 agosto - Memoria Facoltativa

m. 235

Ponziano, papa dal 230 al 235, e Ippolito, sacerdote, condannati dall'imperatore Massimino ai lavori forzati nelle miniere di Sardegna (235), vi morirono a causa dei maltrattamenti. La traslazione di Ponziano nella cripta dei Papi nel cimitero di Callisto e di Ippolito in quello sulla via Tiburtina a Roma il 13 agosto è attestata dalla 'Depositio Martyrum' (354). (Mess. Rom.)

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, sacerdote, che furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono una comune condanna e furono cinti, come pare, da un’unica corona. I loro corpi, infine, furono sepolti a Roma, il primo nel cimitero di Callisto, il secondo nel cimitero sulla via Tiburtina.


Ponziano, dell'antica e nobile famiglia dei Calpurni, venne eletto papa nel 230, durante l'impero del mite e saggio Alessandro Severo, la cui tolleranza in fatto di religione permise alla Chiesa di riorganizzarsi. Ma proprio in questa parentesi di pace avvenne nella Chiesa di Roma la prima funesta scissione che contrappose al legittimo pontefice un antipapa, nella persona di quell'Ippolito, restituito da un provvidenziale martirio all'unità e alla santità. Ippolito, sacerdote, colto e austero, poco incline all'indulgenza e timoroso che in ogni riforma si celasse l'errore, era giunto ad accusare di eresia lo stesso pontefice S. Zefirino e il diacono Callisto, e quando quest'ultimo fu eletto papa nel 217, si ribellò, accettando di essere lui stesso invalidamente eletto dai suoi partigiani.
Si mantenne nello scisma anche durante il pontificato di S. Urbano I e di S. Ponziano. Intanto l'imperatore Alessandro Severo veniva ucciso in Germania dai suoi legionari e gli subentrava il trace Massimino, che rispolverò gli antichi editti persecutori nei confronti dei cristiani. Trovandosi di fronte a una Chiesa con due capi, senza pensarci su spedì entrambi ai lavori forzati in una miniera della Sardegna. Ponziano è il primo papa deportato. Era un fatto nuovo che si verificava nella Chiesa e Ponziano seppe risolverlo con saggezza e umiltà: perché i cristiani non fossero privati del loro pastore rinunciò al pontificato, e anche questa spontanea rinuncia è un fatto nuovo.
A succedergli fu il greco Antero, che governò la Chiesa per quaranta giorni soltanto. Il gesto generoso di Ponziano deve aver commosso l'intransigente Ippolito che morì infatti riconciliato con la Chiesa nel 235. Secondo un'epigrafe dettata da papa Damaso, Ippolito, pur essendosi ostinato nello scisma per un malinteso zelo, nell'ora della prova "al tempo in cui la spada dilaniava le viscere della madre Chiesa, mentre fedele a Cristo camminava verso il regno dei santi", ai seguaci che gli domandavano quale pastore seguire indicò il legittimo papa come unica guida e "per questa professione di fede meritò d'essere nostro martire". D'altronde studi recenti porterebbero a distinguere tre diversi personaggi: un Ippolito vescovo e scrittore, un Ippolito martire romano e un terzo, autore di saggi filosofici, da identificarsi con l'antipapa contrapposto a Callisto e a Ponziano. I corpi dei due martiri, trasportati a Roma con grande onore vennero sepolti, Ippolito lungo la via Tiburtina e Ponziano nelle catacombe di S. Callisto.


Autore: Piero Bargellini
OFFLINE
14/08/2014 07:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Massimiliano Maria Kolbe Sacerdote e martire

14 agosto

Zdunska-Wola, Polonia, 8 gennaio 1894 - Auschwitz, 14 agosto 1941


Massimiliano Maria Kolbe nasce nel 1894 a Zdunska-Wola, in Polonia. Entra nell'ordine dei francescani e, mentre l'Europa si avvia a un secondo conflitto mondiale, svolge un intenso apostolato missionario in Europa e in Asia. Ammalato di tubercolosi, Kolbe dà vita al «Cavaliere dell'Immacolata», periodico che raggiunge in una decina d'anni una tiratura di milioni di copie. Nel 1941 è deportato ad Auschwitz. Qui è destinato ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Nel campo di sterminio Kolbe offre la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Muore pronunciando «Ave Maria». Sono le sue ultime parole, è il 14 agosto 1941. Giovanni Paolo II lo ha chiamato «patrono del nostro difficile secolo». La sua figura si pone al crocevia dei problemi emergenti del nostro tempo: la fame, la pace tra i popoli, la riconciliazione, il bisogno di dare senso alla vita e alla morte. (Avvenire)

Etimologia: Massimiliano = composto di Massimo e Emiliano (dal latino)

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Memoria di san Massimiliano Maria (Raimondo) Kolbe, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire, che, fondatore della Milizia di Maria Immacolata, fu deportato in diversi luoghi di prigionia e, giunto infine nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, si consegnò ai carnefici al posto di un compagno di prigionia, offrendo il suo ministero come olocausto di carità e modello di fedeltà a Dio e agli uomini.

Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:


Se non è il primo è senz’altro fra i primi ad essere stato beatificato e poi canonizzato fra le vittime dei campi di concentramento tedeschi. Il papa Giovanni Paolo II ha detto di lui, che con il suo martirio egli ha riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.
Massimiliano Kolbe nacque il 7 gennaio 1894 a Zdunska-Wola in Polonia, da genitori ferventi cristiani; il suo nome al battesimo fu quello di Raimondo. Papà Giulio, operaio tessile era un patriota che non sopportava
la divisione della Polonia di allora in tre parti, dominate da Russia, Germania ed Austria; dei cinque figli avuti, rimasero in vita ai Kolbe solo tre, Francesco, Raimondo e Giuseppe.
A causa delle scarse risorse finanziarie solo il primogenito poté frequentare la scuola, mentre Raimondo cercò di imparare qualcosa tramite un prete e poi con il farmacista del paese; nella zona austriaca, a Leopoli, si stabilirono i francescani, i quali conosciuti i Kolbe, proposero ai genitori di accogliere nel loro collegio i primi due fratelli più grandi; essi consci che nella zona russa dove risiedevano non avrebbero potuto dare un indirizzo e una formazione intellettuale e cristiana ai propri figli, a causa del regime imperante, accondiscesero; anzi liberi ormai della cura dei figli, il 9 luglio 1908, decisero di entrare loro stessi in convento, Giulio nei Terziari francescani di Cracovia, ma morì ucciso non si sa bene se dai tedeschi o dai russi, per il suo patriottismo, mentre la madre Maria divenne francescana a Leopoli.
Anche il terzo figlio Giuseppe dopo un periodo in un pensionamento benedettino, entrò fra i francescani. I due fratelli Francesco e Raimondo dal collegio passarono entrambi nel noviziato francescano, ma il primo, in seguito ne uscì dedicandosi alla carriera militare, prendendo parte alla Prima Guerra Mondiale e scomparendo in un campo di concentramento.
Raimondo divenuto Massimiliano, dopo il noviziato fu inviato a Roma, dove restò sei anni, laureandosi in filosofia all’Università Gregoriana e in teologia al Collegio Serafico, venendo ordinato sacerdote il 28 aprile 1918. Nel suo soggiorno romano avvennero due fatti particolari, uno riguardo la sua salute, un giorno mentre giocava a palla in aperta campagna, cominciò a perdere sangue dalla bocca, fu l’inizio di una malattia che con alti e bassi l’accompagnò per tutta la vita.
Poi in quei tempi influenzati dal Modernismo e forieri di totalitarismi sia di destra che di sinistra, che avanzavano a grandi passi, mentre l’Europa si avviava ad un secondo conflitto mondiale, Massimiliano Kolbe non ancora sacerdote, fondava con il permesso dei superiori la “Milizia dell’Immacolata”, associazione religiosa per la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria.
Ritornato in Polonia a Cracovia, pur essendo laureato a pieni voti, a causa della malferma salute, era praticamente inutilizzabile nell’insegnamento o nella predicazione, non potendo parlare a lungo; per cui con i permessi dei superiori e del vescovo, si dedicò a quella sua invenzione di devozione mariana, la “Milizia dell’Immacolata”, raccogliendo numerose adesioni fra i religiosi del suo Ordine, professori e studenti dell’Università, professionisti e contadini.
Alternando periodi di riposo a causa della tubercolosi che avanzava, padre Kolbe fondò a Cracovia verso il Natale del 1921, un giornale di poche pagine “Il Cavaliere dell’Immacolata” per alimentare lo spirito e la diffusione della “Milizia”.
A Grodno a 600 km da Cracovia, dove era stato trasferito, impiantò l’officina per la stampa del giornale, con vecchi macchinari, ma che con stupore attirava molti giovani, desiderosi di condividere quella vita francescana e nel contempo la tiratura della stampa aumentava sempre più. A Varsavia con la donazione di un terreno da parte del conte Lubecki, fondò “Niepokalanow”, la ‘Città di Maria’; quello che avvenne negli anni successivi, ha del miracoloso, dalle prime capanne si passò ad edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice, si passò alle moderne tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai ai 762 religiosi di dieci anni dopo, il “Cavaliere dell’Immacolata” raggiunse la tiratura di milioni di copie, a cui si aggiunsero altri sette periodici.
Con il suo ardente desiderio di espandere il suo Movimento mariano oltre i confini polacchi, sempre con il permesso dei superiori si recò in Giappone, dove dopo le prime incertezze, poté fondare la “Città di Maria” a Nagasaki; il 24 maggio 1930 aveva già una tipografia e si spedivano le prime diecimila copie de “Il Cavaliere” in lingua giapponese.
In questa città si rifugeranno gli orfani di Nagasaki, dopo l’esplosione della prima bomba atomica; collaborando con ebrei, protestanti, buddisti, era alla ricerca del fondo di verità esistente in ogni religione; aprì una Casa anche ad Ernakulam in India sulla costa occidentale. Per poterlo curare della malattia, fu richiamato in Polonia a Niepokalanow, che era diventata nel frattempo una vera cittadina operosa intorno alla stampa dei vari periodici, tutti di elevata tiratura, con i 762 religiosi, vi erano anche 127 seminaristi.
Ma ormai la Seconda Guerra Mondiale era alle porte e padre Kolbe, presagiva la sua fine e quella della sua Opera, preparando per questo i suoi confratelli; infatti dopo l’invasione del 1° settembre 1939, i nazisti ordinarono lo scioglimento di Niepokalanow; a tutti i religiosi che partivano spargendosi per il mondo, egli raccomandava “Non dimenticate l’amore”, rimasero circa 40 frati, che trasformarono la ‘Città’ in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi.
Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevarono padre Kolbe e gli altri frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove furono inaspettatamente liberati l’8 dicembre; ritornati a Niepokalanow, ripresero la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati di cui 1500 erano ebrei, ma durò solo qualche mese, poi i rifugiati furono dispersi o catturati e lo stesso Kolbe, dopo un rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi, visto l’origine del suo cognome, il 17 febbraio 1941 insieme a quattro frati, venne imprigionato.
Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, indossò un abito civile, perché il saio francescano li adirava moltissimo. Il 28 maggio fu trasferito ad Auschwitz, tristemente famoso come campo di sterminio, i suoi quattro confratelli l’avevano preceduto un mese prima; fu messo insieme agli ebrei perché sacerdote, con il numero 16670 e addetto ai lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri al crematorio.
La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri, un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al bunker della morte. Padre Kolbe si offrì in cambio di uno dei prescelti, un padre di famiglia, suo compagno di prigionia.
La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano, allora le SS decisero, che giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo “Ave Maria”, furono le sue ultime parole, era il 14 agosto 1941.
Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo della Chiesa polacca. Il suo fulgido martirio gli ha aperto la strada della beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971 con papa Paolo VI e poi è stato canonizzato il 10 ottobre 1982 da papa Giovanni Paolo II, suo concittadino.
OFFLINE
16/08/2014 08:28
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Santo Stefano di Ungheria Re

16 agosto - Memoria Facoltativa

Esztergom, Ungheria, ca. 969 - Budapest, Ungheria, 15 agosto 1038


Di nobilissima famiglia, e gli ricevette da bambino una profonda educazione cristiana. Consacrato re d'Ungheria nella notte di Natale dell'anno mille con il titolo di "re apostolico", organizzò non solo la vita politica del suo popolo, riunendo le 39 contee in unico regno, ma anche quella religiosa gettando le fondamenta di una solida cultura cristiana. Egli divise il territorio in diocesi, eresse chiese monasteri, fra cui quello famoso di San Martino di Pannonhalma, ed appoggiò il clero servendosi come collaboratori di Benedettini di Cluny. Aveva sposato una principessa, Gisella di Baviera, che lo sostenne nella sua opera e che alla sua morte si richiuse nel monastero benedettino di Passau.

Etimologia: Stefano = corona, incoronato, dal greco

Martirologio Romano: Santo Stefano, re d’Ungheria, che, rigenerato nel battesimo e ricevuta da papa Silvestro II la corona del regno, si adoperò per propagare la fede cristiana tra gli Ungheresi: riordinò la Chiesa nel suo regno, la arricchì di beni e di monasteri, fu giusto e pacifico nel governare i sudditi, finché a Székesfehérvár in Ungheria, nel giorno dell’Assunzione, la sua anima salì in cielo.
(15 agosto: A Székesfehérvár in Pannonia, nell’odierna Ungheria, anniversario della morte di santo Stefano, re di Ungheria, la cui memoria si celebra domani).


Nell’anno 983 venne consacrato vescovo di Praga Adalberto, un personaggio dietro al cui nome germanico si celava in realtà un autentico slavo, Voytech, appartenente a una nobile famiglia della Boemia. Quando la principessa Adelaide gli chiese di inviare missionari in terra ungherese, egli finì per unirsi a loro e a lungo si è sostenuto che proprio ad Adalberto si dovesse la conversione del principe magiaro Geza, che venne da lui battezzato nel 985 insieme al figlio Vajk, al quale fu imposto il nome di Stefano e che diventerà il vero artefice della definitiva cristianizzazione dell’Ungheria.
In verità, gli storici, di recente, hanno manifestato seri dubbi circa il fatto che sia stato Sant’Adalberto ad amministrare il battesimo a Stefano, al quale fu imposto tale nome assai probabilmente in onore del santo protomartire patrono della diocesi di Passavia, che svolse un ruolo decisivo nella conversione di Geza e delle genti magiare.

Fondatore della chiesa ungherese

Stefano nacque fra il 969 e il 975, intorno al 995-996 sposò Gisella, figlia del Duca di Baviera e nel 997 succedette al padre sul Trono d’Ungheria. Ciò lo costrinse a un’aspra guerra contro un altro pretendente alla Corona, e nel 1000 Papa Silvestro II, con il beneplacito dell’Imperatore Ottone III, gli fece pervenire le insegne regali: nel Natale di quello stesso anno Stefano fu consacrato e incoronato primo Re di Ungheria.
Tra i più importanti provvedimenti da lui adottati, vi fu quello riguardante la strutturazione della Chiesa ungherese: a questo proposito la tradizione gli attribuisce la creazione di dieci diocesi e la fondazione e il consolidamento di numerose abbazie, tra le quali spicca quella benedettina di Pannonhalma.
Egli stabilì poi che venisse costruita una chiesa comune ogni dieci villaggi. La cristianizzazione del popolo ungherese operata dal santo re si effettuò nel segno della riforma cluniacense. Per altro egli si mantenne in corrispondenza con l’abate di Cluny Odilo.
Inoltre, Stefano fece venire dall’estero molti ecclesiastici, affinché collaborassero alla sua opera di evangelizzazione: il più famoso di questi fu san Gerardo, proveniente da Venezia, che diventò vescovo e che perse la vita in seguito a una rivolta pagana.
Stefano ebbe massimamente a cuore la sicurezza dei pellegrini che si recavano in Terra Santa: rese meno precario il loro cammino lungo le terre balcaniche e fece costruire a Gerusalemme un alloggio per gli ungheresi che là si recavano.
È opportuno ricordare che la nuova chiesa da lui creata, con le scuole erette presso i capitoli e i chiostri, pose la basi dell’insegnamento in Ungheria. Stefano si dimostrò pure un valente sovrano, capace di rafforzare il suo regno e di condurre un’equilibrata politica estera.
Il santo re morì nel 1038 e fu canonizzato nel 1083, dopo che il nuovo sovrano Ladislao si era fatto protettore del suo culto, presentandosi così come il suo erede spirituale e una sorta di secondo fondatore del regno cristiano d’Ungheria.
La canonizzazione sarebbe avvenuta per ordine del papa Gregorio VII e alla presenza di un suo legato. Particolarmente interessante risulta il fatto che Stefano fu il primo sovrano medievale a essere santificato come “confessore” e non come martire, a motivo dei meriti religiosi da lui acquistati durante la vita: in Stefano la figura del re giusto si fonde con quella del santo cristiano e ciò rappresentò subito la chiara dimostrazione che un sovrano può diventare santo al fianco della Chiesa.

Un culto sempre vivo nella devozione degli ungheresi

La Legenda maior che lo riguarda fa di Stefano un autentico soldato di Cristo, sempre assistito da una schiera di santi: non bisogna dimenticare a questo proposito che anche la moglie Gisella, che negli ultimi anni di vita divenne badessa di un monastero benedettino bavarese, è annoverata tra i santi e le sue reliquie sono ancora oggi assai venerate e meta di continui pellegrinaggi.
Vi sono poi una Legenda Minor, che ci tramanda l’immagine di un re Stefano energico e rigoroso, e una terza leggenda, che potrebbe essere stata composta dal vescovo di Gyor Arduino, la quale aggiunge numerosi particolari sulla vita e l’opera di Stefano: per esempio, in essa si racconta come il santo re, in punto di morte, avesse offerto il proprio regno alla Vergine Maria.
La novità più significativa contenuta in questa leggenda di Arduino è rappresentata dal racconto della canonizzazione del 1083. Il culto di Santo Stefano non si è mai appannato nel corso dei secoli e ancora oggi è assai vivo in Ungheria: la sua festa è la più importante e la più sentita dal popolo magiaro, che la celebra con particolare partecipazione. L’iconografia di Stefano è assai ricca: egli vi appare sempre come il re saggio, magnanimo e devoto.

Autore: Maurizio Schoepflin

OFFLINE
17/08/2014 07:41
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Santa Chiara di Montefalco

17 agosto

Montefalco, Perugia, 1268 - Montefalco, 17 agosto 1308


Nacque a Montefalco (PG) intorno all’anno 1268 e lì trascorse tutta al sua vita. A sei anni entrò nell’eremo in cui viveva sua sorella Giovanna.e dove nel 1291, dopo la morte di questa, Chiara venne eletta superiora, ufficio che conservò fino alla morte. Nella sua vita si comportò sempre in modo esemplare. Raccomandava vivamente alle consorelle spirito di sacrificio e impegno personale nella realizzazione di una solida vita spirituale. Godette di scienza infusa e difese vivamente la fede. Si distinse per l’amore alla passione di Cristo ed ebbe molto a cuore la devozione alla Croce. Negli ultimi anni affermava insistentemente di avere impressa nel suo cuore la Croce del Signore e, dopo la sua morte, le consorelle volendo provare il senso delle sue parole, avendole estratto il cuore, vi trovarono impressi i segni della Passione. Il suo corpo riposa nella chiesa delle monache agostiniane di Montefalco.

Etimologia: Chiara = trasparente, illustre, dal latino

Martirologio Romano: A Montefalco in Umbria, santa Chiara della Croce, vergine dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che resse il monastero di Santa Croce e fu ardente di amore per la passione di Cristo.


Seconda figlia di Damiano e di Giacoma, Chiara nacque a Montefalco, in provincia di Perugia, nel 1268. Presa d'amor divino, fin dall'età di quattro anni mostrò una così forte inclinazione all'esercizio della preghiera da trascorrere intere ore immersa nell'orazione, ritirata nei luoghi più riposti della casa paterna. Sin da allora ella ebbe anche una profonda devozione per la Passione di Nostro Signore e ia sola vista di un Crocifisso era per lei come un monito di continua mortificazione, a cui si abbandonava volentieri infliggendo al corpo innocente le più dure macerazioni con dolorosi cilici, tanto che sembrava quasi incredibile che una bimba di sei anni potesse avere non già il pensiero, ma la forza di sopportarne il tormento.
Consacratasi interamente a Dio, Chiara volle seguire l'esempio della sorella Giovanna, chiedendo di entrare nel locale reclusorio, dove fu accolta nel 1275. La santità della piccola e le elette virtù di Giovanna fecero accorrere nel reclusorio di Montefalco sempre nuove aspiranti, per cui ben presto si dovette intraprendere la costruzione di uno più grande che, cominciata nel 1282, si protrasse per otto anni tra opposizioni, contrasti e difficoltà di varia natura. A causa delle ristrettezze finanziarie, per qualche tempo durante i lavori Chiara fu incaricata anche di andare alla questua. Nel 1290, allorchè il nuovo reclusorio fu terminato, si pensò che sarebbe stato più opportuno fosse eretto un monastero, affinché la comunità potesse entrare a far parte di qualche religione approvata. Giovanna ne interessò il vescovo Gerardo Artesino che, con decreto del 10 giugno 1290, riconobbe la nuova famiglia religiosa, dando ad essa la regola di s. Agostino e autorizzando in pari tempo l'accettazione di novizie. Il novello monastero fu chiamato "della Croce", su proposta della stessa Giovanna, che ne venne subito eletta badessa.
Alla morte della sorella (22 novembre 1291), Chiara fu chiamata immediatamente a succederle nella carica, contro la sua volontà e nonostante la giovane età. Durante il suo governo, che esercitò sempre con illuminata fermezza, seppe tenere sempre vivo nella comunità, con la parola e con l'esempio, un gran desiderio di perfezione. Ebbe da Dio singolari grazie mistiche, come visioni ed estasi, e doni soprannaturali che profuse dentro e fuori il monastero, venendo,- inoltre, favorita dal Signore col dono della scienza infusa, per cui poté offrire dotte soluzioni alle più ardue questioni propostele da teologi, filosofi e letterati. Alla sua pronta azione, si deve poi la scoperta e l'eliminazione, tra la fine del 1306 e gli inizi del 1307, di una setta eretica chiamata dello "Spirito di libertà", che andava diffondendo per tutta l'Umbria errori quietistici.
Tanta era la fama di sé e delle sue virtù suscitata in vita da Chiara che subito dopo la morte, avvenuta nel suo monastero della Croce in Montefalco il 17 agosto 1308, fu venerata come santa.
Una tradizione leggendaria, fondata su una accesa pietà e su una ingenua nozione dell'anatomia, riferisce che nel cuore di Chiara, di eccezionali dimensioni, si credette di scorgere i simboli della Passione: il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna. Inoltre nella cistifellea della santa si sarebbero riconosciuti tre globi di uguali dimensioni, peso e colore, disposti in forma di triangolo, come un simbolo della S.ma Trinità.
Erano trascorsi solo dieci mesi dalla morte di Chiara, quando il vescovo di Spoleto, Pietro Paolo Trinci, ordinò il 18 giugno 1309 di iniziare il processo informativo sulla sua vita e sulle virtù; poiché, però, avvenivano sempre nuovi miracoli e aumentava la devozione per la pia suora di Montefalco, molti fecero viva istanza presso la S. Sede per la canonizzazione di Chiara; procuratore della causa fu Berengario di S. Africano, che a tal fine si recò nel 1316 ad Avignone da Giovanni XXII, il quale deputò il cardinale Napoleone Orsini, legato a Perugia, a informarsi e riferire. Il nuovo processo, cominciato il 6 settembre 1318 e dal quale sarebbe dipesa certamente la canonizzazione di Chiara, per cause del tutto esterne non poté tuttavia aver seguito. Fu solo nel 1624 che Urbano VIII concesse, dapprima all'Ordine (14 agosto), poi alla diocesi di Spoleto (28 settembre), di recitare l'Ufficio e la Messa con preghiera propria in onore di Chiara, il cui nome Clemente X fece inserire, il 19 aprile 1673, nel Martirologio Romano. Nel 1736, Clemente XII ordinò la ripresa della causa e l'anno seguente la S. Congregazione dei Riti approvò il culto ab-immemorabili; nel 1738, fu istruito il nuovo processo apostolico sulle virtù e i miracoli, ratificato dalla S. Congregazione dei Riti il 17 settembre 1743. In tal modo si poteva procedere all'approvazione delle virtù eroiche, che si ebbe, tuttavia, solo un secolo più tardi, dopo un ulteriore processo apostolico, incominciato il 22 ottobre 1850, conclusosi il 21 novembre 1851 e approvato dalla S. Congregazione dei Riti il 25 settembre 1852; solo l'8 dicembre 1881, però, la beata Chiara da Montefalco fu solennemente canonizzata da Leone XIII.
Il 17 agosto si commemora la santa, mentre il 30 ottobre si celebra la festa "Impressio Crucifixi in corde s. Clarae".


Autore: Nicolo' Del Re
OFFLINE
18/08/2014 07:38
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Sant' Elena Madre di Costantino

18 agosto

Drepamim (Bitinia), III sec. – ? † 330 ca.


Di famiglia plebea, Elena venne ripudiata dal marito, il tribuno militare Costanzo Cloro, per ordine dell'imperatore Diocleziano. Quando il figlio Costantino, sconfiggendo il rivale Massenzio, divenne padrone assoluto dell'impero, Elena, il cui onore venne riabilitato, ebbe il titolo più alto cui una donna potesse aspirare, quello di «Augusta». Fu l'inizio di un'epoca nuova per il cristianesimo: l'imperatore Costantino, dopo la vittoria attribuita alla protezione di Cristo, concesse ai cristiani la libertà di culto. Un ruolo fondamentale ebbe la madre Elena: forse è stata lei a contribuire alla conversione, poco prima di morire, del figlio. Elena testimoniò un grande fervore religioso, compiendo opere di bene e costruendo le celebri basiliche sui luoghi santi. Ritrovò la tomba di Cristo scavata nella roccia e poco dopo la croce del Signore e quelle dei due ladroni. Il ritrovamento della croce, avvenuta nel 326 sotto gli occhi della pia Elena, produsse grande emozione in tutta la cristianità. A queste scoperte seguì la costruzione di molte basiliche. Morì probabilmente intorno al 330. (Avvenire)

Etimologia: Elena = la splendente, fiaccola, dal greco

Martirologio Romano: A Roma sulla via Labicana, santa Elena, madre dell’imperatore Costantino, che si adoperò con singolare impegno nell’assistenza ai poveri; piamente entrava in chiesa mescolandosi alle folle e in un pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca dei luoghi della Natività, della Passione e della Risurrezione di Cristo onorò il presepe e la croce del Signore costruendo venerande basiliche.


Entrando nella basilica di San Pietro, alla base dei quattro enormi pilastri che sorreggono la cupola di Michelangelo e fanno da corona all’altare della Confessione, sotto il quale c’è la tomba dell’apostolo Pietro, si alzano maestose e magnifiche le statue di sant’Elena, raffigurata con la Croce, sant’Andrea, santa Veronica e san Longino. L’opera è stata realizzata dagli allievi di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680). Nell’iconografia orientale sant’Elena è raffigurata spesso insieme al figlio, l’Imperatore Costantino (274-337), ambedue posti ai lati della Croce e tale rappresentazione è dovuta ai due grandi meriti di cui si rivestirono madre e figlio: Elena ritrovò la vera Croce del martirio del Salvatore e Costantino diede libertà di culto ai cristiani, che per trecento anni erano stati perseguitati ed uccisi a causa della Fede.
Il nome di santa Elena (Flavia Iulia Helena) riconduce immaginariamente ad origini prestigiose, perché madre dell’Imperatore, ma la realtà è un’altra. Nacque nel 248 circa a Drepamim, in Bitinia (antica regione, che fu regno autonomo e provincia romana, situata nella parte nord-occidentale dell’Asia Minore, delimitata dalla Propontide, dal Bosforo Tracio e dal Ponto Eusino, oggi Mar Nero), città che prenderà il nome di Elenopoli per volontà di Costantino, in onore della madre. Ella discendeva da umile famiglia, secondo sant’Ambrogio (339-340-397) esercitava l’ufficio di stabularia, ovvero «ragazza addetta alle stalle» e il Vescovo di Milano la definisce anche una bona stabularia, «buona locandiera». Proprio qui conobbe il romano Costanzo Cloro (250 ca.-306), tribuno militare, che la volle sposare, nonostante lei fosse di grado sociale inferiore.
Il 27 febbraio 274 nella città di Naissus, in Serbia, nacque il figlio Costantino che Elena crebbe con amore e dedizione. Costanzo, essendosi distinto per la sua abilità militare, il 1° marzo 293, a Mediolanum, venne nominato da Massimiano (250 ca.-310) proprio Cesare, una sorta di vice-imperatore per la parte occidentale dell’Impero. Stessa decisione prese Diocleziano (244-311) con Galerio (250 ca.-311), facendo sorgere la tetrarchia, «il governo a quattro». Costanzo, per manovre di potere, ripudiò Elena e si unì in matrimonio a Teodora, figliastra di Massimiano; con queste nozze Costanzo si vide assegnate la Gallia e la Britannia. Con il ritiro di Diocleziano e Massimiano, divenne egli stesso Augusto il 1º maggio del 305, scegliendo come proprio Cesare e successore Flavio Valerio Severo (?-307). Tuttavia, alla sua morte, sopraggiunta l’anno seguente a Eboracum, durante una spedizione contro i Pitti e gli Scoti, le truppe proclamarono Augusto il figlio Costantino, che si pose l’obiettivo di riunificare l’Impero romano sotto il suo potere nel 324. Le spoglie paterne vennero cremate e portate a Treviri: i resti del mausoleo di Costanzo Cloro sono stati presumibilmente identificati nel 2003.
Elena, a causa del ripudio, tornò umilmente nell’ombra, mentre il figlio venne allevato alla corte di Diocleziano. Tuttavia il nascondimento si ruppe allorquando Costantino venne proclamato Imperatore dai suoi soldati nel 306. L’Imperatrice madre andò a risiedere prima a Treviri, poi a Roma e venne accolta con il massimo onore, ricevendo il titolo di Augusta. Costantino la ricoprì di alta dignità, dandole libero accesso al tesoro imperiale e facendo coniare delle monete con il suo nome e la sua effigie. Elena visse nella preghiera e diede prova di grande pietà e carità, moltiplicando le donazioni per l’edificazione e la vita delle chiese. Dei privilegi ricevuti mai ne abusò, anzi se ne servì per beneficiare generosamente persone di ogni ceto e addirittura intere città. Soccorreva i poveri con vesti e denaro, inoltre, grazie alla sua intercessione, salvò numerosi prigionieri condannati al carcere oppure ai lavori forzati o all’esilio.
Fu madre di splendida Fede e quanto abbia influito sul figlio per l’emanazione dell’editto di Milano del 313, che riconosceva libertà di culto al Cristianesimo, non è dato sapere; tuttavia esistono due ipotesi storiografiche: una deriva da sant’Eusebio (283 ca.-371), il quale affermava che Elena fosse stata convertita al Cristianesimo dal figlio, e l’altra da sant’Ambrogio, che sosteneva il contrario. Quest’ultima è la versione maggiormente avvalorata dai fatti, in quanto Costantino ricevette dal Vescovo Eusebio di Nicomedia (?-341) il battesimo nel 337, in punto di morte.
Elena visse in modo esemplare la sua Fede, nell’attuare le virtù cristiane e nel praticare le buone opere; partecipava con raccoglimento e con devozione alle funzioni religiose e a volte, per confondersi con i fedeli, indossava semplici abiti. Sovente invitava i poveri a pranzo nel suo palazzo, servendoli con le proprie mani.
Mantenne un atteggiamento prudente allorquando si consumò l’oscura tragedia familiare di Costantino, il quale nel 326 fece giustiziare a Pola il figlio Crispo - nato nel 302 circa dalla prima moglie Minervina (?-307 ca.) - su istigazione della matrigna Fausta (289/290-326), sua seconda moglie, che poi fece uccidere. Crispo fu colpito da damnatio memoriae: alcuni storici antichi sostengono che Crispo e Fausta avessero una relazione, ma esiste anche l’ipotesi che Fausta avesse accusato ingiustamente Crispo di averla molestata e in seguito Costantino l’avesse punita per la falsa denuncia... Tutta questa lugubre vicenda ha lasciato una traccia archeologica: nel Duomo di Treviri sono stati rinvenuti i frammenti di un soffitto a cassettoni - i cui riquadri erano stati dipinti con la raffigurazione dei membri della famiglia imperiale - probabilmente eseguito in occasione delle nozze di Crispo nella parte del palazzo a lui destinato. Successivamente il volto del principe fu cancellato. Poco dopo il palazzo venne distrutto e al suo posto, probabilmente per volontà di Elena, fu edificata una chiesa. Forse, proprio per questi foschi episodi, che coinvolgevano il figlio, a 78 anni, nel 326, l’Imperatrice intraprese un pellegrinaggio penitenziale in Terra Santa. Qui si adoperò per la costruzione delle Basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, che Costantino poi ornò splendidamente. Secondo lo storico bizantino Zosimo (seconda metà V secolo), fu in seguito ai rimorsi per la morte del figlio che l’Imperatore si avvicinò ancor più al Cristianesimo.
La tradizione racconta che Elena, salita sul Golgota per purificare il sacro luogo dagli edifici pagani qui fatti costruire dai romani, scoprì la vera Croce di Cristo. E venne eseguita la prova: su di essa fu posto il cadavere di un uomo, il quale resuscitò. Questo miracolo è stato rappresentato da molti artisti, celebri sono i dipinti nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma e quelli presenti nel famoso ciclo di san Francesco ad Arezzo, firmato da Piero della Francesca (1416/1417 ca.-1492).
Alla santa madre di Costantino è anche attribuito il ritrovamento della Santa Croce e degli strumenti della Passione, i quali sono custoditi e venerati nella Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme, che lei fece innalzare dopo l’eccezionale scoperta. Le sante reliquie sono: parti della Croce di Cristo, il titulus crucis (il cartiglio originario infisso sopra la Croce), la croce di uno dei due ladroni, la spugna imbevuta d’aceto, un chiodo e parte della corona di spine. Gli altri tre chiodi si trovano uno nella Corona Ferrea a Monza, uno sospeso sopra l’altare maggiore del Duomo di Milano e uno, dalla tradizione più dubbia, nel Duomo di Colle di Val d’Elsa in provincia di Siena. Inoltre, nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme si trova la cappella di Sant’Elena, il cui pavimento era stato coperto con terra proveniente dalla Terra Santa.
Elena morì a circa 80 anni (329 ca.), assistita dal figlio, in un luogo non identificato; il suo corpo fu trasportato a Roma e sepolto sulla via Labicana ai due lauri, oggi Torpignattara, in un sarcofago di porfido, collocato in uno splendido mausoleo a forma circolare con cupola, che si può ammirare - e vale davvero la pena andarvi – presso le Catacombe di Sant’Agnese. Ma esiste anche quest’altra versione della Tradizione: sull’isola di Sant’Elena, vicino a Venezia, venne edificata nel 1028 la prima cappella dedicata alla madre di Costantino e fu affidata agli Agostiniani, che accanto costruirono anche un convento. Nel 1211 giunse a Venezia da Costantinopoli il corpo dell’Imperatrice, grazie al monaco agostiniano Aicardo e venne posto proprio in quella cappella, che, in seguito, gli Agostiniani inglobarono in una chiesa più grande. Nel XV secolo il convento e la chiesa passarono ai monaci Benedettini Olivetani. Sotto la dominazione napoleonica, nel 1810, la chiesa venne sconsacrata e l’urna fu trasportata nella basilica di San Pietro. La chiesa dell’isola di Sant’Elena fu riaperta al culto nel 1928 ed affidata all’Ordine dei Servi di Maria; negli anni successivi l’urna venne riposta nuovamente all’interno dell’edificio sacro. Forse, là dove si attesta come «salma» della santa Imperatrice, si può pensare ad essa come a delle parti del corpo, visto che era uso, nei primi secoli, scomporre le membra dei martiri e dei santi per farne reliquie e soddisfare, in tal modo, la devozione di più fedeli in diversi luoghi.
Fu da subito considerata una santa e quando i pellegrini arrivavano a Roma non omettevano di visitare anche il suo sepolcro, situato tangente al portico d’ingresso della Basilica dei Santi Marcellino e Pietro. L’imponente sarcofago fu trasportato nell’XI secolo al Laterano e oggi è conservato nei Musei Vaticani. Il culto si diffuse largamente in Oriente e in Occidente. Il monaco benedettino Usuardo (?-877 ca.) fu il primo ad inserire il nome di sant’Elena nel suo Martirologio al 18 agosto, la sua opera, molto diffusa nel Medioevo, servì poi di base al Martirologium Romanum, redatto sotto il pontificato di Gregorio XIII (1502-1585).
Nell’841-842 le reliquie sarebbero state trasferite dal monaco Teugiso da Roma all’abbazia di Hatvilliers, presso Reims. Oggi tre chiese si fregiano dell’onore di custodire le reliquie della santa Imperatrice: la basilica dell’Ara Coeli a Roma; l’antica chiesa abbaziale di Hautvilliers e la chiesa di Saint-Leu-Saint-Gilles a Parigi, dove i Cavalieri del Santo Sepolcro avevano stabilito la sede delle loro riunioni.
Sant’Elena è la santa patrona di Pesaro ed Ascoli Piceno e viene venerata con culto speciale anche in Germania, a Colonia, Treviri, Bonn e in Francia ad Elne, che in origine si chiamava Castrum Helenae. È considerata la protettrice dei fabbricanti di chiodi e di aghi ed è invocata da chi cerca gli oggetti smarriti. In Russia si semina il lino nel giorno della sua festa, affinché cresca lungo, si dice, come i suoi capelli.

Autore: Cristina Siccardi





Nell’iconografia, specie orientale, sant’Elena è raffigurata spesso insieme al figlio l’imperatore Costantino e ambedue posti ai lati della Croce. Perché il grande merito di Elena fu il ritrovamento della Vera Croce e di Costantino il merito di aver data libertà di culto ai cristiani, che per trecento anni erano stati perseguitati ed uccisi a causa della loro fede.
Di Elena i dati biografici sono scarsi, nacque verso la metà del III secolo forse a Drepamim in Bitinia, cittadina a cui fu dato il nome di Elenopoli da parte di Costantino, in onore della madre.
Elena discendeva da umile famiglia e secondo s. Ambrogio, esercitava l’ufficio di ‘stabularia’ cioè locandiera con stalla per gli animali e qui conobbe Costanzo Cloro ufficiale romano, che la sposò nonostante lei fosse di grado sociale inferiore, diventando così moglie ‘morganatica’.
Nel 280 ca. a Naisso in Serbia, partorì Costantino che allevò con amore; ma nel 293 il marito Costanzo divenne ‘cesare’ e per ragioni di Stato dovette sposare Teodora, figliastra dell’imperatore Massimiano Erculeo; Elena Flavia fu allontanata dalla corte e umilmente rimase nell’ombra.
Il figlio Costantino venne allevato alla corte di Diocleziano (243-313) per essere educato ad un futuro di prestigio; in virtù del nuovo sistema politico della tetrarchia, nel 305 Costanzo Cloro divenne imperatore e Costantino lo seguì in Britannia nella campagna di guerra contro i Pitti; nel 306 alla morte del padre, acclamato dai soldati ne assunse il titolo e il comando.
Divenuto imperatore, Costantino richiamò presso di sé Elena sua madre, dandole il titolo di ‘Augusta’, la ricoprì di onori, dandole libero accesso al tesoro imperiale, facendo incidere il suo nome e la sua immagine sulle monete.
Di queste prerogative Elena Flavia Augusta ne fece buon uso, beneficò generosamente persone di ogni ceto e intere città, la sua bontà arrivava in soccorso dei poveri con vesti e denaro; fece liberare molti condannati dalle carceri o dalle miniere e anche dall’esilio.
Fu donna di splendida fede e quanto abbia influito sul figlio, nell’emanazione nel 313 dell’editto di Milano che riconosceva libertà di culto al cristianesimo, non ci è dato sapere.
Ci sono due ipotesi storiche, una di Eusebio che affermava che Elena sia stata convertita al cristianesimo dal figlio Costantino e l’altra di s. Ambrogio che affermava il contrario; certamente deve essere stato così, perché Costantino ricevé il battesimo solo in punto di morte nel 337.
Ad ogni modo Elena visse esemplarmente la sua fede, nell’attuare le virtù cristiane e nel praticare le buone opere; partecipava umilmente alle funzioni religiose, a volte mischiandosi in abiti modesti tra la folla dei fedeli; spesso invitava i poveri a pranzo nel suo palazzo, servendoli con le proprie mani.
Tenne un atteggiamento prudente, quando ci fu la tragedia familiare di Costantino, il quale nel 326 fece uccidere il figlio Crispo avuto da Minervina, su istigazione della matrigna Fausta e poi la stessa sua moglie Fausta, sospettata di attentare al suo onore.
E forse proprio per questi foschi episodi che coinvolgevano il figlio Costantino, a 78 anni nel 326, Elena intraprese un pellegrinaggio penitenziale ai Luoghi Santi di Palestina.
Qui si adoperò per la costruzione delle Basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, che Costantino poi ornò splendidamente.
La tradizione narra che Elena, salita sul Golgota per purificare quel sacro luogo dagli edifici pagani fatti costruire dai romani, scoprì la vera Croce di Cristo, perché il cadavere di un uomo messo a giacere su di essa ritornò miracolosamente in vita.
Questo episodio leggendario è stato raffigurato da tanti artisti, ma i più noti sono i dipinti nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma e nel famoso ciclo di S. Francesco ad Arezzo di Piero della Francesca.
Insieme alla Croce furono ritrovati anche tre chiodi, i quali furono donati al figlio Costantino, forgiandone uno nel morso del suo cavallo e un altro incastonato all’interno della famosa Corona Ferrea, conservata nel duomo di Monza.
L’intento di Elena era quello di consigliare al figlio la moderazione ed indicargli che non c’è sovrano terreno che non sia sottoposto a Cristo; inoltre avrebbe indotto Costantino a costruire la Basilica dell’Anastasis, cioè della Resurrezione.
Elena morì a circa 80 anni, assistita dal figlio, verso il 329 in un luogo non identificato; il suo corpo fu però trasportato a Roma e sepolto sulla via Labicana “ai due lauri”, oggi Torpignattara; posto in un sarcofago di porfido, collocato in uno splendido mausoleo a forma circolare con cupola.
Fu da subito considerata una santa e con questo titolo fu conosciuta nei secoli successivi; i pellegrini che arrivavano a Roma non omettevano di visitare anche il sepolcro di s. Elena, situato tangente al portico d’ingresso della Basilica dei Santi Marcellino e Pietro.
Il grandioso sarcofago di porfido fu trasportato nell’XI secolo al Laterano e oggi è conservato nei Musei Vaticani. Il suo culto si diffuse largamente in Oriente e in Occidente, l’agiografo Usuardo per primo ne inserì il nome nel suo ‘Martirologio’ al 18 agosto e da lì passò nel ‘Martirologio Romano’ alla stessa data; in Oriente è venerata il 21 maggio insieme al figlio s. Costantino imperatore.
Gli strumenti della Passione da lei ritrovati, furono custoditi e venerati nella Basilica romana di S. Croce in Gerusalemme, da lei fatta costruire per tale scopo, le sue reliquie hanno avuto una storia a parte, già dopo due anni dalla sepoltura a Roma, il corpo fu trasferito a Costantinopoli e posto nel mausoleo che l’imperatore aveva preparato per sé.
Poi le notizie discordano, una prima tradizione dice che nell’840 il presbitero Teogisio dell’abbazia di Hauvilliers (Reims) trasferì le reliquie in Francia; una seconda tradizione afferma che verso il 1140 papa Innocenzo II le trasferì nella Basilica romana dell’Aracoeli e infine una terza tradizione dice che il canonico Aicardo le portò a Venezia nel 1212.
È probabile che il percorso sia stato Roma - via Labicana, poi Reims e dopo la Rivoluzione Francese le reliquie siano state definitivamente collocate nella Cappella della Confraternita di S. Croce nella chiesa di Saint Leu di Parigi; qualche reliquia deve essere giunta negli altri luoghi dell’Aracoeli a Roma e a Venezia.
S. Elena è la santa patrona di Pesaro e Ascoli Piceno, venerata con culto speciale anche in Germania, a Colonia, Treviri, Bonn e in Francia ad Elna, che in origine si chiamava “Castrum Helenae”.
Inoltre è considerata la protettrice dei fabbricanti di chiodi e di aghi; è invocata da chi cerca gli oggetti smarriti; in Russia si semina il lino nel giorno della sua festa, affinché cresca lungo come i suoi capelli.
Nel più grande tempio della cristianità, S. Pietro in Vaticano, s. Elena è ricordata con una colossale statua in marmo, posta come quelle di s. Andrea, la Veronica, s. Longino, alla base dei quattro enormi pilastri che sorreggono la cupola di Michelangelo e fanno da corona all’altare della Confessione, sotto il quale c’è la tomba dell’apostolo Pietro.


Autore: Antonio Borrelli
OFFLINE
19/08/2014 06:29
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Giovanni Eudes Sacerdote

19 agosto - Memoria Facoltativa

Ri, Francia, 14 novembre 1601 - Caen, Francia, 19 agosto 1680


Nato in Normandia nel 1601, muore nel 1680. Divenuto un attivista e un devoto di Maria è ordinato sacerdote nel Collegio dei gesuiti di Caen. Da qui parte per assistere gli appestati nella regione di Argentan. In seguito si consacra alle missioni parrocchiali. Resosi conto di quanto sia importante la figura del sacerdote, riesce a far costruire un seminario, dando vita alla «Congregazione di Gesù e di Maria ». San Giovanni Eudes è il primo e più ardente apostolo del culto liturgico ai Sacri Cuori di Gesú e di Maria. Nel 1641 fonda due Congregazioni religiose, una maschile e una femminile, dedicate ai Sacri Cuori. Per lui, quindi, il culto del Sacro Cuore di Gesú è il culto della persona, in quanto esso è l'origine e la fonte della dignità e della santità della persona. Fonda poi rifugi per togliere le ragazze dalla strada e una Congregazione di Religiose per assisterle, l'ordine di «Nostra Signora della Carità del Rifugio». Scrive numerose opere, fra cui la più conosciuta e la più considerevole è «Il cuore ammirabile della Madre di Dio». (Avvenire)

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: San Giovanni Eudes, sacerdote, che si dedicò per molti anni alla predicazione nelle parrocchie e fondò poi la Congregazione di Gesù e Maria per la formazione dei sacerdoti nei seminari e quella delle monache di Nostra Signora della Carità per confermare nella vita cristiana le donne penitenti; incrementò moltissimo la devozione verso i sacri Cuori di Gesù e di Maria, finché a Caen nella Normandia in Francia si addormentò piamente nel Signore.


Cognome e predicato della sua casata normanna: Eudes de Mézeray. Un suo fratello minore, Francesco, diventerà storico di corte. Lui, dopo i primi studi, viene accolto a Parigi nella Congregazione dell’oratorio, creata nel1611 dal sacerdote e futuro cardinale Pietro de Bérulle, per formare buoni predicatori. Nel 1625, ordinato sacerdote, viene mandato a Caen, nella Normandia nativa. E qui lo sorprende la peste. Si fa infermiere dei malati e confortatore dei moribondi, ma i suoi amici si tengono alla larga, per paura del contagio. Allora li tranquillizza, isolandosi: dorme su un pagliaio, dentro una botte. Prende il male anche lui, ma ne guarisce, e infine torna all’attività principale: le “missioni al popolo”, che sono cicli di soggiorno, incontri e predicazione, da un paese all’altro.

Percorre il Nord della Francia, dimostrandosi "predicatore di qualità straordinarie; dove passava, convertiva" (L.Mezzadri). Ma spesso si tratta di fiammate, che dopo la sua partenza si estinguono. E per varie ragioni: la Francia e l’Europa intera vivono uno dei loro momenti peggiori, la guerra dei Trent’anni (1618-1648); in alcune parti del Continente la fame produce il cannibalismo; i contadini di Francia sono alla disperazione, brutalmente depredati non da truppe nemiche, ma dai soldati del loro re, insaziabili e impuniti. Molti non sanno più in cosa credere; la tradizionale pratica religiosa cattolica, già messa in crisi nel secolo precedente dalle guerre di religione, ora è anche attaccata dal movimento giansenista: i suoi ispiratori e maestri, noti per austerità di vita, cultura e schietti convincimenti, sono tuttavia portatori di una religiosità che a molti fedeli ispira reverenza e timore verso Dio, piuttosto che amore fiducioso e speranza. Ma il peggio non viene da fuori: sta dentro la Chiesa di Francia. Sta nel suo clero scadente e apatico, nell’ignoranza di troppi preti. Giovanni Eudes si convince che la prima necessità, urgentissima, è rifare il clero: e vorrebbe che fosse la “sua” Congregazione dell’oratorio a promuovere da Parigi questo sforzo grandioso. (Il concilio di Trento aveva decretato l’istituzione dei seminari già nel 1563, ma in Francia il decreto è rimasto largamente inapplicato).
Da Parigi arriva però una risposta negativa, e allora lui fonda nel 1643 la Congregazione di Gesù e Maria, formata da sacerdoti legati dal voto di obbedienza (e chiamati poi Eudisti) con lo scopo di tenere anche le “missioni al popolo”, ma soprattutto di aprire e dirigere seminari, che diano ai futuri sacerdoti l’indispensabile formazione spirituale. Per trasformarli da opachi funzionari del culto (come troppi di loro si sentono) in diffusori dell’amore incessante di Dio, simboleggiato nelle immagini del cuore di Gesù e del cuore di Maria.
Nello stesso 1643, fonda a Caen il primo seminario di Normandia (poi verranno quelli di Coutances, Lisieux, Rouen, Evreux e Rennes). Intanto, sempre a Caen, ha creato l’Ordine femminile di Nostra Signora della Carità, votato alla riabilitazione delle donne vittime di sfruttatori: un’istituzione che nell’Ottocento si svilupperà nell’Istituto del Buon Pastore, fondato da santa Maria Eufrasia Pelletier. La sua vita si conclude a Caen. Beatificato da Pio X nel 1909, è stato proclamato santo da PioXI nel 1925. Le sue spoglie riposano in Colombia, dove si trova la casa generalizia dei Padri Missionari Eudisti.


Autore: Domenico Agasso
OFFLINE
20/08/2014 08:02
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Bernardo di Chiaravalle Abate e dottore della Chiesa

20 agosto

Digione, Francia, 1090 - Chiaravalle-Clairvaux, 20 agosto 1153


Bernardo, dopo Roberto, Alberico e Stefano, fu padre dell'Ordine Cistercense. L'obbedienza e il bene della Chiesa lo spinsero spesso a lasciare la quiete monastica per dedicarsi alle più gravi questioni politico-religiose del suo tempo. Maestro di guida spirituale ed educatore di generazioni dei santi, lascia nei suoi sermoni di commento alla Bibbia e alla liturgia un eccezionale documento di teologia monastica tendente, più che alla scienza, all'esperienza del mistero. Ispirò un devoto affetto all'umanità di Cristo e alla Vergine Madre. (Mess. Rom.)

Patronato: Apicoltori

Etimologia: Bernardo = ardito come orso, dal tedesco

Emblema: Bastone pastorale, Libro
Martirologio Romano: Memoria di san Bernardo, abate e dottore della Chiesa, che entrato insieme a trenta compagni nel nuovo monastero di Cîteaux e divenuto poi fondatore e primo abate del monastero di Chiaravalle, diresse sapientemente con la vita, la dottrina e l’esempio i monaci sulla via dei precetti di Dio; percorse l’Europa per ristabilirvi la pace e l’unità e illuminò tutta la Chiesa con i suoi scritti e le sue ardenti esortazioni, finché nel territorio di Langres in Francia riposò nel Signore.

A ventidue anni si fa monaco, tirando con sé una trentina di parenti. Il monastero è quello fondato da Roberto di Molesmes a Cîteaux (Cistercium in latino, da cui cistercensi). A 25 anni lo mandano a fondarne un altro a Clairvaux, campagna disabitata, che diventa la Clara Vallis sua e dei monaci. È riservato, quasi timido. Ma c’è il carattere. Papa e Chiesa sono le sue stelle fisse, ma tanti ecclesiastici gli vanno di traverso. È severo anche coi monaci di Cluny, secondo lui troppo levigati, con chiese troppo adorne, "mentre il povero ha fame".

Ai suoi cistercensi chiede meno funzioni, meno letture e tanto lavoro. Scaglia sull’Europa incolta i suoi miti dissodatori, apostoli con la zappa, che mettono all’ordine la terra e l’acqua, e con esse gli animali, cambiando con fatica e preghiera la storia europea. E lui, il capo, è chiamato spesso a missioni di vertice, come quando percorre tutta l’Europa per farvi riconoscere il papa Innocenzo II (Gregorio Papareschi) insidiato dall’antipapa Pietro de’ Pierleoni (Anacleto II). E lo scisma finisce, con l’aiuto del suo prestigio, del suo vigore persuasivo, ma soprattutto della sua umiltà. Questo asceta, però, non sempre riesce ad apprezzare chi esplora altri percorsi di fede. Bernardo attacca duramente la dottrina trinitaria di Gilberto Porretano, vescovo di Poitiers. E fa condannare l’insegnamento di Pietro Abelardo (docente di teologia e logica a Parigi) che preannuncia Tommaso d’Aquino e Bonaventura.
Nel 1145 sale al pontificato il suo discepolo Bernardo dei Paganelli (Eugenio III), e lui gli manda un trattato buono per ogni papa, ma adattato per lui, con l’invito a non illudersi su chi ha intorno: "Puoi mostrarmene uno che abbia salutato la tua elezione senza aver ricevuto denaro o senza la speranza di riceverne? E quanto più si sono professati tuoi servitori, tanto più vogliono spadroneggiare". Eugenio III lo chiama poi a predicare la crociata (la seconda) in difesa del regno cristiano di Gerusalemme. Ma l’impresa fallirà davanti a Damasco.
Bernardo arriva in una città e le strade si riempiono di gente. Ma, tornato in monastero, rieccolo obbediente alla regola come tutti: preghiera, digiuno, e tanto lavoro. Abbiamo di lui 331 sermoni, più 534 lettere, più i trattati famosi: su grazia e libero arbitrio, sul battesimo, sui doveri dei vescovi... E gli scritti, affettuosi su Maria madre di Gesù, che egli chiama mediatrice di grazie (ma non riconosce la dottrina dell’Immacolata Concezione).
Momenti amari negli ultimi anni: difficoltà nell’Ordine, la diffusione di eresie e la sofferenza fisica. Muore per tumore allo stomaco. È seppellito nella chiesa del monastero, ma con la Rivoluzione francese i resti andranno dispersi; tranne la testa, ora nella cattedrale di Troyes.
Alessandro III lo proclama santo nel 1174. Pio VIII, nel 1830, gli dà il titolo di Dottore della Chiesa.


Autore: Domenico Agasso
OFFLINE
21/08/2014 06:04
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Pio X (Giuseppe Sarto) Papa

21 agosto

Riese, Treviso, 2 giugno 1835 - Roma, 21 agosto 1914

(Papa dal 09/08/1903 al 20/08/1914)
Giuseppe Sarto, vescovo di Mantova (1884) e patriarca di Venezia (1893), sale alla cattedra di Pietro con il nome di Pio X. È il primo Papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da Papa Giovanni XXIII. È uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a Papa. È il pontefice che nel Motu proprio «tra le sollecitudini» (1903) afferma che la partecipazione ai santi misteri è la fonte prima e indispensabile alla vita cristiana. Difende l’integrità della dottrina della fede, promuove la comunione eucaristica anche dei fanciulli, avvia la riforma della legislazione ecclesiastica, si occupa della Questione romana e dell’Azione Cattolica, cura la formazione dei sacerdoti, fa elaborare un nuovo catechismo, favorisce il movimento biblico, promuove la riforma liturgica e il canto sacro. (Avvenire)

Etimologia: Pio = devoto, religioso, pietoso (signif. Intuitivo)

Martirologio Romano: Memoria di san Pio X, papa, che fu dapprima sacerdote in parrocchia e poi vescovo di Mantova e patriarca di Venezia. Eletto, infine, Pontefice di Roma, si propose come programma di governo di ricapitolare tutto in Cristo e lo realizzò in semplicità di animo, povertà e fortezza, promuovendo tra i fedeli la vita cristiana con la partecipazione all’Eucaristia, la dignità della sacra liturgia e l’integrità della dottrina.
(20 agosto: A Roma, anniversario della morte di san Pio X, papa, la cui memoria si celebra domani).


Fu il primo papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da papa Giovanni XXIII anch’egli di origini contadine, ma fu senz’altro uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a papa.
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso), oggi Riese Pio X, il 2 giugno 1835, secondo dei 10 figli di Giovanni Battista Sarto e Margherita Sanson; il padre era messo comunale e nel tempo libero coltivava un piccolo appezzamento di terreno.
Sin da ragazzo dimostrò forza di carattere e tenace volontà; serenamente sopportava i sacrifici imposti dalla condizione povera della famiglia, percorse per anni ogni giorno a piedi, spesso scalzo, la strada che conduce da Riese a Castelfranco per poter frequentare la scuola.
Dotato di predisposizione allo studio, fu aiutato da alcuni sacerdoti e poi dal patriarca di Venezia, anch’egli originario di Riese, che gli offrì un posto gratuito nel Seminario di Padova, a quell’epoca uno dei migliori d’Italia e anche qui ben presto si notò la ricchezza della sua indole, dotata di notevole equilibrio.
Quando aveva 17 anni, nel 1852, morì il padre e gli amministratori del piccolo Municipio di Riese, per aiutare la numerosa famiglia, offrirono al giovane Giuseppe l’impiego occupato dal padre.
Ma l’eroica madre Margherita, rifiutò l’offerta, perché il ‘Bepi’ doveva seguire la sua vocazione sacerdotale; avrebbe pensato lei con il suo lavoro di sarta, a portare avanti la famiglia, lavorando notte e giorno.
Fu ordinato sacerdote a 23 anni (settembre 1858) e subito nominato cappellano a Tombolo (Padova) piccola parrocchia di campagna, dove giunse il 29 novembre 1858, qui profuse le giovani forze nell’apostolato e nel ministero sacerdotale per ben nove anni.
Essendo risultato primo al concorso, fu nominato nel 1867 parroco a Salzano, grosso borgo della provincia veneziana, dove rimase per circa nove anni.
Dotato di una salute di ferro, di un’energia che non conosceva debolezza e di una sorprendente capacità di rapportarsi con gli altri, egli si diede anima e corpo all’attività parrocchiale, suscitando l’ammirazione dei parrocchiani e dei confratelli sacerdoti.
Nel novembre 1875 il vescovo di Treviso lo chiamò presso di sé nominandolo Canonico della Cattedrale, Cancelliere della Curia Vescovile, Direttore spirituale del Seminario; incarichi di prestigio per il giovane sacerdote Giuseppe Sarto (aveva 40 anni), il quale trascorreva la mattina al vescovado e il pomeriggio in Seminario.
Adempiva ai suoi compiti con dedizione e competenza, la sua sollecitudine gli faceva portare a casa le pratiche non ancora evase che sbrigava anche nelle ore notturne, la sua buona salute gli consentiva di recuperare le forze con appena 4-5 ore di sonno.
Il suo modo di agire, pieno di comprensione verso gli altri e il suo amore particolare per i poveri, gli guadagnarono l’affetto e la stima di tutti, cosicché nessuno si meravigliò quando nel settembre 1884, papa Leone XIII lo nominò vescovo di Mantova.
La diocesi mantovana attraversava un periodo particolarmente difficile, sia al suo interno, sia con il potere civile, ma il modesto prete Giuseppe Sarto, conosciuto per la fama di oratore brillante e per la sua grande carità, si rivelò un capo, con uno spirito realistico, pronto a cogliere il nodo dei problemi e a trovarne le soluzioni pratiche, con una bonarietà sorridente ma che all’occorrenza sapeva accompagnarla con una fermezza innata.
Seppe pacificare gli animi e avviò un profondo rinnovamento della vita cristiana in tutta la diocesi; incoraggiò l’affermarsi delle cooperative operaie; formatosi sotto papa Pio IX e nel clima reazionario della monarchia asburgica, alla quale il Veneto fino al 1866 era soggetto, mons. Sarto era considerato un “intransigente”, che condannava il liberalismo e lo spirito di apertura alla mentalità moderna.
Erano problemi che agitavano la Chiesa del post Stato Pontificio e la ventata di modernismo proveniente da tanti settori della società, vedeva nelle diocesi italiane il contrapporsi di ideologie, con vescovi permissivi e altri intransigenti alle aperture.
Papa Leone XIII apprezzando il suo operato, lo elevò alla dignità cardinalizia il 12 giugno 1893 con il titolo di San Bernardo alle Terme e il 15 giugno lo destinava alla sede patriarcale di Venezia, anch’essa in una situazione particolarmente difficile.
Ma il suo ingresso poté avvenire solo il 24 novembre 1894, perché mancava il beneplacito del Governo Italiano; il re d’Italia Umberto I°, sosteneva di avere il diritto di scelta del patriarca per un antico privilegio della Repubblica Veneta, ma alla fine dopo 17 mesi si addivenne ad un compromesso.
Pur avendo conservato un certo attaccamento sentimentale per Francesco Giuseppe, il sovrano austriaco dei suoi primi trent’anni, al contrario dell’ambiente di curia, il patriarca Sarto manifestò verso la Casa Savoia e il giovane Regno d’Italia un atteggiamento più conciliante, ormai convinto che indietro non si sarebbe più ritornati.
Riteneva necessario preparare un progressivo riavvicinamento tra la nuova Italia e la Santa Sede, risolvendo la ‘Questione Romana’ e salvaguardando tutto ciò che vi era di essenziale sotto l’aspetto spirituale, ma abbandonando ciò che era transitorio nelle posizioni prese da papa Pio IX, dopo l’occupazione dello Stato Pontificio e perseguite anche da papa Leone XIII.
Incurante delle critiche e dello stupore di alcuni, non esitò ad indurre i cattolici veneziani ad allearsi con i liberali moderati, per far cadere l’amministrazione comunale massonica, che aveva soppresso il catechismo nelle scuole e fatto togliere il crocifisso negli ospedali.
Mobilitò i parroci e i gruppi di Azione Cattolica, moltiplicò le riunioni dei comitati, governò la stampa cattolica; il suo avvicinamento all’Italia ufficiale, era dettato da un realismo pastorale e non per simpatia all’ideologia liberale e modernista che personalmente rifiutò sempre.
A Venezia ci fu una fioritura della vita religiosa, gli adulti venivano istruiti nella fede e organizzati in Associazioni religiose; i bambini venivano preparati alla Prima Comunione e Cresima con particolare impegno, le celebrazioni liturgiche presero nuovo decoro con la solennità dei canti sacri.
In questo periodo conobbe il giovane Lorenzo Perosi, ne ammirò il talento musicale, lo aiutò e incoraggiò a diventare sacerdote, gli affidò la riforma del canto liturgico prima a Venezia e poi a Roma.
Amò i poveri, ai quali donava tutto quello che possedeva, giunto a Venezia non volle una porpora cardinalizia nuova, ma fece riadattare dalle sue sorelle che l’avevano seguito, quella vecchia del suo predecessore, donando ai poveri la somma equivalente per una nuova.
Pur essendo ostile al socialismo e al liberalismo, non mancò, come a Mantova, di preoccuparsi di tutto quanto potesse migliorare le condizioni di vita degli operai, incoraggiò le Casse Operaie parrocchiali, le Società di Mutuo Soccorso, gli uffici di collocamento popolare e per indirizzare il clero in questa direzione, istituì nel 1895 una cattedra di scienze economiche e sociali nel Seminario.
A Venezia amò tutti ed era amato da tutti; il 15 ottobre 1893 il cardinale era al capezzale dell’anziana madre morente, la quale aveva espresso il desiderio prima di morire di vedere il figlio vestito dei suoi abiti cardinalizi e lui volle accontentarla, si presentò all’improvviso quel mattino e la madre vedendolo esclamò con stupore: “Ah Bepi, sè tutto rosso!…” e lui: “E vu mare, sè tutta bianca!”.
Il 20 luglio 1903 ad oltre 93 anni, morì papa Leone XIII, che aveva governato la Chiesa oltre 25 anni e il patriarca di Venezia card. Sarto partì alla volta di Roma, alla stazione ferroviaria una gran folla lo circondò per salutarlo ed egli commosso rassicurò loro “Vivo o morto ritornerò”, del resto il biglietto per il treno che gli era stato offerto, era di andata e ritorno.
Quelle parole furono profetiche, perché il patriarca Sarto non tornò più a Venezia perché eletto papa; ma un suo successore, papa Giovanni XXIII, anch’egli patriarca della città lagunare, autorizzò il ritorno dell’urna con il corpo dell’ormai santo Pio X, che avvenne trionfalmente il 12 aprile 1959; l’urna esposta nella Basilica di San Marco, rimase a Venezia per un mese fino al 10 maggio, a ricevere il saluto e la venerazione dei suoi veneziani.
Il Conclave che seguì fu uno dei più drammatici, perché fu l’ultimo in cui venne esercitata “l’esclusiva” di un governo cattolico nei confronti di un papabile sgradito.
Il candidato più autorevole a succedere a Leone XIII era il suo Segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto dal governo asburgico un continuatore della politica di sostegno dei cristiano-sociali in Austria e Ungheria e favorevole alle aspirazioni indipendentiste degli Slavi nei Balcani; il cardinale di Cracovia si fece portatore del veto imperiale contro Rampolla, fra le proteste del Decano del Sacro Collegio Cardinalizio e di altri cardinali, per l’ingerenza del potere civile.
Ad ogni modo il conclave durato quattro giorni designò il 3 agosto 1903, il patriarca di Venezia nuovo pontefice, nonostante le sue implorazioni a non votarlo, il quale alla fine accettò prendendo il nome di Pio X.
Il suo pontificato durò 11 anni, rompendo la sua personale cadenza negli incarichi ricevuti che furono stranamente sempre di nove anni; 9 anni in Seminario, 9 come cappellano a Tombolo, 9 anni come parroco a Salzano, 9 come canonico e direttore del Seminario a Treviso, 9 come vescovo di Mantova e 9 come patriarca di Venezia.
Aveva 68 anni quando salì al Soglio Pontificio instaurando una linea di condotta per certi versi di continuità con i due lunghissimi pontificati di Pio IX e Leone XIII che l’avevano preceduto, specie in campo politico, ma anche di rottura con certi schemi ormai consolidati, ad esempio, sebbene di umili origini egli rifiutò sempre di elargire benefici alla famiglia, come critica verso certi nepotismi e favoritismi più o meno evidenti, fino allora praticati.
Suo Segretario di Stato fu il card. Merry del Val, con il quale si dedicò ad una riaffermazione ben chiara dei diritti della Chiesa e ad una strategia ad ampio raggio per ristabilire l’ordine sociale secondo il volere di Dio.
Davanti ai grandi progressi di un liberalismo prevalentemente antireligioso, di un socialismo prevalentemente materialista e di uno scientismo presuntuoso, Pio X avvertì la necessità di erigere il papato contro la modernità, spezzando ogni tentativo di avviare un compromesso efficace tra i cattolici e la nuova cultura.
Con l’enciclica “Pascendi” del 1907 condannò il ‘modernismo’; in campo politico riprese la linea intransigente di Pio IX, egli considerava la separazione della Chiesa dallo Stato come un sacrilegio, gravemente ingiuriosa nei confronti di Dio al quale bisogna rendere non solo un culto privato ma anche uno pubblico.
La riaffermazione del potere papale, dopo le vicissitudini della caduta dello Stato Pontificio, portarono con il pensiero di Pio X ad identificare l’istituzione papale con la Chiesa intera, la Santa Sede con il popolo di Dio.
Non si può qui fare una completa panoramica del suo pontificato, vissuto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e del sorgere della Rivoluzione Russa, e in pieno affermarsi dei nuovi movimenti di pensiero come il modernismo, il liberalismo, infiltrati di materialismo e spirito antireligioso, con una Massoneria dilagante.
Centinaia di libri sono stati scritti su quel vivace periodo, ne citiamo uno: “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia” di Pietro Scoppola, Bologna, 1961.
Il 20 gennaio 1904 papa Pio X reduce dal drammatico conclave che l’aveva eletto, stabilì che nessun potere laico esterno, potesse opporre un veto nell’elezione del pontefice e fulminò con scomunica quei cardinali che si prestassero a fare da portavoce, anche del semplice desiderio o indicazione di uno Stato.
Pio X che amava presentarsi come un “buon parroco di campagna” aveva in realtà notevoli doti e non era affatto sprovvisto di cultura, leggeva numerose opere, parlava e leggeva il francese, possedeva un gusto artistico e protesse i tesori d’arte della Chiesa; cultore della musica, amò il canto liturgico.
Uomo di grandezza morale, viveva in Dio e di Dio, esercitava le virtù cristiane fino all’eroismo, con una umiltà diventata la sua seconda natura senza la minima ostentazione; una effettiva povertà e un atteggiamento di distacco di fronte a se stesso che non abbandonava mai; una fede e una fiducia nella Provvidenza origine di quella serenità interiore che si poteva ammirare in lui; inoltre una carità che destava la meraviglia dei dignitari del Vaticano.
“Instaurare omnia in Christo” era il motto di papa Pio X e con la forza e la costanza che gli erano proprie, cercò di attuare in tutti campi questa restaurazione della società cristiana a partire dalla Chiesa; riformò profondamente la Curia Romana e le varie Congregazioni, fece redigere un nuovo Codice di Diritto Canonico; applicò le norme per la Comunione frequente e per i bambini; riformò la Liturgia togliendo dal Messale molte cose inutili, riportò al ciclo delle domeniche, il posto che era stato usurpato dal ciclo dei Santi; sollecitò il canto e la musica nelle funzioni sacre; istituì l’obbligo del catechismo a piccoli e grandi e che da lui si chiamò “Catechismo di Pio X”.
Verso la fine del suo pontificato, sull’Europa si addensavano nubi minacciose di guerra, che coinvolgevano molti Stati cattolici in contrasto fra loro.
Dopo l’attentato di Sarajevo all’arciduca ereditario Francesco Ferdinando, seguì il 28 luglio 1914 l’attacco dell’Austria alla Serbia e man mano il conflitto si estese a tutta l’Europa; per papa Pio X, già da tempo sofferente di gotta e quasi ottantenne, fu l’inizio della fine, il suo stato di salute e il deperimento fisico si accentuò e dopo una bronchite trasformatosi bruscamente in polmonite acuta, il pontefice morì nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1914; fu sepolto nelle Grotte Vaticane.
In vita era indicato come un “Papa Santo”, perché correva voce di guarigioni avvenute toccando i suoi abiti, ma lui sorridendo correggeva: “Mi chiamo Sarto non Santo”. Fu beatificato il 3 giugno 1951 da papa Pio XII e proclamato santo dallo stesso pontefice il 29 maggio 1954; la sua urna si venera nella Basilica di S. Pietro.


Autore: Antonio Borrelli
OFFLINE
22/08/2014 07:46
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Sant' Andrea da Fiesole (Andrea Scoto) Confessore

22 agosto


Vissuto nel IX secolo, nacque probabilmente in Irlanda. Poiché ai pellegrini si dava il nome di "Scotus", da questo deriva la leggenda di un Andrea Scoto. Questi, fu educato da Donato, maestro di filosofia che seguì in pellegrinaggio verso Roma. Giunti a Fiesole, chiamato da una voce soprannaturale, Donato fu eletto dal popolo vescovo e rimase in carica quarantasette anni. Andrea fu ordinato diacono e come arcidiacono assistette Donato, acquistando fama e stima per la vita austera e la grande carità. Restaurata la chiesa di San Martino, distrutta dagli Ungari, Andrea costruì vicino ad essa un monastero e vi si ritirò con alcuni compagni. Sepolto nella chiesa di San Martino a Mensola, nel 1285 fu scoperta la sua tomba, perché con numerose apparizioni egli impedì che vicino a lui fosse seppellita una peccatrice. Il vescovo Leonardo Bonafede (m. 1545) curò la traslazione delle reliquie di Andrea in un nuovo altare della chiesa di s. Martino. La sua festa è celebrata a Fiesole il 2 agosto e il culto è antichissimo. (Avvenire)

Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco



Nacque nella prima metà del sec. IX, probabilmente in Irlanda: poiché in molti paesi europei a qualsiasi pellegrino si dava il nome di "Scotus", da questo deve essere nata la leggenda di un Andrea Scoto. Andrea, dunque, fu educato da Donato. Irlandese, maestro di filosofia, e succesivamente lo seguì in un pellegrinaggio a Roma. Giunti a Fiesole, chiamato da una voce soprannaturale, Donato fu eletto dal popolo vescovo e rimase in carica quarantasette anni. Andrea fu ordinato diacono e come arcidiacono assistette Donato nel suo ministero, acquistandosi grande rinomanza per l'austerità di vita e la carità senza limiti. Restaurata la chiesa di S. Martino, distrutta dagli Ungari, Andrea costruì vicino ad essa un monastero e vi si ritirò con alcuni compagni. E' molto dubbio se egli abracciò la regola benedettina: il Mabillon, comunque, lo esclude dal Catalogo dei santi dell'Ordine.
Pochi anni dopo la morte di Donato (ca. 876) anche Andrea cadde gravemente malato e, prima di morire, fu esaudito nel suo ardente desiderio di vedere la sorella, s. Brigida junior , che molti nni prima aveva lasciato in Irlanda: Brigida, intti, fu miracolosamente trasportata al suo capezale e Andrea, circondato dai suoi confratelli, si spense renamente alla fine del sec. IX.
Sepolto nella chiesa di S. Martino a Mensola, nel 1285 fu scoperta la sua tomba, perché con numerose apparizioni egli impedì che vicino a lui fosse seppellita una peccatrice. Il vescovo Leonardo Bonafede (m. 1545) curò la traslazione delle reliquie di Andrea in un nuovo altare della chiesa di s. Martino. La sua festa è celebrata a Fiesole il 2 agosto e il culto è antichissimo: abbiamo notizia, a l'altro, di una confraternita intitolata al suo nome, che fiorì fin dal 1600, la Compagnia del SS. Sacramento sotto il Titolo di S. Andrea di Scozia che esiste tutt'oggi ed è attiva nella Chiesa di S. Martino a Mensola.
Di Andrea esiste una Vita scritta in italiano nel sec. XIV o XVI: infatti, la narrazione è preceduta da una dedica a Leonardo Bonafede e l'autore si dice Filippo Villani. Se in Leonardo vediamo il vescovo che si occupò della traslazione delle reliquie di Andrea, ne consegue che la Vita fu scritta nel sec. XVI o, al più presto, nel sec. XV; se, invece, identifichiamo Filippo con il figlio di Matteo Villani, I'opera fu stesa nel sec. XIV e Leonardo non è il vescovo di Fiesole.
Il Gougaud, partendo dalla constatazione che il nome di Andrea non figura nella Vita di Donato, dubita fortemente che egli sia irlandese.


Autore: Sergio Mottironi
OFFLINE
23/08/2014 07:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Santa Rosa da Lima Vergine

23 agosto - Memoria Facoltativa

Lima, Perù, 1586 - 24 agosto 1617

Nacque a Lima il 20 aprile 1586, decima di tredici figli. Il suo nome di battesimo era Isabella. Era figlia di una nobile famiglia, di origine spagnola. Quando la sua famiglia subì un tracollo finanziario. Rosa si rimboccò le maniche e aiutò in casa anche nei lavori materiali. Sin da piccola aspirò a consacrarsi a Dio nella vita claustrale, ma rimase «vergine nel mondo». Il suo modello di vita fu santa Caterina da Siena. Come lei, vestì l'abito del Terz'ordine domenicano, a vent'anni. Allestì nella casa materna una sorta di ricovero per i bisognosi, dove prestava assistenza ai bambini ed agli anziani abbandonati, soprattutto a quelli di origine india. Dal 1609 si richiuse in una cella di appena due metri quadrati, costruita nel giardino della casa materna, dalla quale usciva solo per la funzione religiosa, dove trascorreva gran parte delle sue giornate a pregare ed in stretta unione con il Signore. Ebbe visioni mistiche. Nel 1614 fu obbligata a trasferirsi nell'abitazione della nobile Maria de Ezategui, dove morì, straziata dalle privazioni, tre anni dopo. Era il 24 agosto 1617, festa di S. Bartolomeo. (Avvenire)

Patronato: Fioristi

Etimologia: Rosa = dal nome del fiore

Emblema: Giglio, Rosa
Martirologio Romano: Santa Rosa, vergine, che, insigne fin da fanciulla per la sua austera sobrietà di vita, vestì a Lima in Perù l’abito delle Suore del Terz’Ordine regolare dei Predicatori. Dedita alla penitenza e alla preghiera e ardente di zelo per la salvezza dei peccatori e delle popolazioni indigene, aspirava a donare la vita per loro, giungendo a imporsi grandi sacrifici, pur di ottenere loro la salvezza della fede in Cristo. La sua morte avvenne il giorno seguente a questo.
(24 agosto: A Lima in Perù, anniversario della morte di santa Rosa, la cui memoria si celebra il giorno precedente a questo).


Nacque a Lima, capitale dell'allora ricco Perù, il 20 aprile 1586, decima di tredici figli. Il suo nome di battesimo era Isabella. Era figlia di una nobile famiglia, di origine spagnola. Il padre si chiamava Gaspare Flores, gentiluomo della Compagnia degli Archibugi, la madre donna Maria de Oliva. Per cui, il nome della Santa era Isabella Flores de Oliva. Ma questo sarà dimenticato in favore del nome che le diede, per la prima volta, la serva affezionata, di origine india, Mariana, che le faceva da balia, la quale, colpita dalla bellezza della bambina, secondo il costume indios, le diede il nome di un fiore. “Sei bella - le disse - sei rosa”.
Fu cresimata per le mani dell'arcivescovo di Lima ed anche lui Santo, Toribio de Mogrovejo, che le confermò, tra l'altro, in onore alle sue straordinarie doti fisiche e morali, quell’appellativo datole dalla serva india. Rosa ad esso aggiunse “di Santa Maria” ad esprimere il tenerissimo amore che sempre la legò alla Vergine Madre del cielo soprattutto sotto il titolo di Regina del Rosario, la quale non mancò di comunicarle il dono dell'infanzia spirituale fino a farle condividere la gioia e l'onore di stringere spesso tra le braccia il Bambino Gesù.
Visse un'infanzia serena ed economicamente agiata. Ben presto, però, la sua famiglia subì un tracollo finanziario. Rosa, che aveva studiato con impegno, aveva una discreta cultura ed aveva appreso l'arte del ricamo. Si rimboccò, quindi, le maniche, aiutando la famiglia in ogni genere di attività, dai lavori casalinghi alla coltivazione dell'orto ed al ricamo, onde potersi guadagnare da vivere.
Sin da piccola aspirò a consacrarsi a Dio nella vita claustrale, ma il Signore le fece conoscere la sua volontà che rimanesse vergine nel mondo. Ebbe modo di leggere qualcosa di S. Caterina da Siena. Subito la elesse a propria madre e sorella, facendola suo modello di vita, apprendendo da lei l'amore per Cristo, per la sua Chiesa e per i fratelli indios. Come la santa senese vestì l'abito del Terz'ordine domenicano. Aveva vent'anni. Allestì nella casa materna una sorta di ricovero per i bisognosi, dove prestava assistenza ai bambini ed agli anziani abbandonati, in special modo a quelli di origine india. Sempre come Caterina, fu resa degna di soffrire la passione del Suo divino Sposo, ma provò pure la sofferenza della “notte oscura”, che durò ben 15 anni. Ebbe anche lo straordinario dono delle nozze mistiche. Fu arricchita dal suo Celeste Sposo altresì di vari carismi come quello di compiere miracoli, della profezia e della bilocazione.
Dal 1609 si richiuse in una cella di appena due metri quadrati, costruita nel giardino della casa materna, dalla quale usciva solo per la funzione religiosa, dove trascorreva gran parte delle sue giornate in ginocchio, a pregare ed in stretta unione con il Signore e delle sue visioni mistiche, che iniziarono a prodursi con impressionante regolarità, tutte le settimane, dal giovedì al sabato.
Nel 1614, obbligata a viva forza dai familiari, si trasferì nell'abitazione della nobile Maria de Ezategui, dove morì, straziata dalle privazioni, tre anni dopo.
Grande, già in vita, fu la sua fama di santità. L'episodio più eclatante della sua esistenza terrena ce la presenta abbracciata al tabernacolo per difenderlo dai calvinisti olandesi guidati all'assalto della città di Lima dalla flotta dello Spitberg. L’inattesa liberazione della città, dovuta all’improvvisa morte dell’ammiraglio olandese, fu attribuita alla sua intercessione.
Condivise la sofferenza degli indios, che si sentivano avviliti, emarginati, vilipesi, maltrattati soltanto a motivo della loro diversità di razza e di condizione sociale.
Sentendosi avvicinare la morte, confidò “Questo è il giorno delle mie nozze eterne”. Era il 24 agosto 1617, festa di S. Bartolomeo. Aveva 31 anni.
Il suo corpo si venera a Lima, nella basilica domenicana del S. Rosario. Fu beatificata nel 1668. Due anni dopo fu insolitamente proclamata patrona principale delle Americhe, delle Filippine e delle Indie occidentali: si trattava di un riconoscimento singolare dal momento che un decreto di Papa Barberini (Urbano VIII) del 1630 stabiliva che non potessero darsi quali protettori di regni e città persone che non fossero state canonizzate. Fu comunque canonizzata il 12 aprile 1671 da papa Clemente X. È anche patrona dei giardinieri e dei fioristi. È invocata in caso di ferite, contro le eruzioni vulcaniche ed in caso di litigi in famiglia.


Autore: Francesco Patruno
OFFLINE
24/08/2014 07:49
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Bartolomeo Apostolo

24 agosto

Primo secolo dell’èra cristiana


Apostolo martire nato nel I secolo a Cana, Galilea; morì verso la metà del I secolo probabilmente in Siria. La passione dell'apostolo Bartolomeo contiene molte incertezze: la storia della vita, delle opere e del martirio del santo è inframmezzata da numerosi eventi leggendari.Il vero nome dell'apostolo è Natanaele. Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall'aramaico «bar», figlio e «talmai», agricoltore. Bartolomeo giunse a Cristo tramite l'apostolo Filippo. Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante (in Armenia, India e Mesopotamia). Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi. Bartolomeo fu condannato alla morte Persiana: fu scorticato vivo e poi crocefisso dai pagani. La calotta cranica del martire Bartolomeo si trova dal 1238 nel duomo di San Bartolomeo, a Francoforte. Una delle usanze più note legate alla festa di San Bartolomeo é il pellegrinaggio di Alm: la domenica prima o dopo San Bartolomeo, gli abitanti della località austriaca di Alm si recano in pellegrinaggio a St. Bartholoma, sul Konigssee, nel Berchtesgaden. I primi pellegrinaggi risalgono al XV secolo e sono legati allo scioglimento di un voto perché cessasse un'epidemia di peste. (Avvenire)

Patronato: Diocesi Campobasso-Boiano

Etimologia: Bartolomeo = figlio del valoroso, dall'aramaico

Emblema: Coltello
Martirologio Romano: Festa di san Bartolomeo Apostolo, comunemente identificato con Natanaele. Nato a Cana di Galilea, fu condotto da Filippo a Cristo Gesù presso il Giordano e il Signore lo chiamò poi a seguirlo, aggregandolo ai Dodici. Dopo l’Ascensione del Signore si tramanda che abbia predicato il Vangelo del Signore in India, dove sarebbe stato coronato dal martirio.


S. Bartolomeo è uno dei dodici apostoli, cioè uno di quegli uomini che furono compagni di Simon Pietro per tutto il tempo che il Signore Gesù visse sulla terra, a partire dal battesimo di Giovanni Battista fino al giorno in cui fu assunto al cielo (Atti, 1, 21s.). Il suo nome compare in questa forma, subito dopo quello del suo amico Filippo, nelle tre liste che degli Apostoli riportarono i Sinottici (Mt. 10, 3; Mc. 3, 18; Lc. 6, 14). S. Giovanni l'evangelista ricorda invece con altri discepoli del Signore Natanaele di Cana di Galilea (Giov. 21,2). Gli studiosi attribuiscono oggi comunemente i due nomi ad una stessa persona. Il primo sarebbe patronimico e significa figlio di Tolmai; il secondo sarebbe nome proprio e significa dono di Dio.
Anche Bartolomeo esercitava il mestiere del pescatore. Difatti, quando S. Pietro, dopo la risurrezione, si accinse ad andare a pescare, Natanaele si associò agli altri cinque apostoli presenti, i quali esclamarono: "Veniamo anche noi con te". Quella notte non presero niente. Sul far del giorno, Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non sapevano che era Gesù. Egli disse loro: "Figliuoli, avete un po' di companatico?". Gli risposero "No". E lui ad essi: "Gettate la rete a destra della barca e troverete". La gettarono e non riuscirono più a tirarla per la gran quantità di pesce (Giov. 21, 2-6).
Probabilmente Bartolomeo faceva parte della cerchia del Battista. Gesù lo chiamò alla sua scuola, tramite Filippo, amico di lui, come aveva chiamato poco prima Simone, tramite Andrea, fratello di lui. Dopo la scelta dei primi discepoli Gesù volle andare in Galilea. Incontrò Filippo di Betsaida e gli disse: "Seguimi". L'invito fu subito accolto. Filippo a sua volta incontrò Natanaele e gli comunicò la lieta notizia: "Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosé nella legge ed i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazareth". Natanaele era forse un assiduo lettore della Bibbia. La doveva meditare sovente sotto il fico che ogni giudaico aveva cura di far sorgere accanto alla propria casa. Sembra però che fosse di temperamento incline al pessimismo. Lo si arguisce dalla sprezzante risposta che diede all'amico: "Da Nazareth può venire qualcosa di buono?". Cana, la sua terra natia, distava appena otto chilometri dalla borgata che il Figlio di Dio aveva scelto come sua dimora terrena.
Natanaele sapeva che era formata da un'accolta di stamberghe semitrogloditiche e che non era neppure nominata in tutto l'Antico Testamento. Filippo, senza raffreddarsi per la scoraggiante risposta, si limitò a dirgli: "Vieni e vedi". Appena Gesù scorse il diffidente figlio di Abramo non poté fare a meno di esclamare: " Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità!" (Giov. 1,47).
A nessuno degli apostoli fu resa una testimonianza tanto onorifica e solenne. Natanaele stesso più che lusingato ne rimase stupito, motivo per cui gli chiese: "Donde mi conosci?". Il Signore approfittò della sua meraviglia per dargli una prova, ancor più evidente della prima, della sua onniscienza. "Prima che Filippo ti chiamasse, gli disse, ti vidi mentre eri sotto il fico". Non sappiamo che cosa vi stesse facendo. E' facile che nel suo animo fosse accaduto qualcosa di grave e di determinante per la sua esistenza. Non è improbabile che pensasse al vero Messia, alla redenzione d'Israele, avendo udito strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù tornato da Betania con i suoi primi apostoli. Il pio israelita, incapace di finzione, ne rimase sgomento e invaso ad un tratto da fervore esclamò: "Rabbi, tu sei il Figlio di Dio. Tu sei il re d'Israele!". Aveva avuto dunque ragione l'amico Filippo di riconoscere in Gesù il Messia promesso dai profeti! Il Signore smorzò in parte quel suo eccessivo entusiasmo dicendogli: "Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste". Volgendosi poi a quanti lo seguivano aggiunse: "Vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio ascendere e discendere sul Figlio dell'Uomo" (Ivi 1,48-51) permettersi al suo servizio, riconoscerlo loro Signore e avere cura della sua santissima umanità.
Tre giorni dopo il colloquio con Natanaele "ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea. La madre di Gesù era là. Alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli" (Ivi, 2, ls.), forse da Natanaele stesso. Non è improbabile che lo sposo o la sposa fossero suoi parenti o amici. Anche lui assistette così all'inizio delle "cose ben più grandi" predette dal Signore, alla conversione cioè dell'acqua in vino con cui il Messia "manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui" (Ivi, 2, 11).
Dopo il ricordo della sua vocazione, questo apostolo si eclissa nel Vangelo per tutta la vita di Gesù. Anche dopo la Pentecoste si hanno vaghe tradizioni riguardo al suo apostolato. Eusebio riferisce che Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria d'Egitto, nel suo viaggio in India (probabilmente era l'Etiopia o l'Arabia meridionale) verso la fine del secolo II, aveva incontrato comunità cristiane costituite dall'apostolo S. Bartolomeo, presso le quali aveva diffuso il Vangelo di S. Matteo in lingua ebraica. In seguito si sarebbe trasferito nell'Armenia maggiore, sostenendo non poche fatiche e superando non lievi difficoltà.
Secondo il Breviario romano in questa regione l'apostolo convertì alla fede cristiana il re Polimio e la sua sposa, nonché dodici città. Queste conversioni eccitarono l'invidia dei sacerdoti delle locali divinità, i quali riuscirono ad aizzare contro di lui in tal modo Astiage, fratello del re Polimio, che costui impartì l'ordine di scorticare vivo Bartolomeo e poi di decapitarlo. Gli artisti lo raffigurano abitualmente con sulle braccia il manto della propria pelle.
Una tradizione armena afferma che il corpo dell'apostolo fu sepolto ad Albanopoli, città in cui subì il martirio. Nel 507 l'imperatore Anastasio I lo fece trasferire a Daras, nella Mesopotamia, dove costruì in suo onore una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu probabilmente trasferita a Lipari, al nord della Sicilia. Durante l'invasione dei saraceni le reliquie del santo furono trafugate nell'838 a Benevento finché nel 1000, per l'intervento dell'imperatore Ottone III, giunsero a Roma e furono composte nella basilica di S. Bartolomeo, nell'isola Tibertina. Nel 1238 il cranio dell'apostolo fu portato a Francoforte sul Meno dove è ancora venerato nel duomo a lui dedicato. S. Bartolomeo è considerato il protettore dei macellai, dei conciatori e dei rilegatori.

Autore: Guido Pettinati

OFFLINE
25/08/2014 06:47
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Giuseppe Calasanzio Sacerdote

25 agosto - Memoria Facoltativa

Peralta del Sal, Aragona (Spagna), 31 luglio 1558 - Roma, 25 agosto 1648

Nato nel 1557 a Peralta de la Sal, in Spagna, Giuseppe diventa sacerdote a ventisei anni. Ricopre importanti mansioni in diverse diocesi spagnole. A Roma, colpito dalla miseria in cui vivevano i ragazzi abbandonati, fonda un nuovo ordine religioso con l'obiettivo di dare un'istruzione ai più poveri e combattere così l'analfabetismo, l'ignoranza e la criminalità. Nascono le «Scuole Pie» e i suoi religiosi vengono chiamati «scolopi». Scrive il santo: «È missione nobilissima e fonte di grandi meriti quella di dedicarsi all'educazione dei fanciulli, specialmente poveri, per aiutarli a conseguire la vita eterna. Chi si fa loro maestro e, attraverso la formazione intellettuale, s'impegna a educarli, soprattutto nella fede e nella pietà, compie in qualche modo verso i fanciulli l'ufficio stesso del loro angelo custode, ed è altamente benemerito del loro sviluppo umano e cristiano». Giuseppe muore il 25 agosto del 1648; è canonizzato nel 1767 e nel 1948 è dichiarato da papa Pio XII «patrono Universale di tutte le scuole popolari cristiane del mondo». Oggi l'ordine degli Scolopi è presente in 4 continenti e 32 paesi. (Avvenire)

Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico

Martirologio Romano: San Giuseppe Calasanzio, sacerdote, che istituì scuole popolari per la formazione dei bambini e dei giovani nell’amore e nella sapienza del Vangelo, fondando a Roma l’Ordine dei Chierici regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie.


A Peralta del Sal, in Aragona, si pensa che José de Calasanz sarà presto “canonigo”. O chissà, vescovo. E’ prete dal 1583, dopo ottimi studi, con l’aiuto dei facoltosi genitori, ed è assai stimato dai vescovi, che gli danno incarichi d’importanza: tra essi, nel 1592, quello di andare a Roma per certe pratiche con la Santa Sede. Ma è un viaggio di sola andata. Giuseppe Calasanzio (come lo chiamano a Roma) durante l’iter delle pratiche fa catechesi e assistenza nei rioni popolari, scoprendo un universo giovanile di miseria e di ignoranza, con la criminalità conseguente. Il Concilio di Trento ha fatto nascere molte scuole festive di catechismo, a cura di parrocchie e confraternite; si fa già molto, rispetto a prima. Ma in lui matura un progetto completamente nuovo: salvare i giovani realizzandoli, con l’insegnamento della fede e della morale insieme a quello delle scienze umane, in scuole quotidiane e gratuite, con programmi graduati, classi successive, esami. Non è un progetto da lui studiato: ne realizza il modello novità dopo novità, mentre insegna nella scuola fondata dal parroco di Santa Dorotea in Trastevere, e trasformata via via da lui nella prima vera scuola popolare d’Europa (1597).
Si trova fondatore quasi senza averlo voluto, con scolari che si affollano e per i quali trova nuove sedi. Per risolvere il problema capitale degli insegnanti, con l’approvazione di papa Paolo V, fonda nel 1617 la “Congregazione Paolina dei Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie”, formata da sacerdoti ed educatori, votati alla formazione cristiana e civile dei giovani mediante la scuola. (Sono i Padri Scolopi, che nel XX secolo saranno diffusi in oltre 20 Paesi di 4 continenti).
Nel 1622 Gregorio XV costituisce gli Scolopi in Ordine Regolare con voti solenni e riconosciuta autorità, che favorisce la loro espansione in Italia e in Europa. Una crescita forse troppo impetuosa, non esente da imperfezioni, come ogni iniziativa nuova.
A questo punto, ecco un’esperienza terribile per il Fondatore: veder morire la sua opera. E non per mano di nemici della fede: sono uomini di Chiesa, sono anche uomini suoi, quelli che lanciano durissime accuse all’opera e a lui. Denunciato al Sant’Uffizio, spogliato della sua autorità, vede l’Ordine declassato a semplice Congregazione senza voti, abbandonata da molti dei suoi figli spirituali. Lui fa coraggio ai pochi rimasti: "L’Ordine risorgerà!". Lo ripete fino alla morte, che lo coglie a 90 anni.
Sant’Uffizio o no, i romani lo tengono per santo e vogliono che cominci al più presto la causa canonica. E Giuseppe sarà canonizzato: nel 1767, da Clemente XIII. Un po’ tardi. Ma già da cento anni l’Ordine è risorto, come lui aveva previsto. Nel 1948, Pio XII lo proclamerà anche “Patrono davanti a Dio di tutte le scuole popolari cristiane del mondo”.


Autore: Domenico Agasso
OFFLINE
26/08/2014 08:38
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Sant' Alessandro di Bergamo Martire

26 agosto

sec. IV


Patrono di Bergamo, vissuto a cavallo del III e IV secolo. Dopo essere stato comandante di centuria della legione Tebea, utilizzata prevalentemente in Oriente, è spostato in Occidente. Gli viene ordinato di ricercare i cristiani contro i quali è in atto una persecuzione. Di fronte al suo rifiuto e di alcuni compagni segue la decimazione, a cui riesce a salvarsi. Scappa a Milano dove però è riconosciuto e incarcerato. Grazie a san Fedele, che organizza la fuga di Alessandro, si rifugia a Como e infine, passando per Fara Gera d'Adda e Capriate, arriva a Bergamo. Qui, ospite del principe Crotacio, che lo aiuta a nascondersi, inizia la sua opera di predicazione e conversione di molti cittadini, tra cui i martiri Fermo e Rustico. Ma nel 303 Alessandro è nuovamente scoperto e catturato. Condannato alla decapitazione, muore il 26 agosto a Bergamo, dove ora sorge la chiesa di Sant'Alessandro in Colonna. (Avvenire)

Patronato: Bergamo

Etimologia: Alessandro = protettore di uomini, dal greco

Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Bergamo, sant’Alessandro, martire.


Alessandro, patrono della città di Bergamo, è raffigurato tradizionalmente in veste di soldato romano con un vessillo recante un giglio bianco. Il vessillo sarebbe stato quello della Legione Tebea comandata da s. Maurizio (legione romana composta secondo la leggenda da soldati egiziani della Tebaide) nella quale Alessandro sarebbe stato secondo gli Atti del martirio, comandante di centuria. La legione romana utilizzata in prevalenza in oriente, venne spostata nel 301 in occidente per controbbattere gli attacchi dei Quadi e dei Marcomanni. Durante l'attraversamento del Vallese alla legione fu ordinato di ricercare i cristiani contro i quali era stata scatenata una persecuzione. I legionari, cristiani a loro volta, si rifiutarono e per questa insubordinazione vennero puniti con la decimazione eseguita ad Agaunum (oggi S. Moritz). La decimazione consisteva nell'uccisione di un uomo ogni dieci. Al perdurare del rifiuto dei legionari di perseguitare i cristiani, fu eseguita una seconda decimazione e quindi l'imperatore ordinò lo sterminio. Pochi furono i superstiti, tra cui Alessandro, Cassio, Severino, Secondo e Licinio che ripararono in Italia. A Milano Alessandro fu però riconosciuto e incarcerato, dove rifuta di abiurare. In carcere riceve la visita di s. Fedele e del vescovo s. Materno. Proprio s. Fedele riesce a organizzare la fuga di Alessandro, che ripara a Como, dove fu nuovamente catturato. Riportato a Milano fu condannato a morte per decapitazione, ma durante l'esecuzione ai boia si irrigidivano le braccia. Fu allora nuovamente incarcerato. Riuscì nuovamente a fuggire e raggiunse Bergamo passando per Fara Gera d'Adda e Capriate. A Bergamo fu ospitato dal principe Crotacio, che lo invitò a nascondersi, ma Alessandro iniziò a predicare e a convertire molti bergamaschi, tra cui i martiri Fermo e Rustico. Fu perciò scoperto e nuovamente catturato, la decapitazione venne eseguita pubblicamente il 26 agosto 303 nel luogo ove oggi sorge la chiesa di S. Alessandro in Colonna. Probabilmente Alessandro fu effettivamente un soldato romano, originario o residente a Bergamo, torturato e ucciso per non avere rinunciato alla propria fede cristiana.



Autore: Maurizio Misinato
OFFLINE
27/08/2014 07:22
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Santa Monica Madre di S. Agostino

27 agosto

Tagaste, attuale Song-Ahras, Algeria, c. 331 - Ostia, Roma, 27 agosto 387

Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332. Da giovane studiò e meditò la Sacra Scrittura. Madre di Agostino d'Ippona, fu determinante nei confronti del figlio per la sua conversione al cristianesimo. A 39 anni rimase vedova e si dovette occupare di tutta la famiglia. Nella notte di Pasqua del 387 poté vedere Agostino, nel frattempo trasferitosi a Milano, battezzato insieme a tutti i familiari, ormai cristiano convinto profondamente. Poi Agostino decise di trasferirsi in Africa e dedicarsi alla vita monastica. Nelle «Confessioni» Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, tappa intermedia verso la destinazione africana, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo. Monica morì, a seguito di febbri molto alte (forse per malaria), a 56 anni, il 27 agosto del 387. Ai figli disse di seppellire il suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all'altare del Signore. (Avvenire)

Patronato: Donne sposate, Madri, Vedove

Etimologia: Monica = la solitaria, dal greco

Martirologio Romano: Memoria di santa Monica, che, data ancora giovinetta in matrimonio a Patrizio, generò dei figli, tra i quali Agostino, per la cui conversione molte lacrime versò e molte preghiere rivolse a Dio, e, anelando profondamente al cielo, lasciò questa vita a Ostia nel Lazio, mentre era sulla via del ritorno in Africa.


A Monica si adatta alla perfezione, la definizione che Chiara Lubich fa di Maria nei “Scritti spirituali” (Città Nuova ed.) chiamandola ‘sede della sapienza, madre di casa’; perché Monica fu il tipo di donna che seppe appunto imitare Maria in queste virtù, riuscendo ad instillare la sapienza nel cuore dei figli, donando al mondo quel genio che fu Aurelio Agostino, vescovo e Dottore della Chiesa.
Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332 in una famiglia di buone condizioni economiche e profondamente cristiana; contrariamente al costume del tempo, le fu permesso di studiare e lei ne approfittò per leggere la Sacra Scrittura e meditarla.
Nel pieno della giovinezza fu data in sposa a Patrizio, un modesto proprietario di Tagaste, membro del Consiglio Municipale, non ancora cristiano, buono ed affettuoso ma facile all’ira ed autoritario.
Per il suo carattere, pur amando intensamente Monica, non le risparmiò asprezze e infedeltà; tuttavia Monica riuscì a vincere, con la bontà e la mansuetudine, sia il caratteraccio del marito, sia i pettegolezzi delle ancelle, sia la suscettibilità della suocera.
A 22 anni le nacque il primogenito Agostino, in seguito nascerà un secondo figlio, Navigio ed una figlia di cui s’ignora il nome, ma si sa che si sposò, poi rimasta vedova divenne la badessa del monastero femminile di Ippona.
Le notizie che riportiamo sono tratte dal grande libro, sempre attuale e ricercato anche nei nostri tempi, le “Confessioni”, scritto dal figlio Agostino, che divenne così anche il suo autorevole biografo. Da buona madre diede a tutti con efficacia, una profonda educazione cristiana; dice s. Agostino che egli bevve il nome di Gesù con il latte materno; il bambino appena nato fu iscritto fra i catecumeni, anche se secondo l’usanza del tempo non fu battezzato, in attesa di un’età più adulta; crebbe con l’insegnamento materno della religione cristiana, i cui principi saranno impressi nel suo animo, anche quando era in preda all’errore.
Monica aveva tanto pregato per il marito affinché si ammansisse ed ebbe la consolazione, un anno prima che morisse, di vederlo diventare catecumeno e poi battezzato sul letto di morte nel 369.
Monica aveva 39 anni e dové prendere in mano la direzione della casa e l’amministrazione dei beni, ma la sua preoccupazione maggiore era il figlio Agostino, che se da piccolo era stato un bravo ragazzo, da giovane correva in modo sfrenato dietro i piaceri del mondo, mettendo in dubbio persino la fede cristiana, così radicata in lui dall’infanzia; anzi egli aveva tentato, ma senza successo, di convincere la madre ad abbandonare il cristianesimo per il manicheismo, riuscendoci poi con il fratello Navigio.
Il Manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del cristianesimo e della religione di Zoroastro, suo principio fondamentale era il dualismo, cioè l’opposizione continua di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il mondo e anche l’animo dell’uomo.
Le vicende della vita di Monica sono strettamente legate a quelle di Agostino, così come le racconta lui stesso; lei rimasta a Tagaste continuò a seguire con trepidazione e con le preghiere il figlio, trasferitosi a Cartagine per gli studi, e che contemporaneamente si dava alla bella vita, convivendo poi con un’ancella cartaginese, dalla quale nel 372, ebbe anche un figlio, Adeodato.
Dopo aver tentato tutti i mezzi per riportarlo sulla buona strada, Monica per ultimo gli proibì di ritornare nella sua casa. Pur amando profondamente sua madre, Agostino non si sentì di cambiare vita, ed essendo terminati con successo gli studi a Cartagine, decise di spostarsi con tutta la famiglia a Roma, capitale dell’impero, di cui la Numidia era una provincia; anche Monica decise di seguirlo, ma lui con uno stratagemma la lasciò a terra a Cartagine, mentre s’imbarcavano per Roma.
Quella notte Monica la passò in lagrime sulla tomba di s. Cipriano; pur essendo stata ingannata, ella non si arrese ed eroicamente continuò la sua opera per la conversione del figlio; nel 385 s’imbarcò anche lei e lo raggiunse a Milano, dove nel frattempo Agostino, disgustato dall’agire contraddittorio dei manichei di Roma, si era trasferito per ricoprire la cattedra di retorica.
Qui Monica ebbe la consolazione di vederlo frequentare la scuola di s. Ambrogio, vescovo di Milano e poi il prepararsi al battesimo con tutta la famiglia, compreso il fratello Navigio e l’amico Alipio; dunque le sue preghiere erano state esaudite; il vescovo di Tagaste le aveva detto: “È impossibile che un figlio di tante lagrime vada perduto”.
Restò al fianco del figlio consigliandolo nei suoi dubbi e infine, nella notte di Pasqua del 387, poté vederlo battezzato insieme a tutti i familiari; ormai cristiano convinto profondamente, Agostino non poteva rimanere nella situazione coniugale esistente; secondo la legge romana, egli non poteva sposare la sua ancella convivente, perché di ceto inferiore e alla fine con il consiglio di Monica, ormai anziana e desiderosa di una sistemazione del figlio, si decise di rimandare, con il suo consenso, l’ancella in Africa, mentre Agostino avrebbe provveduto per lei e per il figlio Adeodato, rimasto con lui a Milano.
A questo punto Monica pensava di poter trovare una sposa cristiana adatta al ruolo, ma Agostino, con sua grande e gradita sorpresa, decise di non sposarsi più, ma di ritornare anche lui in Africa per vivere una vita monastica, anzi fondando un monastero.
Ci fu un periodo di riflessione, fatto in un ritiro a Cassiciaco presso Milano, con i suoi familiari ed amici, discutendo di filosofia e cose spirituali, sempre presente Monica, la quale partecipava con sapienza ai discorsi, al punto che il figlio volle trascrivere nei suoi scritti le parole sapienti della madre, con gran meraviglia di tutti, perché alle donne non era permesso interloquire.
Presa la decisione, partirono insieme con il resto della famiglia, lasciando Milano e diretti a Roma, poi ad Ostia Tiberina, dove affittarono un alloggio, in attesa di una nave in partenza per l’Africa.
Nelle sue ‘Confessioni,’ Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo; Monica però gli disse anche che non provava più attrattiva per questo mondo, l’unica cosa che desiderava era che il figlio divenisse cristiano, ciò era avvenuto, ma non solo, lo vedeva impegnato verso una vita addirittura di consacrato al servizio di Dio, quindi poteva morire contenta.
Nel giro di cinque-sei giorni, si mise a letto con la febbre, perdendo a volte anche la conoscenza; ai figli costernati, disse di seppellire quel suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all’altare del Signore. Agostino con le lagrime agli occhi le dava il suo affetto, ripetendo “Tu mi hai generato due volte”.
La malattia (forse malaria) durò nove giorni e il 27 agosto del 387, Monica morì a 56 anni. Donna di grande intuizione e di straordinarie virtù naturali e soprannaturali, si ammirano in lei una particolare forza d’animo, un’acuta intelligenza, una grande sensibilità, raggiungendo nelle riunioni di Cassiciaco l’apice della filosofia.
Rispettosa e paziente con tutti, resisté solo al figlio tanto amato, che voleva condurla al manicheismo; era spesso sostenuta da visioni, che con sicuro istinto, sapeva distinguere quelle celesti da quelle di pura fantasia.
Il suo corpo rimase per secoli, venerato nella chiesa di S. Aurea di Ostia, fino al 9 aprile del 1430, quando le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S. Agostino, poste in un artistico sarcofago, scolpito da Isaia da Pisa, sempre nel sec. XV.
Santa Monica, considerata modello e patrona delle madri cristiane, è molto venerata; il suo nome è fra i più diffusi fra le donne. La sua festa si celebra il 27 agosto, il giorno prima di quella del suo grande figlio il vescovo di Ippona s. Agostino, che per una singolare coincidenza, morì il 28 agosto 430.


Autore: Antonio Borrelli

OFFLINE
28/08/2014 07:42
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Per leggere la vita di s.Agostino, di cui oggi la Chiesa celebra la memoria, vedi qui:

S.Agostino: vita, opere, riflessioni su un grande dottore della Chiesa
OFFLINE
29/08/2014 07:06
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Martirio di San Giovanni Battista

29 agosto

sec. I

Giovanni sigilla la sua missione di precursore con il martirio. Erode Antipa, imprigionatolo nella fortezza di Macheronte ad Oriente del Mar Morto, lo fece decapitare. Egli è l'amico che esulta di gioia alla voce dello sposo e si eclissa di fronte al Cristo, sole di giustizia: 'Ora la mia gioia è compiuta; egli deve crescere, io invece diminuire'. Alla sua scuola si sono formati alcuni dei primi discepoli del Signore. (Mess. Rom.)

Patronato: Monaci

Emblema: Agnello, Ascia
Martirologio Romano: Memoria della passione di san Giovanni Battista, che il re Erode Antipa tenne in carcere nella fortezza di Macheronte nell’odierna Giordania e nel giorno del suo compleanno, su richiesta della figlia di Erodiade, ordinò di decapitare. Per questo, Precursore del Signore, come lampada che arde e risplende, rese sia in vita sia in morte testimonianza alla verità.


La celebrazione odierna, che nella Chiesa latina ha origini antiche (in Francia nel sec. V e a Roma nel sec. VI), è legata alla dedicazione della chiesa costruita a Sebaste in Samaria, sul presunto sepolcro del precursore di Cristo. Col nome di "Passio" o di "Decollatio" la festa compare già alla data del 29 agosto nei Sacramentari romani, e secondo il Martirologio Romano tale data corrisponderebbe al secondo ritrovamento della testa di S. Giovanni Battista, trasportata in quell'occasione nella chiesa di S. Silvestro a Campo Marzio, in Roma. A parte questi riferimenti storici, abbiamo sul Battista i racconti degli evangelisti, in particolare di S. Luca, che ci parla della sua nascita, della vita nel deserto, della sua predicazione, e di S. Marco che ci riferisce sulla sua morte.
Dal Vangelo e dalla tradizione possiamo ricostruire la vita del Precursore, la cui parola infuocata parve davvero animata dallo spirito del profeta Elia. Nell'anno 150 dell'imperatore Tiberio (27-28 d.C.), il Battista, che conduceva vita austera secondo le regole del nazireato, iniziò la sua missione, invitando il popolo a preparare le vie del Signore, per accogliere il quale occorreva una sincera conversione, cioè un radicale cambiamento delle disposizioni dell'animo. Rivolgendosi a tutte le classi sociali, destò entusiasmo tra il popolo e malumore tra i farisei, la cosiddetta aristocrazia dello spirito, dei quali rinfacciava l'ipocrisia. Personaggio ormai popolare, negò risolutamente di essere il Messia atteso, affermando la superiorità di Gesù che egli additò ai suoi seguaci in occasione del battesimo presso la riva del Giordano. La sua immagine pare dileguarsi in dissolvenza all'affermarsi "del più forte", Gesù. Tuttavia, "il più grande dei profeti" non cessò di far sentire la sua voce ove fosse necessario per raddrizzare "i tortuosi sentieri" del male. Riprovò pubblicamente la peccaminosa condotta di Erode Antipa e della cognata Erodiade, ma la loro prevedibile suscettibilità gli costò la dura prigionia a Macheronte, sulla sponda orientale del Mar Morto.
Sappiamo come andò a finire: in occasione di un festino svoltosi a Macheronte, la figlia di Erodiade, Salomè, avendo dato eccellenti prove di agilità nella danza, entusiasmò Erode, al quale, per istigazione della madre, domandò e da lui ottenne in premio la testa del Battista, mettendo così a tacere il battistrada del Messia, la voce più robusta dei banditori dell'imminente messaggio evangelico. Ultimo profeta e primo apostolo, egli ha dato la sua vita per la sua missione, e per questo è venerato nella Chiesa come martire.


Autore: Piero Bargellini
OFFLINE
30/08/2014 09:43
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Santi Felice e Adautto Martiri

30 agosto

sec. III-IV


Le più sicure notizie sui santi Felice e Adautto provengono da un carme di S. Damaso che ci dice solo che Felice ed Adautto erano fratelli e subirono il martirio. Probabilmente ciò accade sotto Diocleziano ed essi furono sepolti in una cripta del cimitero di Commodilla, presso San Pietro fuori le mura. Tale cripta, trasformata in basilica, è stata restaurata e possiede uno dei più antichi affreschi paleocristiani nel quale i due martiri sono insieme ai Ss. Pietro, Paolo e Stefano. Secondo una leggenda Passio del VII secolo, invece mentre il presbitero Felice veniva condotto al supplizio, uno sconosciuto si presentò dichiarando di volerne condividere la sorte. I due vennero decapitati e poiché il nome dello sconosciuto rimase ignoto fu chiamato "adauctus" (aggiunto), dai cui Adautto.

Etimologia: Felice = contento, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Commodilla sulla via Ostiense, santi martiri Felice e Adáutto, che, per aver reso insieme testimonianza a Cristo con la medesima intemerata fede, corsero insieme vincitori verso il cielo.

Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:


La storia dei santi Felice e Adautto sembra interessi più l'archeologia che la devozione. Dopo il loro martirio, avvenuto probabilmente durante la persecuzione di Diocleziano agli inizi del IV secolo, vennero sepolti in una cripta del cimitero di Commodilla, sulla via delle Sette Chiese, poco lontano dalla basilica di S. Paolo fuori le mura. La cripta venne trasformata da papa Siricio in basilica, successivamente ampliata e decorata di affreschi dai papi Giovanni I e Leone III. Divenne così meta di pellegrini e di devoti fino al medioevo inoltrato, quando catacombe e santuari sotterranei caddero in oblio o furono devastati. Il cimitero di Commodilla e la tomba di Felice e Adautto furono scoperti nel 1720, ma la soddisfazione del ritrovamento durò poco, perchè alcuni giorni dopo la volta della piccola basilica sotterranea crollò. Sui ruderi caddero nuovamente l'oblio e l'incuria fino al 1903, quando la basilica venne definitivamente restaurata. Si riscoprì uno dei più antichi affreschi paleocristiani, nel quale è raffigurato S. Pietro che riceve le chiavi alla presenza dei Ss. Stefano, Paolo, Felice e Adautto.
Secondo l'autore di una leggendaria Passio scritta nel secolo VII, quando il loro culto era in piena fioritura, Felice era un presbitero romano, condannato a morte durante la persecuzione di Diocleziano. Mentre veniva condotto al luogo dell'esecuzione, sulla via che porta a Ostia, dalla folla dei curiosi e dei compagni di fede si staccò uno sconosciuto, che andò incontro al condannato. Giunto a un passo dai soldati incaricati dell'esecuzione, proclamò a voce ferma di essere cristiano e di voler condividere la stessa sorte del presbitero Felice. Venne esaudito senza troppi indugi. Dopo aver spiccato la testa di Felice, con la stessa spada decapitarono l'audace, che aveva osato sfidare le leggi dell'imperatore. Ma chi era costui? Nessuno dei presenti ne conosceva l'identità e fu chiamato semplicemente "adauctus", aggiunto, da cui il nome Adautto, "eo quod sancto Felici auctus sit ad coronam martyrii".
L'episodio restò vivo nella memoria della Chiesa romana, che associò i due martiri in un'unica commemorazione, al punto che alcune fonti li definiscono fratelli. La notizia più antica sui due martiri ci è fornita da un carme di papa Damaso, in cui viene elogiato il presbitero Vero per averne decorato il sepolcro. La diffusione del loro culto nell'Europa settentrionale ebbe origine dal dono di alcuni frammenti prelevati dalle loro reliquie e donati da papa Leone IV alla moglie di Lotario, Ermengarda.


Autore: Piero BargelliniSanti Felice e Adautto Martiri

30 agosto

sec. III-IV


Le più sicure notizie sui santi Felice e Adautto provengono da un carme di S. Damaso che ci dice solo che Felice ed Adautto erano fratelli e subirono il martirio. Probabilmente ciò accade sotto Diocleziano ed essi furono sepolti in una cripta del cimitero di Commodilla, presso San Pietro fuori le mura. Tale cripta, trasformata in basilica, è stata restaurata e possiede uno dei più antichi affreschi paleocristiani nel quale i due martiri sono insieme ai Ss. Pietro, Paolo e Stefano. Secondo una leggenda Passio del VII secolo, invece mentre il presbitero Felice veniva condotto al supplizio, uno sconosciuto si presentò dichiarando di volerne condividere la sorte. I due vennero decapitati e poiché il nome dello sconosciuto rimase ignoto fu chiamato "adauctus" (aggiunto), dai cui Adautto.

Etimologia: Felice = contento, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Commodilla sulla via Ostiense, santi martiri Felice e Adáutto, che, per aver reso insieme testimonianza a Cristo con la medesima intemerata fede, corsero insieme vincitori verso il cielo.


La storia dei santi Felice e Adautto sembra interessi più l'archeologia che la devozione. Dopo il loro martirio, avvenuto probabilmente durante la persecuzione di Diocleziano agli inizi del IV secolo, vennero sepolti in una cripta del cimitero di Commodilla, sulla via delle Sette Chiese, poco lontano dalla basilica di S. Paolo fuori le mura. La cripta venne trasformata da papa Siricio in basilica, successivamente ampliata e decorata di affreschi dai papi Giovanni I e Leone III. Divenne così meta di pellegrini e di devoti fino al medioevo inoltrato, quando catacombe e santuari sotterranei caddero in oblio o furono devastati. Il cimitero di Commodilla e la tomba di Felice e Adautto furono scoperti nel 1720, ma la soddisfazione del ritrovamento durò poco, perchè alcuni giorni dopo la volta della piccola basilica sotterranea crollò. Sui ruderi caddero nuovamente l'oblio e l'incuria fino al 1903, quando la basilica venne definitivamente restaurata. Si riscoprì uno dei più antichi affreschi paleocristiani, nel quale è raffigurato S. Pietro che riceve le chiavi alla presenza dei Ss. Stefano, Paolo, Felice e Adautto.
Secondo l'autore di una leggendaria Passio scritta nel secolo VII, quando il loro culto era in piena fioritura, Felice era un presbitero romano, condannato a morte durante la persecuzione di Diocleziano. Mentre veniva condotto al luogo dell'esecuzione, sulla via che porta a Ostia, dalla folla dei curiosi e dei compagni di fede si staccò uno sconosciuto, che andò incontro al condannato. Giunto a un passo dai soldati incaricati dell'esecuzione, proclamò a voce ferma di essere cristiano e di voler condividere la stessa sorte del presbitero Felice. Venne esaudito senza troppi indugi. Dopo aver spiccato la testa di Felice, con la stessa spada decapitarono l'audace, che aveva osato sfidare le leggi dell'imperatore. Ma chi era costui? Nessuno dei presenti ne conosceva l'identità e fu chiamato semplicemente "adauctus", aggiunto, da cui il nome Adautto, "eo quod sancto Felici auctus sit ad coronam martyrii".
L'episodio restò vivo nella memoria della Chiesa romana, che associò i due martiri in un'unica commemorazione, al punto che alcune fonti li definiscono fratelli. La notizia più antica sui due martiri ci è fornita da un carme di papa Damaso, in cui viene elogiato il presbitero Vero per averne decorato il sepolcro. La diffusione del loro culto nell'Europa settentrionale ebbe origine dal dono di alcuni frammenti prelevati dalle loro reliquie e donati da papa Leone IV alla moglie di Lotario, Ermengarda.


Autore: Piero Bargellini
OFFLINE
31/08/2014 09:28
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Giuseppe d'Arimatea

31 agosto

sec. I


La sua figura emerge con forza nei Vangeli in occasione della sepoltura di Gesù. È un uomo ricco e onorato, un proprietario terriero che fa parte del Sinedrio. Secondo Marco, «anche lui aspettava il regno di Dio». È cioè un ebreo credente la cui fede nella speranza di Israele si traduce nella simpatia verso Gesù e nel dissenso da coloro che hanno favorito la sua condanna. Matteo va oltre, affermando che era un discepolo del rabbi di Nazaret, Giovanni specifica «di nascosto per timore dei Giudei». Con questo commento l’evangelista vuole evidenziare che egli, primo tra i giudei, dopo la morte di Gesù ha abbandonato ogni precedente, pusillanime esitazione ed è venuto alla luce. Ricorre difatti alla sua posizione altolocata per ottenere da Pilato il corpo di Gesù che, secondo le abitudini dei romani, doveva essere seppellito in una fossa comune. Un gesto di coraggio e di generosità, perché la simpatia per un condannato poteva esporlo al rischio di essere considerato complice del giustiziato e passibile del medesimo supplizio. Inoltre il contatto con un cadavere gli impediva di celebrare la Pasqua giudaica ormai imminente. Aiutato da Nicodemo, che porta aromi in grande quantità, Giuseppe si distacca così dal sistema cultuale degli ebrei e si prepara alla celebrazione della gloriosa vittoria del crocifisso sulla morte in quello stesso giardino dove Gesù apparirà risorto alla Maddalena. Dopo la Pasqua, non abbiamo più sue notizie dai Vangeli canonici, ma solo dagli scritti apocrifi. La sua figura è familiare all’immaginario dei credenti per la presenza nelle innumerevoli rappresentazioni della deposizione e sepoltura di Gesù.

Patronato: Funerali

Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico

Emblema: Chiodi, Ampolla
Martirologio Romano: A Gerusalemme, commemorazione dei santi Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che raccolsero il corpo di Gesù sotto la croce, lo avvolsero nella sindone e lo deposero nel sepolcro. Giuseppe, nobile decurione e discepolo del Signore, aspettava il regno di Dio; Nicodemo, fariseo e principe dei Giudei, era andato di notte da Gesù per interrogarlo sulla sua missione e, davanti ai sommi sacerdoti e ai Farisei che volevano arrestare il Signore, difese la sua causa.


I pochi riferimenti storici si desumono dai quattro Evangelisti allorquando narrano la deposizione e la sepoltura di Gesú. Originario di Arimatea, di condizione assai agiata, era un discepolo di Gesú, ma come Nicodemo non aveva dimostrato la propria fede per paura dei Giudei, fino al periodo della Passione. Tuttavia durante il processo di Gesú, partecipando alle sedute del sinedrio, per il senso di giustizia che l'animava e per l'aspettativa del regno di Dio, aveva osato dissentire dai suoi colleghi non approvando le risoluzioni e gli atti di quell'assemblea. Anzi maggior coraggio dimostrò dopo la morte del Maestro, quando arditamente, come si esprime Marco, si presentò a Pilato per ottenere la sua salma e darle degna sepoltura, impedendo così che fosse gettata in una fossa comune, con quella dei due ladroni. Nel pietoso intento, Giuseppe trovò collaborazione, oltre che nelle pie donne, anche in Nicodemo, accorso portando con sé aromi (mirra ed aloè). Giuseppe, secondo quando detto in Mt. 27,59, aveva comprato una bianca sindone. I due coraggiosi discepoli, preso il corpo di Gesú, lo avvolsero in bende profumate e lo deposero nel sepolcro nuovo, scavato nella roccia, che Giuseppe si era fatto costruire nelle vicinanze del Calvario. Era il tramonto quando Giuseppe "rotolata una grande pietra alla porta del sepolcro andò via".
La storia ha qui termine, ma il personaggio non fu trascurato dalla leggenda ed in primo luogo dagli anonimi autori degli apocrifi. Nello pseudo-Vangelo di Pietro (sec. II) la narrazione non si distacca da quella del Vangelo; l'unica differenza sta nel fatto che Giuseppe chiese a Pilato il corpo di Cristo ancora prima della Crocifissione. Ricchi di nuovi fantastici racconti sono inveci gli Atti di Pilato o Vangelo di Nicodemo (sec. V), in cui si narra che i Giudei rimproverarono a Nicodemo e a Giuseppe il loro comportamento in favore di Gesú e che proprio per questo, Giuseppe venne imprigionato, ma, miracolosamente liberato, fu ritrovato poi ad Arimatea. Riportato a Gerusalemme narrò la prodigiosa liberazione. Ancora piú singolare è una narrazione denominata Vindicia Salvatoris (sec. IV?), che ebbe poi larghissima diffusione in Inghilterra ed Aquitania. Anzi, a questo opuscoletto si è voluto dare un intento polemico contro Roma, giacchè il Vangelo sarebbe stato diffuso in quelle zone non da missionari romani, ma da discepoli di Gesú. Il racconto si dilunga nel descrivere l'impresa di Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, che partì da Bordeaux con un grande esercito per recarsi in Palestina a vendicare la morte di Gesú, voluta ingiustamente dai Giudei. Occupata la città, trovò Giuseppe in una torre dove era stato rinchiuso dai Giudei perché morisse di fame e di stenti; egli era invece sopravvissuto per nutrimento celeste. Già Gregorio di Tours faceva menzione di questa prigionia di Giuseppe. Altre leggende di origine orientale riferiscono che Giuseppe fu il fondatore della Chiesa di Lydda, la cui cattedrale fu consacrata da s Pietro.
Ma nell'ambiente francese ed inglese dei secc. XI-XIII la leggenda si colorì di nuovi particolari inserendosi e confondendosi nel ciclo del Santo Graal e del re Artù. Secondo una di queste narrazioni Giuseppe, prima di seppellire Gesú, ne lavò accuratamente il corpo tutto cosparso di sangue, preoccupandosi di conservare quest'acqua e sangue in un vaso, il cui contenuto fu poi diviso fra Giuseppe e Nicodemo. Il prezioso recipiente si tramandò da Giuseppe ai suoi figli e cosí per varie generazioni fino a quando venne in possesso del patriarca di Gerusalemme. Questi nel 1257, temendo cadesse in mano degli infedeli, su consiglio dei suffraganei, lo consegnò ad Enrico III d'Inghilterra, perchè lo tutelasse.
Altre leggende, pur collegandosi alla precedente, riferiscono che Giuseppe, con il prezioso reliquiario, peregrinò accompagnato da vari cavalieri per evangelizzare la Francia (alcuni racconti dicono che sarebbe sbarcato a Marsiglia con Lazzaro e le sue sorelle Marta e Maria), la Spagna (dove sarebbe andato con s. Giacomo, che lo avrebbe creato vescovo!), il Portogallo ed infine l'Inghilterra. Quivi il vaso (il Santo Graal) andò smarrito e solo un cavaliere senza macchia e senza paura l'avrebbe ritrovato. Questa leggenda del Santo Graal fa parte del ciclo di Lancillotto e specialmente della 'Estoire du Graal', che non è altro che una versione in prosa del poema di Roberto di Boron.
Forse questa diffusione della leggenda in Francia si collega anche alla narrazione riguardante le ossa di Giuseppe. Un racconto del sec. IX riferisce che il patriarca Fortunato di Gerusalemme per non essere catturato dai pagani, fuggí in Occidente al tempo di Carlo Magno portando con sé le ossa di Giuseppe d'Arimatea; nel suo peregrinare si fermò per ultimo nel monastero di Moyenmoutier, di cui divenne abate. Le reliquie del santo furono poi trafugate dai canonici.
Il culto più antico sembra però stabilito in Oriente. In alcuni calendari georgiani del sec. X la festa è menzionata il 30, 31 agosto o anche la terza domenica dopo Pasqua. Per i Greci invece la commemorazione era il 31 luglio. In Occidente fu particolarmente venerato a Glastonbury in Inghilterra, ove, secondo una tradizione, avrebbe fondato il primo oratorio. Nel Martirologio Romano fu inserito al 17 marzo dal Baronio. Al compilatore degli Annali l'inserimento fu suggerito dalla venerazione che i canonici della basilica vaticana davano ad un braccio del santo, proprio il 17 marzo. Al tempo del Baronio la più antica documentazione della reliquia era uno scritto del 1454. Tuttavia nessun martirologio occidentale prima di tale data faceva menzione di culto a s. Giuseppe d'Arimatea.


Autore: Gian Domenico Gordini
OFFLINE
01/09/2014 07:24
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Giosuè Patriarca

1 settembre

XII sec. a.C.


Il giovane Giosuè fa il suo tirocinio al servizio di Mosè. Accumula esperienza e conoscenza, diventa un uomo pieno dello spirito di saggezza. Per questa sua sapienza e docilità merita di diventare il successore di Mosè, che guiderà il popolo nell’ingresso nella terra promessa. Il passaggio del Giordano più che un’azione bellica è una processione liturgica da lui guidata.
Al centro dell’evento vi è l’Arca trasportata dai sacerdoti. Non appena essi toccano l’acqua, questa si divide per lasciar passare il popolo all’asciutto. Anche la conquista di Gerico viene presentata come un’azione liturgica di cui sono protagonisti i sacerdoti.
Per sei giorni essi aprono il corteo intorno alle mura della città. Il settimo giorno compiono il giro per ben 7 volte, e al termine dell’ultimo, al suono delle trombe, le mura crollano. I due episodi sono accomunati da una premessa teologica: la conquista della terra è un dono di Dio, Giosuè ne è lo strumento. (Avvenire)

Etimologia: Dall'ebraico 'Jehoa-Schiuah' e significa 'il Signore salva'

Martirologio Romano: Commemorazione di san Giosuè, figlio di Nun servo del Signore, che, con l’imposizione delle mani da parte di Mosè, fu riempito dello spirito di sapienza e, dopo la sua morte di Mosè, condusse mirabilmente il popolo d’Israele lungo il corso del Giordano nella terra promessa.


Giosuè figlio di Nun, appartenente alla tribù di Efraim, il secondo figlio di Giuseppe, è un personaggio biblico vissuto nel XII secolo a.C.
Originariamente si chiamava Osea, ma Mosè del quale era uno dei più fedeli discepoli e al quale succedette nella guida del popolo ebraico, trasformò il suo nome in Giosuè, che significa “Jahvé salva”.
Egli è nominato per la prima volta nel libro dell’Esodo al capitolo 17, 9-14, quando durante il lungo peregrinare nel deserto, il popolo ebraico fuggito dall’Egitto sotto la guida di Mosè, fu costretto ad ingaggiare battaglia con la tribù degli Amaleciti, nomadi da sempre nemici d’Israele.
Nel deserto era facile lo scontro fra tribù nomadi, soprattutto per il diritto di usare le sorgenti d’acqua presso le oasi. Mosè in quest’occasione, chiamò il suo fedele collaboratore e lo incaricò di combattere Amalek il loro capo, scegliendo gli uomini più validi; in questo luogo Refidim, nel deserto del Sinai, Giosuè ingaggiò il lungo combattimento, mentre Mosè, Aronne e Cur assistevano dall’alto di una collina.
Le sorti della battaglia si alternavano positivamente e negativamente, secondo se Mosè teneva alte le mani o le abbassava per la stanchezza; allora Aronne e Cur gli sostennero le braccia in alto fino al tramonto, quando Giosuè uscì vittorioso dalla battaglia.
Ancora nell’Esodo è ricordato come unico accompagnatore di Mosè sul monte Horeb, quando Dio dettò le Tavole della Legge, i Dieci Comandamenti.
In Numeri, cap. 27, 15-23 si legge: “Il Signore disse a Mosè: Prendi Giosuè, figlio di Nun, uomo che ha lo spirito e imponi la tua mano su di lui. Poi lo presenterai al sacerdote Eleazaro e a tutta la comunità e alla loro presenza gli darai i tuoi ordini. Gli comunicherai la tua dignità, perché tutta la comunità dei figli d’Israele gli obbedisca…”.
Da quel momento, Giosuè ebbe il potere di dare gli stessi ordini impartiti da Mosè e di chiedere al sacerdote di consultare la volontà divina attraverso un oracolo.
Mosè preparava così una nuova guida del popolo d’Israele, che si avvicinava ormai alla terra promessa, perché lui e tutti gli ebrei della precedente generazione, che avevano mancato di fiducia in Dio durante il quarantennale peregrinare nel deserto, per volere di Dio l’avrebbero al massimo solo intravista, morendo prima di raggiungerla.
In Numeri 34,16, Dio Indica a Mosè i nomi degli uomini che spartiranno la terra promessa fra le varie tribù d’Israele e insieme al sacerdote Eleazaro, succeduto al padre Aronne, Dio indicò anche Giosuè, figlio di Nun.
E nel libro del Deuteronomio cap. 31, 7-8, c’è l’investitura ufficiale di Giosuè da parte di Mosè davanti a tutto il popolo: “Sii forte, sii valoroso! Perché tu condurrai questo popolo nella terra che il Signore promise con giuramento ai loro padri; tu la metterai in loro possesso. Il Signore cammina davanti a te e sarà con te. Non ti abbandonerà e non ti trascurerà. Non aver paura, non tremare!”.
Giosuè fu accanto a Mosè nei momenti finali della sua lunga vita, quando il grande legislatore e guida d’Israele, pronunciò la benedizione solenne sulle dodici tribù discendenti dai figli di Giacobbe e quando a 120 anni, morì sul monte Nebo vedendo da lì la terra promessa.
Nella cronologia della Bibbia si inserisce a questo punto il libro di Giosuè, composto da 24 capitoli, narranti le gesta del successore di Mosè nella conquista e nello stabilirsi del popolo d’Israele nella regione di Canaan, la terra promessa.
Il popolo sotto la sua guida attraversò il fiume Giordano, preceduto dall’Arca dell’Alleanza sorretta dai sacerdoti e come successe con il Mar Rosso e Mosè, anche il Giordano che era in piena, si fermò nell’impetuoso scorrere, facendo passare all’asciutto la lunga fila di popolazione e animali.
Dio con questo prodigio esaltò Giosuè davanti al popolo, come aveva esaltato Mosè e il popolo prese a venerarlo, così come aveva venerato Mosè.
Descrivere minuziosamente tutto il percorso d’Israele per stabilirsi nella regione, non è oggetto di questa scheda, per cui si accenna soltanto ai prodigi più noti, attribuiti a Giosuè.
La presa della città di Gerico, fu ottenuta da Giosuè facendo procedere in processione l’Arca dell’Alleanza al suono delle trombe dei sacerdoti, e girando intorno alle mura della città per sette giorni; al termine del settimo giro, fece gridare tutto il popolo ebreo e suonare le trombe e le mura crollarono, permettendo così la sconfitta e la morte degli spaventati difensori di Gerico.
Altro fatto miracoloso avvenne durante la battaglia contro gli Amorrei a Gabaon, quando Giosuè per avere una vittoria completa sul nemico sconfitto e in fuga, si rivolse al sole dicendo: “O sole, fermati su Gabaon, e tu o luna, nella valle di Aialon”. Il sole si fermò prolungando il giorno e gli israeliti fecero strage di nemici, che non avevano potuto riorganizzarsi durante la fuga.
In genere l’espansione del numeroso popolo d’Israele nella fertile terra di Canaan, fu attuata con una pacifica conquista, ma non mancarono tuttavia ripetuti episodi di guerra e di violenza, che lo scrittore sacro del Libro spiega ricordando l’ordine del Signore di votare allo sterminio queste popolazioni, per evitare il ricorrente pericolo di contaminazione religiosa.
L’entrata di Israele nella terra promessa era disegno di Dio; nulla vi si poteva opporre né altri uomini; ecco così le orrende stragi di interi eserciti e popolazioni, con città distrutte completamente.
Giunti ormai nella Palestina, Giosuè attuò la divisione del Paese fra le dodici storiche tribù, instaurando tutta la legislazione dettata da Mosè.
Passò molto tempo in pace e Giosuè ormai vecchio e avanzato in età, convocò a Sichem, una grande assemblea popolare, pronunciò il discorso d’addio al popolo, facendo loro promettere fedeltà a Dio loro padre e guida suprema.
Morì a 110 anni, la sua tomba è additata ancora oggi a Khirbet Tibuah a nord di Gerusalemme; mentre le ossa del patriarca Giuseppe, portate dall’Egitto durante la fuga degli israeliti, furono seppellite a Sichem.

Autore: Antonio Borrelli




“Giosuè, figlio di Nun, fin dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè”: così inizia secondo il libro dei Numeri 11,28 la vicenda di questo insigne personaggio della storia del popolo d’Israele, al quale si deve la conquista della Terra promessa. E’ certamente impossibile delineare in breve un ritratto completo di Giosuè, a cui un intero libro dell’Antico Testamento è intitolato. Questo personaggio è presente nella Bibbia già a partire dai primi eventi d’Israele nel deserto del Sinai durante l’esodo dall’Egitto. Lo si incontra infatti una prima volta nella battaglia contro il popolo di Amalek: è proprio a Giosuè, membro della tribù ebraica di Efraim, il cui nome significava simbolicamente “il Signore salva”, che Mosè affidò la direzione dell’esercito ebraico, come citato nel libro dell’Esodo 17,9-16.
Il risultato trionfale di questa operazione militare legò da quel momento il suo nome soprattutto ad imprese di tal genere. Ciò non toglie però che egli fu accanto a Mosè quale “aiutante” sulla vetta del Sinai (Es 24,13; 32,17) e fu inoltre custode della tenda santa dell’alleanza, santuario mobile del popolo nel deserto (Es 33,11). Il suo nome restò però sempre collegato alle numerose battaglie di Israele, iniziando dalla prima spedizione in Terra Santa. Mosè lo aveva infatti solennemente investito come suo successore prima del suo decesso: “Mosè prese Giosuè, lo fece comparire davanti al sacerdote Eleazaro e davanti a tutta la comunità. Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini, come il Signore aveva comandato” (Num 27,22-23).Con questo nuovo generale divenuto comandante supremo iniziava una grande impresa, cioè conquistare la terra di Canaan, evento narrato nei primi dodici capitoli del libro proprio a lui intitolato. Quest’opera porta proprio il suo nome in quanto egli ne fu il principale attore. Una volta attraversato il Giordano, come già similmente accaduto in occasione della traversata del Mar Rosso, si verificò una tale serie di stragi da lasciare perplesso chi oggi si accosta alla lettura della Bibbia. Secondo la visione ebraica si tratterebbe di una “santa” violenza, riconducibile ad ordini divini, che assume il nome di “herem”, cioè anatema, consistente in una sorta di guerra santa che consacra a Dio tutto ciò che si frappone all’avanzata di Israele mediante un colossale olocausto.Non è bene comunque prendere alla lettera queste pagine bibliche assai spesso epiche e retoriche, ma occorre soprattutto ricordare come la Bibbia non sia una serie di astratte tesi su Dio, ma costituisce invece la Rivelazione di un Dio che cammina nella storia accanto all’uomo, pieno di limiti, fautore di vicende discutibili e violente. Proprio per mezzo di questa via definibile come “paziente” si fa andare oltre lo stesso Giosuè ed il suo popolo tribale verso migliori orizzonti di amore e di pace.Effettuata la divisione dei territori conquistati fra le varie tribù, Giosuè sentì che la sua missione era giunta a compimento. In un discorso testamentario, al capitolo 23 del libro omonimo, egli affidò ad Israele il compito di tenere sempre alta la fiaccola della sua peculiare identità. Infine a Sichem, davanti a tutte le tribù riunite nell’allora santuario centrale, celebrò un solenne atto di alleanza tra il suo popolo e Dio. Il capitolo 24 è dunque una pagina bellissima in cui Giosuè pronunziò il Credo biblico e l’intero popolo rispose ribadendo la promessa di fedeltà al Signore, esprimendola attraverso il verbo biblico del culto e della fede, “servire”, ribadito nel testo per ben quattordici volte.
All’alba del III millennio dell’era cristiana, ancora il nuovo Martyrologium Romanum riporta in data 1° settembre il ricordo di questo personaggio vetero-testamentario: “Commemorazione di San Giosuè, figlio Nun , servo di Dio. Dopo che Mosè gli impose le mani fu pieno dello spirito di sapienza e dopo la morte di Mosè, introdusse in modo prodigioso il popolo di Israele, attraverso il giordano, nella terra promessa”.


Autore: Fabio Arduino
OFFLINE
02/09/2014 07:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Sant' Elpidio Abate

2 settembre

sec. IV

Le informazioni su di lui sono frammentarie confuse. Pietro da Natalibus lo identifica con un eremita originario della Cappadocia e venuto in Italia dove sarebbe morto. Lo scrittore Palladio lo ricorda come un eremita, vissuto presso Gerico per molti anni in una spelonca. Altri pensano che si tratti del diacono di San Basilio o dell'Elpidio ricordato nella vita di S. Carotone. Una vita redatta verso il XII secolo, e trovata in un leggendario della Biblioteca Capitolare di Spoleto, non ha alcun valore storico. Visto, però, che il suo culto è particolarmente vivo nel Piceno, dove diverse città portano il suo nome, l'ipotesi più probabile è che egli sia vissuto proprio questa regione.

Etimologia: Elpidio = speranza, dal greco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nelle Marche, sant’Elpidio, del cui nome fu poi insignita la cittadina, in cui si conserva il suo corpo.


A sud di Ancona alcune cittadine portano il nome del santo odierno: S. Elpidio a Mare, S. Elpidio Morico, Porto S. Elpidio. Nel Piceno questo nome è frequente anche nelle persone, e tuttavia poco si conosce di questo santo, lontano nel tempo e nella memoria, al punto d'essere confuso con vari personaggi. Qualcuno ritiene che S. Elpidio sia originario della Cappadocia. Lo scrittore Palladio lo ricorda nella sua Storia Lausiaca come un eremita vissuto per molti anni in una spelonca presso Gerico e ne tesse gli elogi consueti per un asceta che, estraniatosi dalla compagnia degli uomini, scelse la solitaria scalata alle vette della perfezione cristiana.
Proprio nell'epoca in cui visse S. Elpidio, nel IV secolo, andava affermandosi una nuova forma di monachesimo, con S. Pacomio, iniziatore del "cenobitismo" cioè della vita comunitaria.
Nella Tebaide, presso il Nilo, aveva fondato i primi conventi di uomini e di donne, divisi in celle individuali, con la chiesa e il refettorio in comune. A capo di ogni nucleo (il futuro convento) è l'abate che ha il compito di fare osservare la regola comune, imporre la castità, il lavoro, il digiuno e la recita dell'ufficio. Pochi anni dopo S. Pacomio, il grande teologo e mistico orientale S. Basilio di Cappadocia dava una regola più mitigata ma più saggia, destinata a diventare la "magna charta", le costituzioni, di tutto il monachesimo cristiano, sia in Oriente che in Occidente, tramite la Regola benedettina.
S. Basilio poneva l'accento sul lavoro manuale e intellettuale e rafforzava l'autorità dell'abate per eliminare gli eccessi delle fantasie personali. Non sempre i risultati rispondevano alle buone premesse: molti monaci, autentici girovaghi, abbandonavano il convento per correre nelle strade o nelle grandi città, o si dedicavano ad esercizi ascetici tanto insoliti quanto spettacolari, come gli "stiliti", che vivevano immobili come statue su colonne e facevano piovere dall'alto saggi e rari consigli ai pellegrini che sostavano per ammirarli. Anche S. Elpidio aveva probabilmente lasciato il cenobio per un periodo di vita austera e solitaria nei pressi di Gerico, se accettiamo questa versione della vita del santo, che in un secondo tempo si sarebbe trasferito nel Piceno per stabilirvi una comunità monastica o comunque per esercitarvi una forma di apostolato tra il popolo. Alcuni studiosi tuttavia sono del parere che S. Elpidio sia stato originario del Piceno e abbia trascorso qui l'intera vita, conformandosi a una regola ascetica del tutto personale, ma tale da imporlo alla stima e più tardi alla devozione dell'intera regione.


Autore: Piero Bargellini
OFFLINE
03/09/2014 08:21
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Gregorio I, detto Magno Papa e dottore della Chiesa

3 settembre

Roma, 540 - 12 marzo 604

(Papa dal 03/09/590 al 12/03/604)
Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant'Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604. (Avvenire)

Patronato: Cantanti, Musicisti, Papi

Etimologia: Gregorio = colui che risveglia, dal greco

Emblema: Colomba, Gabbiano
Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).



Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.

Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum Dei. Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.


Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 4.06.2008)
OFFLINE
03/09/2014 08:22
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Siamo chiamati ad entrare nel regno di Dio, superando gli ostacoli della nostra umanità ferita. Rivolgiamoci quindi a Cristo, dicendo:
Figlio di Dio, vieni in nostro soccorso.

O Signore, tu vuoi fare dell'umanità una sola grande famiglia. Aiuta i popoli a superare ogni rivalità ideologica, politica e religiosa. Preghiamo:
O Cristo, tu vuoi che ogni uomo si salvi e giunga alla conoscenza della verità. Fà che la Chiesa porti in tutto il mondo il tuo messaggio di giustizia e di concordia. Preghiamo:
O Cristo, primizia di ogni bene: fà della nostra comunità un segno efficace del tuo regno. Preghiamo:
Signore Gesù, tu che hai sperimentato il rifiuto da parte dei tuoi, sii vicino a tutti coloro che sono vittime della sopraffazione e della violenza. Preghiamo:
Figlio di Dio, mandato per tutti gli uomini: con la forza di questa eucaristia aiutaci a servire i nostri fratelli. Preghiamo.
Per il superamento di ogni divisione nella Chiesa.
Per i malati della nostra parrocchia.

O Dio onnipotente ed eterno, che nel tuo disegno universale di salvezza accogli tutta l'umanità, fà che attraverso la grazia dei tuoi sacramenti, collaboriamo alla venuta del tuo regno. Per Cristo nostro Signore. Amen.



-------------------------------------------------------------------------------

Santa Rosalia Vergine, eremita di Palermo

4 settembre

Palermo XII secolo - † 4 settembre 1160


Vergine eremita del XII secolo, santa Rosalia è divenuta patrona di Palermo nel 1666 con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia. Figlia di un nobile feudatario, Rosalia Sinibaldi visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n'erano impadroniti dall'827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani e Benedettini. In quest'atmosfera di fervore e rinnovamento religioso, s'inserì la vocazione eremitica della giovane che lasciò la vita di corte e si ritirò in preghiera in una grotta sul monte Pellegrino, dove, secondo la tradizione, morì il 4 settembre 1160. Nel 1624, mentre a Palermo la peste decimava il popolo, lo spirito di Rosalia apparve in sogno ad una malata, e poi ad un cacciatore. A lui Rosalia indicò la strada per ritrovare le sue reliquie, chiedendogli di portarle in processione per la città. Così fu fatto: e dove quei resti passavano i malati guarivano, e la città fu purificata in pochi giorni. Da allora, a Palermo, la processione si ripete ogni anno. Rosalia, fu inclusa nel Martirologio romano nel 1630 da Papa Urbano VIII. (Avvenire)

Patronato: Palermo

Etimologia: Rosalia = dal nome del fiore

Emblema: Giglio, Corona di rose, Teschio
Martirologio Romano: A Palermo, santa Rosalia, vergine, che si tramanda abbia condotto vita solitaria sul monte Pellegrino.


In Sicilia vi è un intensissimo culto per tre giovani sante vergini, Lucia di Siracusa, Agata patrona di Catania e Rosalia patrona di Palermo. Il loro culto si è diffuso in tutti Paesi in cui sono arrivate le schiere di emigrati siciliani, che hanno portato con loro il ricordo struggente della natia Isola e delle loro tradizioni, unitamente al culto sincero e profondo per le tre sante siciliane.
Ma se s. Lucia di Siracusa († 304) e s. Agata di Catania († 250 ca.) furono martirizzate durante le persecuzioni contro i primi cristiani, s. Rosalia è una vergine non martire, vissuta molti secoli dopo e divenuta patrona di Palermo nel 1666 con culto ufficiale esteso a tutta la Sicilia.
Ciò nonostante la “Santuzza”, come affettuosamente viene chiamata dai palermitani, si affermò come una delle sante più conosciute e venerate nella cristianità siciliana e in particolare in quella palermitana; ancora oggi in qualsiasi parte del mondo s’incontrino i palermitani, si scambiano il saluto “Viva Palermo e santa Rosalia!”.
Purtroppo sulla sua vita vi sono poche notizie in parte leggendarie, ma piace considerare con lo scrittore fiorentino Piero Bargellini che: “È ben vero che le leggende sono come il vilucchio (pianta rampicante) attorno al fusto della pianta; la pianta già c’era prima che il vilucchio l’avvolgesse. Così la santità già esisteva, prima che la leggenda la rivestisse con i suoi fantastici fiori”.
E questo vale per tutti i santi che in tanti secoli e luoghi, hanno donato la loro vita, spesso patendo il martirio, sono rimasti ignorati a volte anche per lungo tempo, finché la loro esistenza, il loro sacrificio, le loro virtù eroiche non sono pervenuti a conoscenza del popolo di Dio e della Chiesa.
È il caso di s. Rosalia che nacque a Palermo nel XII secolo e, secondo antichi libri liturgici, morì il 4 settembre del 1160 a 35 anni. La leggenda dice che era figlia del Duca Sinibaldo, feudatario, signore di Quisquinia e delle Rose, località ubicate fra Bivona e Frizzi, nel Palermitano, e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II; giovanissima fu chiamata nel Palazzo dei Normanni, alla corte della regina Margherita, moglie di Guglielmo I di Sicilia (1154-1166); la sua bellezza attirava l’ammirazione dei nobili cavalieri; il più assiduo pretendente, sempre secondo la tradizione popolare, si vuole che fosse Baldovino, futuro re di Gerusalemme.
Rosalia visse in quel felice periodo di rinnovamento cristiano-cattolico, che i re Normanni ristabilirono in Sicilia, dopo aver scacciato gli Arabi che se n’erano impadroniti dall’827 al 1072; favorendo il diffondersi di monasteri Basiliani nella Sicilia Orientale e Benedettini in quella Occidentale; apprezzando inoltre l’opera religiosa e monastica del certosino s. Brunone e del cistercense s. Bernardo di Chiaravalle.
In quest’atmosfera di fervore e rinnovamento religioso, s’inserì la vocazione eremitica della giovane nobile Rosalia; bisogna dire che in quel tempo l’eremitismo era fiorente in quei secoli, sia nel campo maschile sia in quello femminile.
Seguendo l’esempio degli anacoreti, che lasciati gli agi e la vita attiva si ritiravano in una grotta o in una cella, di solito nei dintorni di una chiesa o di un convento, così da poter partecipare alle funzioni liturgiche e avere nel contempo un’assistenza religiosa dai vicini monaci; così Rosalia si ritirò in una grotta del feudo paterno della Quisquina a circa 90 km. da Palermo sui Monti Sicani in Provincia di Agrigento in territorio di Santo Stefano Quisquina, vicina a un convento di monaci basiliani.
Da lì la giovane eremita, dopo un periodo di penitenza non definito, si trasferì in una grotta sul Monte Pellegrino, stupendo promontorio palermitano; accanto ad una preesistente chiesetta bizantina, in una cella costruita sopra il pozzo tuttora esistente.
Anche qui nei dintorni, i Benedettini avevano un convento e poterono seguire ed essere testimoni della vita eremitica e contemplativa di Rosalia, che visse in preghiera, solitudine e mortificazioni; molti palermitani, salivano il monte attratti dalla sua fama di santità.
Secondo la tradizione morì il 4 settembre, che si presume, dell’anno 1160. In seguito fu oggetto di culto con l’edificazione di chiese a lei dedicate in varie zone siciliane, oltre la cappella già sul Monte Pellegrino e riprodotta in immagine nella cattedrale di Palermo e di Monreale; una chiesa sorse lontano, a Rivello (Potenza) nella diocesi di Policastro.
Ma all’inizio del 1600 il suo culto era talmente scaduto al punto che non veniva più invocata nelle litanie dei santi patroni di Palermo; ciò non esclude comunque un culto ininterrotto anche se di tono minore, durato nei quattro secoli e mezzo, che vanno dalla sua morte al 1600.
Sul Monte Pellegrino fino al primo Cinquecento erano vissuti i cosiddetti “romiti di s. Rosalia” dimoranti in alcune grotte vicine a quella, dove per tradizione era vissuta e morta la giovane eremita.
Verso la metà del sec. XVI, il viceré Giovanni Medina, fece costruire per l’”Ordine Francescano Riformato di Santa Rosalia e del Monte Pellegrino”, un convento accanto alla grotta adattata a chiesa. Ad ogni modo studiosi agiografi hanno trovato documenti che testimoniano, che già nel 1196 e decenni successivi, l’eremita veniva chiamata “Santa Rosalia”.
E arriviamo al 26 maggio 1624, quando una donna (Girolama Gatto) ridotta in fin di vita, vide in sogno una fanciulla vestita di bianco, che le prometteva la guarigione se avesse fatto voto di salire sul Monte Pellegrino per ringraziarla.
La donna salì sul monte con due amiche, era di nuovo in preda alla febbre quartana, ma appena bevve l’acqua che gocciola dalla grotta, si sentì guarita, cadendo in un riposante torpore e qui le riapparve la giovane vestita di bianco, ravvisata come in s. Rosalia, che le indicò il posto dove erano sepolte le sue reliquie.
La cosa venne riferita ai frati eremiti francescani del vicino convento, i quali già nel Cinquecento con il loro superiore s. Benedetto il Moro (1526-1589), avevano tentato di trovare le reliquie senza riuscirvi, quindi ripresero le ricerche, aiutati da tre fedeli, finché il 15 luglio 1624 a quattro metri di profondità, trovarono un masso lungo sei palmi e largo tre, a cui aderivano delle ossa.
Per ordine del cardinale arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, il masso fu trasferito in città nella sua cappella privata, dove fu esaminato con i resti trovati, da teologi e medici; il risultato fu deludente, avendo convenuto che le ossa potevano appartenere a più corpi e poi nessuno dei tre teschi trovati, sembrava appartenere ad una donna.
Il cardinale non convinto, nominò una seconda commissione; intanto Palermo fu colpita dalla peste nell’estate del 1624 mietendo migliaia di vittime (la stessa epidemia che colpì Milano e descritta dal Manzoni nei ‘Promessi sposi’). Il cardinale radunò nella cattedrale popolo e autorità e tutti insieme chiesero aiuto alla Madonna, facendo voto di difendere il privilegio dell’Immacolata Concezione di Maria, che era argomento contrastante nella Chiesa di allora e nel contempo di dichiarare s. Rosalia patrona principale di Palermo, venerando le sue reliquie, quando si sarebbero riconosciute.
A tutto ciò si aggiunge la scoperta di due muratori palermitani, che lavorando nel convento dei Domenicani di S. Stefano, trovarono in una grotta alla Quisquina, il 24 agosto 1624, un’iscrizione latina a tutti ignota, che si credette incisa dalla stessa s. Rosalia, quando vi aveva abitato e che diceva: “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”; che confermava il precedente eremitaggio, seguito poi da quello sul Monte Pellegrino.
L’11 febbraio 1625 la nuova commissione, stabilì che le ossa erano di una sola persona chiaramente femminile, dei tre crani, si scoprì che due erano un orciolo di terracotta e un ciottolone, mentre il terzo che sembrava molto grande, era invece ingrossato da depositi calcarei, che una volta tolti rivelarono un cranio femminile; anche la prima commissione ne riesaminò i resti e concordò con il risultato della seconda commissione.
A ciò si aggiunse un prodigio, un uomo Vincenzo Bonelli essendogli morta la moglie di peste e non avendolo denunziato, fuggì sul Monte Pellegrino e qui gli apparve la “Santuzza” predicendogli la morte per peste e ingiungendogli, se voleva la sua protezione per l’anima, di dire al cardinale che non dubitasse più dell’autenticità delle reliquie e le portasse in processione per la città, solo così la peste sarebbe finita.
Tornato in città, effettivamente si ammalò di peste e prima di morire confessò ciò che gli era stato rivelato. Il 9 giugno del 1625, l’urna costruita apposta per le reliquie, fu portata in processione con la partecipazione di tutta la popolazione e con grande solennità; la peste cominciò a regredire e il 15 luglio quando si fece il pellegrinaggio sul Monte Pellegrino, nell’anniversario del ritrovamento delle reliquie, non comparve più nessun caso di appestato.
Il cardinale fece costruire nella cattedrale un magnifico altare, dove venne sistemata la fastosa urna d’argento massiccio con le reliquie della santa, il cui nome fu per tradizione interpretato come composto da ‘rosa’ e ‘lilia’, rosa e gigli, simboli di purezza e di unione mistica; per questo la ‘Santuzza’ è rappresentata con il capo cinto di rose.
Da quel 1625 il culto fu autorizzato e rinverdito dalla Chiesa palermitana per la vergine eremita orante e contemplante sul Monte Pellegrino, quale testimonianza di eccezionale ascesi cristiana, che nei secoli non è stato mai dimenticata dal popolo palermitano. Da 350 anni i pellegrini salgono sul monte, definito da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’, il promontorio più bello del mondo.
Si saliva a piedi faticosamente, finché il Senato palermitano fece costruire nel 1725 un’ardita strada fra pini ed eucalipti. Palermo ha sempre onorato s. Rosalia, secondo le due festività stabilite nel 1630 da papa Urbano VIII, che le inserì nel ‘Martirologio Romano’, cioè il 15 luglio anniversario del ritrovamento delle reliquie e il 4 settembre giorno della morte della ‘Santuzza’; le feste specie quella di luglio durano una settimana, con la partecipazione di tutto il popolo e di tanti emigranti che ritornano per l’occasione.
La statua della ‘Santuzza’ circondata da altre statue, troneggia sulla cima della cosiddetta ‘macchina’ che è un carro a forma di nave, sul quale vi è anche una banda musicale, che viene trasportato per la città, il tutto viene chiamato “U Fistinu”.
La seconda festa del 4 settembre si svolge come un pellegrinaggio al santuario sul Monte Pellegrino, dove conglobando la grotta, si costruì un Santuario, la cui pittoresca facciata risale al XVII secolo, all’interno si sono accumulate tante opere d’arte dei vari secoli successivi; una parte è ancora a cielo aperto, le pareti sono coperte di ex voto e lapidi lasciate da illustri visitatori.
Una cancellata divide questa prima parte del santuario, dalla grotta nella quale sono presenti altari e opere d’arte singolari, che ricordano la presenza della santa; di fronte al luogo dove furono trovate le reliquie della ‘Santuzza’ sorge lo stupendo altare coperto da un baldacchino, con un sontuoso tabernacolo sormontato da una statua d’argento della santa, donati dal Senato di Palermo nel 1667. Sotto l’altare si venera la statua del 1625, che rappresenta s. Rosalia giacente in atto di esalare l’ultimo respiro e che fu rivestita d’oro per disposizione del re Carlo III di Borbone (1716-1788).
Alla grotta sul monte, insieme agli anonimi pellegrini, salirono a venerare la santa eremita, anche tanti illustri visitatori; autorità ecclesiastiche, principi, re, imperatori, letterati, poeti, musicisti, artisti.
Le reliquie deposte nell’artistica e massiccia urna d’argento, sono conservate nel Duomo di Palermo.


Autore: Antonio Borrelli
[Modificato da Coordin. 09/09/2014 07:31]
OFFLINE
05/09/2014 06:28
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Beata Teresa di Calcutta (Agnes Gonxha Bojaxiu) Fondatrice

5 settembre

Skopje, Macedonia, 26 agosto 1910 - Calcutta, 5 settembre 1997


A 18 anni decise di entrare nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto. Partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è in India. Nel 1931 la giovane Agnes emette i primi voti prendendo il nuovo nome di suor Mary Teresa del Bambin Gesù (scelto per la sua devozione alla santa di Lisieux), e per circa vent’anni insegna storia e geografia alle ragazze di buona famiglia nel collegio delle suore di Loreto a Entally, zona orientale di Calcutta. Il 10 settembre 1946, mentre era in treno diretta a Darjeeling per gli esercizi spirituali, avvertì la “seconda chiamata”: lei doveva lasciare il convento per i più poveri dei poveri. Lasciò le suore di Loreto il 16 agosto 1948. Nel 1950 la sua nuova congregazione delle Missionarie della Carità ottenne il riconoscimento dalla Chiesa.

Martirologio Romano: A Calcutta in India, beata Teresa (Agnese) Gonhxa Bojaxhiu, vergine, che, nata in Albania, estinse la sete di Cristo abbandonato sulla croce con la sua immensa carità verso i fratelli più poveri e istituì le Congregazioni delle Missionarie e dei Missionari della Carità al pieno servizio dei malati e dei diseredati.

Ascolta da RadioRai:


Al piano terra della Mother House, la casa-madre nella Lower Circular Road di Calcutta, c’è la cappella semplice e disadorna dove dal 13 settembre 1997, dopo i solenni funerali di Stato, riposano le spoglie mortali di Madre Teresa. Fuori, nel fitto dedalo di viuzze, i rumori assordanti della metropoli indiana: campanelli di risciò, vociare di bimbi, lo sferragliare di tram scalcinati attraverso i gironi infernali della miseria. Dentro, invece, il tempo sembra fermarsi ogni volta, cristallizzato in una specie di bolla rarefatta: la cappella accoglie una tomba povera e spoglia, un blocco di cemento bianco su cui è stata deposta la Bibbia personale di Madre Teresa e una statua della Madonna con una corona di fiori al collo, accanto a una lapide di marmo con sopra inciso, in inglese, un versetto tratto dal Vangelo di Giovanni: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (15,12).

Madre Teresa di Calcutta, al secolo Agnes Gonxha Bojaxhiu, era nata il 26 agosto 1910 a Skopje (ex-Jugoslavia, oggi Macedonia), da una famiglia cattolica albanese. A 18 anni decise di entrare nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto. Partita nel 1928 per l’Irlanda, un anno dopo è già in India.
Nel 1931 la giovane Agnes emette i primi voti prendendo il nuovo nome di suor Mary Teresa del Bambin Gesù(scelto per la sua devozione alla santa di Lisieux), e per circa vent’anni insegnerà storia e geografia alle ragazze di buona famiglia nel collegio delle suore di Loreto a Entally, zona orientale di Calcutta. Oltre il muro di cinta del convento c’era Motijhil con i suoi odori acri e soffocanti, uno degli slum più miserabili della megalopoli indiana, la discarica del mondo. Da lontano suor Teresa poteva sentirne i miasmi che arrivavano fino al suo collegio di lusso, ma non lo conosceva. Era l’altra faccia dell’India, un mondo a parte per lei, almeno fino a quella fatidica sera del 10 settembre 1946, quando avvertì la “seconda chiamata” mentre era in treno diretta a Darjeeling, per gli esercizi spirituali.
Durante quella notte una frase continuò a martellarle nella testa per tutto il viaggio, il grido dolente di Gesù in croce: “Ho sete!”. Un misterioso richiamo che col passare delle ore si fece sempre più chiaro e pressante: lei doveva lasciare il convento per i più poveri dei poveri. Quel genere di persone che non sono niente, che vivono ai margini di tutto, il mondo dei derelitti che ogni giorno agonizzavano sui marciapiedi di Calcutta, senza neppure la dignità di poter morire in pace.
Suor Teresa lasciò il convento di Entally con cinque rupie in tasca e il sari orlato di azzurro delle indiane più povere, dopo quasi 20 anni trascorsi nella congregazione delle Suore di Loreto. Era il 16 agosto 1948. La piccola Gonxha di Skopje diventava Madre Teresa e iniziava da questo momento la sua corsa da gigante.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione ottiene il suo primo riconoscimento, l’approvazione diocesana. È una ricorrenza mariana, la festa del Rosario, e di certo non è casuale, dal momento che a Maria è dedicata la nuova famiglia religiosa.
L’amore profondo di Madre Teresa per la Madonna aveva salde radici nella sua infanzia, a Skopje, quando mamma Drone, che era molto religiosa, portava sempre i suoi figli (oltre a Gonxha c’erano Lazar e Age) in chiesa e a visitare i poveri, ed ogni sera recitavano insieme il rosario.
“La nostra Società – si legge nel primo capitolo delle Costituzioni – è dedicata al Cuore Immacolato di Maria, Causa della nostra Gioia e Regina del Mondo, perché è nata su sua richiesta e grazie alla sua continua intercessione si è sviluppata e continua a crescere”.
La figura della Vergine ha ispirato lo Statuto delle Missionarie della Carità, al punto che ognuno dei 10 capitoli delle Costituzioni è introdotto da una citazione tratta dai passi mariani dei Vangeli. La Madonna è detta la prima Missionaria della Carità in ragione della sua visita a Elisabetta, in cui dette prova di ardente carità nel servizio gratuito all’anziana cugina bisognosa di aiuto. In aggiunta ai tre usuali voti di povertà, castità e obbedienza, ogni Missionaria della Carità ne fa un quarto di "dedito e gratuito servizio ai più poveri tra i poveri", riconoscendo in Maria l’icona del servizio reso di tutto cuore, della più autentica carità.
(…)La devozione al Cuore Immacolato di Maria è l’altro aspetto del carisma mariano e missionario dell’opera di Madre Teresa, praticato con i mezzi più tradizionali e più semplici: il S. Rosario, pregato ogni giorno e in ogni luogo, persino per la strada; il culto delle feste mariane (la professione religiosa delle sue suore cade sempre in festività della Madonna); la preghiera fiduciosa a Maria affidata anche alle “medagliette miracolose”( Madre Teresa ne regalava in gran quantità alle persone che incontrava); l’imitazione delle virtù della Madre di Dio, in special modo l’umiltà, il silenzio, la profonda carità.
"I thirst" (ho sete), c’è scritto sul crocifisso della Casa Madre e in ogni cappella – in ogni parte del mondo – di ogni casa della famiglia religiosa di Madre Teresa. Questa frase, il grido dolente di Gesù sulla croce che le era rimbombato nel cuore la fatidica sera della "seconda chiamata", costituisce la chiave della sua spiritualità.
La figura minuta di Madre Teresa, il suo fragile fisico piegato dalla fatica, il suo volto solcato da innumerevoli rughe sono ormai conosciuti in tutto il mondo. Chi l’ha incontrata anche solo una volta, non ha più potuto dimenticarla: la luce del suo sorriso rifletteva la sua immensa carità. Essere guardati da lei, dai suoi occhi profondi, amorevoli, limpidi, dava la curiosa sensazione di essere guardati dagli occhi stessi di Dio.
Attiva e contemplativa al tempo stesso, nella Madre c’erano idealismo e concretezza, pragmatismo e utopia. Lei amava definirsi "la piccola matita di Dio", un piccolo semplice strumento fra le Sue mani. Riconosceva con umiltà che quando la matita sarebbe diventata un mozzicone inutile, il Signore l’avrebbe buttata via, affidando ad altri la sua missione apostolica: "Anche chi crede in me compirà le opere che io compio, e ne farà di più grandi" (cfr. Gv 14, 12).
Madre Teresa è scomparsa a Calcutta la sera del venerdì 5 settembre 1997, alle 21.30. Aveva 87 anni. Il 26 luglio 1999 è stato aperto, con ben tre anni di anticipo sui cinque previsti dalla Chiesa, il suo processo di beatificazione; e ciò per volontà del S. Padre che, in via del tutto eccezionale, ne ha voluto accelerare la procedura: per la gente Madre Teresa è già santa.
Il suo messaggio è sempre attuale: che ognuno cerchi la sua Calcutta, presente pure sulle strade del ricco Occidente, nel ritmo frenetico delle nostre città. “Puoi trovare Calcutta in tutto il mondo – lei diceva – , se hai occhi per vedere. Dovunque ci sono i non amati, i non voluti, i non curati, i respinti, i dimenticati”.
I suoi figli spirituali continuano in tutto il mondo a servire “i più poveri tra i poveri” in orfanotrofi, lebbrosari, case di accoglienza per anziani, ragazze madri, moribondi. In tutto sono 5000, compresi i due rami maschili, meno noti, distribuiti in circa 600 case sparse per il mondo; senza contare le molte migliaia di volontari e laici consacrati che portano avanti le sue opere. “Quando sarò morta – diceva lei –, potrò aiutarvi di più…”.


Autore: Maria Di Lorenzo
OFFLINE
06/09/2014 07:22
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Zaccaria Profeta

6 settembre

VI secolo a.C.


Zaccaria fu chiamato al ministero profetico nel 520 a.C. Mediante visioni e parabole, egli annunzia l'invito di Dio a penitenza, condizione perché si avverino le promesse. Le sue profezie riguardano il futuro del rinato Israele, futuro prossimo e futuro messianico. Zaccaria mette in evidenza il carattere spirituale del rinato Israele, la sua santità. L'azione divina in quest'opera di santificazione raggiungerà la sua pienezza col regno del Messia. Questa rinascita è frutto esclusivo dell'amore di Dio e della sua onnipotenza. L'alleanza concretizzata nella promessa messianica fatta a David ripiglia il suo corso a Gerusalemme. La profezia si avverò alla lettera nell'entrata solenne di Gesù nella città santa. Così, insieme a un amore sconfinato verso il suo popolo, Dio unisce un'apertura totale verso le genti, che purificate entreranno a far parte del regno. Appartenente alla tribù di Levi, nato a Galaad e ritornato nella vecchiaia dalla Caldea in Palestina, Zaccaria avrebbe compiuto molti prodigi, accompagnandoli con profezie di contenuto apocalittico, come la fine del mondo e il doppio giudizio divino. Morto in tarda età sarebbe stato sepolto accanto alla tomba del profeta Aggeo. (Avvenire)

Etimologia: Zaccaria = memoria di Dio, dall'aramaico

Martirologio Romano: Commemorazione di san Zaccaria, profeta, che predisse il ritorno del popolo dall’esilio nella terra promessa, dando ad esso l’annuncio di un re di pace, che Cristo Signore attuò mirabilmente nel suo trionfale ingresso nella Città Santa di Gerusalemme.



Zaccaria, il profeta maggiormente citato nel Nuovo Testamento, dopo Isaia, penultimo dei profeti minori, fu chiamato al ministero profetico lo stesso anno di Aggeo, nel 520. Il suo ministero durò probabilmente fino alla costruzione ultimata del tempio di Gerusalemme, tema delle sue esortazioni. Mediante visioni e parabole, egli annunzia l'invito di Dio a penitenza, condizione perché si avverino le promesse: "Così parla il Signore degli eserciti: Convertitevi a me, e io mi rivolgerò a voi". Le sue profezie riguardano il futuro del rinato Israele, futuro prossimo e futuro messianico. E’ giunta l'ora della benevolenza del Signore verso Israele: il Tempio si avvia alla ricostruzione e stanno per essere riedificate Gerusalemme e le altre città di Giuda, mentre i popoli che hanno gioito per la sua distruzione saranno puniti.
Zaccaria mette in evidenza il carattere spirituale del rinato Israele, la sua santità, realizzata progressivamente, al pari della ricostruzione materiale. L'azione divina in quest'opera di santificazione raggiungerà la sua pienezza col regno del Messia. Questa rinascita è frutto esclusivo dell'amore di Dio e della sua onnipotenza: "Ecco, io libererò il mio popolo. Li ricondurrò ad abitare in Gerusalemme: saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, nella fedeltà e nella giustizia". L'alleanza concretizzata nella promessa messianica fatta a David ripiglia il suo corso a Gerusalemme: "Esulta con tutte le tue forze, figlia di Sion, effondi il tuo giubilo, figlia di Gerusalemme. Ecco a te viene il tuo re: egli è giusto e vittorioso, è umile e cavalca un asinello, giovane puledro di una giumenta". La profezia si avverò alla lettera nell'entrata solenne di Gesù nella città santa. L'asinello, contrapposto al cavallo da guerra, simboleggia l'indole pacifica del re Messia: "Egli annuncerà la pace alle genti; il suo regno si estenderà dall'uno all'altro mare". Così, insieme a un amore sconfinato verso il suo popolo, Dio unisce un'apertura totale verso le genti, che purificate entreranno a far parte del regno: "Quale felicità, quale bellezza! Il frumento darà vigore ai giovani e il vino dolce alle fanciulle".
In questo vaticinio, chiaramente messianico, è adombrata l'Eucaristia. Appartenente alla tribù di Levi, nato a Galaad e ritornato nella vecchiaia dalla Caldea in Palestina, Zaccaria avrebbe compiuto molti prodigi, accompagnandoli con profezie di contenuto apocalittico, come la fine del mondo e il doppio giudizio divino. Morto in tarda età sarebbe stato sepolto accanto alla tomba del profeta Aggeo.


Autore: Piero Bargellini
OFFLINE
07/09/2014 08:25
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Grato di Aosta Vescovo

7 settembre

† Aosta, seconda metà del V secolo


Egli fu quasi certamente il presbitero che, dichiarandosi inviato di Eustasio protovescovo di Aosta, firmò la lettera del Concilio Provinciale di Milano inviata nel 451 a papa Leone Magno, in occasione della soluzione del problema delle due nature in Cristo. Alla morte di Eustasio, nella seconda metà del V secolo, Grato divenne vescovo di Aosta. Sono state avanzate anche due ipotesi. Eustasio e Grato potrebbero essere stati di origine greca. Entrambi potrebbero avere studiato nel cenobio eusebiano di Vercelli perché Aosta era compresa nel territorio di questa città e perché Sant'Ambrogio, nella lettera ai vercellesi, dice che le Chiese dell'Italia settentrionale si rivolgevano a quel cenobio per scegliere i propri pastori.

Patronato: Aosta

Emblema: Bastone pastorale, Mitra, Testa di Giovanni Battista
Martirologio Romano: Ad Aosta, san Grato, vescovo.


Del santo patrono di Aosta san Grato, esistono due fonti che forniscono notizie sulla sua esistenza, una storica ma ridotta e un’altra fantasiosa, ma su cui si è basata la grande diffusione del culto, anche al di fuori della Valle d’Aosta.

Il fondamento storico
Le notizie storiche fondate, dicono che s. Grato era un sacerdote che collaborava con Eustasio, primo vescovo di Aosta, da taluni ritenuto santo; ambedue erano di origine greca come fa intendere il nome del vescovo, probabilmente il più anziano dei due Eustasio, chiamò presso di sé il più giovane Grato.
Si ritiene che ambedue abbiano ricevuto successivamente, educazione e formazione ecclesiastica, nel celebre cenobio fondato da s. Eusebio da Vercelli († 371), il grande vescovo che al ritorno dall’esilio in Oriente, impostagli dall’imperatore Costanzo, volle trapiantare nella sua diocesi il monachesimo.
Sant’Ambrogio affermò, che in quel tempo tutti i vescovi dell’Italia Settentrionale provenivano dal cenobio eusebiano, quindi anche Eustasio e Grato, vissuti nella seconda metà del V secolo, provenivano da lì; tenendo conto anche che Aosta, la romana Augusta Pretoria, fondata intorno al 25-24 a.C., il cui nome fu posto in onore di Augusto e della sua Guardia Pretoriana, prima del tempo di Eustasio era compresa nel territorio della Chiesa vercellese.
Si sa che quando Grato era ancora semplice sacerdote, rappresentò il vescovo di Aosta, Eustasio, al Concilio provinciale di Milano del 451, sottoscrivendo la lettera che quell’assemblea inviò al papa san Leone I Magno, per condannare l’eresia di Eutiche († 454 ca.), monaco greco che negava le due nature di Cristo, affermando l’assimilazione della natura umana in quella divina.
In un anno imprecisato, ma certamente dopo il suddetto 451, Grato alla morte di Eustasio, gli successe alla guida della giovane diocesi valdostana, divenendone il secondo vescovo; durante il suo episcopato, Grato partecipò alla traslazione delle reliquie del martire tebeo s. Innocenzo, alla quale erano presenti anche i vescovi di Agauno e di Sion, come ricorda la “Passio Acaunensium Martyrum”.
Non si conosce l’anno della sua morte, ma stranamente quello della sepoltura, 7 settembre, ricavato dalla breve iscrizione sepolcrale: “Hic requiescit in pace S. M. GRATUS EPS D P SUB D. VII ID. SEPTEMB.”; incisa sulla pietra tombale conservata nella chiesa parrocchiale di Saint-Christophe.

La diffusione del culto
La popolarità del culto di san Grato risale però al XII o al XIII secolo, quando le sue reliquie furono traslate dalla chiesa paleocristiana di San Lorenzo, che sorgeva a est della città nella zona dell’attuale collegiata di Sant’Orso, alla cattedrale, dove sono tuttora conservate in un reliquiario in argento e rame dorato del XV secolo.
Secondo la tradizione era il 27 marzo di un anno imprecisato, la festa liturgica che fu introdotta per ricordare la traslazione, incluse un antichissimo rito che si chiamò poi “Benedizione di san Grato”: la triplice benedizione della terra, dell’acqua e delle candele, per allontanare ogni flagello dai campi, dai contadini e dal bestiame e per invocare il favore di Dio sui prossimi raccolti.
Era una tipica cerimonia di origine pagana che coincideva con l’inizio della primavera e che venne, come in altri casi, cristianizzata.
Man mano quella benedizione attirò sul santo vescovo aostano una serie di patronati: lo si invocava quando il disgelo faceva straripare laghetti e torrenti, quando la siccità spaccava il terreno, la grandine minacciava il raccolto, quando s’incendiava il fienile o quando bruchi, cavallette e talpe devastavano i campi.
Era ancora considerato protettore e taumaturgo contro streghe e diavoli, che tanto influenzavano la mentalità del Medioevo. La città e diocesi di Aosta lo venera come santo patrono e lo celebra il 7 settembre.

Le notizie leggendarie
Le poche notizie certe sulla vita di s. Grato, con il tempo non furono più sufficienti a sostenere il diffuso culto popolare del santo vescovo di Aosta, pertanto nel XIII secolo, a commento della traslazione delle reliquie nel Duomo, il canonico Jacques de Cours, ignaro dei fatti storici e mosso da incauto zelo nei confronti del santo patrono, scrisse la “Magna Legenda Sancti Grati”.
La “Vita” di s. Grato così narrata, risultò molto fascinosa e attraente per il gusto agiografico dell’epoca, che necessitava di figure favolose ed eroiche, anche se già nel XVI secolo si cominciò a dubitare del racconto e molti studiosi fra i quali Cesare Baronio, primo estensore del ‘Martirologio Romano’, ne contestarono la veridicità.
Ma non tutti erano disposti a rinunciarvi, così le polemiche durarono fino agli anni Sessanta del Novecento, quando lo storico Aimé Pierre Frutaz, dimostrò inconfutabilmente che la “Magna Legenda Sancti Grati” era del tutto inventata; ma bisogna comunque tener conto che senza di essa, non si riuscirebbe a spiegare l’iconografia del santo e la straordinaria diffusione del culto al di fuori della Vallée, come in Piemonte, Lombardia, Svizzera e Savoia.
Per questo motivo si riporta qui di seguito, le parti essenziali di questa narrazione, per completare un quadro riassuntivo della figura di san Grato, che ha generato tanta devozione nei secoli fra i valdostani, ripetendo che non ha fondamento storico.
Secondo il già citato canonico del XIII secolo, san Grato era nato in una nobile famiglia di Sparta; dopo aver studiato ad Atene era diventato monaco.
Per sfuggire alla persecuzione dell’eretico imperatore d’Oriente, lasciò Costantinopoli rifugiandosi a Roma dove fu accolto con tutti gli onori; il papa lo nominò suo consigliere inviandolo alla corte di Carlo Magno, affinché lo persuadesse ad intervenire in Italia contro il re longobardo Desiderio.
Tornato a Roma, Grato mentre pregava nella Chiesa di Santa Maria dei Martiri, l’ex Pantheon, ebbe una visione, dove si vedeva una grande valle abbandonata a sé stessa, che lo attendeva; nello stesso momento anche al papa appariva in sogno un angelo, che gli ordinò d’inviare Grato come vescovo ad Aosta.
Nella Valle, Grato intraprese un’opera di conversione con gli affievoliti cristiani esistenti e soprattutto con i pagani ancora molto attivi; operò prodigi e miracoli spettacolari che convinsero molti pagani a convertirsi.
Quando Carlo Magno seppe che molti di essi resistevano al cristianesimo, inviò in Valle d’Aosta il prode paladino Orlando per combattere questi infedeli; il quale valicò le Alpi coperte di neve e ghiacci, guidato da un angelo. Grato intervenne di nuovo con i pagani, convincendoli alla fine a superare lo scontro ed evitare così uno spargimento di sangue.
Prima di proseguire si sottolinea la differenza d’epoca in cui secondo la “Magna Legenda”, san Grato fosse vissuto; nel V secolo secondo i dati storici provati dalla sua partecipazione al Sinodo di Milano del 451 e nell’VIII-IX secolo al tempo di Carlo Magno (742-814) secondo la “Legenda”.
Proseguendo nella lettura del fantasioso racconto, si trova Grato che ubbidendo ad un messaggio del Signore, si recò in Terrasanta, accompagnato dal monaco san Giocondo, per ritrovare la reliquia della testa di san Giovanni Battista, rimasta nascosta in un luogo segreto del palazzo di Erode e mai trovata; lì giunto, Grato la ritrovò prodigiosamente in fondo ad un profondo pozzo.
Naturalmente vi furono miracoli sia durante il viaggio, per placare una furiosa tempesta come pure in Terrasanta; trovata la reliquia con l’aiuto di un angelo, Grato la nascose sotto il mantello e dopo aver salutato il patriarca di Gerusalemme senza riferirgli il ritrovamento, affinché non la reclamasse, prese la via del ritorno.
Dovunque passasse le campane suonavano autonomamente e persino due bimbi resuscitarono al suo avvicinarsi. La leggenda del ritrovamento del capo di s. Giovanni Battista, ha ispirato l’iconografia di s. Grato, che spesso è raffigurato con la testa del Battista in mano; è da dire che leggende precedenti dicevano che la reliquia sarebbe stata portata a Roma da monaci greci.
Quando arrivò a Roma, gli andò incontro il papa con un corteo, mentre le campane suonavano a festa da sole, Grato allora tolse dal mantello la reliquia del capo e la porse al papa, ma nel fare ciò gli rimase in mano la mandibola che si era staccata, fu interpretato come il segno che quella reliquia dovesse rimanere a Grato, che con il consenso del papa la portò ad Aosta. Qui si ferma il racconto della “Magna Legenda sancti Grati”.
Il santo vescovo tornato ad Aosta, continuò a governare la diocesi ritirandosi ogni tanto insieme al monaco Giocondo nell’eremo che ancora oggi si chiama Ermitage.
Concludiamo quest’esposizione, facendo notare l’ulteriore contraddizione storica della “Magna Legenda”, che indica come compagno del vescovo Grato il monaco Giocondo, durante la sua trasferta in Terrasanta sempre datata al tempo di Carlo Magno; ma san Giocondo fu effettivamente discepolo di s. Grato e alla sua morte avvenuta negli ultimi decenni del V secolo, gli successe come terzo vescovo di Aosta.
È infatti annoverato fra i vescovi che parteciparono il 23 ottobre 501, al Sinodo romano convocato da Teodorico per proclamare l’innocenza di papa Simmaco, accusato ingiustamente da alcuni senatori romani; quindi se era presente a Roma nel 501 e in altro Sinodo nel 502, non poteva essere in Terrasanta con Grato nel IX secolo; ciò conferma che i due santi vescovi sono vissuti effettivamente nel V secolo, tutto il resto è fantasia.
Anche s. Giocondo è fra i protettori di Aosta, le sue reliquie sono conservate nella cattedrale e viene celebrato il 30 dicembre.


Autore: Antonio Borrelli
OFFLINE
08/09/2014 08:29
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota


Natività della Beata Vergine Maria

8 settembre

Questa celebrazione, che ricalca sul Cristo le prerogative della Madre, è stata introdotta dal papa Sergio I (sec VII) nel solco della tradizione orientale. La natività della Vergine è strettamente legata alla venuta del Messia, come promessa, preparazione e frutto della salvezza. Aurora che precede il sole di giustizia, Maria preannunzia a tutto il mondo la gioia del Salvatore. (Mess. Rom.)

Martirologio Romano: Festa della Natività della Beata Vergine Maria, nata dalla discendenza di Abramo, della tribù di Giuda, della stirpe del re Davide, dalla quale è nato il Figlio di Dio fatto uomo per opera dello Spirito Santo per liberare gli uomini dall’antica schiavitù del peccato.


Nella data odierna le chiese d’Oriente e d’Occidente celebrano la nascita di Maria, la madre del Signore. La fonte prima che racconta l’evento è il cosiddetto Protovangelo di Giacomo secondo il quale Maria nacque a Gerusalemme nella casa di Gioacchino ed Anna. Qui nel IV secolo venne edificata la basilica di sant’Anna e nel giorno della sua dedicazione veniva celebrata la natività della Madre di Dio. La festa si estese poi a Costantinopoli e fu introdotta in occidente da Sergio I, un papa di origine siriana. «Quelli che Dio da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati»: Dante sembra quasi parafrasare il versetto di san Paolo quando definisce Maria «termine fisso d’eterno consiglio».
Dall’eternità, Il Padre opera per la preparazione della Tuttasanta, di Colei che doveva divenire la madre del Figlio suo, il tempio dello Spirito Santo. La geneaologia di Gesù proposta dal Vangelo di Matteo culmina nell’espressione «Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». Con Maria, dunque, è venuta l’ora del Davide definitivo, della instaurazione piena del regno di Dio. Con la sua nascita inoltre prende forma il grembo offerto dall’umanità a Dio perché si compia l’incarnazione del Verbo nella storia degli uomini. Maria bambina infine è anche immagine dell’umanità nuova, quella da cui il Figlio suo toglierà il cuore di pietra per donarle un cuore di carne che accolga in docilità i precetti di Dio.

Onorando la natività della Madre di Dio si va al vero significato e il fine di questo evento che è l'incarnazione del Verbo. Infatti Maria nasce, viene allattata e cresciuta per essere la Madre del Re dei secoli, di Dio". E’ questo del resto il motivo per cui di Maria soltanto (oltre che di S. Giovanni Battista e naturalmente di Cristo) non si festeggia unicamente la " nascita al cielo ", come avviene per gli altri santi, ma anche la venuta in questo mondo. In realtà, il meraviglioso di questa nascita non è in ciò che narrano con dovizia di particolari e con ingenuità gli apocrifi, ma piuttosto nel significativo passo innanzi che Dio fa nell'attuazione del suo eterno disegno d'amore. Per questo la festa odierna è stata celebrata con lodi magnifiche da molti santi Padri, che hanno attinto alla loro conoscenza della Bibbia e alla loro sensibilità e ardore poetico. Leggiamo qualche espressione del secondo Sermone sulla Natività di Maria di S. Pier Damiani: “Dio onnipotente, prima che l'uomo cadesse, previde la sua caduta e decise, prima dei secoli, l'umana redenzione. Decise dunque di incarnarsi in Maria”.
"Oggi è il giorno in cui Dio comincia a mettere in pratica il suo piano eterno, poiché era necessario che si costruisse la casa, prima che il Re scendesse ad abitarla. Casa bella, poiché, se la Sapienza si costruì una casa con sette colonne lavorate, questo palazzo di Maria poggia sui sette doni dello Spirito Santo. Salomone celebrò in modo solennissimo l'inaugurazione di un tempio di pietra. Come celebreremo la nascita di Maria, tempio del Verbo incarnato? In quel giorno la gloria di Dio scese sul tempio di Gerusalemme sotto forma di nube, che lo oscurò. Il Signore che fa brillare il sole nei cieli, per la sua dimora tra noi ha scelto l'oscurità (1 Re 8,10-12), disse Salomone nella sua orazione a Dio. Questo nuovo tempio si vedrà riempito dallo stesso Dio, che viene per essere la luce delle genti.
"Alle tenebre del gentilesimo e alla mancanza di fede dei Giudei, rappresentate dal tempio di Salomone, succede il giorno luminoso nel tempio di Maria. E’ giusto, dunque, cantare questo giorno e Colei che nasce in esso



OFFLINE
09/09/2014 07:32
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Pietro Claver Sacerdote

9 settembre - Memoria Facoltativa

Verdu (Spagna), 25 giugno 1580 - Cartagena (Colombia), 8 settembre 1654

Nato a Verdù, a pochi chilometri da Barcellona, il 25 giugno 1580, Pietro Claver entra nella Compagnia di Gesù dopo aver pronunciato i primi voti nel 1604. Tra il 1605 e il 1608 studia filosofia a Palma di Maiorca e viene ordinato sacerdote a Cartagena nel 1616 e, diventato missionario, presta le sue cure pastorali agli schiavi neri, deportati dall'Africa. Qui, infatti, sbarcano migliaia di schiavi, quasi tutti giovani: ma invecchiano e muoiono presto per la fatica e i maltrattamenti; e per l'abbandono quando sono invalidi. In particolare, pronuncia il voto di essere «sempre schiavo degli Etiopi» (all'epoca si chiamavano «etiopi» tutti i neri) e per comprendere i loro problemi impara anche la lingua dell'Angola. Ammalatosi di peste, sopporta perfino i maltrattamenti del suo infermiere, che è un nero. Morto a 74 anni e canonizzato nel 1888 insieme con Alfonso Rodriguez, suo fratello gesuita e amico, è stato proclamato patrono delle missioni per i neri da Papa Leone XIII. (Avvenire)

Patronato: Negri

Etimologia: Pietro = pietra, sasso squadrato, dal latino

Martirologio Romano: San Pietro Claver, sacerdote della Compagnia di Gesù, che, a Cartagena in Colombia si adoperò per oltre quarant’anni con mirabile abnegazione e insigne carità per i neri ridotti in schiavitù, rigenerando di sua mano nel battesimo di Cristo circa trecentomila di loro.
(8 settembre: A Cartagena in Colombia, anniversario della morte di san Pietro Claver, sacerdote, la cui memoria si celebra domani).


Aethiopum semper servus: all’epoca sua si chiamavano “etiopi” tutti i neri. E lui, dicendosi “semper servus”, si impegna a vivere solo per loro. Cioè per i neri d’Africa, portati schiavi nell’America meridionale. Questo è il programma che s’impone Pietro Claver nell’aprile 1622 a Cartagena (Nueva Granada, detta poi Colombia) nel compiere la “professione definitiva”, l’atto che segna per sempre la sua piena appartenenza alla Compagnia di Gesù. Nato presso Barcellona, è entrato da ragazzo nel collegio dei gesuiti. All’università diretta da loro, nella capitale catalana, ha poi fatto gli studi umanistici, pronunciando i primi voti nel 1604.
Nel 1605-1608 ha studiato filosofia a Palma di Maiorca. E qui lo hanno aiutato le “lezioni” del portinaio Alfonso Rodriguez: è un mercante di Segovia che, perduta la famiglia, presta lietamente l’umile servizio al collegio dei gesuiti. Ma col tempo il suo stanzino diventa un’altra aula, e lui un maestro di spiritualità, consultato da sapienti e potenti e soprattutto dai giovani allievi come Pietro Claver. Che esce da quella portineria orientato.
Inizia gli studi di teologia a Barcellona e li completa a Cartagena di Colombia (dove diventa sacerdote nel 1616). Qui sbarcano migliaia di schiavi neri, quasi tutti giovani: ma invecchiano e muoiono presto per la fatica e i maltrattamenti; e per l’abbandono quando sono invalidi. Tra questa umanità la Compagnia di Gesù ha mandato i suoi missionari. Unitosi a loro, Pietro Claver conosce il mondo della sofferenza e della disperazione; discerne la volontà di Dio, che il portinaio di Maiorca gli insegnava a cercare: Dio vuole che egli serva gli schiavi con tutte le sue forze, ogni giorno della sua vita.
Così si ritrova a vivere la loro sofferenza, e a combatterla. Sta con loro per nutrire e per curare, imperturbabile ed efficiente anche nelle situazioni più disgustose. A questa gente che non ha nulla, che non è nulla, insieme al soccorso offre il rispetto. Si sforza di risvegliare in ognuno il senso della sua dignità, senza il quale non potrebbe parlare di Dio e del suo amore. Impara la lingua dell’Angola, parlata da molti di loro, e crea un’équipe di interpreti per le altre lingue. Ma si fa capire anche col suo modo di vivere, che è quello degli schiavi più sfortunati: basta guardarlo per dargli fiducia, credere in lui, confidarsi (e per questo gli si attribuisce il dono della “lettura delle anime”). Basta guardarlo per capire e condividere la devozione che egli predica per Cristo sofferente.
Poi si ammala, forse di peste. Sopravvive, ma senza più forze, trascinandosi allo stesso modo dei vecchi schiavi. Deve sopportare i maltrattamenti del suo infermiere: un nero. Anche in queste cose bisogna scorgere la volontà di Dio. Muore a 74 anni e verrà canonizzato nel 1888, con Alfonso Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca.


Autore: Domenico Agasso
OFFLINE
10/09/2014 07:37
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Nicola da Tolentino Sacerdote

10 settembre

Castel Sant’Angelo (ora Sant’Angelo in Pontano, Macerata), 1245 - Tolentino (Macerata), 10 settembre 1305


Nacque nel 1245 a Castel Sant'Angelo in Pontano nella diocesi di Fermo. A 14 anni entrò fra gli eremitani di sant'Agostino di Castel Sant'Angelo come oblato, cioè ancora senza obblighi e voti. Più tardi entrò nell'ordine e nel 1274 venne ordinato sacerdote a Cingoli. La comunità agostiniana di Tolentino diventò la sua «casa madre» e suo campo di lavoro il territorio marchigiano con i vari conventi dell'Ordine, che lo accoglievano nell'itinerario di predicatore. Dedicava buona parte della sua giornata a lunghe preghiere e digiuni. Un asceta che diffondeva sorriso, un penitente che metteva allegria. Lo sentivano predicare, lo ascoltavano in confessione o negli incontri occasionali, ed era sempre così: veniva da otto-dieci ore di preghiera, dal digiuno a pane e acqua, ma aveva parole che spargevano sorriso. Molti venivano da lontano a confessargli ogni sorta di misfatti, e andavano via arricchiti dalla sua fiducia gioiosa. Sempre accompagnato da voci di miracoli, nel 1275 si stabilì a Tolentino dove resterà fino alla morte il 10 settembre 1305. (Avvenire)

Etimologia: Nicola = vincidore del popolo, dal greco

Emblema: Cesto di pane, Pane, Stella
Martirologio Romano: A Tolentino nelle Marche, san Nicola, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che, dedito a una severa astinenza e assiduo nella preghiera, fu severo con se stesso, ma clemente con gli altri, e spesso imponeva a sé le penitenze altrui.


Per il patronato della maternità, accanto alla Madre della Madonna, può ben figurare quel benevolo intercessore che è San Nicola da Tolentino.

È pur vero che il ventaglio di ausilio miracoloso attribuito a San Nicola dalla vastissima ancor oggi devozione popolare è molto ampio: dalle malattie alle ingiustizie, dalla tirannia ai danni patrimoniali, dagli incendi alla liberazione delle anime purganti. Ma l’intercessione nella maternità, specialmente se in età avanzata, ha una propria ragione particolare.

Si era a metà del XIII secolo ed i coniugi Compagnone dei Guarinti e Amata dei Gaidani stavano invecchiando ed erano sull’orlo della disperazione per mancanza di prole. Abitavano a Castel Sant’Angelo, oggi Sant’Angelo in Pontano nella provincia di Macerata; vivevano in buone condizioni economiche, per cui un figlio poteva anche significare il passaggio delle eredità materiali. In quei tempi il mancato arrivo di un bimbo veniva sempre imputato alla donna, cosicché la lacuna stava nella impossibile maternità e non tanto in disfunzioni legate alla paternità. In tale ottica venivano ricercati i rimedi più o meno efficaci e magari anche qualche intervento del sortilegio.

Da cristiana credente la coppia di Castel Sant’Angelo ricorreva con sempre maggiore frequenza alla preghiera. Ad un certo momento si ricordarono del santo dei doni per eccellenza: con preghiere e lacrime supplicarono in effetti a lungo San Nicola di Bari. E nel 1245 nacque il tanto desiderato figlio che, per gratitudine, venne battezzato con quel nome. L’infanzia e la fanciullezza furono tranquilli, manifestando egli tuttavia una naturale inclinazione alla preghiera ed a una rigorosa osservanza dei propri doveri.

Così strutturato, Nicola avvicinò perciò gli agostiniani della città natale a dodici anni e fu novizio nel 1260. Compì poi gli studi necessari per il sacerdozio, ottenendo l’ordinazione a Cingoli, sempre non lontano da Macerata, nel 1269. Svolse in varie località l’apostolato affidatogli, finché nel 1275 si ritirò, forse per ragioni di salute, nell’eremo agostiniano di Tolentino. Qui mori trent’anni più tardi il 10 settembre 1305, dopo avere svolto l’apostolato del confessionale e dell’assistenza ai poveri ed avere vissuto in umiltà e penitenza.

In seguito alla definitiva canonizzazione nel 1446 il suo culto si diffuse in tutta Italia, in molti altri Paesi d’Europa e poi nelle Americhe, in parte anche per il graduale affermarsi dell’Ordine agostiniano. Già però Tolentino gli aveva costruito una basilica, ancora attualmente meta di pellegrinaggi e ricca di opere d’arte. I suoi resti mortali sono in gran parte custoditi nella cripta, tranne le “Sante Braccia” staccatesi e sanguinanti quarant’anni dopo la morte del santo. La Chiesa ricorda liturgicamente San Nicola da Tolentino il 10 settembre, il suo dies natalis.


Autore: Mario Benatti
OFFLINE
11/09/2014 07:31
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Giovanni Gabriele Perboyre Sacerdote vincenziano, martire

11 settembre

Puech, Francia, 1802 - Vuciang, Cina, 11 settembre 1840


Nato a Montgesty nel 1802 e ordinato sacerdote a Parigi nel 1826, Giovanni Gabriele Perboyre desiderando ardentemente di darsi alle missioni estere si recò in Cina e nel 1832 approdò a Macao. Qui esercitò il suo apostolato tra i cristiani nonostante i pericoli della persecuzione. Tradito da uno dei suoi discepoli, fatto prigioniero, fu torturato a lungo e subì il martirio a Outchanfou l'11 settembre del 1840. Tra i cristiani rimasti fedeli, alcuni presero il corpo e gli diedero sepoltura nel luogo della sua predicazione, dove rimase finché non venne traslato nella Casa Madre della Congregazione dei Preti della Missione (Lazzaristi). Fu beatificato il 10 novembre del 1889 e fu canonizzato il 2 giugno del 1996. La sua memoria liturgica ricorre l'11 settembre. (Avvenire)

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Nella città di Wuchang nella provincia dello Hebei in Cina, san Giovanni Gabriele Perboyre, sacerdote della Congregazione della Missione e martire, che per predicare il Vangelo assunse un aspetto conforme alle consuetudini del luogo, ma allo scoppio della persecuzione fu sottoposto durante una lunga carcerazione a varie torture e, infine, appeso a una croce e strangolato con un laccio.


La sua Diocesi era Cahors. Il suo comune era Puech. La sua parrocchia era il borgo di Mongesty. Lì, il 6 gennaio 1802, figlio primogenito di Pietro Perboyre e di Maria Rigal, nacque Jean-Gabriel Perboyre. Educazione cristiana dalla sua famiglia, negli anni dell’impero di Napoleone, quando molti congiuravano contro la Chiesa. Gli studi elementari al suo paese, con intelligenza e profitto.
Dentro il cuore, il giovanissimo Jean-Gabriel ha una grande passione, un unico amore: Gesù. Per Lui, il Salvatore Crocifisso, ogni giorno cresce nell’amore e dell’offerta a Dio. È soltanto un ragazzo, quando aiuta il padre nei lavori di campagna, incaricato principalmente a sorvegliare i contadini occupati nel podere di famiglia a Puech.
Suo fratello Louis entra nel 1816 nel Seminario di Montauban (Tarn-en-Garonne), diretto dallo zio paterno, Monsieur Jacques, dei Preti della Missione (i Lazzaristi) di San Vincenzo de’ Paoli. Jean-Gabriel, quindicenne, segue il fratello minore in Seminario, per tenergli compagnia per qualche tempo.
Ma in Seminario, si appassiona alla vita religiosa, sulle orme del grande Santo della carità. Allora decide di rimanervi e chiede di essere ammesso alla Congregazione della Missione. È accettato e si dimostra subito un novizio modello, esemplare nella preghiera, nell’obbedienza e nella mortificazione: “Gesù merita tutto: perché non dargli tutto?”.
Il 28 dicembre 1820, offre a Dio i santi voti. Ha 18 anni e comincia a studiare teologia nella Casa-madre della Congregazione a Parigi. Si fa notare per la sua intelligenza non comune, per la sua dolcezza, per la sua carità teologale che lo rende simile a San Vincenzo, il Padre Fondatore. Diventa, senza accorgersene, modello ai suoi compagni di Seminario, che, guardando a lui, si sentono invitati a farsi migliori.
Ha un forte ascendente sugli altri: per questo, è mandato a insegnare ai ragazzi nel collegio San Vincenzo di Mont-Didier (Somme), dove rivela le sue ottime capacità didattiche e il suo zelo per la formazione dei più piccoli, “alla statura di Gesù”.

Sacerdote e maestro
Il 23 settembre 1826, è ordinato sacerdote nella cappella della Casa-Madre a Parigi. Ha 24 anni: un vero innamorato di Gesù. I superiori, pensando di proporlo come esempio ai chierici della Congregazione, lo mandano a insegnare teologia dogmatica nel Seminario maggiore di Saint Flour; quindi è nominato rettore del “pensionato” ecclesiastico aperto nel 1827, nella medesima città. Nell’autunno del 1832, è richiamato a Parigi come vice-maestro dei novizi della casa di San Lazzaro.
Obbedisce e si impegna al massimo, ma P. Jean-Gabriel ha un altro sogno: le missioni in Cina, e chiede ripetutamente e con insistenza di essere mandato, “a portare Gesù Cristo, a convertire le anime a Lui”. Il suo desiderio si fa ancora più ardente, quando il 2 maggio 1831, muore suo fratello, il P. Louis Perboyre, a Batavia, mentre era in viaggio per raggiungere la Cina. Lui dovrà prendere il suo posto.
Finalmente esaudito, il 21 marzo 1835 salpa dal porto di Le Havre, diretto in Cina. Il 29 agosto seguente approda a Macao: lì si ferma qualche mese per intraprendere lo studio della lingua cinese, prima di essere inviato nella provincia centro-meridionale di Honan. Qualche tempo dopo, lì viene nominato primo vicario generale. Segue un anno e mezzo di appassionante lavoro apostolico nella provincia di 174 mila chilometri quadrati, in mezzo a fatiche e difficoltà di ogni genere, le prime persecuzioni comprese.

Missionario
Nel gennaio 1838, è trasferito nella provincia di Hupeh, dove ancora più intensa si fa la sua attività missionaria. Nelle sue predicazioni e nelle sue conferenze spirituali, annuncia: “Esiste una sola realtà necessaria: Gesù Cristo. Il Signore Gesù ha detto: Io sono la Via, la Verità, la Vita. Non ci resta che camminare per questa via. Per non essere distolti da questo proposito, ci occorre una luce che rischiari il cammino. Questa luce non può essere che Lui, Gesù, la Verità in persona: Lui stesso ha detto che chi lo segue non cammina nelle tenebre, ma possiede la luce della vita”.
Scoppia in Cina, la persecuzione anti-cattolica: P. Jean-Gabriel si vede costretto a cercare scampo nascondendosi. Ha una certezza: «Ci occorre anche la forza che ci sostenga in questo cammino e ci faccia perseverare in esso. Gesù stesso, che ha voluto essere nostro nutrimento dandosi a noi nell’Eucarestia, sarà la nostra forza. Per questo ha detto: “Io sono la vita”. Tutto quello che possiamo desiderare lo troviamo nel Crocifisso, nel Vangelo e nell’Eucaristia: non c’è altra via, altra verità, altra vita. Perciò siamo tenuti ad attaccarci a Lui solo, ad apprendere null’altro che Lui e a seguirlo senza interruzione».
Durante la persecuzione, il Padre viene tradito da un vile cristiano che sedotto dalla taglia posta sul missionario, rivela il suo nascondiglio.
Il Padre viene catturato a Tcha-yuen-keu, il 26 settembre 1839 e condotto a Kwang-Ytang, dove subisce un primo e lungo interrogatorio, accompagnato da crudeli torture. Trasferito il giorno seguente a Ku-gheng soffre altri interrogatori e torture, rinchiuso poi nelle malsane prigioni di Wuchang, dove rimane otto mesi tra atroci sevizie e sofferenze; in attesa che la sua condanna a morte, pronunciata contro di lui dal tribunale locale, sia ratificata dall’imperatore.

Martire
In quel triste periodo, P. Jean-Gabriel ha una certezza: “Non possiamo salvarci se non conformandoci a Gesù Cristo. Dopo la morte non ci sarà chiesto se saremo stati sapienti, se abbiamo occupato posti importanti, se ci siamo guadagnati la stima degli uomini, ma ci sarà chiesto se ci siamo applicati a conoscere e imitare Gesù Cristo. Se Dio non troverà in noi alcun tratto del Modello divino, saremo senz’altro respinti; ma se ci saremo conformati a questo Modello saremo glorificati: i santi in cielo non sono altro che immagini di Cristo glorificato come in terra lo furono di Cristo sofferente e dedito alle opere della sua missione”.
Lui, il missionario ardente, ormai vicino a essere sacrificato, dalla sua fanciullezza, aveva sempre fatto così: essere conforme a Gesù.
La ratifica dell’imperatore giunse al mattino dell’11 settembre 1840. A mezzogiorno, il P. Jean-Gabriel Perboyre, 38 anni di età, veniva crocifisso come Gesù e finito a colpi di spada. Tutto si era compiuto, proprio come lui aveva desiderato, quando ancora si preparava al sacerdozio: la vita e il sangue per Gesù.
Le sue spoglie mortali, deposte sulla “Montagna rossa”, il cimitero della città dove era stato giustiziato, poterono essere traslate in Francia nel 1860 e deposte nella Casa-madre della sua Congregazione. Papa Gregorio XVI sin dal 1843 aveva iniziato la sua causa di beatificazione. Il 10 novembre 1889, Leone XIII lo iscrisse tra i beati. Giovanni Paolo II lo iscrisse tra i santi.
In una sua conferenza spirituale, come leggiamo nella Liturgia delle Ore il giorno della sua festa, l’11 settembre, egli aveva detto, tutto cristocentrico, così com’era: “Teniamo sempre Gesù Cristo davanti agli occhi, cogliamo i suoi sentimenti intimi e appropriamoci delle sue virtù, del suo stile, della sua vita”.


Autore: Paolo Risso
OFFLINE
12/09/2014 08:23
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Sant' Ailbeo (Albeo) di Emly Vescovo

12 settembre

m. 528


Fondò il vescovato di Emly in Irlanda, essendo il principale evangelizzatore di questa regione. Il suo esempio e zelo apostolico condussero molti alla Fede.

Martirologio Romano: A Emly nel Munster in Irlanda, sant’Albeo, vescovo, che nel suo peregrinare predicò a molti il Vangelo.


E' commemorato in tutta l'Irlanda e la diocesi di Imlech (Emly) nella contea Tipperay lo ricorda come suo patrono, tuttavia le informazioni che abbiamo su di lui sono contraddittorie e confuse, e molte appartengono alla leggenda piuttosto che alla storia (ad esempio, un racconto delle sue origini ricorda molto la storia di Romolo e Remo).
Anche i resoconti della sua adesione al cristianesimo sono discordanti: in uno si afferma che fu istruito e battezzato da un sacerdote britannico che l'udì per caso porsi delle domande sulla bellezza del creato e sulla possibile esistenza di un creatore; in un altro si racconta che fu allevato e battezzato da alcuni membri di una colonia inglese in Irlanda. Si suppone sia stato consacrato vescovo durante una visita a Roma, anche se si dubita persino di questo.
Sembra invece certo che abbia predicato per tutta l'Irlanda e con una tale autorità che non solo molti si convertirono nominalmente al cristianesimo, ma furono anche ispirati dal suo esempio a vivere davvero da cristiani. Inoltre, si pensa che abbia scritto una regola monastica e fondato la sede di Imlech.
Secondo la sua leggenda, Ailbeo chiese a Oengus, re di Munster, di cedere le isole Aran a Sant'Enda (21 marzo). Il re non ne aveva mai sentito parlare, ma quando le vide in sogno fu felice di farlo. Per quanta verità ci sia in questo, il monastero fondato a Killeany (Cell Enda, chiesa di Sant'Enda) sull'Inis Mor fece guadagnare alle isole il titolo di Aran of the Saints (Aran dei santi). Sembra che l'ipotesi che Ailbeo abbia svolto la sua predicazione in Irlanda prima di San Patrizio (17 marzo) sia poco fondata. Questa e altre idee simili furono quasi certamente introdotte per indicare che Ailbeo fosse uguale, se non più grande, di Patrizio, ed è probabile che sia morto nel VI secolo.


Autore: Alban Butler
Nuova Discussione
Rispondi
POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 20:53. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com