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CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
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12/10/2015 08:25
 
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Santi Amelio e Amico Martiri

12 ottobre










Sono commemorati a Mortara (Pavia) dove i loro corpi furono sepolti. Appartengono, secondo gli Atti, al periodo carolingio; ma nella loro vicenda si riscontrano elementi più propri del ciclo bretone di avventura che del ciclo guerriero di Carlo Magno. Tali Atti sono favolosi e i Bollandisti rifiutarono di pubblicarli perché "in omnibus nihil videbit lector, quod factis historicis aliunde notis contrarium non sit". Tuttavia ecco quanto vi si narra. Al tempo di Pipino nacquero due bambini straordinariamente simili, uno "ex comite alvernensi", I'altro "ex quodam milite bericano". Mentre erano condotti a Roma per il battesimo, si incontrarono in Lucca, dove fecero amicizia e alleanza, e quindi andarono insieme a Roma a ricevervi il battesimo dal papa, che al figlio del conte impose il nome di Amelio, al figlio del soldato il nome di Amico. Come ricordo del battesimo ricevuto nel Laterano, ciascuno dei due ebbe in dono dal papa una coppa di legno, ornata d'oro e di pietre preziose; quindi ritornarono entrambi nella propria patria.

Dopo la morte del padre, Amico, a causa di insorte difficoltà ed inimicizie, fu costretto a lasciare la patria; partì allora con dieci servi, per recarsi presso Amelio, nella speranza di essere bene accolto, ma non lo trovò, perché anche questi si era messo in viaggio alla volta di Bericum, per visitare Amico. Dopo molte e varie avventure, Amico, afflitto per non essere riuscito nell'intento e colpito dalla lebbra, ritornò a Roma, dove fu accolto dal papa Costantino, ma dopo tre anni, essendo sopraggiunta una grande carestia, si fece riportare alla casa di Amelio, che, prima di vederlo, non sapendo che fosse l'antico compagno, gli fece apprestare il cibo nella coppa ricevuta dal papa: così si riconobbero.

Passarono intanto vari anni, finché i Longobardi, divenuti molto minacciosi, determinarono l'intervento di Carlo Magno contro Desiderio; riuscite vane le trattative, il re franco, superate le Chiuse di Susa, con il suo esercito nel quale militavano Amelio e Amico, vinse il re longobardo, e lo mise in fuga, fino al luogo, ora detto Mortarium per il gran numero dei morti in combattimento, prima chiamato Pulchrasilva per l'amenità del luogo. Amelio e Amico, i quali, benché soldati, esercitavano le virtù cristiane e conducevano vita di penitenza, morirono in quella battaglia, uniti così in vita e in morte (773). Desiderio si rifugiò in Pavia, presa poi da Carlo Magno il quale fece costruire una chiesa nel luogo della sua vittoria. Furono costruite poi anche altre due chiese: una in onore di S. Eusebio di Vercelli, I'altra in onore di S. Pietro; Amelio fu sepolto presso la chiesa di S. Pietro, Amico presso quella di S. Eusebio, in due arche fatte venire da Milano. Il giorno dopo, il sarcofago di Amelio si trovò vicino a quello di Amico: allora il vescovo Albino comandò che i corpi dei due santi fossero conservati insieme nella chiesa di S. Eusebio dove ancora si trovano.

Questo, per sommi capi, il contenuto della passio, la quale si conclude in modo molto interessante: volendo dare ai due personaggi la gloria del martirio, I'estensore della passio stessa considera Desiderio come un imperatore romano, persecutore dei cristiani, usando le stesse parole degli Atti dei Martiri: "Passi sunt sub Desiderio rege Langobardorum quarto Idus Octobris: regnante Domino nostro Iesu Christo: cui est honor et gloria in saecula saeculorum. Amen". La formula è perfettamente uguale a quella, per es., degli Acta Proconsularia di s. Cipriano: "Passus est autem beatissimus Cyprianus martyr... sub Valeriano et Gallieno imperatoribus: regnante vero domino nostro Iesu Christo cui est honor et gloria in saecula saeculorum. Amen".

Relativamente ai papi, di cui si fa cenno nella passio, non si può dire con certezza quale sia quello che abbia battezzato in Roma Amelio e Amico. sempre che la circostanza sia vera; I'altro, presso il quale si rifugiò Amico, cioè Costantino, non potrebbe essere se non l'antipapa di questo nome, ricordato tra il pontificato di s. Paolo I (757-767) e quello di Stefano IV (768-772).


Autore: Carlo Carletti

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13/10/2015 07:32
 
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Dalle «Istruzioni» di san Colombano, abate

(Istr. sulla compunzione, 12, 2-3;
Opera, Dublino 1957, pp. 112-114)
Luce perenne nel tempio del pontefice eterno

Quanto sono beati, quanto sono felici «quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli»! (Lc 12, 37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell'universo, che tutto riempie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmente della sua divina carità da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio, sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore! O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri.
Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo.
Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne.
Fa' che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio.
Nella visione dell'amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. Dégnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all'infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore» (Ct 8, 7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
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13/10/2015 07:34
 
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Beata Alessandrina Maria da Costa

13 ottobre


Balasar (Portogallo), 3 marzo 1904 - Balasar, 13 ottobre 1955

Laica portoghese, all'età di quattordici anni si gettò da una finestra per difendere la sua verginità. Riportò gravi danni, che un po' alla volta la resero completamente paralizzata. Abbracciò la sua croce e in vari modi partecipò alla passione di Gesù. Dal suo letto svolse un prezioso apostolato di preghiera e di consiglio a favore dei numerosi visitatori, attratti dalle sue virtù e carismi straordinari, che esercitò nella obbedienza alle autorità ecclesiastiche. Il decreto sulle sue virtù eroiche è stato emesso nel 1995.

Etimologia: Alessandrina = piccola protettrice degli uomini, dal greco


Martirologio Romano: Nel villaggio di Balasar vicino a Braga in Portogallo, beata Alessandrina Maria da Costa: rimasta paralizzata in tutto il corpo per sfuggire alle cattive intenzioni di un tale contro di lei, offrì tutti i suoi dolori al Signore per amore di Dio e dei fratelli bisognosi nella contemplazione dell’Eucaristia.







Alessandrina Maria da Costa nacque a Balasar, in provincia di Oporto e Arcidiocesi di Braga il 30 marzo 1904, e fu battezzata il 2 aprile seguente, sabato santo.Venne educata cristianamente dalla mamma, insieme alla sorella Deolinda. Alessandrina rimase in famiglia fino a sette anni, poi fu inviata a Pòvoa do Varzim in pensione presso la famiglia di un falegname, per poter frequentare la scuola elementare che a Balasar mancava. Qui fece la prima comunione nel 1911, e l’anno successivo ricevette il sacramento della Confermazione dal Vescovo di Oporto.
Dopo diciotto mesi tornò a Balasar e andò ad abitare con la mamma e la sorella nella località “Calvario”, dove resterà fino alla morte.
Cominciò a lavorare nei campi, avendo una costituzione robusta: teneva fronte agli uomini e guadagnava quanto loro. La sua fu una fanciullezza molto vivace: dotata di un temperamento felice e comunicativo, era molto amata dalle compagne. A dodici anni però si ammalò: una grave infezione (forse una febbre intestinale tifoidea) la portò ad un passo dalla morte. Superò il pericolo, ma il fisico resterà segnato per sempre da questo episodio.
Fu all’età di quattordici anni che avvenne un fatto decisivo per la sua vita. Era il sabato santo del 1918. Quel giorno lei, la sorella Deolinda e una ragazza apprendista erano intente nel loro lavoro di cucito, quando si accorsero che tre uomini tentavano di entrare nella loro stanza. Nonostante le porte fossero chiuse, i tre riuscirono a forzare le porte ed entrarono. Alessandrina, per salvare la sua purezza minacciata, non esitò a gettarsi dalla finestra, da un’altezza di quattro metri. Le conseguenze furono terribili, anche se non immediate. Infatti le varie visite mediche a cui fu sottoposta successivamente diagnosticarono con sempre maggiore chiarezza un fatto irreversibile.
Fino a diciannove anni poté ancora trascinarsi in chiesa, dove, tutta rattrappita, sostava volentieri, con grande meraviglia della gente. Poi la paralisi andò progredendo sempre di più, finché i dolori divennero orribili, le articolazioni persero i loro movimenti ed essa restò completamente paralizzata. Era il 14 aprile 1925, quando Alessandrina si mise a letto per non rialzarsi più, per i restanti trent’anni della sua vita.
Fino al 1928 essa non smise di chiedere al Signore, mediante l’intercessione della Madonna, la grazia della guarigione, promettendo che, se fosse guarita, sarebbe andata missionaria. Ma, appena capì che la sofferenza era la sua vocazione, l’abbracciò con prontezza. Diceva: “Nostra Signora mi ha fatto una grazia ancora maggiore. Prima la rassegnazione, poi la conformità completa alla volontà di Dio, ed infine il desiderio di soffrire”.
Risalgono a questo periodo i primi fenomeni mistici, quando Alessandrina iniziò una vita di grande unione con Gesù nei Tabernacoli, per mezzo di Maria Santissima. Un giorno in cui si trovava sola, le venne improvvisamente questo pensiero: “Gesù, tu sei prigioniero nel Tabernacolo ed io nel mio letto per la tua volontà. Ci faremo compagnia”. Da allora cominciò la prima missione: essere come la lampada del Tabernacolo. Passava le sue notti come pellegrinando di Tabernacolo in Tabernacolo. In ogni Messa si offriva all'Eterno Padre come vittima per i peccatori, insieme a Gesù e secondo le Sue intenzioni.
Cresceva in lei sempre più l’amore alla sofferenza, a mano a mano che la vocazione di vittima si faceva sentire in maniera più chiara. Emise il voto di fare sempre quello che fosse più perfetto.
Dal venerdì 3 ottobre 1938 al 24 marzo 1942, ossia per 182 volte, visse ogni venerdì le sofferenze della Passione. Alessandrina, superando lo stato abituale di paralisi, scendeva dal letto e con movimenti e gesti accompagnati da angosciosi dolori, riproduceva i diversi momenti della Via Crucis, per tre ore e mezzo.
“Amare, soffrire, riparare” fu il programma che le indicò il Signore. Dal 1934 - su invito del padre gesuita Mariano Pinho, che la diresse spiritualmente fino al 1941 - Alessandrina metteva per iscritto quanto volta per volta le diceva Gesù.
Nel 1936, per ordine di Gesù, essa chiese al Santo Padre, per mezzo del padre Pinho, la consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria. Questa supplica fu più volte rinnovata fino al 1941, per cui la Santa Sede interrogò tre volte l'Arcivescovo di Braga su Alessandrina. Il 31 ottobre 1942 Pio XII consacrò il mondo al Cuore Immacolato di Maria con un messaggio trasmesso a Fatima in lingua portoghese. Questo atto lo rinnovò a Roma nella Basilica di San Pietro l’8 dicembre dello stesso anno.
Dal 27 marzo 1942 in poi Alessandrina cessò di alimentarsi, vivendo solo di Eucaristia. Nel 1943 per quaranta giorni e quaranta notti furono strettamente controllati da valenti medici il digiuno assoluto e l'anuria, nell'ospedale della Foce del Duro presso Oporto.
Nel 1944 il nuovo direttore spirituale, il salesiano don Umberto Pasquale, incoraggiò Alessandrina, perché continuasse a dettare il suo diario, dopo aver constatato le altezze spirituali a cui era pervenuta; ciò che essa fece con spirito di obbedienza fino alla morte. Nello stesso anno 1944 Alessandrina si iscrisse all’Unione dei Cooperatori Salesiani. Volle collocare il suo diploma di Cooperatrice “in luogo da poterlo avere sempre sotto gli occhi”, per collaborare col suo dolore e con le sue preghiere alla salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Pregò e soffrì per la santificazione dei Cooperatori di tutto il mondo.
Nonostante le sue sofferenze, ella continuava inoltre ad interessarsi ed ingegnarsi a favore dei poveri, del bene spirituale dei parrocchiani e di molte altre persone che a lei ricorrevano. Promosse tridui, quarant'ore e quaresimali nella sua parrocchia.
Specialmente negli ultimi anni di vita, molte persone accorrevano a lei anche da lontano, attratte dalla fama di santità; e parecchie attribuivano ai suoi consigli la loro conversione.
Nel 1950 Alessandrina festeggia il XXV della sua immobilità. Il 7 gennaio 1955 le viene preannunciato che quello sarebbe stato l’anno della sua morte. Il 12 ottobre volle ricevere l’unzione degli infermi. Il 13 ottobre, anniversario dell’ultima apparizione della Madonna a Fatima, la si sentì esclamare: “Sono felice, perché vado in cielo”. Alle 19,30 spirò.
Sulla sua tomba si leggono queste parole da lei volute: “Peccatori, se le ceneri del mio corpo possono essere utili per salvarvi, avvicinatevi, passatevi sopra, calpestatele fino a che spariscano. Ma non peccate più; non offendete più il nostro Gesù!”. E’ la sintesi della sua vita spesa esclusivamente per salvare le anime.
A Oporto nel pomeriggio del giorno 15 ottobre i fiorai rimasero privi di rose bianche: tutte vendute. Un omaggio floreale ad Alessandrina, che era stata la rosa bianca di Gesù

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14/10/2015 05:27
 
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Santa Angadrisma Badessa

14 ottobre


† 695 circa

Angadrisma visse nel VII secolo nella diocesi di Thérouanne, nella Francia settentrionale. La sua educazione subì il positivo influsso del vescovo, sant'Omero, e del cugino, san Lamberto di Lione, in quel periodo monaco a Fontanelle. Per seguire la vocazione alla vita religiosa, dovette contrastare l'opposizione del padre, che l'aveva promessa in sposa ad un giovane signore, il futuro vescovo di Rouen, sant'Ansberto. Si ammalò di lebbra e fu libera così di ricevere l'abito religioso. Lo stesso giorno la malattia scomparve miracolosamente. La sua vita monacale fu esemplare. Divenne badessa di un convento nei pressi di Beauvais. Parecchi miracoli furono attribuiti alla sua intercessione quando era ancora in vita, tra i quali l'estinzione di un incendio che minacciava il monastero, contrastandolo con l'esposizione delle reliquie del fondatore, sant'Ebrulfo. Angadrisma morì più che ottantenne nel 695 circa. Invocata subito come santa, fu annoverata tra i patroni di Beauvais e invocata contro gli incendi, la siccità e le calamità. (Avvenire)

Martirologio Romano: Presso Beauvais in Neustria, ora in Francia, santa Angadrisma, badessa del monastero fondato da sant’Ebrolfo e chiamato l’Oratorio, perché aveva più luoghi di preghiera, in cui ella senza sosta serviva il Signore.







Santa Angadrisma visse nel VII secolo nella diocesi di Thérouanne, nella Francia settentrionale. La sua educazione subì il positivo influsso del vescovo Sant’Omero e del cugino San Lamberto di Lione, in quel periodo monaco a Fontanelle. Da essi sostenuta nella vocazione alla vita religiosa, dovette però contrastare l’opposizione di suo padre, che l’aveva promessa in sposa ad un giovane signore, il futuro vescovo di Rouen Sant’Ansberto.
Onde evitare le indesiderate nozze, Angadrisma pregò di poter divenire fisicamente meno attraente, ma la sua preghiera ebbe efetti persino esagerati e si ammalò di lebbra. Ciò le permise almeno di essere libera di ricevere l’abito religioso per mano di Sant’Audoeno. Ma da quel giorno la malattia scomparve miracolosamente di colpo.
La sua vita monacale fu a dir poco esemplare ed in seguito divenne badessa di un convento nei pressi di Beauvais. Parecchi miracoli furono attribuiti alla sua intercessione quando era ancora in vita, tra i quali l’estinzione di un incendio che minacciava il monastero contrastandolo cn l’esposizione delle reliquie del fondatore, Sant’Ebrulfo.
Angadrisma morì più che ottantenne nel 695 circa. Invocata subito come santa, fu annoverata tra i patroni di Beauvais ed invocata contro gli incendi, la siccità e le pubbliche calamità. Ripetutamente traslate a causa della distruzione del convento e poi della Rivoluzione Francese, le sue reliquie riposano oggi nella cattedrale.


Autore: Fabio Arduino

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15/10/2015 07:21
 
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Beata Aurelia di Ratisbona Reclusa

15 ottobre


† Ratisbona, Gemania, 15 ottobre 1027







Secondo la leggenda raccolta da M. Rader (Bavaria Sancta, II, Ingolstadt 1581, p. 166), Aurelia, figlia di Ugo Capeto, per non sposarsi con un nobile al quale era stata promessa, abbandonò la casa paterna e fuggì a Ratisbona, dove l'abate di S. Emmerano le diede il permesso di dimorare nel monastero di S. Andrea. In esso Aurelia visse circa cinquant'anni e morì nel 1027. Il 15 ott., anniversario della sua morte, i monaci di S. Emmerano accendevano davanti alla sua immagine dei ceri : il che, forse, le valse il titolo di beata o di santa. Sembra che la leggenda abbia avuto origine da un'iscrizione sepolcrale romana pagana. Il sepolcro odierno, recante la figura della beata, è opera artistica del sec. XIV. Questa Aurelia non va confusa con l'Aurelia venerata a Strasburgo (Argentoratum o Argentina) e a Bregenz (Bri-gantium). Di Aurelia, che non ebbe mai culto pubblico, si fa memoria nei martirologi benedettini al 15 ottobre.


Autore: Alfonso M. Zimmermann

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16/10/2015 08:04
 
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Beato Agostino Thevarparampil (Kunjachan) Sacerdote

16 ottobre


Ramapuran (Kerala), India, 1 aprile 1891 – 16 ottobre 1973

L’indiano Augustine Thevarparampil (chiamato dal popolo "Kunjachan", ossia "piccolo prete" per la sua statura), sacerdote della diocesi di rito Siro-Malabarese di Palai, in Kerala (1891-1973). Consacrò la sua vita alla promozione umana e cristiana dei cosiddetti "intoccabili", cioè coloro che vivevano ai margini della società, in condizioni di estrema povertà.

Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino








A causa della sua bassa statura, veniva chiamato popolarmente “Kunjachan”, che nella lingua maiayalain dell’India, significa “piccolo prete”.
Agostino Thevarparampil nacque il 1° aprile 1891 a Ramapuran, diocesi di Palai nello Stato del Kerala in India, evidentemente in una famiglia cristiana; una volta terminati gli studi scolastici nel suo paese, entrò nel seminario di Palai, dove completò la sua preparazione morale e di studio, venendo ordinato sacerdote il 17 dicembre 1921, quindi a 30 anni, dal vescovo Mar Tommasi Kurialacherry, anch’egli futuro Servo di Dio.
Due anni dopo, nel febbraio 1923, fu mandato come vice parroco nella parrocchia di S. Sebastiano a Kadanad, ma una improvvisa e grave malattia, lo costrinse a lasciare l’incarico e a ritornare a Ramapuran.
Durante la sua lunga convalescenza, poté conoscere un’altra realtà sociale dell’India e per lui un nuovo campo di azione, che fino a quel momento era trascurato da tutti e cioè, la miserabile situazione di vita dei cosiddetti ‘intoccabili’, ossia gli appartenenti alle classi più basse della società indiana, da noi conosciuti come ‘paria’, cioè non appartenenti a nessuna casta.
Già Gandhi (1869-1948) per primo prese a chiamarli ‘Harijan’, cioè ‘popolo di Dio’, oggi sono chiamati ‘Dalit’. Per secoli tutte queste persone, erano considerate “inavvicinabili” o “intoccabili” e vivevano sui terreni che appartenevano ai membri delle classi superiori, dei quali erano braccianti e forza di lavoro, naturalmente con compenso minimo e senza tutele di nessun genere.
Apro una parentesi, ricordando che questa realtà indiana era ed è così vasta e radicata, che costituì il campo di lavoro, della più conosciuta, beata Madre Teresa di Calcutta.
Ritornando a padre Agostino Thevarparampil, egli allora decise di donarsi totalmente per migliorare la loro vita e anche per la loro evangelizzazione. Ma ben presto si accorse che il compito era difficile, perché si trattava di condurre alla fede cristiana e alla fiducia in loro stessi, gente impregnata di credenze e pratiche superstiziose; ma padre Agostino di carattere umile e semplice, si rimboccò le maniche e si pose al loro servizio con carità, privilegiando i più poveri e deboli.
Già alle quattro del mattino, dopo la celebrazione della Messa nella sua parrocchia di S. Agostino, accompagnato da un catechista, andava a visitare le loro capanne, anche oltre il territorio della sua parrocchia, chiamandoli ‘figli miei’, ascoltava, confortava, cercava di riappacificarli nelle discordie e curava i numerosi malati.
Non sempre era accolto con gioia, dato i pregiudizi; a volte si nascondevano per non farsi trovare, ma padre Agostino non desisteva dalla sua missione, senza scoraggiarsi. Conosceva il nome di ciascuno ed essi gioivano nel sentirsi chiamare per nome, grande amico dei bambini, amava molto stare in loro compagnia; la sua bassa statura gli permetteva di entrare e uscire dalle loro misere capanne senza difficoltà.
Trovava la forza di affrontare questi numerosi e faticosi spostamenti, nella preghiera, infatti pregava continuamente anche durante i suoi spostamenti da un villaggio all’altro. Il suo perseverare discreto e rispettoso delle loro credenze, diede comunque i suoi frutti, vincendo la loro diffidenza e poté battezzare personalmente quasi seimila persone.
La sua lunga opera missionaria, in un periodo di grande povertà per quell’immenso Paese, precorritrice di altre opere e di altre figure missionarie, gli meritò il nome di “Apostolo degli Intoccabili”, Kunjachan visse fino agli 82 anni, dopo 52 anni di sacerdozio e di vita missionaria come prete diocesano; morì il 16 ottobre 1973; fu sepolto nella sua chiesa parrocchiale di Ramapuran, davanti all’altare di S. Agostino, diventando meta di pellegrinaggi.
E' stato beatificato il 30 aprile 2006.

Autore: Antonio Borrelli






Non sempre l’essere piccoli di statura rappresenta un grosso handicap: lo potrebbe testimoniare don Agostino Thevarparampil, che tutti chiamavano “kunjachan”, cioè piccolo prete, ma che proprio grazie alla sua statura bassa non faticava per niente ad entrare nelle basse capanne dei suoi parrocchiani, e quando giocava con i bambini si sentiva perfettamente alla loro altezza. Nasce in India, in una famiglia cristiana, il 1° aprile 1891 e viene ordinato sacerdote a 30 anni, il che fa pensare ad una vocazione tardiva oppure a qualche difficoltà nello studio. Perché lui è un po’ il Curato d’Ars dell’India: non eccessivamente colto, semplice, umile, ma dal cuore talmente grande da affascinare chiunque. Per 47 anni è soltanto un “curato di campagna” e almeno 40 di questi sono dedicati interamente ai poveri del villaggio, gli “intoccabili”, i “paria”, quanti cioè non appartengono a nessuna casta. E pensare che è piuttosto malaticcio e mai nessuno avrebbe scommesso su una simile resistenza fisica ed una tale costanza. Scopre gli “inavvicinabili” per caso, durante una lunga convalescenza, due anni dopo l’ordinazione e ad essi dedica tutto il suo ministero, combattendo contro l’ignoranza, i pregiudizi, l’analfabetismo. E anche contro le dure critiche dei cristiani “per bene”, che non riescono a capire che cosa spinga quel povero prete verso quei disgraziati. La sua giornata inizia invariabilmente alle quattro del mattino, dopo la messa celebrata in parrocchia nel cuore della notte. Accompagnato soltanto da un catechista, va a cercare i suoi “paria” ad uno ad uno, capanna per capanna, mentre questi ancora tentano di sfuggirgli, pieni anch’essi di pregiudizi e di superstizioni, schiacciati da una discriminazione che li ha spinti ai margini della società. Per vincere la diffidenza e farsi aprire la porta e il cuore li chiama ciascuno per nome e l’effetto è quasi immediato su quella povera gente, abituata a non essere neppure nominata. Insieme all’annuncio del vangelo porta un messaggio di speranza e di emancipazione. Tiene un diario spirituale, in cui annota informazioni dettagliate su questi suoi parrocchiani “speciali”, con l’indicazione di nascite, matrimoni, decessi: una specie di anagrafe di cui i paria per la società non avrebbero avuto diritto. Se don Agostino, come si calcola, ha avvicinato a Dio e alla Chiesa più di cinquemila persone, ben più numerosi sono i “paria”, oggi chiamati “Dalit”, ad aver ricevuto da lui una spinta ad uscire dalla schiavitù in cui erano stati confinati dalle classi sociali più elevate. Perché sulla strada tracciata da don Agostino si sono incamminati altri tra cui, più famosa di tutti, Madre Teresa di Calcutta. Per lui, però, nessun riconoscimento, nessun particolare onore. Quando muore a 82 anni, il 16 ottobre 1973, sfiancato dal suo pellegrinare porta a porta e dalle lunghe ore in confessionale, è conosciuto nel raggio di qualche chilometro. Oggi invece alla sua tomba si accorre da tutta l’India, il suo villaggio si è trasformato in un centro fiorente e prosperoso e 60 mila persone hanno assistito alla sua beatificazione, celebrata lo scorso 30 aprile proprio nella sua parrocchia.

Autore: Gianpiero Pettiti

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17/10/2015 08:55
 
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Beato Baldassarre Ravaschieri da Chiavari Sacerdote francescano

17 ottobre


Chiavari, Genova, 1419 - Binasco, Milano, 17 ottobre 1492



Nato dalla nobile famiglia Ravaschieri, vestì l'abito francescano entrando nei Minori Osservanti della città e divenne dottore in teologia e sacerdote. In seguito occupò la carica di guardiano di Chiavari, poi di provinciale di Genova. Si dedicò alla predicazione, ma la gotta lo costrinse a ritirarsi nel convento di Binasco, tra Milano e Pavia, e a restarvi confinato. Tuttavia, sebbene portato a braccia dai confratelli, poteva assistere alla Messa, prender parte alla recita dell'Ufficio e soprattutto ascoltare le confessioni dei fedeli, attirati dalla fama della sua santità. Fu legato da amicizia con Bernardino da Feltre. Si racconta che una notte d'inverno, essendo rimasto nel bosco, la neve, scesa in abbondanza, lasciasse intatto il punto dove egli sedeva. Morì il 17 ottobre 1492 e fu sepolto in un'arca di marmo. Il suo culto fu approvato da Pio XI l'8 gennaio 1930.

Patronato: Malati di gotta


Etimologia: Baldassarre = Dio protegge la sua vita


Martirologio Romano: A Binasco in Lombardia, beato Baldassarre da Chiavari Ravaschieri, sacerdote dell’Ordine dei Minori.








Baldassarre Ravaschieri nacque a Chiavari nel 1419, da nobile famiglia genovese. Entrò nell'ordine francescano dei Minori Osservanti, fece la professione e venne ordinato sacerdote, laureandosi successivamente in teologia. Nel convento di Chiavari assunse il compito di guardiano e in seguito fu nominato responsabile di tutta la Provincia di Genova. Nel pieno del suo fecondo apostolato, venne colpito dalla gotta e la malattia lo debilitò a tal punto che progressivamente non poté più muoversi. Decise allora di ritirarsi nel convento di Binasco, piccolo centro tra Milano e Pavia. Veniva portato in chiesa per poter assistere alla Messa e recitare con i confratelli l’Ufficio. Il suo ministero però non divenne per questo meno fruttuoso. Fu un apostolo del confessionale, molti penitenti divennero suoi figli spirituali. Il beato Baldassarre, per trovare un po’ di quiete, si faceva portare, di tanto in tanto, nel vicino bosco, dove poteva pregare in solitudine. Un giorno gli apparve la Vergine Santissima.
Padre Ravaschieri era molto stimato. Amico del beato Bernardino da Feltre, lo aiutò, come poteva, nelle sue fatiche apostoliche. Fu confessore e consigliere spirituale della beata Veronica da Binasco, la mistica umile e analfabeta, che leggeva nei cuori e nelle coscienze. Fu amico di Giovanni Antonio Amadeo, insigne scultore, ingegnere e architetto.
Padre Baldassarre morì a Binasco il 17 ottobre 1492. Il culto, costante nei secoli, venne approvato da papa Pio XI nel 1930. Le sue reliquie furono portare a Pavia nel 1805, a causa delle leggi di soppressione degli ordini religiosi, e poi trasferite nella chiesa parrocchiale di Baselica Bologna, frazione di Giussago.
Nella diocesi di Pavia la sua memoria si celebra il 16 ottobre.

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18/10/2015 04:42
 
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Sant' Amabile di Rium

18 ottobre




Martirologio Romano: A Riom in Aquitania, ora in Francia, sant’Amabile, sacerdote.








San Gregorio di Tours (De gloria confessorum, in Migne, LXXI, coll. 852-53) ci informa che «fuit etiam in supradicta Arverna urbe admirabilis sanctitatis Amabius quidam, vici Ricomagensis presbiter, qui virtutibus magnis praecellens, saepe serpentibus dicitur imperasse». Narra poi alcuni miracoli operati da Amabile, da uno dei quali si ricava che egli visse prima del 485. Oltre che a Riom, di cui fu tra i primi pastori, la sua festa fu celebrata l'11 giugno o il 18 o 19 ottobre in tutta la diocesi di Clermont-Ferrand e, fuori di questa, a Ulzio, nella valle di Susa. Il suo corpo, in un anno non determinabile, dopo il sec. X, fu trasportato da Clermont a Riom, dove si trova ancora oggi.


Autore: Pietro Burchi

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19/10/2015 08:32
 
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Santa Laura di Cordova Martire

19 ottobre


Sec. IX



Sarebbe stata una monaca del monastero di Santa Maria di Cuteclara, vicino Cordova in Spagna, di cui nell'856 divenne badessa. Nel «Martyrologium hispanicum» si narra che durante l'occupazione musulmana rifiutò di abiurare la propria fede cristiana: condotta davanti ad un giudice islamico, fu processata e condannata a morire in un bagno di pece bollente. Dopo tre ore di atroci dolori, diede la sua anima a Dio. Era l'anno 864. A dispetto delle scarne notizie che si sanno, il culto per la martire Laura ebbe grande espansione e il suo nome è molto diffuso in tutta Europa. Molti studiosi fanno derivare Laura dal latino «laurus», cioè alloro, pianta sacra ad Apollo e simbolo di sapienza e gloria. Ai tempi dei romani comunque era più facile trovare Laurentia che Laura. Il significato lo si fa risalire al serto di alloro con cui venivano incoronati i vincitori di varie gare. Nei secoli successivi, con il serto sulla testa, si sono raffigurati i poeti e i sapienti. Ancora oggi chi completa il ciclo di studi è detto «laureato». (Avvenire)

Etimologia: Laura = alloro, dal latino. Derivati e diminutivi: Laurina, Loretta, Orietta, Lo


Emblema: Palma









Santa Laura sarebbe stata una monaca del monastero di S. Maria di Cuteclara, nei pressi di Cordova in Spagna, di cui nell’856 divenne badessa succedendo a s. Aurea..
Nel “Martyrologium hispanicum” si narra, con poca certezza, che durante l’occupazione musulmana rifiutò di abiurare la propria fede cristiana; condotta davanti ad un giudice islamico, fu processata e condannata a morire in un bagno di pece bollente, dove diede la sua anima a Dio dopo tre ore di atroci dolori, era l’anno 864.
A dispetto delle scarne notizie che si sanno, il culto per la martire Laura ebbe grande espansione e il suo nome è molto diffuso in tutta Europa.
Molti studiosi fanno derivare Laura dal latino ‘laurus’, alloro, pianta sacra ad Apollo e simbolo di sapienza e gloria. Ai tempi dei romani comunque era più facile trovare Laurentia che Laura; il significato lo si fa risalire al serto di alloro con cui venivano incoronati i vincitori di varie gare; nei secoli successivi, con il serto sulla testa, si sono raffigurati i poeti ed i sapienti, del resto ancora oggi chi completa il ciclo degli studi è detto laureato.


Autore: Antonio Borrelli

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20/10/2015 08:21
 
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Sant' Adelina di Mortain Badessa

20 ottobre




Etimologia: Adelina (come Adele ed Adelaide) = figlia nobile, dall'antico tedesco


Martirologio Romano: A Savigny in Normandia, santa Adelina, prima badessa del monastero di Mortain, da lei fondato con l’aiuto di suo fratello san Vitale.








Sorella del beato Vitale, abate di Savigny (Manche), e da lui avviata alla vita religiosa, Adelina fu la prima badessa del monastero fondato a Mortain nel 1105 o 1115 dal conte Guglielmo di Mortain. In esso si seguiva la Regola di san Benedetto, con l'aggiunta di osservanze cistercensi. Per il colore del loro abito le religiose erano chiamate le «Dame Bianche» (Albae Dominae). Adelina morì verso il 1125. Cominciò ad essere onorata come beata in occasione di una solenne traslazione dei suoi resti, di quelli di suo fratello Vitale e di altri religiosi di Savigny. È commemorata il 20 ottobre.


Autore: Philippe Rouillard

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21/10/2015 08:12
 
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Sant' Agatone d'Egitto Eremita

21 ottobre


Sec. IV

Etimologia: Agatone = buono, dal greco








Santi Ilarione e Agatone

Ilarione e Agatone furono ambedue solitari nel IV secolo, in Egitto: monaci cioè che, dietro l'esempio di Sant'Antonio Abate, si ritirarono nel deserto della Tebaide, conducendovi vita di isolamento e di rigore.
Nel ricordo che di loro ci è pervenuto, appaiono ambedue pieni di saggezza, di pazienza e di devozione. Da giovani, gravi e dignitosi come vecchi; da vecchi, freschi e lieti come giovani .Sempre umili e sereni, fecero guerra sempre e soltanto alle tentazioni, sia da giovani che da vecchi, e al demonio, che abita anch'esso i luoghi deserti.
Su Sant'Ilarione, esiste uno scritto di San Girolamo, nel quale si trovano episodi di freschissima suggestione. I ladroni del deserto, per esempio, si presentano un giorno a lui. Ilarione li accoglie senza timore. " Che cosa diresti se i briganti ti assalissero? ", gli chiedono. " Quando non si possiede nulla - risponde, -i briganti non fanno paura ". " E non avresti paura di essere ucciso? ". " lo paura? Io paura? No davvero, poiché anche senza di essi dovrò morire ".
Giunto a più di ottant'anni, ecco Ilarione dire alla propria anima: " Esci dunque dal corpo: che cosa temi? Esci, anima mia, perché esiti? Sono quasi sessant'anni che servi Cristo, e hai paura di morire? ".
Ad Agatone, che in greco vuol dire " ottimo ", sono attribuiti detti spirituali e morali bellissimi. " Con il lavoro - egli asseriva - si provvede alla nostra salute e si fa guerra al demonio ".
" Siate - insegnava poi - come una colonna di pietra, che non monta in collera quando viene maltrattata, ma che neanche diventa più alta quando viene lodata ".
La Leggenda Aurea narra poi altri esempi della vita virtuosa di questi eremiti. Ne basterà uno per farsi un'idea dell'incantevole clima spirituale del loro mondo.
" Una volta - si legge - disse l'uno all'altro: - Abbiamo briga insieme, come hanno gli uomini del mondo? - Rispuose l'altro: - Io non so come la briga nasce. - Disse quel frate: - Poni fra te e me uno mattoncello; e io dirò: Mio è. Tu dirai: "Anzi è mio". E quindi nascerà la briga.
" Sì che fu posto il mattone in mezzo, e disse l'uno: - Egli è mio. - Disse l'altro: - No, anzi è mio. - Rispuose il primo: - Ed elli sia tuo; tollilo, e va' con Dio. - Partirono insieme, e non poterono contendere ".
Uomini pacifici, giusti, mansueti, sullo sfondo dei deserto. Uomini irsuti e barbuti di fuori, come fiere; ma di dentro, teneri e delicati più che bambini.





Fonte:

Archivio Parrocchia


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22/10/2015 08:17
 
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San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) Papa

22 ottobre - Memoria Facoltativa


Wadowice, Cracovia, 18 maggio 1920 - Vaticano, 2 aprile 2005



(Papa dal 22/10/1978 al 02/04/2005 ).
Nato a Wadovice, in Polonia, è il primo papa slavo e il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano VI. Nel suo discorso di apertura del pontificato ha ribadito di voler portare avanti l'eredità del Concilio Vaticano II. Il 13 maggio 1981, in Piazza San Pietro, anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima, fu ferito gravemente con un colpo di pistola dal turco Alì Agca. Al centro del suo annuncio il Vangelo, senza sconti. Molto importanti sono le sue encicliche, tra le quali sono da ricordare la "Redemptor hominis", la "Dives in misericordia", la "Laborem exercens", la "Veritatis splendor" e l'"Evangelium vitae". Dialogo interreligioso ed ecumenico, difesa della pace, e della dignità dell'uomo sono impegni quotidiani del suo ministero apostolico e pastorale. Dai suoi numerosi viaggi nei cinque continenti emerge la sua passione per il Vangelo e per la libertà dei popoli. Ovunque messaggi, liturgie imponenti, gesti indimenticabili: dall'incontro di Assisi con i leader religiosi di tutto il mondo alla preghiere al Muro del pianto di Gerusalemme. Così Karol Wojtyla traghetta l'umanità nel terzo millennio. La sua beatificazione ha luogo a Roma il 1° maggio 2011.








Karol Józef Wojtyła, eletto Papa il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Cracovia, il 18 maggio 1920.

Era il secondo dei due figli di Karol Wojtyła e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941.

A nove anni ricevette la Prima Comunione e a diciotto anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.

Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.

A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del "Teatro Rapsodico", anch’esso clandestino.

Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale a Cracovia il 1 novembre 1946. Successivamente, fu inviato dal Cardinale Sapieha a Roma, dove conseguì il dottorato in teologia (1948), con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce. In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.

Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino una tesi sulla possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.

Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.

Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Paolo VI che lo creò Cardinale il 26 giugno 1967.

Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-65) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.

Viene eletto Papa il 16 ottobre 1978 e il 22 ottobre segue l'inizio solenne del Suo ministero di Pastore Universaledella Chiesa.

Dall’inizio del suo Pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha compiuto 146 visite pastorali in Italia e, come Vescovo di Roma, ha visitato 317 delle attuali 332 parrocchie romane. I viaggi apostolici nel mondo - espressione della costante sollecitudine pastorale del Successore di Pietro per tutte le Chiese - sono stati 104.

Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Encicliche, 15 Esorta-zioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche. A Papa Giovanni Paolo II si ascrivono anche 5 libri: "Varcare la soglia della speranza" (ottobre 1994); "Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio" (novembre 1996); "Trittico romano", meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); "Alzatevi, andiamo!" (maggio 2004) e "Memoria e Identità" (febbraio 2005).

Papa Giovanni Paolo II ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione - nelle quali ha proclamato 1338 beati - e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha tenuto 9 concistori, in cui ha creato 231 (+ 1 in pectore) Cardinali. Ha presieduto anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.

Dal 1978 ha convocato 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).

Nessun Papa ha incontrato tante persone come Giovanni Paolo II: alle Udienze Generali del mercoledì (oltre 1160) hanno partecipato più di 17 milioni e 600mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo; numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.

Muore a Roma, nel suo alloggio nella Città del Vaticano, alle ore 21.37 di sabato 2 aprile 2005. I solenni funerali in Piazza San Pietro e la sepoltura nelle Grotte Vaticane seguono l'8 aprile.

La festa liturgica è iscritta nel Calendario Romano generale al 22 ottobre, con il grado di memoria facoltativa

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23/10/2015 07:32
 
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Sant' Allucio di Campugliano in Valdinievole Confessore

23 ottobre


m. 1134

Patronato: Pescia (PT)


Etimologia: Allucio = nutrito di luce, antico nome medioevale


Martirologio Romano: A Campugliano in Valdinievole in Toscana, sant’Allucio, che, vero uomo di pace, protesse i poveri e i pellegrini e liberò i prigionieri.








Poche zone della Toscana possono vantare l'amabilità alacre e la riposante bellezza della Val di Nievole, tra Montecatini e Lucca, e poche città possono assommare, come Pescia, centro della Val di Nievole, ricordi storici e operosità pratica, bellezze naturali e artistiche e sapiente fervore di vita e opere civili.
Sant'Allucio è il Santo di Pescia, e le sue reliquie sono accolte nella bella cattedrale della città. Ed è un Santo che ben incarna le caratteristiche di una terra e di un popolo, perché fu strenuo senza essere rigido; ascetico senza essere astratto; votato alla contemplazione, ma anche pronto all'azione; di profonda pietà, ma anche di ardente carità.
Egli era nato, nell'XI secolo, a Campugliano, in Val di Nievole, da famiglia contadina. Ragazzo, custodiva gli armenti, quando si fece notare per insoliti episodi che testimoniavano la sua non comune tempra spirituale.
Cresciuto d'anni, venne affidato alla sua operosa pietà l'ospizio di Campugliano, praticamente in rovina. Allucio lo riportò ad un'ammirabile efficienza di bene, aiutato da alcuni compagni ricchi come lui di zelo di carità, detti poi Fratelli di Sant'Allucio.
Per assistere meglio i poveri e i bisognosi, il giovane Allucio fondò un altro ospizio sul Monte Albano. Un terzo lo creò presso la riva dell'Arno, sul quale costruì addirittura un ponte, per comodità dei pellegrini. Quest'ultima non fu impresa facile, non soltanto per i problemi tecnici ma perché Sant'Allucio dovette convincere e ammansire il traghettatore locale, che traeva lauti guadagni facendo passare i viaggiatori da una sponda all'altra.
1 miracoli, a detta della tradizione, si moltiplicarono numerosissimi intorno al benefattore dei poveri. Per questo gli furono demandate, in città lontane, vere e proprie missioni diplomatiche, che Allucio svolse con successo, riuscendo a pacificare tra loro, per esempio, le due città rivali di Ravenna e di Faenza.
Tra gli interventi miracolosi tramandati dalla devozione, il più insolito fu quello dell'uomo al quale erano stati cavati gli occhi, come punizione per qualche delitto commesso, secondo la cosiddetta " legge del taglione ", comune nel Medioevo. Non per dispregio della giustizia, ma per pietà dell'accecato, anche se colpevole, Sant'Allucio avrebbe rimesso al loro posto gli occhi nelle cave orbite del condannato, restituendogli la vista.
Quanto era attivo nel fare il bene, altrettanto era severo con se stesso, Non mangiava mai carne, né formaggio, né uova. Digiunava tre volte alla settimana. E per sette Quaresime consecutive non toccò cibo affatto.
Morì nel 1134, sereno e attivo fino all'ultimo istante. Immediatamente venne fatto oggetto di un vivace culto popolare.
Soltanto nel '700, però, il suo culto venne autorizzato ufficialmente dalla Chiesa, e pochi anni dopo le reliquie di Sant'Allucio trovavano degna accoglienza nella cattedrale di Pescia, la città di cui l'antico Santo penitente e benefattore sembrava fatto su misura.

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24/10/2015 08:44
 
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Santi Areta e Ruma, sposi, e 340 compagni Martiri di Nagran

24 ottobre


† Nagran, Arabia, VI secolo

Martirologio Romano: A Nagran in Arabia, passione dei santi Áreta, principe della città, e trecentoquaranta compagni, martiri al tempo dell’imperatore Giustino, sotto Du Nuwas o Dun‘an re d’Arabia.







Nei primi anni del VI secolo gli etiopi, partendo da Axum, capitale religiosa e politica dell’Etiopia, attraversarono il Mar Rosso per imporre il loro dominio sugli ebrei e sugli arabi che abitavano il territorio pressoché corrispondente all’attuale Yemen.
Un giorno Dunaan, membro della despota famiglia dominante, precedentemente convertito al giudaismo, si pose a guida della rivolta contro gli invasori etiopi che avevano voluto diffondere nelle terre conquistate anche la religione cristiana: preso possesso della città di Zafar, ne massacrò la guarnigione ed il clero.
Trasformata una chiesa in una sinagoga, cinse allora d’assedio la città di Nagran, una tra le principali roccheforti cristiane di quel paese. Gli fu opposta una fiera resistenza e Dunaan ebbe la meglio soltanto quando promise un’amnistia agli abitanti qualora si fossero arresi. Lasciò che i suoi soldati saccheggiassero tutta la città e condanno a morte tutti quei cristiani che avessero preferito non abbandonare la loro fede.
Il capo della resistenza fu un certo Banu Harith, citato quale Areta dai testi greco-latini, che il Martyrologium Romanum vuole principe della città di Nagran: egli fu decapitato insieme ai membri delle tribù che lo avevano sostenuto, mentre molti sacerdoti, diaconi e vergini consacrate furono arsi vivi. Dunaan tentò di adescare la moglie di Areta come sua concubina, ma incapando in un suo netto rifiuto, si vendicò giustiziando dinnanzi i suoi occhi le quattro figlie e poi decapitando anche lei stessa. Il martirologio cattolico fissa nel numero 340 la quantità di cristiani che patirono il martirio in tali circostanze con Areta, ma altre fonti asseriscono che possano essere stati anche più di quattromila. Tutto ciò avvenne al tempo dell’imperatore Giustino e sotto Dhu Nuwas (o Dun’an), re degli Omeritani.
Dunaan stesso stilò un dettagliato resoconto dell’accaduto in una lettera ad un altro re arabo. Alla lettura erano presenti anche due vescovi cristiani, le cui testimonianze unite a quelle di alcuni profughi di Nagran contribuirono a diffondere in tutto il Medio Oriente la notizia del tragico massacro e la venerazione per i santi martiri. Per molto tempo risuonò ancora l’eco di questa vicenda ed addirittura Maometto fece menzione del massacro nella Sura 85 del Corano, condannando i colpevoli all’inferno. Il patriarca di Alessandria d’Egitto scrisse ai vescovi orientali raccomandandosi che le vittime fossero da tutte le Chiese commemorate come martiri cristiani.
La singolare vicenda di questa famiglia di martiri, Areta ed i suoi congiunti, nonché di tutti gli altri compagni di martirio, nel XVI secolo a giudizio del cardinale Baronio meritò di essere citata anche nel Martirologio Romano al 24 ottobre, soprassedendo al fatto che tutti costoro fossero assai probabilmente seguaci dell’eresia monofisita. Dunque il Baronio riconobbe indirettamente come la palma del martirio superasse la macchia dell’eresia, a meno che la sua conoscenza alquanto sommaria delle Chiese d’Oriente non gli abbia fatto neppure sfiorare il dubbio dell’ortodossia dottrinale della Chiesa etiope.


Autore: Fabio Arduino

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25/10/2015 07:48
 
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Beato Bernardino Otranto Religioso

25 ottobre


Cropalati, Cosenza, 1430 - Napoli, 25 ottobre 1520



Frate dell’Ordine dei Minimi di San Francesco da Paola.
Nato a Cropalati, paese sul versante jonico della presila greca. Nonostante la ferma contrarietà della sua famiglia e l'intervento dei suoi fratelli, che ripetutamente lo ricondussero alla casa paterna, Bernardino rispose all'invito di Dio, manifestato attraverso la mediazione di San Francesco da Paola e rivestì l'umile saio dei penitenti. San Francesco lo volle come suo confessore personale e lo condusse con sé alla corte di Francia. Bernardino fu superiore e fondatore di diversi conventi anche in Francia. Fu lui a fondare nel 1510 il convento di Cosenza e fu Provinciale dell’Ordine in Calabria. Prima di morire, il 2 aprile 1507, San Francesco elesse Bernardino Vicario generale dell'Ordine e quindi suo successore nel governo dello stesso fino alla convocazione del Capitolo generale.
Bernardino, pur dichiarandosi indegno di tale carica e sostenendo che nell'Ordine vi erano persone più sapienti di lui, dovette chinarsi di fronte alla volontà di San Francesco che, richiamandosi all'apostolo Paolo, disse: "la sapienza di questo mondo è stoltezza agli occhi di Dio".
Bernardino ebbe il dono della profezia; predisse il giorno della sua morte, avvenuta nel convento di San Luigi in Napoli dopo settanta anni di vita religiosa, all'età di circa novant'anni, il 25 ottobre 1520.
E’ riconosciuto Beato dalla devozione e tradizione popolare che lo venera per le eccezionali virtù religiose, pur se il titolo non gli è stato riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa.

Etimologia: Bernardino = ardito come un orso, dal tedesco









Bernardino apparteneva ad una ricca famiglia di Cropalati, paese sul versante jonico della presila greca. Pur avendo fin da fanciullo avvertito i germi della vocazione religiosa, la grande disponibilità di mezzi personali lo avevano spinto nella giovinezza ad una vita spensierata e licenziosa.
La svolta nella sua vita avviene all’età di vent’anni, quando trovandosi nei pressi del convento di Spezzano della Sila incontra San Francesco da Paola. Francesco lo invita ad entrare e lo rinchiude a chiave in una cella. Quando Francesco riapre la porta trova Bernardino piangente e pentito dei suoi errori che gli chiede di accoglierlo nella sua comunità. Francesco acconsente, ma i fratelli di Bernardino, appresa la notizia che il giovane ha vestito il saio, si recano al convento di Paola, dove era stato nel frattempo inviato, e lo convincono a ritornare a casa. Meno di un mese dopo, Bernardino si ripresenta a Francesco supplicandolo di riprenderlo. Francesco, intravedendo nel giovane belle qualità e virtù umane non comuni, senza dare risposta alla sua richiesta, gli chiede di recarsi alla corte di Napoli per consegnare al re una sua lettera importante. Al suo ritorno trova di nuovo i fratelli ad attenderlo per riportarlo a casa. Francesco nel salutarlo lo rassicura dicendogli che presto sarebbe ritornato per sempre. Così avviene e Bernardino dopo pochi giorni ritorna in convento definitivamente.
San Francesco volle Bernardino sacerdote ed ebbe in lui una così grande fiducia da sceglierlo come suo confessore personale.
Terminati gli studi, Bernardino raggiunge Francesco alla corte di Francia, che all’epoca risiedeva a Tours, dove il Santo Taumaturgo si era recato fin dal 1483 in obbedienza a Papa Sisto IV e su pressione di re Luigi XI gravemente malato. In Francia Bernardino contribuisce al graduale passaggio della comunità dall’eremitismo al cenobitismo fino alla istituzione dell’Ordine dei Minimi (in ossequio all'umiltà di Francesco e per rispetto del suo modo di definirsi frate Francesco di Paola minimo delli minimi servi di Giesù Christo Benedetto).
Bernardino assolse diversi incarichi di fiducia per conto di Francesco; fu fondatore e superiore di diversi conventi e Provinciale della Calabria dell’Ordine dei Minimi. Prima di morire il 2 aprile 1507, venerdì santo, Francesco chiama a se tutta la comunità dei frati, li ammonisce a perseguire nel rispetto della santa Regola e dell'amore di Dio e del prossimo e affida a padre Bernardino il governo dell'Ordine fino al successivo Capitolo. Bernardino pur dichiarandosi indegno di tale carica, sostenendo che vi erano persone più sapienti di lui, dovette chinarsi di fronte alla volontà del Santo, che richiamandosi all'apostolo Paolo, disse: "la sapienza di questo mondo è stoltezza agli occhi di Dio".
Bernardino ebbe il dono della profezia; predisse il giorno della sua morte avvenuta il 25 ottobre 1520, nel convento di San Luigi in Napoli.
E’ riconosciuto Beato dalla devozione e tradizione popolare che lo venera per le eccezionali virtù religiose, pur se il titolo non gli è stato riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa.


Autore: Lino De Simone

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26/10/2015 07:13
 
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Sant' Alfredo il Grande Re del Wessex

26 ottobre


Wantage, Berkshire, 849 – Wessex, 899

Etimologia: Alfredo = guidato dagli elfi, dall'anglosassone








In alcuni ‘Martirologi’ antichi e soprattutto inglesi, il suo nome compare sia al 26 sia al 28 ottobre; sulla scia dell’antica tradizione che ha visto considerare santi, molti regnanti di Paesi del Nord Europa, che avevano bene operato per il bene dello Stato e dei sudditi; spesso con grande religiosità e fedeltà alla Chiesa di Cristo.
E il re Alfredo detto il Grande, appartiene a questa categoria, bisogna comunque dire che l’attuale ‘Martirologio Romano’ non lo menziona, l’unico sant’Alfredo riportato, è il vescovo della Sassonia ricordato il 15 agosto.
Il re Alfredo nacque a Wantage, Berkshire, in Gran Bretagna, nell’849 e morì nell’899, quindi a 50 anni; figlio di Etelvulfo (re del Wessex dall’839 all’856) e fratello e successore del re Etelredo I (866-871).
Divenne re del Wessex (antico regno dei Sassoni dell’Ovest, nella Gran Bretagna meridionale) dall’871 all’878 e re degli Anglosassoni dall’878 all’899.
Dopo aver sostenuto una lotta accanita contro gli Scandinavi invasori e in particolare contro i Danesi (876), che già dal tempo del regno di suo padre Etelvulfo avevano invaso il Wessex e sotto il regno del fratello Etelredo I erano quasi riusciti a sommergere tutta l’Inghilterra, impose la propria superiorità sui Regni Anglo-Danesi con le vittorie militari di Ethandun, di Benfleet, di Buttington.
Ripristinò l’autorità regia e preparò l’unità del Paese; nonostante le difficoltà del suo regno, riuscì comunque a promuovere una splendida rinascita della civiltà anglosassone.
Diffuse la cultura attraverso traduzioni di opere latine, come la “Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum” di san Beda il Venerabile (672-735), monaco anglosassone e Dottore della Chiesa; inoltre incoraggiando la composizione di opere storiche e scrivendone lui stesso (Cronaca degli Anglosassoni).
Riorganizzò l’amministrazione dello Stato e notevole fu anche la sua opera legislativa, volta a superare il vecchio diritto consuetudinario germanico.
Come si vede, eccelsa figura storica di regnante che meritò l’appellativo “il Grande”, che questo poi abbia determinato anche il titolo di santo e cosa da inquadrare nella mentalità e religiosità dell’epoca.

Alfredo è un nome di origine esclusivamente sassone, deriva da ‘elf’ e ‘raed’ che significa “consigliato dagli Elfi”. Molto diffuso in Gran Bretagna (Alfred, Fred, Freddy), in Italia cominciò ad essere molto utilizzato, sull’onda del successo del personaggio maschile dell’opera lirica “La Traviata” di Giuseppe Verdi.


Autore: Antonio Borrelli

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27/10/2015 08:18
 
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Santa Balsamia

27 ottobre


Sec. VI

In Francia, nella diocesi di Reims, Balsamia viene onorata come nutrice di San Remigio, vescovo di quella città. Un dato che la rende particolarmente importante per l'Oltralpe. San Remigio, infatti, convertì nel V secolo la regina Clotilde e il marito Clodoveo. E con la conversione del re franco iniziò la storia cristiana della Francia. La figura di Balsamia si accosta a quella della madre di Remigio, Celina, anch'essa santa. Il nome della balia, però, appare tardivamente, nel X secolo quando oltre che nutrice viene identificata anche come madre di santi: san Celsino sarebbe stato, infatti, uno dei suoi figli. La leggenda dice che, benché venerata in Francia, Balsamia sarebbe stata di origine italiana. Da Roma sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgere la sua delicata mansione di nutrice. una lettura della storia che stabilisce un legame forte tra Roma e la Francia: il latte, come un «balsamo», che ha nutrito il «padre della Chiesa francese», sarebbe venuto da Roma. (Avvenire)







La qualifica che Santa Balsamia si è portata con sé nel Calendario è quella di balia, o nutrice.
L'usanza dei baliatico è oggi sempre meno diffusa nei nostri paesi, soggetta, giustamente, a ineccepibili critiche di carattere medico, igienico e anche psicologico. Ma un tempo costituiva un'istituzione di notevole importanza anche dal punto di vista sociale, mentre su un piano di vita familiare era l'inevitabile risposta alle abitudini prolifiche delle spose dei giorni andati. Si adottava, insomma, il principio della divisione dei compiti: alla madre occupata a mettere al mondo numerosa prole, si affiancava la nutrice che provvedeva al loro immediato sostentamento!
Questo, oltre alla delicatezza delle funzioni di una nutrice, che era pur sempre qualcosa di più che non una macchina per allattare, spiega la diffusione del culto per le Sante nutrici e soprattutto la popolarità di Santa Balsamia, vivissima nei secoli dei Medioevo.
La figura di questa Santa è molto pittoresca, ma anche assai nebulosa. In Francia, nella diocesi di Reims, ella viene onorata come nutrice di San Remigio, Vescovo di quella città. Si riflette perciò su di lei la gloria di un figlio di latte di eccezionale importanza, perché San Remigio fu colui che indusse alla conversione prima la Regina Clotilde, poi suo marito Clodoveo, con tutti i suoi Cavalieri franchi.
Con la conversione di Clodoveo, da parte di San Remigio, si iniziò quindi la storia cristiana della Francia, " figlia primogenita della Chiesa ", e in questa storia, in quella figliolanza, anche il latte di Santa Balsamia sembrò avere un certo peso.
Abbiamo già detto che San Remigio venne considerato dai Francesi quasi un secondo Giovanni Battista, precursore e profeta del Verbo cristiano in terra di Francia. Si disse addirittura che anch'egli fosse stato benedetto nel grembo della madre, Santa Celina, che corrisponderebbe quindi a Santa Elisabetta, madre del Battista.
Ma con la santa di oggi, Balsamia, San Remigio avrebbe avuto qualcosa di più dello stesso San Giovanni. Avrebbe avuto santa anche la balia, il cui nome però appare tardivamente, nel X secolo e che, oltre che nutrice, vien detta madre di Santi, perché San Celsino sarebbe stato uno dei suoi figli.
Un tempo, in Francia, ella veniva chiamata Santa Nutrice, poi prevalse il nome di Balsamia, come se il latte da lei dispensato all'eccezionale figlioccio fosse stato un profumato balsamo di santità.
Un ultimo particolare le leggende aggiungono sul suo conto. Benché venerata in Francia, ella sarebbe stata di origine italiana, anzi romana, e da Roma, divinamente ispirata, sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgervi la sua delicata mansione di nutrice.
Il significato di questo particolare è trasparente: il latte - o balsamo - trasmesso dalla nutrice a San Remigio, e da questi trasmesso a tutta la Francia, " figlia primogenita della Chiesa ", proveniva direttamente e indubbiamente da Roma: non corrotto, non adulterato, non sofisticato, era il latte puro della dottrina cattolica, apostolica e romana

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28/10/2015 07:07
 
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Beato Bononato de Prexano

28 ottobre






Insigne mercedario per pietà e scienza, il Beato Bononato de Prexano, religioso del convento di Sant'Eulalia in Barcellona (Spagna), ne fu anche il priore per ben 41 anni. Nel 1343 riunì il capitolo dove fu nominato Maestro Generale il Venerabile Vincenzo Riera suo compatriota.La sua vita non fu altro che un seguito di azioni sante e meritorie fino alla morte che giunse in età avanzata sotto il generalato di Nicola Perez, il quale gli testimoniò sempre una grande venerazione per tutti i buoni esempi che ne ebbe.Inoltre negli antichi codici dell'Ordine si legge che non si é mai trovato nessuno come lui che conservasse la legge dell'Altissimo.
L'Ordine lo festeggia il 28 ottobre



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29/10/2015 02:57
 
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Sant' Abramo Anacoreta

29 ottobre


† 366

Nato in una ricca famiglia di Edessa in Siria, si fece eremita in una stretta cella. Ordinato sacerdote, evangelizzò la regione di Beth Kiduna e, non appena poté, riprese la sua vita di anacoreta.

Etimologia: Abramo = grande padre, dall'ebraico


Martirologio Romano: A Edessa nell’antica Siria, sant’Abramo, anacoreta, la cui vita fu descritta dal diacono sant’Efrem.







Nacque da una ricca famiglia a Edessa, Siria. Gli fu imposto un matrimonio combinato in tenera età. Durante i festeggiamenti del matrimonio, Abraham fuggì. SI murò in una piccola cella poco lontano, lasciando un foro piccolo attraverso il quale la sua famiglia potè portargli cibo e acqua, e attraverso il quale potè spiegare il suo desiderio di una vita religiosa. La sua famiglia cedette, il matrimonio fu revocato, e così Abraham passò i successivi dieci anni rinchiuso nella sua cella.
Dopo un decennio di una vita da recluso, il vescovo di Edessa, contro i desideri stessi di Abraham, lo ordinò sacerdote e gli impose di partire missionario presso il villaggio intransigentemente pagano di Beth-Kiduna. Qui, Abraham riuscì a costruire una chiesa, a cancellare idoli, soffrì abusi e violenze, e col suo buon esempio riuscì a convertire il villaggio intero. Un anno dopo, dopo aver pregato ardentemente che Dio mandasse in quel posto in sua vece un pastore migliore di lui, fece ritorno alla sua cella. E' proprio dalla popolarità che conquistò in Kiduna che divenne famoso come Kidunaia (Qidonaya).
Lasciò la sua cella solamente altre due volte nella sua vita. Una volta una sua nipote, Santa Maria di Edessa, viveva una vita dissoluta. Abraham si travestì da soldato, seppe attirare l'attenzione di Maria e farsi accogliere in casa sua. Durante la cena riuscì a convincerla che viveva nel peccato e nell'errore, la convertì e da allora la vita di Maria cambiò. Dopo di che ritornò alla sua cella. La sua ultima uscita fu al suo funerale, al quale partecipò una gran folla di persone che lo amavano e piangevano per lui. La sua biografia fu scritta dal suo amico Sant'Ephrem.


Autore: Piero Stradella

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30/10/2015 08:06
 
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Beato Alessio (Oleksa) Zaryckyj Sacerdote e martire

30 ottobre


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Bilch, Ucraina, 17 ottobre 1912 – Dolynska, Kazakistan, 30 ottobre 1963

Oleksa Zaryckyj nacque il 17 ottobre 1912 nel villaggio di Bilch, nella regione ucraina di Lviv (Leopoli). Nel 1931 entrò nel seminario di Lviv e cinque anni dopo ricevette l’ordinazione presbiterale dal metropolita Sheptytsky, quale sacerdote diocesano dell’Arcieparchia di Lviv degli Ucraini. Nel 1948 fu catturato dai bolscevichi, condannato a dieci anni di carcere e deportato a Karagandà in Kazakistan. Liberato in anticipo nel 1957, Oleksa Zaryckyj fu nominato Amministratore Apostolico del Kazakistan e della Siberia, ma non fece in tempo a ricevere la consacrazione episcopale. Poco dopo venne infatti nuovamente internato nel campo di concentramento di Dolinka, presso Karagandà, ove morì martire della fede il 30 ottobre 1963. Fu beatificato da Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, insieme con altre 24 vittime del regime sovietico di nazionalità ucraina.

Etimologia: Alessio = protettore, difensore, dal greco


Martirologio Romano: Nella cittadina di Dolinka vicino a Karaganda nel Kazakistan, beato Alessio Zaryckyj, sacerdote e martire, che, deportato sotto un regime ostile a Dio in un campo di prigionia, nel combattimento per la fede conquistò la vita eterna.







Nacque a Leopoli (Ucraina occidentale) nel 1912, figlio di cattolica famiglia. Ha un solo desiderio in cuore, il giovanissimo Alessio: farsi sacerdote. Cresce e studia, puntando deciso alla meta: il santo altare. Nella cattedrale della sua città, nel 1936, a 24 anni, è ordinato sacerdote.
È un tempo terribile: Stalin sta facendo della Russia e dell’Europa orientale fino alla Siberia un’immensa prigione, dove i cattolici sono i primi a essere perseguitati, e i preti, considerati pericolosi per il regime comunista, devono essere i primi a sparire.

Non tradite la Fede!
P. Alessio è un vero innamorato di Gesù e per amore a Lui alimenta un dirompente spirito di apostolato, uno zelo instancabile per le anime, una dedizione senza limiti al suo ministero. È sempre disponibile, senza mai pensare a se stesso, con un’indole mite che avvicina tutti, una singolare comprensione per le persone: il vero stile del buon pastore.
Nella sua diocesi gli sono affidate alcune comunità: perseguitati sì, ma mai abbattute, animate nella fede in Gesù Crocifisso e Vivo, dall’esempio dei loro pastori e dei loro martiri. P. Alessio si preoccupa di donare una catechesi essenziale, attingendo al Vangelo e al Magistero della Chiesa: Gesù al centro di tutto, la fedeltà a Lui, la fuga dal peccato e la vita in grazia di Dio, lo spirito di fortezza per testimoniare Gesù anche davanti alla morte, l’attesa del Paradiso.
Grazie a lui, i suoi fedeli si confessano almeno ogni mese e, moltissimi di loro, ricevono Gesù Eucaristico ogni giorno. La sua prima preoccupazione, pur sapendo di rischiare il carcere e la vita, è che tutti possano confessarsi e ricevere spesso l’Eucaristia. Per undici anni, così: tenuto d’occhio e braccato, quasi fosse un brigante, dalla polizia del regime comunista ateo e omicida!
Nel 1948, parroco in Ucraina, viene arrestato, a causa della sua fedeltà alla Chiesa Cattolica. Le autorità comuniste gli propongono di diventare vescovo ortodosso, separandosi dal Papa di Roma e così avrebbe avuto vita più facile. P. Alessio rifiuta in modo aspro: "Separarmi dal Papa – dichiara – è tradire il Vangelo di Cristo!". Ai suoi parrocchiani, prima di avviarsi al carcere, raccomanda: "Non tradite mai la fede dei nostri padri".
Tutti sentono il grande vuoto da lui lasciato; come sacerdote greco-cattolico non si era limitato al rito orientale, ma per amore dei suoi fedeli cattolici-romani, aveva imparato con naturalezza anche la celebrazione della santa Messa nel rito latino. Dal carcere scrive lettere ai suoi cari e ai suoi fedeli. Al padre anziano: "Ogni giorno e ogni ora dobbiamo offrire tutto a Gesù sofferente che portò la sua croce sul Calvario per mostrarci come si arriva alla vita eterna. Prega molto. La preghiera è la nostra più grande forza". A un suo fratello sposato con figli: "Confessatevi più volte l’anno, amate il S. Sacrificio della Messa e allora avrete Dio nella vostra anima. Chi ha Dio nell’anima, ha tutto. Chi non ha Dio nella sua anima, non possiede nulla, anche se fosse padrone del mondo. Questo è il mio raggio di luce, il pensiero più alto della mia vita".
Quel che soffre in carcere, nella mani di quei mostri, solo Dio lo sa: prega e soffre anche per i suoi persecutori. Un’unica certezza: "Gesù, il mio Gesù c’è, mi è vicino e mi ama". Alla morte di Stalin, nel marzo 1953, e poi nel 1956, in seguito al XX congresso del PCUS, sembra allentarsi (sembra soltanto, perché in realtà non è neppure così con Krusciov) la ferrea morsa della dittatura comunista che pretende’ di annientare la Chiesa Cattolica. P. Alessio esce di carcere e subito riprende il suo apostolato, sempre tenuto d’occhio però dalla polizia, con suo rischio enorme.

Il vangelo di Dio
Prima della fine del 1956, mentre Krusciov (così democratico!) fa invadere con i carri armati e schiaccia nel sangue l’Ungheria, P. Alessio Zarytsky è costretto all’esilio a Karaganda nel Kazakistan. Da tutti è accolto come Gesù in persona e i fedeli lo chiamano presto "il vagabondo di Dio". Intraprende infatti viaggi pastorali di migliaia di chilometri attraverso il Kazakistan, grande nove volte più dell’Italia. Per far visita ai cattolici, si spinge fino in Siberia; nessuno lo ferma, né il clima micidiale né il controllo della polizia: è rotto a tutte le fatiche, a tutti i rischi, per amore del suo Gesù: "Ma mi vuoi dire, che cosa non si fa per Gesù?.
In segreto, nel 1957, è nominato amministratore apostolico per Kazakistan e l’Asia centrale dall’Arcivescovo metropolita ucraino Josyf Slipyi (1984), futuro Cardinale, che per 20 anni ha sofferto l’indicibile nei gulag della Siberia. Nei suoi lunghi viaggi, P. Alessio si ferma dove sa che ci sono comunità di cattolici per amministrare i Sacramenti a diverse famiglie fino nei villaggi più sperduti. Nei medesimi anni, si reca più volte presso quei cattolici tedeschi che dalle terre del Volga e del mar Nero erano stati deportati da Stalin tra gli Urali e internati in povere baracche. Ricorda Maria Schneider, madre dell’attuale Vescvovo di Karaganda, Mons. Athanasius Schneider: "Nel gennaio 1958, nella città di Krasnokamsk vicino a Perm nei monti Urali, all’improvviso arrivò P. Alessio, proveniente dal suo esilio in Kazakistan. Si adoperava affinché il maggior numero possibile di fedeli fosse preparato per ricevere Gesù Eucarisico nella S. Comunione. Perciò si disponeva ad ascoltare le confessioni dei fedeli di giorno e di notte, senza dormine e senza mangiare. I fedeli lo sollecitavano dicendogli: "Padre, deve mangiare e dormire!". Lui rispondeva: "Non posso perché la polizia mi può arrestare da un momento all’altro, e tante persone resterebbero senza confessione, quindi senza Comunione Eucaristica". Dopo che tutti si furono confessati, P. Alessio cominciò la S. Messa. Improvvisamente risuonò la voce: "La polizia è vicina". Quella volta, poté sfuggire alla polizia grazie, all’aiuto di Maria Schneider, la quale continua a narrare: "Dopo un anno, ritornò a Krasnokamsk. Questa volta, poté celebrare la S. Messa e dare la Comunione ai fedeli" (da Athanasius Schneider, Dominus est, Libreria Editrice Vaticana 2008, bellissimo libro da leggere e diffondere!).

Sacerdote davvero eucaristico
Ancora una volta, riprende il suo apostolato di prete itinerante, senza fissa dimora, rivolgendosi soprattutto al Kazakistan. Ricorda suor Anastasia Bium: "Nel 1961, avevo 21 anni e incontrai per la prima volta P. Alessio: il primo giovane prete che vedevo e mi impressionò per il suo aspetto gioioso, la sua indole gaia e il suo sorriso sereno. Tutto questo era nuovo per me, perché i sacerdoti che avevo conosciuto fino a allora, erano segnati dalla persecuzione e dalle sofferenze. P. Alessio confessava fino a tarda notte e a volte, dopo la S. Messa, mia madre lo invitava a casa e noi ci confessavamo da lui nell’unica stanza che era tutta la nostra abitazione. Poi celebrava la la Messa, tutto assorto in Dio, spesso alle 4 del mattino. Riusciva a dire Verità e fatti molto seri in un modo amabile. Non parlava mai di sé, dei terribili anni passati in prigione e delle torture subite. Non si sarebbe detto che avesse subito tante sofferenze fisiche e morali e che patisse allora forti dolori allo stomaco. Era sempre spiato e perseguitato. Donava tutto ciò al Signore e incoraggiava anche noi a soffrire e unire la nostra povertà e le nostre prove alle sofferenze di Gesù. Nei suoi spostamenti, portava sempre con sé il SS.mo Sacramento per poter dare la S. Comunione ai malati e agli agonizzanti, dopo averli confessati".
P. Alessio era in tutto un vero sacerdote, figli di Maria SS.ma, e con gioia predicava la vita purissima della Vergine Madre di Dio, come modello per la vita di ogni credente. Era solito dire: "Come Maria, dobbiamo essere dei gigli di amore e di purezza per Gesù. Sì, dobbiamo fiorire davanti a Gesù come dei candidi gigli, in un luminoso candore".
"Ho impressa nella mia mente – conclude suor Anastasia – l’ultima sua visita, durante cui egli ci disse con aspetto serio: "Oggi è l’ultima volta che sono con voi, poi mi porteranno di nuovo in prigione". Dopo la S. Messa, ricevemmo la sua benedizione, e le sue parole di addio furono come un testamento per la nostra famiglia: "Regolate la vostra vita in modo che in futuro potremo ritrovarci tutti nel Cuore di Gesù per glorificare Dio per tutta l’eternità".

Martire con Maria
Nel mese aprile 1962, P. Alessio viene arrestato a tradimento dalla polizia segreta e messo nel campo di concentramento di Dolinka presso Karaganda, dove tra terribili sofferenze si avvia alla fine. Una volta, alcune donne di grande fede e coraggio, avvicinatesi al filo spinato del campo, riescono a vederlo in una scena atroce. Le guardie, dopo averlo picchiato brutalmente, lo calano in una buca profonda… per tirarlo fuori con delle corde, grondante di sangue. Le donne piangono, impotenti a aiutarlo, ma lui, vedendole, esclama: "Non piangete. Questa è la via della croce, la passione di Gesù!". Un giorno può far uscire dal carcere una breve lettera su cui ha scritto ai suoi fedeli: "La Madonna mi ha fatto visita e mi ha detto: caro figlio mio, ancora un po’ di sofferenza. Verrò presto a prenderti con me".
Dopo tanti maltrattamenti e umiliazioni, P. Alessio ottiene la palma del martirio "ex aerumnis carceris" (= per le torture del carcere), il 13 ottobre 1963. L’indomani, vigilia della festa dei Santi, quando il becchino sta per dargli sepoltura in totale solitudine, sente dei canti bellissimi e, voltandosi, vede una "giovane donna", vestita di bianco, che segue il povero carretto su cui sta la salma martoriata, e canta inni di ineffabile dolcezza e solennità. Il becchino si domanda tra sé come abbia fatto a entrare nel campo, vorrebbe chiederglielo, ma non osa. Quando tutto è compiuto, la donna non c’è più e egli comprende: Maria SS. ma era venuta a prendere il suo figlio sacerdote e martire della fede, martire per l’Eucaristia.
Il 27 maggio 2001, Papa Giovanni Paolo II, a Leopoli ha beatificato P. Alessio Zarytsky. Nel 2007, Mons. Schneider ha consacrato a Karanganda la prima chiesa in onore del beato Alessio, indossando anche la cotta a lui appartenuta e regalatagli da suo fratello Ivan Zarytsky, tuttora vivente. "Davvero un santo eucaristico – afferma nel libro citato, Mons. Schneider – che poté educare anime eucaristiche, fiori cresciuti nel buio e nel deserto della clandestinità, rendendo la Chiesa veramente viva". Ci servono dei preti della stessa razza.


Autore: Paolo Risso

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31/10/2015 08:08
 
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Sant' Alfonso Rodriguez Vedovo, Religioso gesuita

31 ottobre


Segovia, Spagna, 25 luglio 1533 - Palma di Maiorca, 30 ottobre 1617



Alfonso era un mercante, nato a Segovia, in Spagna, nel 1533. Si era sposato e aveva avuto due figli ma fu sconvolto dalla perdita della moglie e dei beni. A 35 anni tornò a scuola, proseguendo faticosamente gli studi interrotti in gioventù. Si presentò, quasi vecchio, come novizio in un convento della Compagnia di Gesù. Venne accolto, ma volle restare fratello coadiutore, addetto al servizio materiale della comunità. Divenne così portinaio nel convento dell'isola di Maiorca, da dove passavano i missionari diretti in America. Per tutti l'incontro con il santo portinaio era un'esperienza illuminante e a volte decisiva, come nel caso di san Pietro Claver, l'«apostolo degli schiavi». I suoi scritti furono raccolti dopo la morte, avvenuta il 31 ottobre del 1617. (Avvenire)

Etimologia: Alfonso = valoroso e nobile, dal gotico


Martirologio Romano: Nell’isola di Palma di Maiorca, sant’Alfonso Rodríguez, che, perduti la moglie, i figli e tutti i suoi beni, fu accolto come religioso nella Compagnia di Gesù, dove svolse per molti anni la mansione di portinaio nel Collegio, divenendo un esempio di umiltà, obbedienza e costanza nel sacrificio.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:





Alfonso Rodriguez che la Chiesa ci fa festeggiare il 31 ottobre, nacque in Spagna, a Segovia nel 1531. Morì nel 1617, a Palma di Maiorca. E’ il patrono dei portieri e degli uscieri e patrono di Palma di Maiorca. Coltivò fin da giovane il desiderio di consacrarsi a Dio e di diventare sacerdote finchè entrò nella Compagnia di Gesù in Spagna. Veniva da una famiglia di mercanti di lana e tessitori di stoffe ed era molto applicato allo studio che seguiva con profitto nel collegio dei gesuiti di Alcalà. A ventitrè anni però, in seguito alla morte prematura del padre, Alfonso fu costretto a ritornare nella sua famiglia per dirigere la piccola impresa familiare ereditata dal padre. Gli affari però non andavano bene e non interessavano affatto il giovane Alfonso, che nel frattempo si era sposato e aveva avuto due bambini. Un’esperienza che gli procurò nuove sofferenze perché, pochi anni dopo, Alfonso perse drammaticamente anche la moglie. Un giorno Alfonso, provato dalle traversie della vita e dalla sofferenza, cedette tutti i suoi beni al fratello e si trasferì a Valencia, per entrare nuovamente nella Compagnia di Gesù.
I padri gesuiti lo accolsero e qualche anno dopo lo inviarono nel Collegio di Monte Sion di Palma di Maiorca dove Alfonso rimase per tutto il resto della sua vita. A Palma di Maiorca svolse, per oltre trent’anni, il compito di portinaio trovando in questa professione la pace dell’anima e anche la via che lo condusse alle vette della santità.
E come i custodi e gli uscieri vigilano sulle case e sui palazzi delle famiglie che vi abitano, così Alfonso Rodriguez vegliava sul Collegio e su quanti si affacciavano alla porta dei gesuiti in cerca di un aiuto, un consiglio, una preghiera. Per tutti aveva parole di incoraggiamento e di stimolo alla conversione del cuore e all’amore fraterno.
Uomo semplice e umile, straordinariamente servizievole, tanto rigido con se stesso quanto caritatevole con gli altri, trovò nel suo ufficio quotidiano l’occasione opportuna per esercitare un apostolato continuo ed efficace. A rendere più efficace il suo apostolato contribuivano anche i numerosi carismi dei quali il Signore lo aveva dotato, primo fra tutti quello delle visioni e poi della preveggenza e dei miracoli.
All’umile portinaio Dio aveva anche donato una intensa esperienza mistica che contribuì a svolgere con profitto, insieme a quello di portinaio, il compito anche di padre spirituale dei novizi che si rivolgevano a lui con sempre maggiore frequenza per essere illuminati sulle vie di Dio.
Tra i novizi ci fu anche Pietro Claver, il santo apostolo delle Indie che tanto stimava Alfonso Rodriguez per la sua santità, e al quale lo stesso Alfonso profetizzò la sua futura missione. Grande era la devozione che Alfonso nutriva per la Santissima Vergine che pregava soprattutto con il Rosario; grazie all’intercessione della Madre di Dio, infatti, si compirono eventi straordinari.
Ha scritto diversi insegnamenti di carattere ascetico e mistico tra i quali le famose “ Memorie ” redatte per ordine dei suoi superiori, splendida manifestazione della santità e della sapienza interiore di una creatura straordinariamente plasmata da Dio. Il santo portinaio gesuita aveva una particolare riverenza per il suo angelo custode e ogni giorno, mattina e sera, sia nell’alzarsi da letto che nel coricarsi si raccomandava sempre alla celeste protezione che talvolta sperimentò in un modo anche sensibile.
Una sera fratel Alfonso con la mente rivolta a Dio, come era suo costume abituale, stava salendo per una scala interna del convento, quando da una finestra che dava nel cortile della cisterna sentì emanare un alito pestifero. Era il demonio che in tal modo voleva soffocarlo. Il santo gesuita svenne e sarebbe caduto per tutte le s cale se non fosse stato materialmente sorretto dal suo angelo custode che immediatamente purificò l’aria e lo accompagnò sano e salvo nella sua stanza.
Fratel Rodriguez ricavò da questo episodio uno scritto che poi fu stampato postumo insieme ad altri suoi documenti, in cui dichiarava quale effetto nefasto produca nell’anima il peccato.
Così scrisse: “ siccome quando taluno di repente venisse sorpreso da un soffio di aria pestilenziale, questa potrebbe con tal violenza colpirlo, da soffocargli in un momento tutta la virtù naturale, e la vita, opprimendolo ed uccidendolo subito,così l’anima perdendo l’amicizia e grazia di Dio viene infetta da quella corruzione pestifera e mortale del peccato, colla quale resta subitamente senza vita e spirito, e sepolta in eterna morte”.

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01/11/2015 05:20
 
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Sant' Araldo (Aroldo) VI Denteazzurro Re di Danimarca, martire

1° novembre


† 1° novembre 980







Il sovrano danese Harald VI Blaatant, cioè “Denteazzurro”, era asceso al trono nel 931 o più verosimilmente nel 950, succedendo a suo padre Gorm. Sconfitto da Ottone il Grande, fra il 948 ed il 960 si adoperò per la diffusione del cristianesimo nel suo regno, ma il suo fervore di neofita attirò a lui l’atroce ostilità di tutti i fedeli delle vecchie tradizioni pagane indigene, capeggiati da suo figlio Swein, detto “Barbaforcuta”. Questi, come attesta la testimonianza di Adamo da Brema, citato dal Cardinal Baronio, giudicando il padre ormai vecchio ed inadatto al comando approfittò della prima rivolta di coloro che si erano forzatamente convertiti per essere acclamato re. Dichiararono allora guerra al vecchio re Araldo, ma l’esercito dei suoi fedeli non riuscì a sconfiggere gli avversari ed egli stesso fu ferito mortalmente. Correva l’anno 980, come ci conferma l’epitaffio posto sul sepolcro del sovrano: “Post Natale Dei, dum scripsimus, octuaginta nongentos meruit scandere celsa poli”. Altre fonti pongono invece la morte di Araldo verso il 986. Trovata sepoltura in una chiesa da lui fatta edificare in onore della Santissima Trinità, fu da alcuni considerato martire in quanto vittima di una battaglia combattuta in difesa della fede.
E’ certo il titolo di santo attribuitogli dal Baronio, anche se non è ancora stata attestata l’antichità del suo culto. Giovanni Adolfo Cupreo negli Annales Episcoporum Sleviciensium afferma che gli antichi Danesi fossero soliti commemorare il santo re al 1° novembre, anniversario del suo martirio, nonché il proliferare di miracoli presso la sua tomba, quali in particolare numerose guarigioni di ciechi. Va però ricordato che il Cupreo scriveva nel 1634 e lontano dalla patria, quindi senza poter compiere un’accurata indagine sul culto di Aroldo. Infine i Bollandisti, nel commemorarlo al 1° novembre, si stengono però dall’attribuirgli i titoli di santo e martire.
Resta però un dato di fatto che il cristianesimo in Danimarca abbia trionfato proprio sotto il regno di questo sovrano che si prodigò nell’edificazione di chiese ed incrementò le predicazioni nel nord dell’Europa. Egli stesso fu conscio di potersi considerare il cristianizzatore del suo popolo, come fece incidere sulla celebre pietra di Jelling sulla tomba dei suoi avi.


Autore: Fabio Arduino

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02/11/2015 08:09
 
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Santi Acindino (Acendino), Pegasio, Aftonio, Elpidiforo, Anempodisto e compagni Martiri in Persia

2 novembre


† Isfahan (Persia), 341/345 ca.

I santi martiri Acindino, Pegasio, Aftonio, Elpidiforo, Anempodisto ed i numerosi loro compagni patirono il martirio in odio alla fede cristiana sotto il re Sapore II di Persia, tra gli anni 341 e 345.

Etimologia: Acindino = Acidinus (leggermente acido), soprannome romano


Martirologio Romano: In Persia, santi Acíndino, Pegasio, Aftonio, Elpidíforo, Anempodisto e molti compagni, martiri, che si tramanda abbiano subito la passione sotto il re Sabor II.







ACINDINO, PEGASIO, AFTONIO, ELPIDOFORO, ANEMPODISTO

Questi santi martiri in Persia, sono menzionati in una ‘passio’ greca del tempo di Eraclio (610-614), storicamente di scarso valore, che ci è pervenuta in una rielaborazione di Simeone Metafraste, agiografo bizantino del X secolo, e in una versione latina nel codice 1622 dell’Università di Padova.
La vicenda narrata dalla ‘passio’, si svolse al tempo del re di Persia Sapore II (310-379); infuriando le persecuzioni contro i cristiani, che in contrapposizione alla libertà di culto concessa dall’imperatore romano Costantino il Grande nel 313, furono considerati dai persiani, una ‘quinta colonna’ dell’Impero romano, con cui Sapore II era in ostilità.
Il re fece catturare Acindino, Pegasio e Anempodisto ferventi cristiani, i quali furono sottoposti ad interrogatorio e torturati secondo la prassi del tempo, ma poi furono miracolosamente risanati, le loro catene si spezzarono e si fusero, mentre una violenta bufera si abbatté sulla città reale di Isfahan; mentre Sapore II perdette la voce, che riacquistò per intercessione degli stessi martiri.
Come per altri racconti antichi sul martirio dei cristiani, il supplizio non si fermò qui; i tre cristiani furono immersi nel piombo fuso e ne uscirono illesi, fra lo stupore dei carnefici, dei quali uno, Aftonio, si convertì e fu subito decapitato; si tentò di ucciderli gettandoli in mare chiusi in un sacco, ma essi risalirono dalle onde incolumi.
Intanto nel Senato persiano, Elpidoforo e altri senatori, avevano preso le difese dei cristiani, pagando anch’essi con la vita il loro coraggio. Alla fine Acindino, Pegasio e Anempodisto, furono bruciati vivi a Isfahan, era circa il 350 d.C.
Le loro reliquie furono più tardi traslate a Costantinopoli e venerate in una chiesa a loro dedicata; nel 1204 durante la quarta crociata, una reliquia di Acendino finì in Francia a Vedans e da lì nell’abbazia di Rosières; fu perduta durante la Rivoluzione Francese e ritrovata un secolo dopo, nel 1892 a Grozon.
I santi martiri sono venerati in Oriente e in Occidente il 2 novembre e particolarmente ricordati dalla Chiesa Bizantina; sono raffigurati nella celebre Pala d’Oro della Basilica di San Marco a Venezia.
Sant’Acindino o Acendino, il cui nome deriva dal soprannome romano ‘Acidinus’, che significa “leggermente acido”, è venerato come titolare della Parrocchia di Gasponi (frazione del Comune di Drapia, in provincia di Vibo Valentia), la cui festa ricorre però il 3 novembre, a causa che il 2 è la Commemorazione dei Defunti.


Autore: Antonio Borrelli

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03/11/2015 08:33
 
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Beata Alpaide di Cudot Vergine

3 novembre


Cudot, Francia, 1155/1157 – 3 novembre 1211

Martirologio Romano: A Cudot nel territorio di Sens in Francia, beata Alpáide, vergine, che, crudelmente percossa e abbandonata dai suoi genitori da bambina, visse poi reclusa in una piccola cella fino ad avanzata vecchiaia.







Nacque fra il 1155 e il 1157 nel villaggio di Cudot (nella diocesi di Sens) in Francia, dove morì il 3 nov. 1211. I suoi genitori erano poveri e vivevano delle rendite di un piccolo podere che coltivavano direttamente; poiché Alpaide era la primogenita, appena le forze glielo permi­sero, fu costretta ad aiutare il padre Bernardo nel suo duro lavoro. Doveva fra l'altro portare sulle gracili spalle il fimo e lo sterco nei campi e nel­l'orto, pungolare i buoi mentre tiravano l'aratro, condurre le vacche e le pecore al pascolo. In queste fatiche, che talvolta si prolungavano anche la notte, resse fino ai dodici anni; poi non ce la fece più e dovette mettersi a letto, un letto aspro, fatto di un saccone di paglia, senza cuscino e senza lenzuoli, preda di una grave malattia.
Di che genere fosse la malattia non è facile dire. Un documento ci informa che la fanciulla « gravi admodum atque diutino prius est castigata flagel­lo, adeo ut, propter affluentem de toto corpore saniem, suis quoque foret in horrorem » ; un altro documento ci dice che il Signore, per darle prova del suo amore, « tetigit os eius et carnem, percus-sitque eam ulcere pessimo, ita ut a pianta pedum usque ad verticem non esset illi sanitas » ; un altro ancora ci fa sapere che, essendosi putrefatte le carni, « tantum horrorem cernentibus ingerebat, tantumque fetorem ex se emittebat, quod etiam mater eius abhorrebat ». Si trattava forse della leb­bra, come credono alcuni? Il fatto è che i fami­liari « tantae luis impatientes, ipsam in domo vili seorsum abicerunt, et singulis diebus eam invisen-tes, pauperrimum ei victum, occlusis ob fetorem naribus, ab ostio porrexerunt ». I fratelli, che pur le volevano bene, non solo rifiutarono di avvicinar­la, ma non intendevano più somministrarle il cibo, affinché morisse di inedia; anche la misera madre (il padre era oramai morto) supplicava di conti­nuo il Signore perché ponesse termine con la morte ai tormenti della figlia, « et quia pauper erat, et aliud quid quod ei offerre posset non habebat, panem hordeaceum a longe, veluti cani, propter intollerabilem fetorem, quandoque ei proiciebat », che quella quasi mai riusciva ad afferrare con le mani paralizzate e tanto meno a portare alla bocca.
Alpaide sopportò tutto con grande pazienza e senza lamentarsi. Era circa un anno che si era ammalata, quando la vigilia di Pasqua, probabilmente del 1170, mentre paragonava sé, immersa in tanta squallida solitudine, ai suoi coetanei che, vestiti a festa, andavano gioiosamente in chiesa, le appar­ve d'improvviso la Madonna in mezzo a una gran luce e a un soavissimo profumo, « extensaque sancta dextera, singula membra contrectat, et mox ulcera quaeque curantur, fetor omnis abscedit ». Fu libe­rata dalle piaghe e dal fetore, ma rimase in uno stato di impotenza quasi totale, costretta a tenere sempre il letto in posizione supina, senza vigore nel corpo insensibile e morto, bisognosa di aiuto persino per rigirarsi. Di sano aveva solo il petto, il capo, la mano e il braccio destro; tuttavia, « ita venusta corpulentaque in vultu cernitur ac si deliciarum copia perfruatur ». La Madonna le aveva detto che sarebbe vissuta nel corpo senza bisogno di cibo corporale. Così fu : finché visse non mangiò e non bevve mai nulla, fatta eccezione della Comunione che riceveva la domenica.
La fama del suo miracoloso digiuno giunse ben presto alle orecchie dell'arcivescovo di Sens, Gu­glielmo, zio del re Filippo, il quale, dopo aver ap­purato il fatto con un'inchiesta, ordinò la costru­zione di una chiesa attigua alla camera della vergine per permetterle di assistere ai divini uffici dal suo letto attraverso una finestra che guardava l'altare. La rettorìa della chiesa fu affidata a un gruppo di canonici regolari con a capo un priore.
Dal giorno dell'apparizione Alpaide cominciò a opera­re miracoli; ebbe visioni meravigliose superiori alla umana facondia; fruì di estasi specialmente nelle solennità del Signore e della Vergine; vedeva in spirito le cose lontane, prevedeva le future; era in­signita del dono della circospezione nelle parole e della sapienza nei consigli; e come si diffuse la fama di questi prodigi cominciarono i pellegrinaggi alla sua casa. Arcivescovi e vescovi, abati ed altri prelati, semplici sacerdoti, nobili e plebei anda­rono da lei per raccomandarsi alle sue preghiere, per vederla, per ascoltarla. La regina di Francia Adele, sposa di Luigi VII, nel 1180 destinò alla chiesa di Gudot una rendita annua di un moggio di frumento per amore di Alpaide, rendita che nel 1184 fu confermata in perpetuo da Filippo Augusto con un diploma. Altre donazioni furono fatte in se­guito.
Alla sua morte il corpo della beata fu deposto nel coro della chiesa e il popolo la venerò subito come una santa. Nel 1894 esso si trovava ancora nello stesso luogo, davanti all'altare maggiore. Il 26 febb. 1874, in seguito a regolare processo istruito a Sens per ordine dell'arcivescovo, la S. Congregazione dei Riti ne approvò il culto imme­morabile e il 28 nov. dello stesso anno concesse che se ne celebrasse la festività con rito doppio minore nelle diocesi di Sens e di Orléans, e con rito doppio di seconda classe nelle chiese di Cudot e di Triguières nella diocesi di Orléans, dove qualcuno a torto la riteneva nata. Sempre verso la fine del sec. XIX (non disponiamo di informa­zioni più recenti) la devozione verso la b. Alpaide era ancor più viva a Gudot e nei dintorni, dove si organizzavano pellegrinaggi alla sua tomba. Nei pressi del paese fluiva una fonte chiamata di s. Alpaide perché, secondo la leggenda, era stata fatta sca­turire da lei un giorno che, già deforme per la sua infermità, trovandosi in un prato col gregge, aveva domandato da bere, ma invano, a una per­sona. Il popolo ne beve l'acqua, se ne bagna le piaghe, la porta a casa per devozione.


Autore: Pietro Burchi

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04/11/2015 08:55
 
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Sant' Amanzio di Rodez Vescovo

4 novembre




Martirologio Romano: A Rodez in Aquitania, ora in Francia, sant’Amanzio, vescovo, che si ritiene sia stato il primo presule di questa città.








La Bibliotheca Hagiographica Latina (I, p. 58, nn. 351-52) ricorda una Vita di sant'Amanzio ed una raccolta narrativa dei miracoli da lui operati. La Vita attribuita erroneamente a Venanzio Fortunato, ha un carattere eminentemente leggendario. Si ritiene scritta da un chierico della chiesa di Rodez verso la seconda metà del sec. VI secondo il Rouziès, nel sec. IX secondo il Delehaye.
Stando al racconto, Amanzio nacque a Rodez dove professò fin da fanciullo la fede cristiana. Fu sacerdote e vescovo della città natale, conducendo una vita esemplare, per cui fu dotato dal Signore del dono dei miracoli. Secondo alcuni studiosi, Amanzio sarebbe stato il primo vescovo di Rodez, vissuto nei tempi apostolici; secondo altri sarebbe vissuto fra la fine del sec. IV e l'inizio del V. La prima ipotesi è sostenuta da Touzery (Les anciens bénéfices du Rouergue, Rodez 1906); la seconda da A. Servières, autore di una Vita di sant'Amanzio. Quest'ultima ipotesi ha a suo favore la testimonianza di san Gregorio di Tours, il quale riferisce che Quinziano, successore di Amanzio, trasferì il suo corpo nella basilica edificata dal santo: «auctam beati Amanti antestitis basilicam sanctum corpus in antea transtulit, sed non fuit sancto acceptabile hoc opus» (Vitae Patrum, 4). Il vescovo Quinziano partecipò ai concilii di Agde (506) e di Orléans (511).
Il Martirologio Romano commemora sant'Amanzio il 4 novembre, mentre nei principali codici del Geronimiano è ricordato il 1° e il 13 novembre, in altri, infine, il 4 dello stesso mese. Amanzio fu venerato non solo nella diocesi di Rodez, ma anche in numerose altre diocesi francesi.


Autore: Filippo Caraffa

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05/11/2015 07:42
 
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Beata Beatrice de Suabia Regina

5 novembre


Germania, 1200 circa – Toro, Zamora (Spagna), 1235 circa

Beatriz, quarta figlia di Filippo di Suabia ed Irene Angelo, nonché nipote dell’imperatore Federico Barbarossa, andò in sposa il 30 novembre 1219 a San Ferdinando III re di Castiglia e Leon. Fu così madre del futuro sovrano Alfonso X e di ben altri nove figli: Fadrique, Fernando, Enrique, Felipe, Sancho, Manuel, Leonor, Berenguela e María. Fece parte dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, preferendo dunque ai beni terreni la gloria celeste e fu ricompensata da Dio con una speciale corona, l’aureola della santità. Le sue spoglie riposano nella cattedrale di Siviglia accanto al marito. Le fu attribuito il titolo di “beata” e come tale è festeggiata il 5 novembre.







E’ cosa assai nota come in duemila anni di cristianesimo i santi che hanno sempre goduto di maggiore popolarità siano stati in prevalenza religiosi di ogni ordine e grado e martiri dei primi secoli. In secondo piano sono invece sempre passate purtroppo tutte quelle esemplari figure di coppie di sposi, che nella vita coniugale hanno tentato di attuare la cosiddetta Chiesa domestica, sposa di Cristo Signore.
Buona parte delle coppie di sposi a cui sia stato attribuito un culto pubblico sono sovrani di nazioni europee, ma purtroppo spesso e volentieri solo al marito è toccata una maggiore popolatrità, come nei casi di Carlo Magno ed Ildegarda, Stefano e Gisella d’Ungheria, Etelberto e Berta del Kent.
L’ennesimo caso di santa moglie un pò trascurata è costituito dalla regina Beatriz de Suabia. Poche sono in realtà le notizie certe sulla breve vita terrena di questa nobile donna. Nacque in Germania verso il 1200 dalla grande celebre famiglia degli Hohenstaufen, quarta figlia di Filippo di Svevia (1180-1208), duca di Suabia, e di Irene Angelo di Costantinopoli. Filippo era a sua volta figlio di Federico I Barbarossa (1122-1190), imperatore di Germania. Nelle vene di Beatriz scorreva dunque puro sangue imperiale, tanto da valerle il titolo di “Sua Altezza Imperiale”.
Una delle poche date certe sulla sua vita pare essere il 30 novembre 1219, giorno del matrimonio con il re Ferdinando III di Castiglia e Léon, ben più famoso di lei in quanto la sua memoria è legata alla riconquista della penisola iberica alla cristianità. Da questa felice unione nacquero il futuro sovrano Alfonso X ed altri nove figli: Fadrique, Fernando, Enrique, Felipe, Sancho, Manuel, Leonor, Berenguela e María.
La regina Beatriz fece parte dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, fondato in Spagna da San Pietro Nolasco e qui particolarmente diffuso. La sua appartenenza all’ordine fu evidentemente in qualità di terziaria, in quanto donna coniugata. Preferendo dunque ai beni terreni la gloria celeste, fu ricompensata da Dio con una speciale corona, l’aureola della santità. Nel 1235 circa, ancora in età non molto avanzata, Beatriz si spense a Tori, nei pressi di Zamona, e le sue spoglie furono in un primo tempo tumulate a Huelgas Rimasto dunque vedovo, Ferdinando III sposò in seconde nozze Juana de Ponthieu Montreueil che gli diede ancora tre figli: Fernando, Leonor e Luis. Quando il 30 maggio 1252 morì anch’egli e fu sepolto nella cattedrale di Siviglia, anche i resti dell’amata Beatriz furono traslati accanto a lui ed iniziarono ad essere oggetto di venerazione da parte dei fedeli. Le fu popolarmente attribuito il titolo di “beata” e come tale è festeggiata il 5 novembre, anche se purtroppo il suo culto pare essere costantemente rimasto limitato a livello locale ed all’Ordine Mercedario. Mentre il marito fu ufficialmente canonizzato nel 1671, per Beatriz de Suabia si è ancora dunque ancora in attesa almeno di una conferma di culto.
Per quanto riguarda l’iconografia a lei relativa, si segnalano un’immaginetta facente parte di una seria di santi mercedari ed una scultura lapidea del XIII secolo custodita nel chiostro della cattedrale di Siviglia.


Autore: Fabio Arduino

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06/11/2015 08:14
 
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La cerimonia di beatificazione officiata su mandato del Santo Padre Benedetto XVI dal Cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il 28 ottobre 2007 a Roma, avente per oggetto ben 498 martiri spagnoli, comprende la più folta schiera di testimoni della fede mai elevata alla gloria degli altari nei tempi moderni dalla Chiesa Cattolica, se non consideriamo gli 800 beati Martiri di Otranto, dei cui nomi però non vi è un elenco completo.
I novelli beati caddero vittime in odio alla loro fede cristiana durante la feroce persecuzione religiosa che contraddistinse la Guerra Civile Spagnola negli anni ’30 del XX secolo. In questa sanguinosa strage che attraversò la Spagna, il numero delle vittime superò il milione, colpendo persone di ogni età e classe sociale: vescovi, sacerdoti, religiosi e laici di ambo i sessi. E’ stato ormai appurato da parte degli storici che, all’interno di questo terribile massacro, gli anarchici ed i social-comunisti perpetrarono una vera e propria persecuzione volta ad annientare la Chiesa Cattolica in Spagna.
Con questa ennesima beatificazione di martiri periti in tali circostanze, la Chiese venera ad oggi un totale di 10 santi e 966 beati. Tanti solo coloro che a partire dal 1987 sono stati glorificati dalla Chiesa per non andasse perduto il ricordo della loro eroica testimonianza e poterrero essere posti a modelli per i cristiani del III millennio.
Nel fornire di seguito l’elenco completo dei 498 martiri beatificati nel 2007, suddiviso in base alle cause istruite dalle diverse diocesi e congregazioni, rimandiamo talvolta quando possibile a schede più specifiche ove sarà possibile trovare maggiori informazioni ed immagini dei vari martiri
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07/11/2015 08:02
 
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Sant' Amarando (Amaranto) Martire

7 novembre




Martirologio Romano: Presso Albi in Aquitania, ora in Francia, commemorazione di sant’Amaranto, martire.








L'unica notizia che ne abbiamo ci è fornita da Gregorio di Tours, che nel De gloria martyrum cita una Historia Passionis (perduta), priva, però, di valore storico, perché contemporanea non alla vita di Amarando, ma al ritrovamento della sua tomba.
Martirizzato probabilmente nel sec. III (sotto Decio, nel 250, o sotto Valeriano, nel 258), poiché la persecuzione del sec. IV in Gallia fece poche vittime, Amarando sarebbe stato sepolto ad Albi, in una località rimasta disabitata durante le guerre (san Gregorio allude alle invasioni barbariche dei Vandali o dei Goti); dato che Albi non fu mai completamente evacuata dalla popolazione, bisogna intendere che la tomba si trovava nei dintorni del paese, con ogni probabilità a Viancium (Vieux), dove il culto di Amarando è attestato dalla Vita di sant'Eugenio di Cartagine già nel sec. VI. Secondo la leggenda i ceri che i fedeli portavano alla tomba di Amarando, quando la località era ancora disabitata, si accendevano spontaneamente.
La chiesa di Vieux lo nominò come patrono secondario, dopo sant'Eugenio di Cartagine, nel 924; nel 1494 il vescovo Luigi I d'Amboise trasferì le sue reliquie, insieme con quelle dei ss. Longino, Vindemiale e Carissima, nella cattedrale di Albi. E' festeggiato ad Albi, seguendo Floro di Lione, il 7 novembre (forse la data è in rapporto con la festa di un sant'Amaranto, ricordato l'8 novembre nel Martirologio Geronimiano).
Ricordiamo che un altro Amarando, confuso da alcuni col nostro, sarebbe stato abate della abbazia di Moissac e poi vescovo di Albi dopo il 665.


Autore: Hubert Claude

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08/11/2015 09:06
 
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Sant' Adeodato I (o Deusdedit) Papa

8 novembre


m. 618



(Papa dal 19/10/615 al 08/11/618)
Nella serie dei Pontefici è indicato col nome originario Deusdedit («Dio ha dato») e con l’equivalente Adeodato («donato da Dio»). Figlio del suddiacono romano Stefano, è stato educato nel monastero dell’Urbe dedicato a sant’Erasmo. Poche le notizie sul suo pontificato giunte fino a noi. Sappiamo che Adeodato, succedendo nel 615 a papa Bonifacio IV, trova le alte cariche ecclesiastiche in mano a monaci, come ha voluto Gregorio Magno (590-604), e che le riaffida ai preti secolari, ma obbligandoli a pregare di più. All’epoca una parte d’Italia è in mano ai Longobardi e l’altra, con Roma, dipende dall’imperatore d’Oriente, rappresentato da un esarca che vive a Ravenna e spesso percorso da lotte di successione. Un tempo in cui non mancano le controversie dottrinali, ma Adeodato non ha il tempo di affrontarle. Nel 616 riappare nell’Urbe la peste, che aveva già fatto strage nel 590. Nel 618 arriva un’epidemia mortale di lebbra o scabbia. E tra un contagio e l’altro viene il terremoto, nell’agosto 618. È Adeodato che deve soccorrere e consolare, ma lo fa per poco perché proprio nel 618 muore. (Avvenire)

Etimologia: Adeodato = dato da Dio, dal latino


Martirologio Romano: A Roma presso san Pietro, san Deusdédit I, papa, che amò il suo clero e il suo popolo e fu insigne per semplicità e saggezza.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:





Nella serie dei Pontefici è indicato col nome originario Deusdedit (“Dio ha dato”) e con l’equivalente Adeodato (“donato da Dio”). Figlio del suddiacono romano Stefano, è stato educato nel monastero dell’Urbe dedicato a sant’Erasmo. Altre notizie non ci sono su di lui giovane, e ben poche sul suo pontificato, perché "durante la prima metà del VII secolo, che fra tutti fu per la città il più orribile e rovinoso, la storia di Roma è immersa in una oscurità fittissima" (F. Gregorovius).
Sappiamo che Adeodato, succedendo nel 615 a papa Bonifacio IV, trova le alte cariche ecclesiastiche in mano a monaci, come ha voluto Gregorio Magno (590-604); e che le ridà ai preti secolari, ma obbligandoli a pregare di più.All’epoca sua una parte d’Italia è in mano ai Longobardi; e l’altra, con Roma, dipende dall’imperatore d’Oriente, rappresentato da un esarca che vive a Ravenna. E che ci muore, a volte: come Giovanni Lemigio, ucciso dalle sue truppe rimaste senza stipendi. A sostituirlo arriva l’esarca Eleuterio, che incontra papa Adeodato a Roma e paga ai militari gli arretrati. Ma poi tenta di farsi proclamare imperatore e finisce trucidato. D’altronde, a Costantinopoli regna l’imperatore Eraclio, che ha fatto uccidere il predecessore Foca, il quale aveva ucciso il predecessore Maurizio e i suoi figli. Questi sono i tempi in Oriente e in Occidente, con l’aggiunta delle controversie dottrinali fra i cristiani. Ma Adeodato non ha il tempo di affrontarle. Nel 616 riecco nell’Urbe la peste, che aveva già fatto strage nel 590. Nel 618 arriva un’epidemia mortale di lebbra o scabbia.
E tra un contagio e l’altro viene il terremoto, nell’agosto 618. Così, lui “pontifica” in mezzo ai morti, e tra superstiti atterriti che gli chiedono aiuto, perché Roma appartiene all’imperatore lontano, ma le disgrazie dei romani “appartengono” al Papa. È Adeodato che deve soccorrere e consolare. Ma lo fa per poco: nell’anno terribile, la morte lo coglie. L’ “oscurità fittissima” di cui parla Gregorovius avvolge anche la sua fine, come quella di tante altre vittime. Non abbiamo notizie certe sui suoi ultimi giorni. Sappiamo soltanto che per dargli un successore ci vorranno tredici mesi.


Autore: Domenico Agasso

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09/11/2015 08:28
 
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Dai «Discorsi» di san Cesario di Arles, vescovo

(Disc. 229, 1-3; CCL 104, 905-908)
Con il battesimo
siamo tutti diventati tempio di Dio

Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo e vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che è proprio in essa che sono rinati spiritualmente.
Per la prima nascita noi eravamo coppe dell'ira di Dio; la seconda nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se rifletteremo un po' più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio. «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell'anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17). Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si è degnato di fare di noi la sua dimora.
Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa' piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11. 12).
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POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
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