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CREDENTI DA IMITARE (Eb.13,7)

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2019 13:12
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16/11/2014 08:30
 
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Santa Margherita di Scozia Regina e vedova

16 novembre - Memoria Facoltativa

Ungheria, circa 1046 - Edimburgo, Scozia, 16 novembre 1093


Figlia di Edoardo, re inglese in esilio per sfuggire all'usurpatore Canuto, Margherita nacque in Ungheria intorno al 1046. Sua madre, Agata, discendeva dal santo re magiaro Stefano. Quando aveva nove anni suo padre potè tornare sul trono; ma presto dovette fuggire ancora, questa volta in Scozia. E qui Margherita a 24 anni fu sposa del re Malcom III, da cui ebbe sei figli maschi e due femmine. Il Messale romano la descrive come «modello di madre e di regina per bontà e saggezza». Si racconta che il re non sapesse leggere e avesse un grande rispetto per questa moglie istruita: baciava i libri di preghiera che la vedeva leggere con devozione. Caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, li assisteva personalmente e invitava Malcom III a fare altrettanto. Già gravemente ammalata ricevette la notizia dell'uccisione del marito e del figlio maggiore nella battaglia di Alnwick: disse di offrire questa sofferenza come riparazione dei propri peccati. Morì a Edimburgo il 16 novembre 1093. (Avvenire)

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino

Martirologio Romano: Santa Margherita, che, nata in Ungheria e sposata con Malcolm III re di Scozia, diede al mondo otto figli e si adoperò molto per il bene del suo regno e della Chiesa, unendo alla preghiera e ai digiuni la generosità verso i poveri e offrendo, così, un fulgido esempio di ottima moglie, madre e regina.

Ascolta da RadioVaticana:


Nel suo celebre quadro, rappresentante il Paradiso, il Beato Angelico pose fra molti frati, anche un Re e una Regina, volendo significare che la corona reale può unirsi felicemente all'aureola della santità.
La Santa di oggi fu infatti Regina di Scozia, e Regina abbastanza fortunata, fatto insolito questo, perché le altre coronate, si santificarono quasi sempre attraverso la disgrazia, l'umiliazione e l'infelicità.
Molte sono le Margherite di sangue reale iscritte nel Calendario cristiano: Margherita figlia del Re di Lorena, benedettina del XIII secolo; Margherita figlia del Re d'Ungheria, domenicana dello stesso secolo; Margherita figlia del Re di Baviera, vedova del XIV secolo; Margherita di Lorena, allevata come figlia del Re Renato d'Angiò; alle quali si potrebbero aggiungere Margherita dei Duchi di Savoia e Margherita dei Conti Colonna.
Quella di oggi nacque nel 1046, nipote di Edmondo 11, detto Fianchi di Ferro, e figlia di Edoardo, rifugiatosi in terra straniera per sfuggire a Canuto, usurpatore del trono d'Inghilterra.
Sua madre, Agata, sorella della Regina d'Ungheria, discendeva dal Re Santo Stefano. Morto l'usurpatore Canuto, Edoardo poteva tornare in Inghilterra, quando Margherita non aveva che 9 anni, ma dopo qualche tempo, la famiglia reale dovette fuggire ancora, in Scozia, dove il Re Malcom III chiese la mano di Margherita, che a ventiquattro anni s'assideva così sul trono di Scozia.
Ebbe sei figli maschi e due femmine, che educò amorosamente e che non le diedero mai nessun dolore. Suo marito non era né malvagio né violento, soltanto un po' rude e ignorante. Non sapeva leggere, ed aveva un grande rispetto per la moglie istruita. Baciava i libri di preghiera che le vedeva leggere con devozione; chiedeva costantemente il suo consiglio.
Ella non insuperbì per questo. Si mantenne discreta, rispettosa e modesta. E caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, che assisteva e faceva assistere al Re. Per la Scozia non corsero mai anni migliori di quelli passati sotto il governo veramente cristiano di Malcom III e di Margherita, la quale, benvoluta dai sudditi, amata dal marito, venerata dai figli, dedicava tutta la sua vita al bene della sua anima e al benessere degli altri.
Non avendo dolori propri, cercò di lenire quelli degli altri; non avendo disgrazie familiari o dinastiche, cercò di soccorrere gli altri disgraziati, non conoscendo né, miseria né mortificazioni, cercò di consolare i miseri e gli umiliati. E accolse con animo lieto l'unica brutta notizia, che le giunse sul letto di morte. Il marito ed un figlio erano caduti combattendo in una spedizione contro Guglielmo detto il Rosso. A chi, con cautela, cercava di attenuare la crudeltà della notizia, Margherita fece capire di averla già avuta. E ringraziò Dio di quel dolore che le sarebbe servito a scuotere, nelle ultime ore, i peccati di tutta la vita.
Ciò non significava disamore e insensibilità verso il marito e il figlio morti. Ella sperava, anzi ne era certa, di riunirsi a loro, dopo quel doloroso passo, oltre la porta della morte, nella luce della Redenzione.
La Chiesa la venera come santa dal 1691.

Fonte: Archivio Parrocchia
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18/11/2014 06:33
 
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Sant' Oddone di Cluny Abate

18 novembre

Sec. X


Il futuro Abate di Cluny era nato nella regione di Tours, verso l’880, da famiglia nobile. Suo padre, privo di discendenza, aveva chiesto la grazia di un figlio e quando nacque lo offrì a San Martino. Oddone venne però avviato alla vita da cavaliere e solo dopo una grave malattia il padre is ricordò del voto e gli permise di intraprendere la vita religiosa. Al tempo, però, la vita monastica era priva di vera spiritualità e spesso si riduceva alla "gestione di una rendita". Ma Oddone riprese la tradizione benedettina con la massima serietà, rinunciando a tutti i privilegi economici spettanti a un abate. Fissò la sua dimora a Cluny, da dove iniziò l’opera di riforma e addirittura di rifondazione della vita monastica. Oddone morì nel 942, quando i monaci cluniacensi erano sparsi in tutta Europa, salvando il patrimonio culturale del Vecchio Continente e permettendone il progresso.

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Tours in Neustria, sempre in Francia, transito di sant’Oddone, abate di Cluny, che rinnovò l’osservanza monastica secondo i dettami della regola di san Benedetto e la disciplina di san Benedetto di Aniane.


La memoria segnata oggi sul Calendario universale della Chiesa non è quella di un Santo, ma quella di due chiese insigni dedicate alla memoria di due grandissimi Santi, anzi delle due colonne del Cristianesimo: San Pietro e San Paolo. Viene cioè ricordato, in questo giorno, la dedica della basilica vaticana e quella della basilica ostiense, dedicata a San Paolo.
Ma non si può dimenticare che oggi cade anche la ricorrenza di un grande Abate francese: non fondatore, ma riformatore della celebre abbazia di Cluny. E dire Cluny, vuol dire il centro più importante di vita spirituale e anche intellettuale, religiosa e anche artistica nell'Europa dei secoli intorno al Mille.
Il futuro Abate di Cluny era nato nella regione di Tours, patria di San Martirio e di San Gregorio, verso l'880, da famiglia nobile. Suo padre, castellano ed esperto nel giure, veniva consultato nelle controversie e chiamato ad arbitrare le contese tra l'aristocrazia del paese. Ormai avanti con gli anni, e privo di discendenza, una notte di Natale chiese a Dio il dono di un figlio. Avutolo, lo offrì neonato a San Martino, promettendolo dunque alla vita religiosa. Ma più tardi, dimenticata l'offerta, lo fece studiare e inviò il proprio erede nelle corti più mondane, perché diventasse un perfetto cavaliere.
Sui diciotto anni, il giovane paggio si ammalò gravemente. Sembrò che dovesse morire. " O glorioso San Martino - esclamò il padre – ecco il voto che vi avevo offerto. Voi lo esigete con rigore ". Lasciò dunque che il paggio suo figlio prendesse la tonsura, abbandonando le cacce e i tornei.
Oddone poteva diventare uno di quegli Abati commendatari, che ricevevano le rendite delle Abbazie senza neppure visitarle. La vita monastica, dopo l'invasione dei Normanni, era ridotta a una larva di spiritualità, e le abbazie non differivano molto dai feudi temporali.
Ma Oddone riprese la tradizione benedettina con la massima serietà. Studiava e pregava, rinunziando a tutti i privilegi e soprattutto alle dispense, che avevano distrutto la disciplina monastica. Presto fu seguito dai migliori e da tutti coloro che videro in lui un Abate degno di questo nome, cioè un padre spirituale, non un feudatario mondano.
Egli fissò la sua dimora a Cluny, di dove iniziò l'opera di riforma e addirittura di rifondazione. La sua autorità si sparse per tutta la Francia, varcando anche i confini. Nonostante i suoi doveri di Abate, dava esempio di una prodigiosa attività non solo spirituale, ma intellettuale.
Compose molte opere, tra le quali perfino un poema epico, ispirato alla Bibbia, in esametri, intitolato Occupatio. Il segreto della vita monastica era infatti l'" occupazione ", cioè il contrario dell'ozio.
Tornando alla piena e serena " occupazione ", i monaci di Cluny furono i promotori di una nuova vita, spirituale e pratica, intellettuale e artistica. Attorno ai loro monasteri sorsero centri agricoli e artigianali, che favorirono il progresso civile della Francia e di tutta l'Europa.
Morendo verso i settant'anni, nel 942, Sant'Oddone poteva così benedire i suoi monaci sparsi in tutte le abbazie cluniacensi, dopo aver rinnovato nel mondo il miracolo benedettino. E i suoi monaci, avrebbero potuto ripetere per lui i versi che Oddone aveva dedicato a San Martino: " Tu che per tre volte hai vinto il caos, rialza quelli che son caduti nel peccato; come tu dividesti il tuo mantello, rivestici della giustizia! ".


Fonte:
Archivio Parrocchia
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19/11/2014 08:19
 
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Santa Matilde di Hackeborn (o di Helfta) Monaca

19 novembre

Sec. XIII


Nasce attorno al 1240 nel castello di Helfta, in Sassonia, da una delle più delle più nobili e potenti famiglie della Turingia, i von Hackeborn. La sorella maggiore, Gertrude, è badessa nel convento di Helfta. All'età di sette anni Matilde viene accolta come educanda nel monastero benedettino di Rodardsdorf. Qui la sua vocazione cresce e la giovane decide di indossare il velo. Nel 1258 raggiunge la sorella maggiore a Helfta dove, tre anni più tardi, le viene affidata la cura di una giovane monaca che resterà nella storia con il nome di santa Gertrude la Grande. Proprio a quest'ultima Matilde confesserà le proprie visioni mistiche. Da queste confidenze nascerà poi uno dei libri più noti della mistica medievale: il Libro della grazia speciale. Matilde, particolarmente dotata nel canto, cura e dirige il coro del monastero e per questa sua qualità sembra che lo stesso Dante si sia ispirato a lei per la figura di Matelda nel Purgatorio. Muore nel monastero di Helfta nel 1298. (Avvenire)

Etimologia: Matilde = forte in guerra, dal tedesco

Martirologio Romano: Nel monastero di Helfta nella Sassonia in Germania, santa Mectilde, vergine, che fu donna di squisita dottrina e umiltà, illuminata dal dono divino della contemplazione mistica.


NOME
Essendo il nome della monaca di Helfta in tedesco Mechthild o, latinizzato Mechtildis, la prima edizione italiana delle sue visioni reca il nome di Mettilde (1588) e l'ultima (1939) Metilde. Comunemente nelle lingue italiana, spagnola e francese prevalse la forma Matelda (Dante), Mathilde, Matilda.

VITA
Nata nel 1241 dai nobili di Hackeborn Matilde, una delle sorelle minori di Gertrude di Hackeborn, fece con la madre una visita al monastero di Rodersdorf, diocesi di Halberstadt, dove Gertrude era già monaca. La bimba settenne fu tanto attratta dal sacro ambiente che non volle allontanarsene e chiese di esservi ammessa; le fu consentito. Dal 1251 fino al 1292 Gertrude fu badessa della comunità, che si trasferì nel 1258 a Helfta presso Eisleben. Gertrude, premurosa della formazione monastica, letteraria e spirituale delle sue figlie, ebbe nella sua capacissima sorella Matilde un grande e saggio aiuto. Matilde si distinse per la profonda umiltà, per l'innocenza e l'amabilità tanto da divenire per le consorelle e per altra gente consigliera ricercata. I Domenicani del convento di Halle avevano allora la direzione spirituale del monastero e tra loro, specialmente, il padre lettore fra Enrico di Halle, morto prima del 1294.
Per le sue doti intellettuali e artistiche, Matilde ebbe la direzione della scuola del monastero e fu nominata «cantora». La sua bella voce e il fervore nel canto le meritarono il nome di «usignuolo di Cristo». La lode di Dio era per lei l'occupazione primaria della sua Vita e l'espressione più profonda ed alta della sua esistenza. Nella recita e nel canto del divino ufficio tutta la sua anima religiosamente vibrava. Le parole fluivano dolci dalle sue labbra e spesso, durante l'ufficiatura, veniva rapita in estasi. Tutto il suo raccoglimento, la sua pietà e la sua devozione convergevano verso la liturgia, donde essa ricavava ampi lumi di contemplazione e ardente amore divino. Con diligente cura custodiva i suoi sensi infliggendosi dure penitenze e con coraggio mortificava il suo delicato corpo per compensare generosamente, dinanzi alla maestà divina, il male commesso dai peccatori.
Nonostante l'applicazione all'esercizio di tutte le virtù e nonostante i favori ricevuti dal Signore, che la portavano alle alte vette della contemplazione e della perfezione, essa si accusava talvolta di pigrizia e di tristezza. Soffriva di atroci mal di testa, che negli ultimi anni (dal 1290 e più ancora dal 1295) si aggravarono, unitamente ad altre infermità, sottoponendola a un vero martirio. Ricevette l'Estrema Unzione il 18 ottobre1299 e morì «offrendo il suo cuore al Salvatore e immergendolo in quello di lui» il 19 novembre 1299.

SCRITTI
Gli scritti di proprio pugno di Matilde sono soltanto alcune lettere ad una matrona. Dal 1291 in poi i racconti occasionali sulle sue esperienze spirituali furono raccolti da due consorelle, per ordine della badessa Sofia di Querfurt 1292-1303). Una di queste religiose era Gertrude (non la sorella della santa, ma una discepola di Matilde a Helfta, e anch'ella futura santa).
Quando Matilde seppe che alcune sue discepole avevano assiduamente notato tutto quello che da lei avevano appreso sui favori e sugli insegnamenti ricevuti da Dio, rimase confusa e inconsolabile; ma il Signore le assicurò che molte grazie sarebbero state elargite a quanti avessero letto quelle pagine. Allora Matilde si applicò con molta cura a rivedere il manoscritto. Lo stile di Matilde rivela una fantasia pura, feconda, capace di nobilitare ogni cosa. Anche nei fatti ordinari e negli eventi d'ogni giorno Matilde sa trovare riferimenti al «Diletto della sua anima». Lo scritto che tratta principalmente delle sue esperienze mistiche, Liber specialis gratiae, contiene, in cinque libri, la descrizione delle visioni e delle grazie ottenute durante la contemplazione. In esso sono riportati anche alcuni colloqui con il Salvatore, molte considerazioni stimolanti all'amore e alla dedizione totale a lui e squarci escatologici. Il domenicano Teodorico d'Apolda stimò grandemente il Liber specialis gratiae e lo approvò.
Ordinate secondo il ciclo dell'anno liturgico, le esposizioni matildiane rispecchiano uno spirito trinitario e cristocentrico. Un rilievo particolare meritano le preghiere e le pratiche della devozione al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore purissimo di Maria. Il Liber specialis gratiae, redatto probabilmente in latino, documenta l'alto grado di cultura letteraria e teologica delle monache di Helfta. L'autografo di Helfta non è conservato; sulla tradizione del testo latino e di quello olandese medievale ha trattato minuziosamente R. Bromberg.

SPIRITUALITÀ
La spiritualità matildiana presenta in una fusione ardente e fantasiosa elementi di molteplice origine: elementi provenienti dalla regola benedettina, elementi domenicani per l'influsso dei direttori spirituali e altri, tratti dalle letture bernardine e francescane. Sopra questi vari elementi domina, come una novità nella storia della spiritualità, la «mistica di sposa» che prima di Matilde non si trova nei documenti del passato, ma che si ritroverà in seguito nelle esperienze e nelle Vitae di sante religiose fino a s. Teresa, anzi fino ai giorni nostri.
Dio ricolmò Matilde, già negli anni più teneri, di grazie segnalatissime. La familiare e fiduciosa conversazione con il Signore tuttavia non fu mai interrotta. Matilde sperimentò anche stati di desolazione che le parvero simili a pene dell'inferno. Soltanto in occasione di un'atroce sofferenza al capo che l'afflisse verso i cinquant'anni, essa parlò delle sue esperienze spirituali. Accanto all'alta contemplazione Matilde fu tentata da molteplici distrazioni e da altre debolezze. Per liberarsene ricorse a Maria S.ma mentre nei patimenti fisici, essa fu consolata dal Signore. Il solo pensiero che nella solitudine dei patimenti essa poteva darsi più tranquillamente alla preghiera era per lei un sollievo. Il suo spirito si concentrò tutto sulla lode e sull'amore di Dio: l'abbandono alla volontà di Dio è - secondo la parola di Cristo a lei diretta - la condizione per l'ineffabile letizia che riempie l'anima quando essa diventa una con Dio. Matilde paragona questa unione - come altri mistici all'assorbimento di una goccia d'acqua in un barile di vino. Nell'attiva e sentita celebrazione dell'Ufficio divino e nell'assistenza al sacrificio eucaristico, Matilde si esibiva nel canto della laus Dei.
Le visioni di Matilde si riferiscono alla S.ma Trinità, alla persona del Salvatore, alla beata Vergine Madre Maria, agli angeli e ai santi: fra questi ad Alberto Magno e a Tommaso d'Aquino, alle anime beate e del purgatorio e a quelle dannate. Di solito quando un'immagine sorgeva in lei, essa la guardava attentamente e ne ricavava una verità o una dottrina; nei casi invece di visioni intellettuali, le mancò la possibilità di esprimersi. Una meravigliosa dolcezza legata ai misteri descritti - dunque oggettiva - riempie senza turbamenti il mondo spirituale matildiano.
Nelle preghiere di petizione Matilde abbracciava - con un largo cuore - i bisogni del mondo visibile e invisibile, riunendo insieme ecclesiastici e reggitori di stato, popoli e singoli, peccatori, carcerati e anime del purgatorio. Spesso applicava l'aggettivo «augusto» a Cristo o a Maria o alle cose celesti, segno chiaro che l'idea dell'impero terreno nel suo spirito si congiungeva, viva e amorosa, con l'ordine ecclesiastico, religioso e spirituale.
Un ruolo particolare spetta a Matilde nella storia del culto al Sacro Cuore. Infatti, non solo era devotissima al Sacro Cuore, dal quale otteneva speciali grazie (donde il titolo Liber specialis gratiae), ma lei stessa divenne lo strumento provvidenziale che attrasse s. Gertrude e le altre consorelle alla devozione al Sacro Cuore. CosI tale devozione per merito di Matilde e Gertrude si manifesta per la prima volta in piena luce sul finire del sec. XIII, per avere una nuova fioritura, nel sec. XVI. I temi del Cuore di Gesti, dei suoi dolori, delle sue piaghe, della sua pena di morte e della trafittura trovarono il loro pieno coronamento nel concetto del Cuore del Salvatore glorioso, che siede alla destra del Padre, mediatore universale presso la S.ma Trinità.
Questi pensieri dalla liturgia monastica fluivano nella spiritualità matildiana e il S. Cuore concretizza per Matilde la formula liturgica Per Dominum nostrum lesum Christum: dal Sacro Cuore sgorga e prende moto la vita morale e mistica. Nella storia mariana Matilde spicca per la devozione al cuore purissimo di Maria. S. Pietro Canisio (m. nel 1597) possedeva un libriccino contenente preghiere matildiane al Sacro Cuore di Gesti. Martino da Cochem pubblicò nel 1668 un libro di preghiere delle ss. Gertrude e Matilde con aggiunta un'istruzione sulla preghiera orale.
Il Brornberg mostra la ricchezza della spiritualità matildiana particolareggiando la presentazione in suggestivi paragrafi: cioè, 1) influssi, fonti e carattere; 2) devozione al S. Cuore; 3) devozione all'umanità di Cristo; 4) la mistica di sposa; 5) la devozione alla S.ma Trinità; 6) l'Eucaristia; 7) la devozione a Maria S.ma; 8) la dottrina delle virtù; 9) la santificazione; 10) il peccato e la confessione; 11) la devozione agli angeli.

ICONOGRAFIA
Matilde è rappresentata per lo più nell'abito dell'ordine dei cistercensi e reca tra le mani un libro (probabilmente la sua opera: Buch besonderer Gnade) come nella paia di altare nella chiesa di S. Gertrude di Mauterndorf (1750) e la statua nel convento di Engelszell (1759).

CULTO
Benché non sia stata mai canonizzata, Matilde è stata venerata come santa in vari monasteri osservanti la regola di s. Benedetto. La sua festa è indicata nei martirologi il 16 febbraio e il 19 novembre.


Autore: Angelo Walz
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20/11/2014 06:43
 
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Sant' Edmondo Re degli Angli Orientali, martire

20 novembre


841/42 - Thetford, Inghilterra, 20 novembre 870

Re dell'Estanglia, territorio costituito dalle contee di Norfolk e Suffolk, il martire Edmondo è patrono dell'Inghilterra. Nato attorno all'841, Edmondo visse in un secolo, il IX, che era caratterizzato dalle razzie degli occupanti danesi secondo un metodo collaudato: l'assedio e la richiesta di una taglia per risparmiare persone e cose. Edmondo, invece, nell'869, non si piegò al ricatto e ingaggiò battaglia con il suo piccolo esercito ma venne sconfitto e fatto prigioniero. A Edmondo furono promesse la salvezza e il mantenimento della corona se avesse rinnegato la sua fede religiosa e si fosse dichiarato vassallo dei danesi. Rispose senza esitazione per due volte no e così venne trafitto dalle frecce dei vincitori. Riposa a Bury St. Edmund, ad una cinquantina di chilometri da Cambridge. (Avvenire)

Etimologia: Edmondo = difensore della proprietà, dal tedesco


Emblema: Lupo, Freccia, Palma


Martirologio Romano: In Inghilterra, sant’Edmondo, martire, che, re degli Angli orientali, catturato nella guerra contro i pagani invasori, fu coronato dal martirio per la fede in Cristo.







E' un santo più vivo nella memoria popolare d’Inghilterra che in tante pagine di documenti storici. Ed è vivo soprattutto per il modo e le ragioni della sua morte. Ma di lui sappiamo poco, e quel poco è pure raccontato male, per quanto concerne le sue origini. Gli storici, infatti, respingono la tradizione secondo cui Edmondo sarebbe stato figlio del re Alkmund di Sassonia, nato a Norimberga e poi adottato dal re dell’Estanglia, ossia dell’Inghilterra orientale, formata principalmente dalle contee di Norfolk e Suffolk. Perciò, niente Norimberga e niente adozione.
Sappiamo soltanto che Edmondo è l’ultimo re di questo territorio, in tempi durissimi per tutta l’Inghilterra, aggredita continuamente dai danesi. I quali dapprima sono una flotta che va all’arrembaggio dell’Isola, con sbarco, saccheggio, uccisioni, e reimbarco con tanto di bottino; i cronisti dell’epoca lasciano racconti atterriti di queste sanguinarie imprese. Poi i danesi si fanno anche occupanti (e, più tardi ancora, anche governanti: certo, a modo loro, ma lasciando tracce importanti nella storia britannica).
Al momento, i danesi sono una massa di specialisti dell’aggressione, chiamata here (un nome che ai tempi di Edmondo dà i brividi). Essi sono comandati da tre fratelli: Halfdene, Ivarr e Ubba. Il metodo è quello del "decidete un po’ voi": prima le minacce di saccheggio e morte (e di esempi ne hanno già dati molti), poi la richiesta di una taglia per risparmiare persone e cose. Accade spesso che certe popolazioni accettino di pagare, purché se ne vadano.
Nell’anno 869, eccoli irrompere in Estanglia. Dapprima compiono i soliti saccheggi e distruzioni, poi parlano di trattative. Vogliono instaurare il loro dominio sul regno. Ma qui c’è il giovane re Edmondo. Il quale, dopo quello che ha già visto, non tratta con nessuno. Edmondo combatte, col suo piccolo esercito, col suo grande carattere. Ma viene sconfitto e preso prigioniero.
I vincitori gli offrono salve la vita e la stessa corona, a patto che rinneghi la sua fede religiosa e che si dichiari vassallo dei danesi. Edmondo risponde due volte no, e subito le frecce danesi lo trafiggono. La sua morte segna la fine del regno dell’Estanglia, ma l’Inghilterra si riempie del suo nome. Il giovane re sconfitto diventa una bandiera. Prima che finisca il secolo, una moneta coniata durante il suo regno viene già chiamata “penny di sant’Edmondo”.
Già santo, già canonizzato dai compatrioti; e più tardi la Chiesa lo proclamerà patrono d’Inghilterra. Il suo corpo avrà definitiva sepoltura a Beadoricesworth, che oggi si chiama Bury St. Edmund (a circa 50 km da Cambridge). Al suo nome si è intitolata una congregazione di sacerdoti inglesi, i “Preti di sant’Edmondo”.

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21/11/2014 06:08
 
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Santi Celso e Clemente Martiri

21 novembre


Emblema: Palma



Il 21 novembre nel Martirologio Romano sono commemorati, come martiri a Roma, Celso e Clemente, introdottivi dal Baronio sull'autorità del Martirologio di S. Ciriaco (sec. XI), che, però, è testo di scarso valore storico. In realtà, Clemente è il papa del sec. I, celebrato il 23 novembre, la cui memoria, nel Martirologio Geronimiano, ricorre anche, per un'erronea anticipazione, al 21 novembre. Di Celso, invece, nulla può dirsi, ma è possibile che al 21 novembre sia celebrato uno dei tanti santi di questo nome, che ricorre molto spesso nei martirologi antichi.


Autore: Alfonso Codaghengo
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22/11/2014 10:03
 
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Santa Cecilia Vergine e martire

22 novembre

sec. II-III


Al momento della revisione del calendario dei santi tra i titolari delle basiliche romane solo la memoria di santa Cecilia è rimasta alla data tradizionale. Degli altri molti sono stati soppressi perché mancavano dati o anche indizi storici riguardo il loro culto. Anche riguardo a Cecilia, venerata come martire e onorata come patrona dei musicisti, è difficile reperire dati storici completi ma a sostenerne l'importanza è la certezza storica dell'antichità del suo culto. Due i fatti accertati: il «titolo» basilicale di Cecilia è antichissimo, sicuramente anteriore all'anno 313, cioè all'età di Costantino; la festa della santa veniva già celebrata, nella sua basilica di Trastevere, nell'anno 545. Sembra inoltre che Cecilia venne sepolta nelle Catacombe di San Callisto, in un posto d'onore, accanto alla cosiddetta «Cripta dei Papi», trasferita poi da Pasquale I nella cripta della basilica trasteverina. La famosa «Passio», un testo più letterario che storico, attribuisce a Cecilia una serie di drammatiche avventure, terminate con le più crudeli torture e conclusesi con il taglio della testa. (Avvenire)

Patronato: Musicisti, Cantanti

Etimologia: Cecilia = dal nome di famiglia romana

Emblema: Giglio, Organo, Liuto, Palma
Martirologio Romano: Memoria di santa Cecilia, vergine e martire, che si tramanda abbia conseguito la sua duplice palma per amore di Cristo nel cimitero di Callisto sulla via Appia. Il suo nome è fin dall’antichità nel titolo di una chiesa di Roma a Trastevere.

Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:


Nel mosaico dell’XI secolo dell’abside della Basilica di Santa Cecilia a Roma oltre a Cristo benidecente, affiancato dai santi Pietro e Paolo, alla sua destra è rappresentata santa Cecilia, posta accanto a papa Pasquale I, che reca in mano proprio questa chiesa da lui fatta edificare nel rione Trastevere: l’aureola quadrata del Pontefice indica che egli era ancora vivo quando venne eseguita l’opera.
A sinistra di Cristo, invece, san Valeriano, sposo di santa Cecilia. La fondazione del titulus Caeciliae risale al III secolo. Il Liber pontificalis narra che nell’anno 545, durante le persecuzioni cristiane, il segretario imperiale Antimo andò ad arrestare papa Vigilio e lo trovò nella chiesa di Santa Cecilia, a dieci giorni dalle calende di dicembre, ovvero il 22 novembre, ritenuto dies natalis della santa. Tuttavia altre fonti storiche (come il Martirologio geronimiano del V secolo) ritengono che questa non sia la data della morte o della sepoltura, ma della dedicazione della sua chiesa.
La Nobildonna romana, benefattrice dei Pontefici e fondatrice di una delle prime chiese di Roma, visse fra il II e III secolo. Venne iscritta al canone della Messa all’inizio del VI secolo, secolo in cui sorse il suo culto. Nel III secolo papa Callisto, uomo d’azione ed eccellente amministratore, fece seppellire il suo predecessore Zeferino accanto alla sala funeraria della famiglia dei Caecilii. In seguito aprì, accanto alla martire, la “Cripta dei Papi”, nella quale furono deposti tutti gli altri pontefici di quello stesso secolo.
Cecilia sposò il nobile Valeriano. Nella sua Passio si narra che il giorno delle nozze la santa cantava nel suo cuore: «conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa». Da questo particolare è stata denominata patrona dei musicisti. Confidato allo sposo il suo voto di castità, egli si convertì al Cristianesimo e la prima notte di nozze ricevette il Battesimo da papa Urbano I. Cecilia aveva un dono particolare: riusciva ad essere convincente e convertiva. Le autorità romane catturarono san Valeriano, che venne torturato e decapitato; per Cecilia venne ordinato di bruciarla, ma, dopo un giorno e una notte, il fuoco non la molestò; si decise, quindi, di decapitarla: fu colpita tre volte, ma non morì subito e agonizzò tre giorni: molti cristiani che lei aveva convertito andarono ad intingere dei lini nel suo sangue, mentre Cecilia non desisteva dal fortificarli nella Fede. Quando la martire morì, papa Urbano I, sua guida spirituale, con i suoi diaconi, prese di notte il corpo e lo seppellì con gli altri papi e fece della casa di Cecilia una chiesa.
Nell’821 le sue spoglie furono traslate da papa Pasquale I nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere e nel 1599, durante i restauri, ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati in occasione dell’imminente Giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago con il corpo della martire che ebbe l’alta dignità di essere stata sepolta accanto ai Pontefici e sorprendentemente fu trovata in un ottimo stato di conservazione. Il Cardinale commissionò allo scultore Stefano Maderno una statua che riproducesse quanto più fedelmente l’aspetto e la posizione del corpo di santa Cecilia, così com’era stato ritrovato, con la testa girata a tre quarti, a causa della decapitazione e con le dita della mano destra che indicano tre (la Trinità) e della mano sinistra uno (l’Unità); questo capolavoro di marmo si trova sotto l’altare centrale di Santa Cecilia.
Nel XIX secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e studiosi, che intendevano restituire onore alla musica liturgica sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare. Il movimento ebbe il grande merito di ripresentare nelle chiese il gregoriano e la polifonia rinascimentale delle celebrazioni liturgiche cattoliche. Nacquero così le varie Scholae cantorum in quasi tutte le parrocchie e i vari Istituti Diocesani di Musica Sacra (IDMS), che dovevano formare i maestri delle stesse Scholae.
Il tortonese e sacerdote Lorenzo Perosi, che trovò in San Pio X un paterno mecenate, è certamente l’esponente più celebre del Movimento Ceciliano, che ebbe in Papa Sarto il più grande sostenitore. Il 22 novembre 1903, giorno di santa Cecilia, il Pontefice emanò il Motu Proprio Inter Sollicitudines, considerato il manifesto del Movimento.


Autore: Cristina Siccardi
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24/11/2014 07:57
 
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Santi Martiri Vietnamiti (Andrea Dung Lac e 116 compagni)

24 novembre

+ Tonchino, Annam, Cocincina (Vietnam), dal 1745 al 1862


Il cristianesimo giunse in Vietnam sul finire del secolo XVI, ma fu continuamente osteggiato dai regnanti locali tanto che, tra i secoli XVII e XIX, si susseguirono più di 50 editti contro i cristiani, che provocarono l’uccisione di circa 130 mila fedeli. La persecuzione toccò il suo acme sotto il regno di Tu-Duc (1847-1883): per i nativi era difficile dissociare la nuova fede dalla politica coloniale francese che pretendeva di impadronirsi del paese. I missionari venivano braccati a pagamento e uccisi sul luogo stesso dove venivano arrestati; ai catechisti vietnamiti veniva impresso a fuoco sul volto la scritta: «Falsa religione». I semplici fedeli avevano salva la vita solo se calpestavano la croce; altrimenti subivano supplizi di ogni genere inventati con fantasia feroce. In ogni caso, i nuclei familiari cristiani venivano smembrati e i congiunti erano deportati in regioni diverse, privati di ogni proprietà e di ogni legame religioso. Nel 1988 vari gruppi di martiri vietnamiti, beatificati dai precedenti pontefici, sono stati unificati in un solo gruppo e canonizzati da papa Giovanni Paolo II che li ha anche dichiarati «Patroni del Vietnam».Vi sono compresi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici (tra cui medici, militari, molti padri di famiglia e una mamma). A rappresentarli tutti, il Messale Romano nomina Andrea Dung-Lac, prima catechista e poi sacerdote, che riscuote in Vietnam una particolare devozione. Di un altro martire (Paolo Le-Bao-Tinh) il Breviario riporta oggi un brano di lettera dove si legge: «In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia perché non sono solo, ma Cristo è con me».

Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Dung Lac, sacerdote, e compagni, martiri. Con un’unica celebrazione si onorano centodiciassette martiri di varie regioni del Viet Nam, tra i quali otto vescovi, moltissimi sacerdoti e un gran numero di fedeli laici di entrambi i sessi e di ogni condizione ed età, che preferirono tutti patire l’esilio, il carcere, le torture e l’estremo supplizio piuttosto che recare oltraggio alla croce e rinnegare la fede cristiana.

Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:


La storia del cattolicesimo in Vietnam, iniziò nel secolo XVI con padre Alessandro de Rhodes, missionario francese, considerato il primo apostolo di questa giovane Chiesa asiatica, allora divisa un tre distinte regioni: Tonchino, Annam e Cocincina.
Ma dal 1645 quando padre de Rhodes fu espulso, ci fu tutto un sopravvenire di persecuzioni, alternate da periodi di pace, in cui i missionari di varie Congregazioni si stabilizzavano nelle regioni, rincuorando i fedeli e soprattutto istituendo le ‘Case di Dio’ per la formazione del clero locale e dei catechisti.
Dal 1645 al 1886, si ebbero ben 53 editti contro i cristiani con la morte di circa 113.000 fedeli. Durante il regno di Minh-Manh (re dal 1821), la persecuzione divenne spietata, condannando a morte anche chi osava solo nascondere i cristiani; altro re particolarmente contrario fu Tuc-Dúc che regnò dal 1847 al 1883, il quale profondamente avverso alla politica coloniale francese, odiava tutto ciò che fosse europeo, non distinguendo la politica dalla religione; stabilì che chi collaborava alla cattura di un missionario riceveva 300 once d’argento, mentre il missionario, dopo avergli spaccato il cranio, doveva essere gettato nel fiume.
I sacerdoti locali ed i catechisti stranieri venivano sgozzati, mentre ai catechisti locali veniva impressa sulla guancia la scritta “Ta dao” che significa “falsa religione”, additandoli così al pubblico disprezzo; i semplici fedeli cristiani potevano aver salva la vita se calpestavano la croce davanti al giudice.
Inoltre davanti alla fermezza nella fede dei cristiani, ne ordinò la dispersione, separando i mariti dalle mogli ed i figli dai genitori, esiliandoli in regioni lontane in mezzo ai pagani, confiscando tutti i loro beni.
Di questa miriade di martiri, eroi della fede, la Chiesa ne ha beatificati un certo numero negli anni: 1900 da Leone XIII, 1906 e 1909 da Pio X, 1951 da Pio XII; di questi 117 sono stati proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988, così suddivisi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici; 96 sono vietnamiti, 11 spagnoli, 10 francesi; fra i laici vi sono 16 catechisti, una mamma, 4 medici, 6 militari, molti padri di famiglia.

Il capolista dei 117 martiri è Andrea Dung-Lac prima catechista e poi sacerdote vietnamita. Nacque nel 1795 da genitori pagani ma così poveri che se ne disfecero volentieri vendendolo ad un catechista, visse alla missione di Vinh-Tri, dove fu battezzato, istruito e diventando anche catechista; continuò gli studi teologici e il 15 marzo 1823 fu consacrato sacerdote, nominato parroco in varie zone, alla fine fu arrestato più volte durante la persecuzione del re Minh-Manh, ogni volta fu riscattato presso i mandarini, dai cristiani locali, continuando, pericolosamente per lui, l’apostolato fra i fedeli e amministrando i sacramenti.
Arrestato ancora una volta il 10 novembre 1839 dal sindaco di Ké-Song, fu rilasciato dietro il pagamento di 200 pezze d’argento raccolte fra i cristiani, ma mentre attraversava il fiume in barca per allontanarsi, ebbe delle difficoltà per cui fu aiutato a scendere a terra sull’altra sponda; chi l’aiutò era il segretario del prefetto che riconosciutolo esclamò: “Ho preso un maestro di religione!”.
Condotto nella prigione di Hanoi il 16 novembre 1839, fu sottoposto a snervanti interrogatori e invitato più volte ad apostatare e calpestare la croce, ma essendo restato fermo nella sua fede venne condannato alla decapitazione, sentenza eseguita il 21 dicembre 1839.
È stato posto come capolista nel calendario liturgico, sia per il culto che gode nel suo Paese, sia per l’esempio luminoso dato durante la sua vita. Gli altri 116 santi martiri nel Tonchino (Vietnam) hanno ognuno una storia edificante del loro martirio, compiutasi in luoghi e date diverse, ma accomunati nella gloria dei santi. La comune festa liturgica dei 117 martiri del Tonchino (Vietnam), fu fissata al 24 novembre, con memoria singola per alcuni di essi, specie per quelli appartenenti a Congregazioni Missionarie.

Segue un elenco dei 117 santi martiri in base alle date di martirio:

90887
Francesco Gil De Federich De Sans, sacerdote Domenicano
Matteo Alonso de Leciñana y Alonso, sacerdote Domenicano
+ 22 gennaio 1745

90893
Vincenzo Le Quang Liem, sacerdote Domenicano
Giacinto Castañeda Puchasóns, sacerdote Domenicano
+7 novembre 1773

70530
Emanuele Nguyen Van Trieu, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+17 settembre 1798

75490
Giovanni Dat, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 28 ottobre 1798

74040
Pietro Le Tuy, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 11 ottobre 1833

93410
Francesco Isidoro Gagelin, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 17 ottobre 1833

74905
Paolo Tong Viet Buong, laico del Vicariato Apostolico della Cocincina
+ 23 ottobre 1833

79530
Andrea Tran Van Trong, laico del Vicariato Apostolico della Cocincina
+ 28 novembre 1835

93413
Giuseppe Marchand, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 30 novembre 1835

70950
Giovanni Carlo Cornay, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 20 settembre 1837

78580
Francesco Saverio Can, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 20 novembre 1837

90875
Domenico Henares de Zafra Cubero, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico Ausiliare del Tonchino Orientale
Francesco Do Minh Chieu, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale e catechista
+ 25 giugno 1838

91263
Vincenzo Do Yen, sacerdote domenicano, martire
+ 30 giugno 1838

60510
Giuseppe Nguyen Dinh Uyen, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale, catechista e Terziario Domenicano
+ 4 luglio 1838

619000
Clemente Ignacio Delgado Cebrián, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico del Tonchino Orientale
+ 12 luglio 1838

62830
Pietro Nguyen Ba Tuan, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale
+ 15 luglio 1838

65280
Domenico Nguyen Van Hanh (Dieu), sacerdote Domenicano
Bernardo Vu Van Due, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale
+ 1 agosto 1838

65970
Giacomo Do Mai Nam, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Antonio Nguyen Dich, laico sposato
Michele Nguyen Huy My, laico
+ 12 agosto 1838

67130
Giuseppe Dang Dinh (Nien) Vien, sacerdote
+ 21 agosto 1838

90880
Pietro Nguyen Van Tu, sacerdote Domenicano
Giuseppe Hoang Luong Canh, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale, catechista e Terziario Domenicano
+ 5 settembre 1838

93409
Francesco Jaccard, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
Tommaso Tran Van Thien, seminarista del Vicariato Apostolico della Cocincina
+ 21 settembre 1838

93414
Pietro Dumoulin Borie, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere e vicario apostolico del Tonchino Occidentale
Pietro Vo Dang Khoa, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Vincenzo Nguyen The Diem, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 24 novembre 1838

82080
Paolo Nguyen Van My, laico e catechista
Pietro Truong Van Duong, laico e catechista
Pietro Vu Van Truat, giovane laico e catechista
+ 18 dicembre 1838

48230
Domenico Tuoc, sacerdote Domenicano
+ 2 aprile 1839

57080
Agostino Phan Viet Huy, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale
Nicola Bui Duc The, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale
+ 12 giugno 1839

63330
Domenico Nicola Dinh Dat, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale
+ 18 luglio 1839

90870
Tommaso Dinh Viet Du, sacerdote Domenicano
Domenico Nguyen Van Xuyen, sacerdote Domenicano
+ 26 novembre 1839

82270
Francesco Saverio Ha Trong Mau, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale, catechista e Terziario Domenicano
Domenico Bui Van Uy, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale; catechista e Terziario Domenicano
Agostino Nguyen Van Moi, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale e Terziario Domenicano
Tommaso Nguyen Van De, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale e Terziario Domenicano
Stefano Nguyen Van Vinh, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale e Terziario Domenicano
+ 19 dicembre 1839

25400
Andrea Dung Lac, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Pietro Truong Van Thi, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 21 dicembre 1839

51140
Paolo Pham Khac Khoan, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Giovanni Battista Dinh Van Than, laico e catechista
Pietro Nguyen Van Hieu, laico e catechista
+ 28 aprile 1840

52490
Giuseppe Do Quang Hien, sacerdote Domenicano
+ 9 maggio 1840

55985
Luca Vu Ba Loan, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 5 giugno 1840

59740
Tommaso Toan, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Orientale, catechista e Terziario Domenicano
+ 27 giugno 1840

61680
Pietro Nguyen Khac Tu, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale e catechista
Antonio Nguyen Huu (Nam)Quynh, laico del Vicariato Apostolico della Cocincina
+ 10 luglio 1840

90871
Domenico Trach, sacerdote Domenicano
+ 18 settembre 1840

76780
Giuseppe Nguyen Dinh Nghi, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Paolo Nguyen Ngan, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Martino Ta Duc Thinh, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Martino Tho, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
Giovanni Battista Con, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 8 novembre 1840

93254
Simone Phan Dac Hoa, medico, sindaco e padre di famiglia
+ 12 dicembre 1840

93421
Agnese Le Thi Thanh (De), madre di famiglia
+ 12 luglio 1841

61990
Pietro Khanh, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 12 luglio 1842

52890
Matteo Le Van Gam, laico sposato
+ 11 maggio 1847

51590
Agostino Schoeffler, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 1 maggio 1851

92871
Giovanni Ludovico Bonnard, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 1 maggio 1852

93422
Filippo Phan Van Minh, sacerdote del Vicariato Apostolico della Cocincina Occidentale
+ 3 luglio 1853

51660
Giuseppe Nguyen Van Luu, laico e catechista
+ 2 maggio 1854

62840
Andrea Nguyen Kim Thong (Nam Thuong), laico e catechista
+ 15 luglio 1855

51070
Lorenzo Nguyen Van Huong, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 13 febbraio 1856

48670
Paolo Le Bao Tinh, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 6 aprile 1857

93383
Michele Ho Dinh Hy, laico sposato
+ 22 maggio 1857

54680
Pietro Doan Van Van, laico e catechista
+ 25 maggio 1857

63730
Giuseppe Maria Díaz Sanjurjo, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico del Tonchino Occidentale
+ 20 luglio 1857

93420
Giuseppe Melchiorre García-Sampedro Suárez, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico ausiliario del Tonchino Occidentale
+ 28 luglio 1858

73380
Francesco Tran Van Trung, laico
+ 6 ottobre 1858

90869
Domenico Mau, sacerdote Domenicano
+ 5 novembre 1858

37480
Domenico Phạm Trọng (An) Kham, laico sposato e Terziario Domenicano
Giuseppe Pham Trong Ta, laico sposato e Terziario Domenicano
Luca Pham Trong (Cai) Thin, laico sposato, figlio di Domenico Pham e Terziario Domenicano
+ 13 gennaio 1859

40770
Paolo Le Van Loc, sacerdote del Vicariato Apostolico della Cocincina Occidentale
+ 13 febbraio 1859

44590
Domenico Cam, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino e membro della Fraternità Sacerdotale Domenicana
+ 11 marzo 1859

55010
Paolo Hanh, laico
+ 28 maggio 1859

65140
Pietro Doan Cong Quy, sacerdote del Vicariato Apostolico della Cocincina Occidentale
Emanuele Le Van Phung, laico sposato
+ 31 luglio 1859

91473
Tommaso Khuong, sacerdote del Vicariato Apostolico del Tonchino Centrale e membro della Fraternità Sacerdotale Domenicana
+ 30 gennaio 1860

74985
Giuseppe Le Dang Thi, laico sposato del Vicariato Apostolico della Cocincina Occidentale
+ 24 ottobre 1860
93412
Pietro Francesco Néron, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 3 novembre 1860

39380
Giovanni Teofane Vénard, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere
+ 2 febbraio 1861

48780
Pietro Nguyen Van Luu, sacerdote del Vicariato Apostolico della Cocincina Occidentale
+ 7 aprile 1861

51420
Giuseppe Tuan (Hoan), sacerdote Domenicano
+ 30 aprile 1861

54820
Giovanni Doan Trinh Hoan, sacerdote del Vicariato Apostolico della Cocincina Settentrionale
Matteo Nguyen Van Dac (Phuong), laico sposato
+ 26 maggio 1861

90879
Girolamo Hermosilla Aransáez, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico del Tonchino Occidentale
Valentino Berrio Ochoa De Arizti, sacerdote Domenicano e Vicario Apostolico del Tonchino Centrale
Pietro Giuseppe Almató Ribera Auras, sacerdote Domenicano
+ 1 novembre 1861

90434
Stefano Teodoro Cuenot, sacerdote della Società Parigina Missioni Estere e Vicario Apostolico della Cocincina
+ 14 novembre 1861

90882
Giuseppe Nguyen Duy Khang, laico, catechista e Terziario Domenicano
+ 6 dicembre 1861

36590
Giuseppe Tuan, padre di famiglia
+ 7 gennaio 1862

54380
Lorenzo Ngon, laico sposato
+ 22 maggio 1862

55546
Giuseppe Tuc, giovane laico
+ 1 giugno 1862

55560
Domenico Ninh, laico
+ 1 giugno 1862

55990
Domenico Toai, laico sposato
Domenico Huyen, laico sposato
+ 5 giugno 1862

56160
Pietro Thuan, laico sposato
Pietro Dung, laico
Vincenzo Duong, laico sposato
+ 6 giugno 1862

57470
Domenico Nguyen, laico sposato
Domenico Nhi, laico
Domenico Mao, laico sposato
Vincenzo Tuong, laico
Andrea Tuong, laico
+ 16 giugno 1862

57930
Pietro Da, laico sposato
+ 17 giugno 1862


Autore: Antonio Borrelli

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25/11/2014 07:18
 
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Santa Caterina d'Alessandria Martire

25 novembre - Memoria Facoltativa

Alessandria d’Egitto, secoli III-IV

I testi della letteratura popolare parlano di Caterina come una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili, abitante ad Alessandria d'Egitto. Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria. Per l'occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi. Caterina però invita Massimino a riconoscere Gesù Cristo come redentore dell'umanità e rifiuta il sacrificio. Non riuscendo a convincere la giovane a venerare gli dèi, Massimino propone a Caterina il matrimonio. Al rifiuto della giovane il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo. Sarà un miracolo a salvare la ragazza che verà però decapitata. Secondo la leggenda degli angeli porteranno miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l'altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo sarebbe avvenuto nel novembre 305. (Avvenire)

Patronato: Filosofi, Studenti, Mugnai

Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco

Emblema: Anello, Palma, Ruota
Martirologio Romano: Santa Caterina, secondo la tradizione vergine e martire ad Alessandria, ricolma di acuto ingegno, sapienza e forza d’animo. Il suo corpo è oggetto di pia venerazione nel monastero sul monte Sinai.

Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:


Questa è la Caterina inafferrabile, senza notizie sicure della vita e della morte. Ed è la Caterina onnipresente in Europa, per la diffusione del suo culto, che ha poi influito anche sulla letteratura popolare e sul folclore. Parlano di lei alcuni testi redatti tra il VI e il X secolo, cioè tardivi rispetto all’anno 305, indicato come quello della sua morte. Ed ecco come emerge la sua figura da questi racconti pieni di particolari fantasiosi. Caterina è una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili e vive ad Alessandria d’Egitto.
Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria (che si proclamerà “Augusto”, cioè imperatore, nel 307, morendo suicida nel 313). Per l’occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi, e quindi anche per i cristiani, ancora perseguitati. Caterina si presenta a Massimino, invitandolo a riconoscere invece Gesù Cristo come redentore dell’umanità, e rifiutando il sacrificio.
Massimino allora convoca un gruppo di intellettuali alessandrini, perché la convincano a venerare gli dèi. Ma è invece Caterina che convince loro a farsi cristiani. Per questa conversione così pronta, Massimino li fa uccidere tutti, poi richiama Caterina e le propone addirittura il matrimonio. Nuovo rifiuto, sempre rifiuti, finché il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo.
Un nuovo miracolo salva la giovane, che poi viene decapitata: ma gli angeli portano miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo avviene il 24-25 novembre 305. E alcuni studiosi ritengono che il racconto leggendario indichi, trasfigurandola, un’effettiva traslazione del corpo sul monte, avvenuta però in epoca successiva. Dal Gebel Katherin, infine, e in data sconosciuta, le spoglie furono portate nel monastero a lei dedicato, sotto quel monte.
A una sua biografia così poco attendibile si contrappone la realtà di un culto diffuso anche fuori dall’Egitto. La troviamo raffigurata nella basilica romana di San Lorenzo, in una pittura dell’VIII secolo col nome scritto verticalmente: Ca/te/ri/na; a Napoli (sec. X-XI) nelle catacombe di San Gennaro, e più tardi in molte parti d’Italia, così come in Francia e nell’Europa centro-settentrionale, dove ispira anche poemetti, rappresentazioni sacre e “cantari”.
La sua festa annuale è vista principalmente come la festa dei giovani. In Francia, Caterina diviene la patrona degli studenti di teologia e la titolare di molte confraternite femminili; e, in particolare, la protettrice delle apprendiste sarte, che da lei prenderanno il nome destinato a durare a lungo anche in Italia: “Caterinette”.


Autore: Domenico Agasso
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26/11/2014 06:24
 
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San Leonardo da Porto Maurizio Sacerdote

26 novembre

Porto Maurizio, Imperia, 1676 - Roma, 26 novembre 1751


È il santo a cui si deve il merito di aver ideato la Via Crucis. Ligure (1676-1751), era figlio di un capitano di marina. Nato a Porto Maurizio, l'odierna Imperia, compie i suoi studi a Roma presso il Collegio romano, per poi entrare nel Ritiro di san Bonaventura, sul Palatino, dove vestirà il saio francescano. Inviato dal Papa in Corsica a ristabilire la concordia tra i cittadini, riuscì ad ottenere, nonostante le gravi divisioni tra gli abitanti, un impensabile abbraccio di pace. Il tema della Croce era al centro della sua predicazione: richiamava le folle alla penitenza e alla pietà cristiana. Alfonso Maria de' Liguori lo definì «il più grande missionario del nostro secolo». (Avvenire)

Patronato: Missioni al popolo

Etimologia: Leonardo = forte come leone, dal latino e dal tedesco

Martirologio Romano: A Roma nel convento di San Bonaventura sul Palatino, san Leonardo da Porto Maurizio, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, che, pieno di amore per le anime, impegnò tutta la sua vita nella predicazione, nel pubblicare libri di devozione e nel far visita ad oltre trecento missioni a Roma, in Corsica e nell’Italia settentrionale.

Ascolta da RadioVaticana:


Giovane francescano, Leonardo aveva chiesto di andare missionario in Cina. Il Cardinale Colloredo gli aveva risposto: " La tua Cina sarà l'Italia ".
E alla fine del Seicento, l'Italia aveva abbastanza miserie e sufficienti disgrazie per essere considerata terra di missione.
Leonardo era ancora studente a Roma, quando un compagno gli propose di andare a udire una predica. Fatti pochi passi, trovarono un impiccato che ciondolava dalla forca. " Ecco la predica " dissero i due giovani.
Pochi giorni dopo, il figlio del capitano marittimo di Porto Maurizio, in Liguria, seguì due figure di frati che salivano verso il convento di San Bonaventura, sul Palatino, dove vestì l'abito dei Francescani detti " della riformella ", o " scalzati ".
Datosi alla predicazione, forse ricordando quel suppliziato pendente dalla forca, fra Leonardo ebbe sempre in mente l'altro suppliziato, pendente dalla Croce. Perciò, il suo tema preferito fu quello della Via Crucis, devozione tipicamente francescana, alla quale egli dette la più grande diffusione.
La sua predicazione aveva qualcosa di drammatico e di tragico, spesso al lume delle torce e con volontari tormenti, ai quali fra Leonardo si sottoponeva, ora ponendo la mano sulle fiaccole accese, ora flagellandosi a sangue.
Folle immense accorrevano ad ascoltarlo e rimanevano impressionate dalla sua bruciante parola, che ri-chiamava alla penitenza e alla pietà cristiana. " E’ il più grande missionario del nostro secolo " diceva Sant'Alfonso de' Liguori. Spesso l'uditorio intero, durante le sue prediche, scoppiava in singhiozzi.
Predicò in tutta l'Italia, ma la regione più battuta fu la Toscana, a causa del freddo Giansenismo, ch'egli voleva combattere prima di tutto con l'ardore del suo cuore, poi con i suoi temi più efficaci, e cioè quello del Nome di Gesù, della Madonna e della Via Crucis.
In una sua missione in Corsica, i briganti dell'isola tormentata scaricarono in aria i loro archibugi, gridando: " Viva frate Leonardo, viva la pace! ".
Tornato in Liguria, fu messa in mare una galera, intitolata, in suo onore, San Leonardo. Ma di lui, gravemente ammalato, i marinai dicevano: " La barca fa acqua ".
Consumato dalle fatiche missionarie, venne infine richiamato a Roma, dove, con le sue appassionate prediche, alle quali assisteva anche il Papa, preparò il clima spirituale per il Giubileo del 1750. In quella occasione, piantò la Via Crucis nel Colosseo, dichiarando quel luogo sacro per i Martiri. Gli storici hanno dimostrato poi che nel Colosseo non furono mai martirizzati cristiani, ma la predicazione ~ in buona fede - di San Leonardo impedì l'ulteriore rovina del monumento, considerato fino allora come una cava di buona pietra.
Fu l'ultima sua fatica. Morì l'anno dopo, e a San Bonaventura al Palatino occorsero i soldati, per tenere indietro la folla che voleva vedere il Santo e portar via le sue reliquie. " Perdiamo un amico sulla terra - disse il Papa Lambertini - ma guadagnamo un protettore in Cielo ".
Fu lui a proporre la definizione del dogma mariano dell'Immacolata Concezione, mediante una consulta-zione epistolare con tutti i pastori della Chiesa.

Fonte: Archivio Parrocchia
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27/11/2014 06:55
 
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San Virgilio (Vigilio?) di Salisburgo Vescovo

27 novembre

Irlanda, inizio VIII secolo - Salisburgo, 27 novembre 784


Fu monaco ed in seguito divenne abate del monastero Achadh-bo-Cainningh, poi si recò in Gallia a Kiersy. Fu quindi mandato da Pipino il Breve a reggere la diocesi di Baviera, ma non fu consacrato vescovo per ragioni politiche in seguito alla morte di San Bonifacio. A lui si deve la prima organizzazione della diocesi di Salisburgo e l’evangelizzazione delle regioni slave della Carinzia, della Stiria e della Pannonia.

Etimologia: Virgilio = verdeggiante, dal latino

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Salisburgo in Baviera, nell’odierna Austria, san Virgilio, vescovo, uomo di grande cultura, che, di origine irlandese, con il favore del re Pipino, fu posto alla guida della Chiesa di Salisburgo, dove costruì la cattedrale in onore di san Ruperto e si prodigò per diffondere la fede tra gli abitanti della Carinzia.

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Onorato da vivo e da morto, ma poi dimenticato, questo santo è stato riscoperto nella sua diocesi quasi cinque secoli dopo, e canonizzato. Poi, per altri cinque secoli, rieccolo ancora “precario”, prima di essere infine registrato nel Martirologio romano. Virgilio (Vergilius) è la trasposizione latina di Fergal, il suo nome d’origine nella lingua celtica dell’Irlanda, l’isola,che non è stata mai soggetta all’Impero romano e che è diventata cristiana con la predicazione di san Patrizio (morto nel 461). Qui ha preso vita una Chiesa non strutturata su diocesi e parrocchie, bensì sui monasteri e i loro abati, guide spirituali dei monaci e delle popolazioni. Anche Virgilio percorre questo cammino, monaco e poi abate, legato alle regole che nel monachesimo irlandese sono molto dure; come del resto è dura la vita della gente.
Numerosi monaci d’Irlanda hanno poi continuato l’opera di Patrizio in direzione opposta: dall’Irlanda raggiungevano la Scozia e l’Inghilterra, o sbarcavano in Europa, nelle regioni non ancora stabilmente cristianizzate: in Francia, in Germania e in Italia, dove il monaco Colombano, morto nel 615, fonda il monastero di Bobbio (Piacenza). La tradizione “continentale” dei monaci d’Irlanda continua con l’abate Virgilio. Durante uno dei suoi viaggi-pellegrinaggi in Francia, si ferma a studiare nel monastero di Quierzy-sur-Oise, presso Laon. E in quest’occasione viene presentato al nuovo padrone della Francia: Pipino, detto “il Breve” perché è piccoletto, il quale ha messo fine al potere dei sovrani merovingi.
Pipino ha esteso la sua sovranità anche alla Baviera e a parte dell’Austria, e vuole fare di Virgilio il vescovo di Salisburgo. Lui accetta subito. Anzi, comincia a fare il vescovo ancora prima di essere consacrato. Ma lì sul posto viene subito combattuto come abusivo da chi non gradisce il suo dinamismo e il suo rigore. (Sembra che debba poi correre a Roma per la consacrazione). Lavora a Salisburgo e nelle campagne come in Irlanda, su due priorità: istruzione religiosa e soccorso ai poveri. E usa le sue solite forze di prima linea: i monaci. Specialmente quelli di Innichen (San Candido, AltoAdige) e del Kremsmünster, in diocesi di Linz. L’efficacia del suo lavoro è documentata dal fatto più convincente: lui, il forestiero accolto con diffidenza, ora è richiesto da tante parti; città e paesi vogliono i suoi missionari. A Salisburgo fa costruire la cattedrale, centro solenne e stabile di una comunità che va facendosi adulta. E quando muore, viene sepolto lì, con grandi onoranze. Onorato e poi dimenticato.
Quattrocento anni circa dopo la morte, un incendio distrugge la cattedrale: e, negli scavi per la ricostruzione, ecco emergere la sua bara. È come se Virgilio fosse appena morto: si diffondono voci di miracoli, si raduna gente in preghiera. La figura del vescovo d’Irlanda riemerge dal silenzio: se ne richiede la canonizzazione. Nel 1230 il processo canonico incomincia, si raccolgono le testimonianze da mandare a Roma. Nel 1233, Gregorio IX proclama santo il vescovo Virgilio. Nel 1740 il suo nome sarà accolto nel Martirologio romano.


Autore: Domenico Agasso
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28/11/2014 06:30
 
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San Giacomo della Marca Religioso e sacerdote

28 novembre

Monteprandone, Ascoli Piceno, 1394 - Napoli, 28 novembre 1476


E' nato a Monteprandone (Ascoli Piceno) nel 1394, fu discepolo di san Bernardino da Siena, dal quale ricevette a 22 anni il saio francescano. Come il maestro, anch'egli si diede alla predicazione, in Italia, Polonia, Boemia, Bosnia e in Ungheria dove si recò per ordine del Papa. Oratore ardente, si scagliò soprattutto contro i vizi dell'avarizia e dell'usura. Proprio per combattere quest'ultima, san Giacomo della Marca ideò i Monti di Pietà, dove i poveri potevano impegnare le proprie cose, non più all'esoso tasso preteso dai privati usurai ma ad un interesse minimo. Già debilitato per la vita di penitenza e colpito da coliche fortissime, morì a Napoli, nel 1476. Le sue ultime parole furono: «Gesù, Maria. Benedetta la Passione di Gesù». (Avvenire)

Etimologia: Giacomo = che segue Dio, dall'ebraico

Martirologio Romano: A Napoli, deposizione di san Giacomo della Marca, sacerdote dell’Ordine dei Minori, insigne per la predicazione e per l’austerità di vita.

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Il tempo che precedette la Riforma protestante fu caratterizzato dalla solida e grandiosa opera di alcuni predicatori, fra loro uno fu davvero grande e venne anche scomunicato, si chiamava San Giacomo della Marca (1393-1476), la cui festa liturgica cade il 28 novembre. Fra il XIV e XV secolo la Chiesa era soggetta alle corruzioni e allo stesso tempo molti eretici andavano imbrogliando sia Fede che dottrina. Un poco di ordine, benché si stesse preparando il terreno sul quale avrebbe agito l’eresiarca Lutero, venne portato da questi impavidi predicatori.
Nato a Monteprandone (Ascoli Piceno), a 22 anni, in Santa Maria degli Angeli, prese il saio francescano dalle mani di San Bernardino da Siena. La sua vita fu di estrema penitenza. Si sottoponeva a sette quaresime durante l’anno e negli altri giorni i suoi pasti consistevano in una scodella di fave cotte nell’acqua.
Malato, ricevette sei volte l’Estrema Unzione, eppure resistette nella faticosa vita dei predicatori itineranti. Una cosa sola temette nella sua esistenza, che il dolore fisico lo distraesse dalla preghiera. Dalla catechesi di San Bernardino (intorno al quale si formarono altri valenti predicatori come San Giovanni da Capestrano, Alberto da Sarteano, Matteo di Girgenti) mutua le tecniche vocali e gestuali, i contenuti e la struttura del sermo, prediligendo la trattazione di temi etico-politici, utilizzando materiali provenienti dai testi della teologia morale e del diritto canonico; fa ampio uso di exempla, spesso presentati in forma drammatizzata; utilizza per lo più il volgare; si impegna nel sostenere la diffusione della devozione al nome di Gesù e insiste su alcuni obiettivi polemici ricorrenti: le pratiche superstiziose, il lusso, il gioco, la bestemmia, l’usura (ideò i Monti di Pietà per liberare le vittime degli usurai).
Le sue omelie sono tuoni che destano anche gli spiriti più recalcitranti. Esse si nutrono di riferimenti biblici, ma il santo prende spunti anche dalla scrittura dantesca. Nessuno può sonnecchiare o distrarsi quando si assiste a queste prediche di formidabile efficacia, dall’andamento anche teatrale, ma che spesso raggiungono lo scopo: convertire. È un francescano fuori dal comune per la sua signorilità: sicuro e determinato, sa conciliare carità e fuoco del Giudizio di Dio; è teologo e inquisitore severo, ma pietoso. La sua predicazione, oltre a suscitare fin da subito apprezzamento ed entusiasmo da parte dei fedeli, si traduce in riforme degli Statuti di alcune città e in numerose fondazioni di confraternite. Dal 1423 al 1425 predica a più riprese nella zona di Jesi, dove sono presenti gruppi aderenti alla setta dei fraticelli e nel 1426 Papa Martino V lo incarica di predicare contro questa setta in tutta Italia e viene affiancato dal confratello Giovanni da Capestrano.
Nel 1432 è inviato in Europa orientale e i suoi successi non si fanno attendere, così, alla fine del 1435, Sigismondo di Lussemburgo, re di Ungheria, lo vuole nella sua residenza di Tata, presso Buda, come consulente nell’incontro tra i delegati del Concilio di Basilea e i rappresentanti del Regno di Boemia, nel quale era ancora viva l’eresia hussita. Da quel momento la sua azione antiereticale si estende dalla Bosnia all’Ungheria, dove predica contro gli hussiti in fuga dalla Boemia.
Nell’agosto del 1436 il Papa lo nomina inquisitore di Austria e Ungheria concedendogli ampi poteri e permettendogli di erigere nuovi conventi in quelle terre. L’appoggio dell’Imperatore e del Pontefice, oltre che il titolo di legatus del Concilio di Basilea, non sono però sufficienti a garantirgli l’intoccabilità e non solo riceve persecuzioni da parte del clero locale, non solo tentano di ucciderlo più volte, ma subisce anche una scomunica da parte di Simone, arcidiacono di Bacs. Assunse anche il compito di predicare a favore della crociata contro i Turchi: a questo scopo nel 1443 fu nominato da Eugenio IV nunzio apostolico.
Venne proposto pure Arcivescovo di Milano, ma rifiutò l’incarico. Tra le attività dell’ultima fase della sua vita va ricordata la costituzione della biblioteca del convento di Santa Maria delle Grazie di Monteprandone, nella quale il Santo riuscì a radunare circa duecento codici; essi costituivano una vera e propria officina del predicatore, contenente modelli e abbozzi di sermoni, raccolte di passi scritturali, exempla e auctoritates teologiche e giuridiche. Tutto ciò serviva per combattere gli errori e salvare le anime. Oggi, sotto la tirannia del relativismo, San Giacomo della Marca non sarebbe considerato un combattente per la Fede, ma uno, probabilmente, da scomunicare, come qualcuno già all’epoca fece.


Autore: Cristina Siccardi
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29/11/2014 07:58
 
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San Francesco Antonio Fasani

29 novembre

Lucera, 6 agosto 1681 - Lucera, 29 novembre 1742


Nacque da umile famiglia il 6 agosto 1681 a Lucera, antica città della Daunia nelle Puglie. Entrò da giovane tra i Minori conventuali del suo paese natale per poi completare il Noviziato a Monte Sant'Angelo sul Gargano dove emise la professione il 23 agosto 1696. Quindi, nel 1703 fu mandato nel convento di Assisi dove fu ordinato sacerdote l'11 settembre 1705. Passato a Roma, nel collegio di San Bonaventura, tornò ad Assisi fino al 1707 quando rientrò a Lucera. Eletto ministro provinciale fu protagonista di un'intensa attività apostolica percorrendo tutti paesi della Capitanata e località limitrofe. Sempre attento ai bisogni dei poveri e dei sofferenti, devotissimo alla Vergine, fu particolarmente vicino ai carcerati e ai condannati che accompagnava fino al luogo del supplizio. Morì il 29 novembre 1742. Ancora oggi la sua tomba, nella chiesa di San Francesco a Lucera è meta di frequenti pellegrinaggi. Proclamato beato il 15 aprile 1951 da Pio XII è stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Lucera in Puglia, san Francesco Antonio Fasani, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, che, uomo di raffinata cultura pervaso da un grande amore per la predicazione e la penitenza, si adoperò al tal punto per i poveri e i bisognosi da non esitare mai a privarsi della veste per coprire un mendicante e offrire a tutti il suo cristiano sostegno.


Nacque a Lucera, antica città della Daunia nelle Puglie, il 6 agosto 1681, da umili e modesti lavoratori, Giuseppe e Isabella Della Monaca. Battezzato con i nomi di Donato Antonio Giovanni, fu chiamato familiarmente Giovanniello.
Entrò giovinetto nell'Ordine di s. Francesco, tra i Minori Conventuali del convento di Lucera e vi rifulse per innocenza di vita, spirito di penitenza e povertà, ardore serafico e zelo apostolico, sì da sembrare un "s. Francesco redivivo".
Compiuto il noviziato a Monte S. Angelo sul Gargano ed emessavi la professione il 23 agosto 1696, fu mandato, nel 1703, a completare la sua formazione nel sacro convento di Assisi dove ebbe come direttore spirituale il servo di Dio Giuseppe A. Marcheselli, e fu ordinato sacerdote l'll settembre 1705.
Passato a Roma nel collegio di S. Bonaventura, vi fu creato maestro in teologia, per cui, in seguito, sarà da tutti chiamato a Lucera "Padre Maestro". Ritornato ad Assisi, vi rimase dedicandosi alla predicazione nelle campagne fino al 1707, quando rientrerà definitivamentc a Lucera.
Dalla scuola, dal pulpito e dal confessionale esplicò un intenso e fecondo apostolato, percorrendo tutti i paesi della Capitanata e località limitrofe, sì da meritarsi l'appellativo di apostolo della sua terra. "Profondo in filosofia e dotto in teologia", come attesta il ven. Antonio Lucci, suo confratello e vescovo di Bovino, fu dapprima lettore e reggente di studi nel collegio filosofico di Lucera, e poi guardiano del convento e maestro dei novizi, modello ai confratelli di osservanza regolare, per cui fu nominato nel 1721, con speciale Breve di Clemente XI, ministro provinciale della provincia religiosa conventuale di S. Angelo, che in quel tempo si estendeva dalla Capitanata al Molise.
Scrisse alcune operette predicabili, tra cui un Quaresimale, un Mariale, una esposizione al Pater e al Magnificat, e vari Sermoni, alcuni in lingua latina. Suo principale intendimento nel predicare era quello di "farsi capire da tutti", come nella sua modestia era solito dire, e la sua catechesi, tipicamente francescana, era rivolta di preferenza all'umile popolo verso cui sentivasi particolarmente attratto. Inesauribile fu la sua carità verso i poveri e sofferenti; fra le varie iniziative, promosse la simpatica usanza di raccogliere e distribuire pacchi-dono ai poveri in occasione del S. Natale. Ma il suo zelo e la sua carità sacerdotale rifulsero in modo singolarissimo nell'assistenza ai carcerati e ai condannati che accompagnava personalmente fino al luogo del supplizio per confortarne gli estremi momenti, precorrendo in ciò l'ammirabile esempio di carità di s. Giuseppe Cafasso. Fece restaurare decorosamente il bel tempio di S. Francesco in Lucera, centro per quasi trentacinque anni continui della sua indefessa attività sacerdotale. Fu devotissimo dell'Immacolata Concezione, e alle anime che egli dirigeva era solito inculcare gli atti di ossequio alla Madonna e la meditazione delle sue virtù. Anche oggi è oggetto di particolare venerazione nella chiesa di S. Francesco la bella statua dell'Immacolata, che il beato fece venire da Napoli, ed il popolo canta tuttora la canzone mariana da lui composta.
Morì a Lucera il 29 novembre 1742, il primo giorno della novena dell'immacolata ed il suo corpo è venerato nella chiesa di S.Francesco. Fu beatificato da Pio XII il 15 aprile 1951.


Autore: Gaetano Stano
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30/11/2014 07:56
 
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Sant' Andrea Apostolo

30 novembre

Bethsaida di Galilea - Patrasso (Grecia), ca. 60 dopo Cristo


All’apostolo Andrea spetta il titolo di 'Primo chiamato'. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui. La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia. Commovente è la 'passione' – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro».

Patronato: Pescatori

Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco

Emblema: Croce decussata, Rete da pescatore
Martirologio Romano: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono.

Ascolta da RadioVaticana:


Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea, nato a Bethsaida di Galilea, fratello di Simon Pietro. Il Vangelo di Giovanni (cap. 1) ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: "Ecco l’agnello di Dio!". Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: "Abbiamo trovato il Messia!". Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale "fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa”". Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini" (Matteo 4,18-20).
Troviamo poi Andrea nel gruppetto – con Pietro, Giacomo e Giovanni – che sul monte degli Ulivi, “in disparte”, interroga Gesù sui segni degli ultimi tempi: e la risposta è nota come il “discorso escatologico” del Signore, che insegna come ci si deve preparare alla venuta del Figlio dell’Uomo "con grande potenza e gloria" (Marco 13). Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione.
E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, pubblicato nel 1740 da L.A. Muratori, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: "Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen". Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre.
Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso.


Autore: Domenico Agasso
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01/12/2014 07:28
 
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Sant' Eligio Vescovo

1 dicembre


Chaptelat (presso Limoges, Francia), 588-590 - Olanda, 1° dicembre (?) 660

Nacque a Chaptelat (presso Limoges in Francia) intorno al 590. Una leggenda racconta che gli si presentò il diavolo vestito da donna: e lui, Eligio, rapido lo agguantò per il naso con le tenaglie. Questa colorita leggenda è raffigurata in due cattedrali francesi (Angers e Le Mans) e nel duomo di Milano, con la vetrata di Niccolò da Varallo, dono degli orefici milanesi nel Quattrocento. L'Eligio storico, figlio di gente modesta, deve aver ricevuto tuttavia un'istruzione, perché venne assunto come apprendista dall'orefice lionese Abbone, che dirige pure la zecca reale. Sotto Clotario, Eligio va a dirigere la zecca di Marsiglia e intanto continua a fare l'orefice. Col nuovo re Dagoberto I (623-639) viene chiamato a corte e cambia mestiere: il sovrano ne fa un suo ambasciatore, per missioni di fiducia. Altri incarichi se li prende da solo: per esempio, riscattare a sue spese i prigionieri di guerra, fondare monasteri maschili e femminili. Morto il re, sceglie la vita religiosa, e il 13 maggio 641 viene consacrato vescovo di Noyon-Tournai dove s'impegna nella campagna di evangelizzazione (e ri-evangelizzazione) nel Nord della Gallia, nelle regioni della Mosa e della Scelda, nelle terre dei Frisoni. Muore nel 660. (Avvenire)

Patronato: Fabbri, Gioiellieri, Garagisti


Etimologia: Eligio = eletto, dal latino, nobile guida, dall'ebraico


Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Noyon in Neustria, ora in Francia, sant’Eligio, vescovo, che, orefice e consigliere del re Dagoberto, dopo aver contribuito alla fondazione di molti monasteri e costruito edifici sepolcrali di insigne arte e bellezza in onore dei santi, fu elevato alla sede di Noyon e Tournai, dove attese con zelo al lavoro apostolico.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:




Gli si presenta il diavolo vestito da donna: e lui, Eligio, rapido lo agguanta per il naso con le tenaglie. Questa colorita leggenda è raffigurata in due cattedrali francesi (Angers e Le Mans); e nel Duomo di Milano, con la vetrata di Niccolò da Varallo, dono degli orefici milanesi nel Quattrocento.
L’Eligio storico, figlio di gente modesta, deve aver ricevuto tuttavia un’istruzione, perché viene assunto come apprendista dall’orefice lionese Abbone, che dirige pure la zecca reale: un grande maestro nella sua arte. E l’allievo Eligio non è da meno. Della sua fama di artefice e di galantuomo parla un singolare racconto, non documentato: il re Clotario II gli commissiona un trono d’oro, dandogli il metallo occorrente. E lui, con quello, di troni gliene fa due. Dimezzato il preventivo: cose mai viste, né prima né dopo.
Sotto Clotario, Eligio va a dirigere la zecca di Marsiglia, e intanto continua a fare l’orefice. Col nuovo re Dagoberto I (623-639) viene chiamato a corte e cambia mestiere: il sovrano ne fa un suo ambasciatore, per missioni di fiducia. Altri incarichi se li prende da solo: per esempio, riscattare a sue spese i prigionieri di guerra, fondare monasteri maschili e femminili. Morto il re, sceglie la vita religiosa, e il 13 maggio 641 viene consacrato vescovo di Noyon-Tournai.
Comincia un’esistenza nuova. Eligio s’impegna nella campagna di evangelizzazione (e ri-evangelizzazione) nel Nord della Gallia, nelle regioni della Mosa e della Scelda, nelle terre dei Frisoni. Ne diventa uno dei protagonisti, con altri vescovi come Audoeno (Ouen) di Rouen (che sarà anche il suo biografo), Amand di Tongres, Sulpizio il Pio di Bourges. E la sua vita si conclude appunto sul campo, in terra olandese (di qui i suoi resti verranno riportati a Noyon solo nel 1952). E subito parte l’altra storia di sant’Eligio: il suo culto si diffonde in Francia, in Germania, in Italia. Lo vogliono come patrono non solo gli orafi, ma in pratica tutti gli artigiani dei metalli, e poi i carrettieri, i netturbini, i mercanti di cavalli, i maniscalchi, e ai tempi nostri anche i garagisti. In alcune località francesi si dà la benedizione ai cavalli nel giorno della sua festa.


Autore: Domenico Agasso

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01/12/2014 07:28
 
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Sant' Eligio Vescovo

1 dicembre


Chaptelat (presso Limoges, Francia), 588-590 - Olanda, 1° dicembre (?) 660

Nacque a Chaptelat (presso Limoges in Francia) intorno al 590. Una leggenda racconta che gli si presentò il diavolo vestito da donna: e lui, Eligio, rapido lo agguantò per il naso con le tenaglie. Questa colorita leggenda è raffigurata in due cattedrali francesi (Angers e Le Mans) e nel duomo di Milano, con la vetrata di Niccolò da Varallo, dono degli orefici milanesi nel Quattrocento. L'Eligio storico, figlio di gente modesta, deve aver ricevuto tuttavia un'istruzione, perché venne assunto come apprendista dall'orefice lionese Abbone, che dirige pure la zecca reale. Sotto Clotario, Eligio va a dirigere la zecca di Marsiglia e intanto continua a fare l'orefice. Col nuovo re Dagoberto I (623-639) viene chiamato a corte e cambia mestiere: il sovrano ne fa un suo ambasciatore, per missioni di fiducia. Altri incarichi se li prende da solo: per esempio, riscattare a sue spese i prigionieri di guerra, fondare monasteri maschili e femminili. Morto il re, sceglie la vita religiosa, e il 13 maggio 641 viene consacrato vescovo di Noyon-Tournai dove s'impegna nella campagna di evangelizzazione (e ri-evangelizzazione) nel Nord della Gallia, nelle regioni della Mosa e della Scelda, nelle terre dei Frisoni. Muore nel 660. (Avvenire)

Patronato: Fabbri, Gioiellieri, Garagisti


Etimologia: Eligio = eletto, dal latino, nobile guida, dall'ebraico


Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: A Noyon in Neustria, ora in Francia, sant’Eligio, vescovo, che, orefice e consigliere del re Dagoberto, dopo aver contribuito alla fondazione di molti monasteri e costruito edifici sepolcrali di insigne arte e bellezza in onore dei santi, fu elevato alla sede di Noyon e Tournai, dove attese con zelo al lavoro apostolico.



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Gli si presenta il diavolo vestito da donna: e lui, Eligio, rapido lo agguanta per il naso con le tenaglie. Questa colorita leggenda è raffigurata in due cattedrali francesi (Angers e Le Mans); e nel Duomo di Milano, con la vetrata di Niccolò da Varallo, dono degli orefici milanesi nel Quattrocento.
L’Eligio storico, figlio di gente modesta, deve aver ricevuto tuttavia un’istruzione, perché viene assunto come apprendista dall’orefice lionese Abbone, che dirige pure la zecca reale: un grande maestro nella sua arte. E l’allievo Eligio non è da meno. Della sua fama di artefice e di galantuomo parla un singolare racconto, non documentato: il re Clotario II gli commissiona un trono d’oro, dandogli il metallo occorrente. E lui, con quello, di troni gliene fa due. Dimezzato il preventivo: cose mai viste, né prima né dopo.
Sotto Clotario, Eligio va a dirigere la zecca di Marsiglia, e intanto continua a fare l’orefice. Col nuovo re Dagoberto I (623-639) viene chiamato a corte e cambia mestiere: il sovrano ne fa un suo ambasciatore, per missioni di fiducia. Altri incarichi se li prende da solo: per esempio, riscattare a sue spese i prigionieri di guerra, fondare monasteri maschili e femminili. Morto il re, sceglie la vita religiosa, e il 13 maggio 641 viene consacrato vescovo di Noyon-Tournai.
Comincia un’esistenza nuova. Eligio s’impegna nella campagna di evangelizzazione (e ri-evangelizzazione) nel Nord della Gallia, nelle regioni della Mosa e della Scelda, nelle terre dei Frisoni. Ne diventa uno dei protagonisti, con altri vescovi come Audoeno (Ouen) di Rouen (che sarà anche il suo biografo), Amand di Tongres, Sulpizio il Pio di Bourges. E la sua vita si conclude appunto sul campo, in terra olandese (di qui i suoi resti verranno riportati a Noyon solo nel 1952). E subito parte l’altra storia di sant’Eligio: il suo culto si diffonde in Francia, in Germania, in Italia. Lo vogliono come patrono non solo gli orafi, ma in pratica tutti gli artigiani dei metalli, e poi i carrettieri, i netturbini, i mercanti di cavalli, i maniscalchi, e ai tempi nostri anche i garagisti. In alcune località francesi si dà la benedizione ai cavalli nel giorno della sua festa.


Autore: Domenico Agasso

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02/12/2014 07:01
 
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Santa Bibiana (Viviana) Martire

2 dicembre

sec. IV

Non abbiamo notizie precise riguardo la vita di questa santa, alla quale papa Simplicio, nel V secolo, dedicò una chiesa sull'Esquilino. Eppure il culto di Bibiana è stato assai vivace, forse anche grazie al suo nome, che ha la stessa origine del nome di Viviana: un nome, nell'etimologia popolare, legato al verbo «vivere», e quindi sinonimo di vitalità, vivacità, e augurio di spirituale sopravvivenza. Secondo la «Passio Bibianae», questa santa sarebbe una delle vittime della persecuzione anticristiana dell'imperatore Giuliano l'Apostata (361 - 363), un devoto pagano che ostacolò la fede cristiana nonostante la libertà di culto proclamata grazie a Costantino nel 313. Secondo questa Passio, priva di valore storico, il governatore Apronio avrebbe mandato a morte i coniugi Fausto e Dafrosa, per impadronirsi dei loro beni. Poi volle costringere all'apostasia le loro figlie: Demetria e Bibiana. La prima sarebbe morta sotto tortura, mentre Bibiana, salda nella propria fede, dopo aver subito ogni tipo di angheria fu legata alla colonna e flagellata a morte. La chiesa sull'Esquilino sorgerebbe sulla tomba della martire. (Avvenire)

Etimologia: Bibiana (forse) variante di Viviana = che ha vita, che è vitale, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, santa Viviana, martire, sotto il cui nome il papa san Simplicio intitolò una basilica sul colle Esquilino.

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Papa Simplicio, nel V secolo, le dedicò la chiesa sull'Esquilino.
Il culto di questa Santa è stato assai vivace, forse anche grazie al suo bel nome, più diffuso di quanto non si pensi. Bibiana ha infatti la stessa origine del nome di Viviana, e perciò la Santa di oggi può essere presa come Patrona anche dalle donne che ripetono il nome di Viviana: un nome, nella etimologia popolare, legato al verbo " vivere ", e quindi sinonimo dì vitalità, vivacità, e augurio di spirituale sopravvivenza.
In assenza di notizie storiche, sul conto di Santa Bibiana, o Viviana, è stata tessuta una fantasiosa e complessa leggenda, che deve essere piaciuta moltissimo ai fedeli, contribuendo così alla popolarità della San-ta.
Secondo tale leggenda, Bibiana sarebbe stata vittima della tardiva persecuzione di Giuliano, l'Imperatore apostata, che rinnegò cioè la propria fede, E poiché l'Imperatore risiedeva in Oriente sarebbe stato il Governatore di Roma, Aproniano, a infierire non soltanto contro Bibiana, ma contro la famiglia cristiana della Santa: il padre Flaviano, la madre Defrosa e la sorella Demetra.
Ma come mai il Governatore di Roma avrebbe nutrito tanto odio verso i battezzati? La leggenda lo spiega dicendo che Aproniano aveva perduto un occhio, e attribuiva la sua infermità, non ad un incidente, ma alle arti maligne dei cristiani.
A buon conto, esiliato Flaviano e fatta morire in carcere Dafrosa, l'orbo persecutore poté impadronirsi dei beni della famiglia. Per completar la sua opera, non gli mancava che costringere all'apostasia le due giovani figlie, e ciò sembrava assai facile, data appunto la loro età.
Demetra infatti, minacciata di orribili tormenti, morì in carcere, sopraffatta dall'ansia. Restò Bibiana, e contro di lei furono inutili tutte le minacce del dolore fisico.
Il Governatore allora mutò strategia. Pensó di piegare la volontà della fanciulla, corrompendola con le seduzioni del piacere e gli allettamenti del vizio. Per far ciò consegnò Bibiana a una turpe mezzana, esperta di intrighi amorosi.
Naturalmente Bibiana non venne meno ai doveri della virtù, e Aproniano, deluso nelle sue speranze, non seppe far di meglio che fiagellarla ferocemente, tanto da condurla alla morte, quattro giorni dopo.
Leggenda, abbiamo detto: pura leggenda, che nessun indizio rende né plausibile né probabile. Immaginata per conferire titoli di gloria, insieme con la palma del martirio, all'ignota benefattrice cristiana, titolare della chiesa sull'Esquilino.



Fonte:
Archivio Parrocchia
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03/12/2014 07:17
 
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San Francesco Saverio Sacerdote

3 dicembre

Xavier, Spagna, 1506 - Isola di Sancian, Cina, 3 dicembre 1552


Studente a Parigi conobbe sant'Ignazio di Loyola e fece parte del nucleo di fondazione della Compagnia di Gesù. E' il più grande missionario dell'epoca moderna. Portò il Vangelo a contatto con le grandi culture orientali, adattandolo con sapiente senso apostolico all'indole delle varie popolazioni. Nei suoi viaggi missionari toccò l'India, il Giappone, e morì mentre si accingeva a diffondere il messaggio di Cristo nell'immenso continente cinese. (Mess. Rom.)

Patronato: Giappone, India, Pakistan, Missioni, Missionari, Marinai

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco

Martirologio Romano: Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.

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Questo pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell'Oriente dal 1748, dell'Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con S. Teresa di Gesù Bambino dal 1927, nacque da nobili genitori il 7-4-1506 nel castello di Xavier, nella Navarra (Spagna). Francesco non sarebbe diventato un giurista e un amministratore come suo padre, né un guerriero come i suoi fratelli maggiori, ma un ecclesiastico come un qualunque cadetto del tempo. Per questo nel 1525 si recò ad addottorarsi all'università di Parigi sognando pingui benefici nella diocesi di Pamplona. Il suo incontro con Ignazio di Loyola fu provvidenziale perché lo trasformò da campione di salto e di corsa in araldo del Vangelo, da professore di filosofia in Santo. Assegnato nel collegio di Santa Barbara alla medesima stanza del Saverio, il fondatore della Compagnia di Gesù aveva visto a fondo nell'anima di lui, gli si era affezionato e più volte gli aveva detto: "Che giova all'uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l 'anima? (Mc. 8,36). Più tardi Ignazio confiderà che Francesco fu "il più duro pezzo di pasta che avesse mai avuto da impastare" e il Saverio, nel fare quaranta giorni di ritiro sotto la direzione d'Ignazio prima d'iniziare lo studio della teologia, pregherà: "Ti ringrazio, o Signore, per la provvidenza di avermi dato un compagno come questo Ignazio, dapprima così poco simpatico".
Il 15 agosto 1534 anche lui, insieme al Loyola, nella chiesetta di Santa Maria di Montmartre fece voto di castità e di povertà e di pellegrinare in Palestina o, in caso d'impossibilità, di andare a Roma per mettersi a disposizione del papa. Anche lui, all'inizio del 1537, si trovò con gli altri primi sei compagni all'appuntamento fissato a Venezia, ma la guerra scoppiata tra la Turchia e la Repubblica Veneta impedi loro di mandare ad effetto il voto fatto. Ignazio e i suoi discepoli si dedicarono allora all'assistenza dei malati nell'ospedale degl'Incurabili fondato da S. Gaetano da Thiene e, dopo essere stati ordinati sacerdoti, alla predicazione per le piazze in uno strano miscuglio di lingue neo-latine. A Bologna specialmente il Saverio si acquistò fama di predicatore e di consolatore dei malati e dei carcerati, ma in sei mesi si rovinò la salute dandosi ad austerissime penitenze. S. Ignazio lo chiamò a Roma come suo segretario. Nella primavera del 1539 egli prese parte alla fondazione della Compagnia di Gesù e, l'anno dopo, fu mandato al posto di Nicolò Bobadilla, colpito da sciatica, alle Indie Orientali in qualità di legato papale per tutte le terre situate ad oriente del capo di Buona Speranza, in seguito alle insistenti preghiere rivolte da Giovanni III, re del Portogallo, a Ignazio per avere sei missionari.
Durante il penoso viaggio a vela, protrattosi per tredici mesi, il Saverio si sovraspese per l'assistenza spirituale ai 300 passeggeri facenti parte non certo della "buona società", nonostante che per due mesi avesse sofferto il mal di mare. Una notte, all'ospedale di Mozambico, avendolo il medico trovato tremante di febbre, gli ordinò di andare a letto. Poiché un marinaio stava morendo impenitente, gli rispose: "Non posso andarci. Un fratello ha tanto bisogno di me". Stabilitosi nel collegio di San Paolo a Goa, cominciò il suo apostolato (1542) tra la colonia portoghese che con la sua vita immorale scandalizzava persino i pagani. Poi estese il suo ministero ai malati, ai prigionieri e agli schiavi con tanta premura da meritare il titolo di "Santo Padre" e "Grande Padre". Con un campanello raccoglieva per le strade i fanciulli e ad essi insegnava il catechismo e cantici spirituali.
Dopo cinque mesi il governatore delle Indie lo mandò al sud del paese dove i portoghesi avevano costruito le loro fortezze, avviato i loro commerci e battezzato gl'indigeni e i prigionieri di guerra senza sufficiente preparazione. Molti di essi erano ricaduti nell'idolatria, come i pescatori di perle della costa del Paravi i quali, otto anni prima, avevano chiesto il battesimo per essere difesi dai maomettani. Francesco, che non possedeva il dono delle lingue, con l'aiuto d'interpreti tradusse subito nei loro idiomi le principali preghiere e verità della fede. Poi, per due anni, passò di villaggio in villaggio, a piedi o su disagevoli imbarcazioni di cabotaggio, esposto a mille pericoli, fondando chiese e scuole, facendosi a tutti maestro, medico, giudice nelle liti, difensore contro le esazioni dei portoghesi, salutato ovunque quale Santo e taumaturgo. "Talmente grande è la moltitudine dei convertiti - scriveva egli - che sovente le braccia mi dolgono tanto hanno battezzato e non ho più voce e forza di ripetere il Credo e i comandamenti nella loro lingua". In un mese arrivò a battezzare 10.000 pescatori della casta dei Macua, nel Travancore. Mentre era intento ad amministrare il sacramento, ricevette la triste notizia che 600 cristiani di Manaar avevano preferito lasciarsi uccidere anziché tornare al paganesimo. Ne provò un momento di sconforto: "Sono così stanco di vivere - scrisse - che la migliore cosa per me sarebbe morire per la nostra Santa fede". Lo rattristava il vedere commettere tanti peccati e non poterci fare nulla.
Benché continuamente a disposizione del prossimo, il Santo fu sempre trattato male da ufficiali e mercanti portoghesi, decisi a non permettere che la sua caccia alle anime intralciasse loro la ricerca di piaceri e di ricchezze. Noncurante degli uomini, negli anni successivi (1545-1547) egli aprì nuovi campi all'apostolato. Predicò per quattro mesi nell'importante centro commerciale di Malacca; visitò l'arcipelago delle Molucche; nell'isola di Amboina, presso la Nuova Guinea, riuscì ad avvicinare la popolazione impaurita di un villaggio stando seduto e cantando tutti gl'inni che sapeva; si spinse fino all'isola di Ternate, estrema fortezza dei portoghesi, e più oltre ancora, fino alle isole del Moro, al nord delle Molucche, abitate da cacciatori di teste. Colà agli ospiti indesiderati si servivano pietanze avvelenate. Quando il Saverio decise di visitarle, gli suggerirono di portare con sé degli antidoti, ma egli preferì riporre in Dio tutta la sua fiducia. "Queste isole - scriverà il 20-1-1548 - sono fatte e disposte a meraviglia perché vi ci si perda la vista in pochi anni per l'abbondanza delle lacrime di consolazione... Io circolavo abitualmente nelle isole circondate da nemici e popolate da amici poco sicuri, attraverso terre sprovviste di qualsiasi rimedio per le malattie e prive di qualsiasi soccorso per conservare la vita". Ciononostante egli pregava: "Non allontanarmi, o Signore, da queste tribolazioni se non hai da mandarmi dove io possa soffrire ancora di più per amore tuo".
Dopo tre mesi di fatiche, tornò a Ternate. Il sultano regnante fece buona accoglienza al missionario, ma alla fede cristiana preferì le sue cento mogli e le numerose concubine. Raggiunta Malacca nel dicembre 1547, la Provvidenza fece incontrare al Saverio un fuggiasco giapponese, Anjiro, desideroso di farsi cristiano per liberarsi dal rimorso cagionatogli da un delitto commesso in patria. Il Santo rimase talmente sedotto dalle notizie da lui avute sul Giappone e i suoi abitanti che concepì un estremo desiderio di andarli ad evangelizzare. Dopo aver provveduto per il governo del Collegio di San Paolo a Goa e l'invio di missionari nelle località visitate, parti per il Giappone in compagnia di Anjiro, suo collaboratore. Sbarcò a Kagoshima, nell'isola di Kiu-Sciu, il 15 agosto 1548. Il principe Shimazu Takahisa lo accolse gentilmente, e mentre egli studiava la lingua del paese, Anjíro convertiva al cattolicesimo oltre un centinaio di parenti e amici. "I Giapponesi - scrisse il Saverio in Europa - sono il migliore dei popoli". Quando il principe, sobillato dai bonzi, vietò ogni ulteriore battesimo, il coraggioso missionario decise di presentarsi addirittura all'imperatore e alle università della capitale, Miyako (Kyoto), ma a causa della guerra civile endemica le università non vollero aprirgli le porte e l'imperatore in fuga non volle riceverlo (1551), perché sprovvisto di doni e poveramente vestito. Si presentò allora in splendidi abiti e con preziosi doni al principe di Yamaguchí che gli concesse piena libertà di predicazione. In breve tempo egli riuscì a creare una fiorente cristianità che formò le delizie della sua anima" e ad estenderla nel vicino regno di Bungo.
Quando nell'inverno del 1551, richiamato da urgenti affari, il Saverio ritornò in India, in Giappone c'erano oltre 1.000 cristiani. Le fatiche avevano imbiancato i suoi capelli. Quante volte, sempre immerso nella preghiera, aveva dovuto camminare a piedi nudi e sanguinanti o passare a guado fiumi gelati! Quante volte, affamato e intirizzito, era stato cacciato dalle locande a sassate! Sovente cadde esausto sul ciglio delle strade. Per poter proseguire il suo viaggio talora dovette occuparsi come stalliere presso viaggiatori più fortunati.
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Essendosi sempre sentito opporre dai bonzi che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l'avrebbero già conosciuta, decise di andarli a convertire. Poiché la prigione o la morte erano la sorte che toccava a tutti gli stranieri che cercavano di entrare in quel paese, il Saverio organizzò un'ambasciata alla corte dell'imperatore della Cina, di cui egli avrebbe fatto parte. A Malacca però l'ammiraglio portoghese in carica, irritato perché non era stato scelto lui come ambasciatore, mandò a monte il progettato viaggio denunciando pubblicamente il Santo come falsificatore di bolle papali e imperiali. Senza lasciarsi abbattere dal grave colpo, l'illuminato apostolo il 17-4-1552 approdò all'isola di Sanciano con un servo cinese convertito, Antonio di Santa Fe. Colà trovò antichi amici che gli offersero ospitalità e un contrabbandiere che per 200 ducati si dichiarò disposto a sbarcarli segretamente alle porte di Canton. Ad un amico il Santo scrisse: "Pregate molto per noi, perché corriamo grande pericolo di essere imprigionati. Tuttavia, già ci consoliamo anticipatamente al pensiero che è meglio essere prigionieri per puro amor di Dio, che essere liberi per avere voluto fuggire il tormento e la pena della croce".
Il giorno stabilito il contrabbandiere mancò alla parola data. Nel rigido inverno, il Saverio si ammalò di polmonite, e privo com'era di ogni cura morì in una capanna il 3-12-1552 dopo avere più volte ripetuto: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! 0 Vergine, Madre di Dio, ricordati di me!". Il suo corpo fu seppellito dal servo nella parte settentrionale dell'isola, in una cassa ripiena di calce. Due anni dopo fu trasportato, integro e intatto, prima a Malacca e poi a Goa, dove si venera nella chiesa del Buon Gesù.
Paolo V beatificò il Saverio il 21-10-1619 e Gregorio XV lo canonizzò il 12-3-1622. Si calcola che il Santo missionario abbia conferito il battesimo a circa 30.000 pagani. Il suo continuo peregrinare per lontanissime regioni diede ad alcuni l'impressione che fosse di temperamento volubile. Come legato del papa, pioniere, superiore e provinciale dei Gesuiti, era spiegabile che egli, ardentissimo della gloria di Dio e della salvezza delle anime, sospirasse di prendere visione del suo sterminato territorio per inviarvi gli operai occorrenti. S. Ignazio avrebbe preferito che, invece di pagare di persona, fosse rimasto ad amministrare le missioni dell'India, e avesse inviato a dissodare il terreno altri confratelli. La lettera che gli scrisse per richiamarlo, almeno provvisoriamente, in Europa, giunse quando egli era già morto.





Il 3 dicembre è la festa liturgica di san Francesco Saverio. Un Santo che ha dell’incredibile. Partì da solo per le Indie, con una sola ricchezza: portare Cristo a chi ancora non lo conosceva. Un esempio di cristianesimo militante.
San Francesco Saverio è considerato il più grande missionario dell’epoca moderna. Fu proclamato Patrono dell’Oriente, dell’Opera della Propagazione della Fede e, con Santa Teresina di Lisieux, delle Missioni. Infatti, nella sua vita, tutta dedicata all’apostolato, giunse in India, Giappone e Cina, dove morì.
Francesco De Jassu venne alla luce in Spagna il 7 Aprile 1506 nel Castello di Xavier (dal quale poi Saverio) nella Navarra da una nobile famiglia di sani princìpi religiosi. Dopo la distruzione del Castello e la morte del padre, avvenuti durante la guerra fra Ferdinando di Castiglia e i reali di Navarra , che erano filo-francesi, ebbe inizio un triste periodo per la famiglia dei Saverio.
Francesco, sia per sfuggire alla sconfitta e alla miseria, sia per prepararsi a restaurare la gloria della sua famiglia, si trasferì a Parigi per studiare all’Università. Lì prese parte alla vita mondana della città, conobbe umanisti e fu attratto dalle teorie eretiche del tempo, ma fu “salvato” da due figure che lo avrebbero positivamente influenzato. Trovandosi a vivere in un pensionato universitario, ebbe modo di conoscere come compagni di stanza prima il beato Pietro Favre e poi Sant’Ignazio di Loyola.
L’agiografia vuole che sin da subito sant’Ignazio, notando l’interessante temperamento del ragazzo, tentò di distoglierlo dalla sua visione della vita troppo legata ai beni materiali ripetendogli spesso la frase: «Che giova all’uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l’anima?» (Mc. 8,36). Francesco, all’inizio, mosso dall’antipatia verso Ignazio, rimase indifferente ai suoi richiami ma infine dovette cedere.
L’antipatia si trasformò in profonda ammirazione e gratitudine e il 15 agosto del 1534 si consacrò a Cristo tra i primi sette componenti della Compagnia di Gesù. I suoi due fratelli maggiori tentarono di dissuaderlo da una tale decisione riuscendo a procurargli il canonicato a Pamplona, ma era troppo tardi: Francesco era già in viaggio verso l’Italia con i suoi compagni, deciso a partire per la Terra Santa. Giunti a Venezia, non riuscirono a partire per la Palestina a causa delle guerre in corso tra Veneziani e Turchi e così si recarono a Roma dove ricevettero l’approvazione del papa Paolo III e furono ordinati sacerdoti.
Di lì a poco sarebbero iniziate le lunghe peregrinazioni del Santo. Francesco ogni tanto sognava di portare sulle spalle un indiano molto pesante e quando l’ambasciatore di Lisbona chiese alla Compagnia di Gesù di inviare due sacerdoti nelle Indie per l’evangelizzazione di quelle terre, accadde che Francesco, anche se non era stato scelto, dovette partire per l’ammalarsi di uno dei due sacerdoti che erano stati prescelti.
Il 7 aprile 1541 Francesco partì da Lisbona e dopo un lungo viaggio durato tredici mesi giunse (era il 6 maggio 1542) a Goa, la capitale dell’Oriente portoghese conquistata trent’anni prima. Francesco come sua abitazione scelse l’ospedale cittadino dormendo in un letto posto accanto a quello del malato più grave. Di giorno si muoveva per la città chiamando a sé i bambini e gli schiavi per educarli al cristianesimo, visitava i malati e i prigionieri guadagnandosi il nome di “padre buono”. Si occupò anche dei Pàravi, i pescatori di perle, che, vessati dai musulmani, erano passati con i Portoghesi ed erano diventati cristiani, senza però un’adeguata educazione in quanto non si conosceva bene la loro lingua.
Francesco, insieme a due compagni di quell’etnia che gli facevano da interpreti, partì verso i luoghi dei Pàravi e con grande fatica tradusse le più importanti preghiere e le verità della fede. Per due anni girò nei villaggi battezzando, insegnando le preghiere e fondando chiese e scuole.
Dopo Goa, si mosse in Malacca e nell’arcipelago delle Molucche. In questo periodo conobbe un giapponese che era scappato dalla sua patria per un delitto commesso. Questi, di nome Hanjiro, volle convertirsi e provocò nel santo un forte interesse nei confronti del popolo giapponese. Così, nel 1549 giunse in Giappone. All’inizio vi fu una buona accoglienza, poi, a causa dei bonzi venne introdotta la pena di morte per chi si battezzava. Il Giappone avrebbe comunque lasciato un ottima impressione a Francesco che se ne andò lasciando una comunità di già 1500 fedeli.
Ora gli si prospettava la Cina che in Giappone gli era stata presentata come una terra assai più colta e raffinata. Per Francesco sarebbe stato l’ultimo viaggio, infatti giunto in Cina si ammalò di febbre e morì. Il suo corpo fu trasportato a Goa dove ancora oggi si trova.
Francesco, oltre ad aver percorso migliaia di chilometri per terra e per mare, si stima che abbia battezzato circa 30.000 persone. Il suo apostolato si basava sull’alternare l’esposizione della dottrina alla preghiera, infatti si preoccupava molto della traduzione delle preghiere di base che trasmettevano le verità di fede, come il semplice segno della croce con il quale si trasmetteva l’idea della Trinità.
Un gigante dell’evangelizzazione. Un faro per i nostri tempi di secolarizzazione, apostasia e di evidente tradimento da parte di tanti cristiani che hanno paura di testimoniare Cristo, Via, Verità e Vita. San Francesco Saverio insegna che ogni sacrificio deve essere fatto per testimoniare la verità di Cristo, e che, senza questa Verità, la vita di ogni uomo rimane impietosamente povera.


Autore: Corrado Gnerre
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04/12/2014 06:52
 
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San Giovanni Damasceno Sacerdote e dottore della Chiesa

4 dicembre - Memoria Facoltativa

Damasco, 650 - 749


Nacque intorno al 675 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l'ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l'incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell'Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Avvenire)

Patronato: Pittori

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte. Il suo corpo fu deposto in questo giorno.

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Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 6 maggio 2009

Cari fratelli e sorelle,
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre - di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: "In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?... E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?... E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole" (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: "Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)" (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: "Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)" (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: "Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro" (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, "fosse rinforzata e rinnovata" dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’"essere", ma nel "bene-essere" (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: "Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…" E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: "Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio" (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.


Autore: Benedetto XVI
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05/12/2014 07:50
 
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San Saba Archimandrita Abate

5 dicembre


Mutalasca, Cesarea di Cappadocia, 439 - Mar Saba, Palestina, 5 dicembre 532

Nasce nel 439 a Cesarea di Cappadocia. La sua famiglia, cristiana, lo indirizza verso gli studi presso il vicino monastero di Flavianae. Ne esce con un'istruzione e con il desiderio di farsi monaco. Attorno ai 18 anni arriva pellegrino in Terrasanta. Sul cammino sosta sempre in comunità monastiche di diverso tipo: di vita comune, anacoretiche, nelle loro grotte o capanne. È così che trova una guida nel monaco Eutimio detto «il grande», col quale condividerà la vita eremitica in Giordania. Dopo la morte del maestro si ritira verso Gerusalemme, nella valle del Cedron. Qui, col tempo, si forma intorno a lui un'aggregazione monastica frequente in Palestina: la laura. Una comunità destinata a crescere fino ad ospitare 150 monaci e far da guida ad altri «villaggi» monastici di questo tipo. Nel 492, Saba viene ordinato sacerdote, e il patriarca Elia di Gerusalemme lo nomina archimandrita, capo di tutti gli anacoreti di Palestina. Muore, ultranovantenne, nel 532. (Avvenire)

Emblema: Bastone pastorale


Martirologio Romano: Vicino a Gerusalemme, san Saba, abate, che, nato in Cappadocia, raggiunse il deserto di Giuda in Palestina, dove istituì una nuova forma di vita eremitica in sette monasteri, che ebbero il nome di laure, nelle quali gli eremiti si riunivano sotto la guida di un unico superiore; passò lunghi anni nella Grande Laura, in seguito insignita del suo nome, rifulgendo come modello di santità e lottando strenuamente in difesa della fede calcedonese.



Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioMaria:




Nasce suddito dell’Impero romano d’Oriente, in una famiglia di cristiani, che da ragazzo lo mettono agli studi nel monastero di Flavianae, presso Cesarea di Cappadocia (attuale Kayseri in Turchia). Ne esce con un’istruzione e con il desiderio di farsi monaco. Si scontra con i suoi, che invece vorrebbero avviarlo alla carriera militare. E la spunta allontanandosi. Sui 18 anni arriva pellegrinoin Terrasanta, facendo sempre tappa e soggiorno tra i monaci: quelli di vita comune, e anche gli anacoreti, nelle loro grotte o capanne.Trova una guida decisiva nel monaco Eutimio detto “il grande”: ha convertito molti arabi nomadi, è stato consigliere spirituale dell’imperatrice Eudossia (la moglie di Teodosio II) nella prima metà del secolo.
Con Eutimio, Saba condivide la vita eremitica nei luoghi meno accoglienti: il deserto della Giordania, la regione del Mar Morto. Assiste poi fino all’ultimo questo suo maestro (morto intorno al473) e si ritira più tardi verso Gerusalemme, andando a stabilirsi in una grotta nel vallone del Cedron. Qui, col tempo, si forma intorno a lui un’aggregazione monastica frequente in Palestina: lalaura o lavra (“cammino stretto”, in greco), che è un misto di solitudine e di comunità, dove i monaci vivono isolati percinque giorni della settimana, e si riuniscono poi il sabato e la domenica per la celebrazione eucaristica in comune. Vivonosotto la guida di un superiore, e dal gennaio fino alla Domenicadelle palme sperimentano la solitudine totale in unaregione desertica.
Insieme a lui, nel vallone, i monaci raggiungono il numerodi 150, ma nuovi “villaggi” nascono in altre partidella Palestina, imitando il suo, che prende il nome diGrande Laura. Nel 492, Saba viene ordinato sacerdote,e il patriarca Elia di Gerusalemme lo nomina poi archimandrita, cioè capo di tutti gli anacoreti di Palestina.
Ma non è un capo dolce, Saba. Non fa sconti sulla disciplina e non tutti lo amano: tant’è che per qualche tempo lui si dovrà allontanare. E andrà a fondare un’altra laura a Gadara, presso il lago di Tiberiade. Poi il patriarca lo richiama, perché i monaci si sono moltiplicati: c’è bisogno della sua energia, per la disciplina e per la difesa della dottrina sulle due nature del Cristo, proclamatanel 451 dal concilio di Calcedonia, e contrastata dalla teologia “monofisita”, che nel Signore ammetteva una sola natura.Scontro teologico, con la politica di mezzo: c’è frattura a Costantinopoli tra l’imperatore Anastasio e il patriarca;e Saba accorre nella capitale, nel vano tentativo di riconciliarli.
Poi vi ritornerà altre volte. E l’ultima, nel 530 è per lui una fatica enorme: ha quasi novant’anni. Ma affronta il viaggioper difendere i palestinesi da una dura tassazione punitiva. La gente lo venera già da vivo come un santo.
E ancora da vivo gli si attribuisce un intervento miracoloso contro i danni di una durissima siccità. Canonizzato da subito, dunque. E sempre ricordato anche dal grande monastero che porta ilsuo nome: Mar Saba. È stato per lungo tempo centro di ascesi e di studio; ed esiste tuttora, dopo avere attraversato tempi di fioritura e di decadenza, di saccheggi e di devastazioni.


Autore: Domenico Agasso

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06/12/2014 07:21
 
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San Nicola di Mira (di Bari) Vescovo

6 dicembre - Memoria Facoltativa

Pàtara, Asia Minore (attuale Turchia), ca. 250 - Mira, Asia Minore, ca. 326


Proveniva da una famiglia nobile. Fu eletto vescovo per le sue doti di pietà e di carità molto esplicite fin da bambino. Fu considerato santo anche da vivo. Durante la persecuzione di Diocleziano, pare sia stato imprigionato fino all’epoca dell’Editto di Costantino. Fu nominato patrono di Bari, e la basilica che porta il suo nome è tuttora meta di parecchi pellegrinaggi. San Nicola è il leggendario Santa Claus dei paesi anglosassoni, e il NiKolaus della Germania che a Natale porta i doni a bambini.

Patronato: Bambini, Ragazzi e ragazze, Scolari, Farmacisti, Mercanti, Naviganti, Pescatori,

Etimologia: Nicola = vincidore del popolo, dal greco

Emblema: Bastone pastorale, tre sacchetti di monete (tre palle d'oro)
Martirologio Romano: San Nicola, vescovo di Mira in Licia nell’odierna Turchia, celebre per la sua santità e la sua intercessione presso il trono della grazia divina.

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San Nicola è uno dei santi più venerati ed amati al mondo. Egli è certamente una delle figure più grandi nel campo dell’agiografia. Tra il X e il XIII secolo non è facile trovare santi che possano reggere il confronto con lui quanto a universalità e vivacità di culto.
Ogni popolo lo ha fatto proprio, vedendolo sotto una luce diversa, pur conservandogli le caratteristiche fondamentali, prima fra tutte quella di difensore dei deboli e di coloro che subiscono ingiustizie. Egli è anche il protettore delle fanciulle che si avviano al matrimonio e dei marinai, mentre l’ancor più celebre suo patrocinio sui bambini è noto soprattutto in Occidente.

La Patria di San Nicola

San Nicola nacque intorno al 260 d.C. a Patara, importante città della Licia, la penisola dell’Asia Minore (attuale Turchia) quasi dirimpetto all’isola di Rodi. Oggi tutta la regione rientra nella vasta provincia di Antalya, la quale comprende, oltre la Licia, anche l’antica Pisidia e Panfilia.
Nell’antichità i due porti principali erano proprio quelli delle città di San Nicola: Patara, dove nacque, e Myra, di cui fu vescovo.
Prima dell’VIII secolo nessun testo parla del luogo di nascita di Nicola. Tutti fanno riferimento al suo episcopato nella sede di Myra, che appare così come la città di San Nicola. Il primo a parlarne è Michele Archimandrita verso il 710 d. C., indicando in Patara la città natale del futuro grande vescovo. Il modo semplice e sicuro con cui riporta la notizia induce a credere che la tradizione orale al riguardo fosse molto solida.
Di Patara parla anche il patriarca Metodio nel testo dedicato a Teodoro e ne parla il Metafraste. La notizia pertanto può essere accolta con elevato grado di probabilità.

L'infanzia

Di S. Nicola di Bari, si sa ben poco della sua infanzia. Le fonti più antiche non ne fanno parola. Il primo a parlarne è nell’VIII secolo un monaco greco (Michele Archimandrita), il quale, spinto anche dall’intento edificante, scrive che Nicola sin dal grembo materno era destinato a santificarsi. Sin dall’infanzia dunque avrebbe cercato di mettere in pratica le norme che la Chiesa suggerisce a chi si avvia alla vita religiosa.
Nicola nacque nell’Asia Minore, quando questa terra, prima di essere occupata dai Turchi, era di cultura e lingua greca. La grande venerazione che nutrono i russi verso di lui ha indotto alcuni in errore, affermando che sarebbe nato in Russia. Non è mancato chi lo facesse nascere nell’Africa, a motivo del fatto che a Bari si venerano alcune immagini col volto del Santo piuttosto scuro (“S. Nicola nero”). In realtà, Nicola nacque intorno all’anno 260 dopo Cristo a Patara, importante città marittima della Licia, penisola della costa meridionale dell’Asia Minore (oggi Turchia). Nel porto di questa città aveva fatto scalo anche S. Paolo in uno dei suoi viaggi.
Il fatto che l’Asia Minore fosse di lingua e cultura greca, sia pure all’interno dell’Impero Romano, fa sì che Nicola possa essere considerato “greco”. Il suo nome, Nikòlaos, significa popolo vittorioso, e, come si vedrà, il popolo avrà uno spazio notevole nella sua vita.
Da alcuni episodi (dote alle fanciulle, elezione episcopale) si potrebbe dedurre che i genitori, di cui non si conoscono i nomi, fossero benestanti, se non proprio aristocratici. In alcune Vite essi vengono chiamati Epifanio e Nonna (talvolta Teofane e Giovanna), ma questi, come vari altri episodi, si riferiscono ad un monaco Nicola vissuto (480-556) due secoli dopo nella stessa regione. Questo secondo Nicola, nato a Farroa, divenne superiore del monastero di Sion e poi vescovo di Pinara (onde è designato anche come Sionita o di Pinara).
Amante del digiuno e della penitenza, quando era ancora in fasce, Nicola era già osservante delle regole relative al digiuno settimanale, che la Chiesa aveva fissato al mercoledì ed al venerdì. Il suddetto monaco greco narra che il bimbo succhiava normalmente il latte dal seno materno, ma che il mercoledì ed il venerdì, proprio per osservare il digiuno, lo faceva soltanto una volta nella giornata.
Man mano che il bimbo cresceva, dava segni di attaccamento alle virtù, specialmente alla virtù della carità. Egli rifuggiva dai giochi frivoli dei bambini e dei ragazzi, per vivere più rigorosamente i consigli evangelici. Molto sensibile era anche nella virtù della castità, per cui, laddove non era necessario, evitava di trascorrere il tempo con bambine e fanciulle.

La dote alle fanciulle

Carità e castità sono le due virtù che fanno da sfondo ad uno egli episodi più celebri della sua vita. Anzi, a questo episodio si sono ispirati gli artisti, specialmente occidentali, per individuare il simbolo che caratterizza il nostro Santo. Quando si vede, infatti, una statua o un quadro raffigurante un santo vescovo dell’antichità è facile sbagliare sul chi sia quel santo (Biagio, Basilio, Gregorio, Ambrogio, Agostino, e così via). Ed effettivamente anche in libri di alta qualità artistica si riscontrano spesso di questi errori. Il devoto di S. Nicola ha però un segno infallibile per capire se si tratta di S. Nicola o di uno fra questi altri santi. Un vescovo che ha in mano o ai suoi piedi tre palle d’oro è sicuramente S. Nicola, e non può essere in alcun modo un altro Santo. Le tre palle d’oro sono infatti una deformazione artistica dei sacchetti pieni di monete d’oro, che sono al centro di questa storia.
L’episodio si svolge a Mira, città marittima ad un centinaio di chilometri da Patara, ove probabilmente Nicola con i suoi genitori si era trasferito. Secondo alcune versioni i suoi genitori erano morti ed egli era divenuto un giovane pieno di speranze e di mezzi. Secondo altre, i genitori erano ancora vivi e vegeti e Nicola dipendeva ancora da loro. Quale che sia la verità, alle sue orecchie giunse voce che una famiglia stava attraversando un brutto momento. Un signore, caduto in grave miseria, disperando di poter offrire alle figlie un decoroso matrimonio, aveva loro insinuato l’idea di prostituirsi allo scopo di raccogliere il denaro sufficiente al matrimonio.
Alla notizia di un tale proposito, Nicola decise di intervenire, e di farlo secondo il consiglio evangelico: non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra. In altre parole, voleva fare un’opera di carità, senza che la gente lo notasse e lo ammirasse. La sua virtù doveva essere nota solo a Dio, e non agli uomini, in quanto se fosse emersa e avesse avuto gli onori degli uomini, avrebbe perduto il merito della sua azione. Decise perciò di agire di notte. Avvolte delle monete d’oro in un panno, uscì di casa e raggiunse la dimora delle infelici fanciulle. Avvicinatosi alla finestra, passò la mano attraverso l’inferriata e lasciò cadere il sacchetto all’interno. Il rumore prese di sorpresa il padre delle fanciulle, che raccolse il denaro e con esso organizzò il matrimonio della figlia maggiore.
Vedendo che il padre aveva utilizzato bene il denaro da lui elargito, Nicola volle ripetere il gesto. Si può ben immaginare la gioia che riempì il cuore del padre delle fanciulle. Preso dalla curiosità aveva cercato invano, uscendo dalla casa, di individuare il benefattore. Con le monete d’oro, trovate nel sacchetto che Nicola aveva gettato attraverso la finestra, poté fare realizzare il sogno della seconda figlia di contrarre un felice matrimonio.
Intuendo la possibilità di un terzo gesto di carità, nei giorni successivi il padre cercò di dormire con un occhio solo. Non voleva che colui che aveva salvato il suo onore restasse per lui un perfetto sconosciuto. Una notte, mentre ancora si sforzava di rimanere sveglio, ecco il rumore del terzo sacchetto che, cadendo a terra, faceva il classico rumore tintinnante delle monete. Nonostante che il giovane si allontanasse rapidamente, il padre si precipitò fuori riuscendo ad individuarne la sagoma. Avendolo rincorso, lo raggiunse e lo riconobbe come uno dei suoi vicini. Nicola però gli fece promettere di non rivelare la cosa a nessuno. Il padre promise, ma a giudicare dagli avvenimenti successivi, con ogni probabilità non mantenne la promessa. E la fama di Nicola come uomo di grande carità si diffuse ancor più nella città di Mira.

Nicola è eletto vescovo

Intorno all’anno 300 dopo Cristo, anche se il cristianesimo non era stato legalizzato nell’Impero e non esistevano templi cristiani, le comunità che si richiamavano all’insegnamento evangelico erano già notevolmente organizzate. I cristiani si riunivano nelle case di aristocratici che avevano abbracciato la nuova fede, e quelle case venivano chiamate domus ecclesiae, casa della comunità. Per chiesa infatti si intendeva la comunità cristiana. E questa comunità partecipava attivamente all’elezione dei vescovi, cioè di quegli anziani addetti alla cura e all’incremento della comunità nella fede e nelle opere. Questi divenivano capi della comunità e la rappresentavano nei concili, cioè in quelle assemblee che avevano il compito di analizzare e risolvere i problemi, e quindi di varare norme che riuscissero utili ai cristiani di una o più province.
Solitamente erano eletti dei presbiteri (sacerdoti), laici che abbandonavano lo stato laicale per consacrarsi al bene della comunità. L’imposizione delle mani da parte dei vescovi dava loro la facoltà di celebrare l’eucarestia, e questo li distingueva dai laici. Non mancano però casi, e Nicola è uno di questi, in cui l’eletto non è un presbitero, ma un laico. Il che non significa che passava direttamente al grado episcopale, ma che in pochi giorni gli venivano conferiti i vari ordini sacri, fino al presbiterato che apriva appunto la via all’episcopato.
In questo contesto ebbe luogo l’elezione di Nicola, che lo scrittore sacro descrive in una cornice che ha del miracoloso. Essendo morto il vescovo di Mira, i vescovi dei dintorni si erano riuniti in una domus ecclesiae per individuare il nuovo vescovo da dare alla città. Quella stessa notte uno di loro ebbe in sogno una rivelazione: avrebbero dovuto eleggere un giovane che per primo all’alba sarebbe entrato in chiesa. Il suo nome era Nicola. Ascoltando questa visione i vescovi compresero che l’eletto era destinato a grandi cose e, durante la notte, continuarono a pregare. All’alba la porta si aprì ed entrò Nicola. Il vescovo che aveva avuto la visione gli si avvicinò e chiestogli come si chiamasse, lo spinse al centro dell’assemblea e lo presentò agli astanti. Tutti furono concordi nell’eleggerlo e nel consacrarlo seduta stante vescovo di Mira.
L’episodio forse avvenne diversamente, anche perché, come si è detto, all’elezione dei vescovi partecipava sempre il popolo. Ma l’agiografo, vissuto in un’epoca in cui i vescovi avevano un potere più autonomo rispetto al laicato, narrando così l’episodio intendeva esprimere due concetti: Nicola fu fatto vescovo da laico e la sua elezione era il risultato non di accordi umani, ma soltanto della volontà di Dio.

La persecuzione di Diocleziano

Nel 303 d.C. l’imperatore Diocleziano mise fine alla sua politica di tolleranza verso i cristiani e scatenò una violenta persecuzione. Questa durò un decennio, anche se i momenti di crudeltà si alternarono con momenti di pausa. Nel 313 gli imperatori Costantino e Licinio a Milano si accordarono sulle sfere di competenza, prendendosi il primo l’occidente, il secondo l’oriente. Essi emanarono anche l’editto che dava libertà di culto ai cristiani. Sei anni dopo (319), in contrasto con la politica costantiniana filocristiana, Licinio riaprì la persecuzione contro i cristiani.
Nelle fonti nicolaiane antiche (anteriori al IX secolo) non si trova alcun riferimento alla persecuzione. Considerando però che il vescovo di Patara Metodio affrontò coraggiosamente la morte, sembra probabile che anche il nostro Santo abbia dovuto patire il carcere ed altre sofferenze, non ultima quella di vedere il suo gregge subire tanti patimenti.
Alcuni scrittori, come il Metafraste verso il 980 d.C., specificavano che Nicola aveva sofferto la persecuzione di Diocleziano, finendo in carcere. Qui, invece di abbattersi, il santo vescovo avrebbe sostenuto ed incoraggiato i fedeli a resistere nella fede e a non incensare gli dèi. Il che avrebbe spinto il preside della provincia a mandarlo in esilio. Autori successivi hanno voluto posticipare la persecuzione patita da Nicola, individuandola in quella di Licinio, piuttosto che in quella di Diocleziano. Ciò per ovviare al fatto che durante la persecuzione Nicola era già vescovo e, secondo loro, sarebbe stato consacrato vescovo fra il 308 ed il 314.
Lo storico bizantino Niceforo Callisto, per rendere più viva l’impressione di un Nicola vicino al martirio e con i segni delle torture ancora nelle carni, scriveva: Al concilio di Nicea molti splendevano di doni apostolici. Non pochi, per essersi mantenuti costanti nel confessare la fede, portavano ancora nelle carni le cicatrici e i segni, e specialmente fra i vescovi, Nicola vescovo dei Miresi, Pafnuzio e altri.

Il Concilio di Nicea

L’imperatore Costantino, con la sua politica a favore dei cristiani, il 23 giugno dell’anno 318 emanava un editto col quale concedeva a coloro che erano stati condannati dalle normali magistrature di presentare appello al vescovo. Ma, mentre la Chiesa con simili provvedimenti si rafforzava nella società pagana, ecco che un’opinione intorno alla natura di Gesù Cristo come Figlio di Dio (se uguale o inferiore a quella del Padre) suscitò una polemica tale da spaccare l’impero in due partiti contrapposti. A scatenare lo scisma fu il prete alessandrino Ario (256-336), coetaneo di S. Nicola. Per risolvere la questione e riportare la pace l’imperatore convocò la grande assemblea (concilio) a Nicea nel 325.
Data l’ubicazione in Asia Minore ben pochi furono i vescovi occidentali che vi presero parte, mentre quelli orientali furono quasi tutti presenti. Qualcuno ha voluto mettere in dubbio la partecipazione di Nicola a questo primo ed importantissimo concilio ecumenico. Ma se è vero che il suo nome (come quello di S. Pafnuzio) non compare in diverse liste, è anche vero che compare in quella redatta da Teodoro il Lettore verso il 515 d.C., ritenuta autentica dal massimo studioso di liste dei padri conciliari (Edward Schwartz).
Una delle preghiere più note della liturgia orientale si rivolge a Nicola con queste parole: O beato vescovo Nicola, tu che con le tue opere ti sei mostrato al tuo gregge come regola di fede (kanòna pìsteos) e modello di mitezza e temperanza, tu che con la tua umiltà hai raggiunto una gloria sublime e col tuo amore per la povertà le ricchezze celesti, intercedi presso Cristo Dio per farci ottenere la salvezza dell’anima.
Questa antica preghiera viene solitamente collegata proprio al ruolo svolto da Nicola al concilio di Nicea. Alla carenza di documentazione sulle sue azioni a Nicea suppliscono alcune leggende, la più nota delle quali (attribuita in verità anche a S. Spiridione) è quella del mattone. Dato che a provocare lo scisma era stato Ario, che non ammetteva l’uguaglianza di natura fra il Dio creatore e Gesù Cristo, il problema consisteva nel dimostrare come fosse possibile la fede in un solo Dio se anche Cristo era Dio. Considerando poi che la formula battesimale inseriva anche lo Spirito Santo, Nicola si preoccupò di dimostrare la possibilità della coesistenza di tre enti in uno solo. Preso un mattone, ricordò agli astanti la sua triplice composizione di terra, acqua e fuoco. Il che stava a significare che la divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo non intaccava la verità fondamentale che Dio è uno. Mentre illustrava questa verità, ecco che una fiammella si levò dalle sue mani, alcune gocce caddero a terra e nelle sue mani restò soltanto terra secca.
Ancor più nota a livello popolare è la leggenda dello schiaffo ad Ario, legata all’usanza dei pittori di raffigurare agli angoli in alto il Cristo e la Vergine in atto di dare l’uno il vangelo l’altra la stola. Secondo questa leggenda Nicola, acceso di santo zelo, udendo le bestemmie di Ario che si ostinava a negare la divinità di Cristo, levò la destra e gli diede uno schiaffo. Essendo stata riferita la cosa a Costantino, l’imperatore ne ordinò la carcerazione, mentre i vescovi lo privavano dei paramenti episcopali. I carcerieri dal canto loro lo insultavano e beffeggiavano in vari modi. Uno di loro giunse anche a bruciargli la barba. Durante la notte Nicola ebbe la visita di Cristo e della Madonna che gli diedero il vangelo (segno del magistero episcopale) e la stola o omophorion (segno del ministero sacramentale). Quando andò per celebrare la messa, indotto da spirito di umiltà, Nicola evitò di indossare i paramenti vescovili, ma alle prime sue parole ecco scendere dal cielo la vergine con la stola e degli angeli con la mitra. Ed appena terminata la celebrazione ecco rispuntargli folta la barba che la notte precedente i carcerieri gli avevano bruciata.
Queste però sono tutte leggende posteriori, poiché, a parte la sua presenza in quel concilio (sull’autorità di Teodoro il Lettore ed alcune liste del VII-VIII secolo), non si sa nulla di ciò che fece Nicola a quel concilio. Certo è che fu dalla parte di Atanasio e dell’ortodossia, altrimenti la liturgia non l’avrebbe chiamato regola di fede.

L'eretico Teognide

Il silenzio degli antichi scrittori sul ruolo di Nicola a quel concilio si spiega forse col fatto che Nicola ebbe un atteggiamento diverso da quello del capo del partito cattolico ortodosso, Atanasio di Alessandria. Pur avendo un carattere altrettanto energico, Nicola era più sensibile alla ricomposizione dell’armonia nella Chiesa. Non si fermava come Atanasio alla difesa ad oltranza delle fede, ma tentava anche tutte le vie per riportare gli erranti (eretici) nel grembo della Chiesa. Un atteggiamento che dovette apparire ad Atanasio come troppo incline al compromesso, e di conseguenza non degno di essere ricordato fra i difensori della fede. Questa “damnatio memoriae” da parte di Atanasio (che pure menziona molti vescovi) si spiega anche col fatto che quasi certamente Nicola militava politicamente nel “partito” opposto. Mentre infatti Atanasio parla di Ablavio, prefetto di Costantino, come “amato da Dio”, l’antico biografo di Nicola lo definisce “perverso e malvagio” (come ritiene anche il grande storico Eusebio di Cesarea e tutti gli storici pagani). Né la cosa deve sorprendere più di tanto. Anche oggi infatti persone degnissime militano politicamente su versanti opposti.
Che in S. Nicola si incontrassero il grande amore per la retta fede col grande amore dell’armonia nella Chiesa, è testimone S. Andrea di Creta, il quale scrive: Come raccontano, passando in rassegna i tralci della vera vite, incontrasti quel Teognide di santa memoria, allora vescovo della Chiesa dei Marcianisti. La disputa procedette in forma scritta fino a che non lo convertisti e riportasti all’ortodossia. Ma poiché fra voi due era forse intervenuta una sia pur minima asprezza, con la tua voce sublime citasti quel detto dell’Apostolo dicendo: “Vieni, riconciliamoci, o fratello, prima che il sole tramonti sulla nostra ira”.
Nonostante il riferimento ai Marcianisti (talvolta è scritto Marcioniti), il vescovo Teognide è quasi certamente il vescovo di Nicea al tempo del Concilio di cui si è parlato. Simpatizzante dell’eretico Ario, Teognide si lasciò tuttavia convincere e alla fine firmò gli atti del concilio. Quasi certamente Nicola si era messo in contatto con lui già in precedenza e dovette avere un certo ruolo nel farlo decidere a firmare gli atti. In realtà Teognide successivamente non mutò atteggiamento verso Atanasio, che continuò ad avversare decisamente. Dopo un esilio di tre anni in Gallia, al ritorno continuò a criticare il termine “consustanziale” col quale Atanasio e la Chiesa definivano il rapporto fra Padre e Figlio. Nel 336 contribuì a fare esiliare S. Atanasio.
Come si può vedere, l’antichità cristiana non fa eccezione. Anche all’interno di sostenitori della retta fede si formarono “partiti” diversi. Il che comportò persino giudizi contrapposti sul piano della spiritualità. E’ il caso di Teognide, da S. Andrea di Creta ritenuto di “santa memoria”, da altri pur sempre un eretico. Ed è il caso di Teodoreto (storico della Chiesa), dalla chiesa greca considerato un eresiarca, dalla russa un “beato” (blažennyj). Ed è pure il caso del patriarca Anastasio (729-752), dalla chiesa latina ritenuto un iconoclasta, da quella greca “di santa memoria” perché pentito, dopo essere stato salvato proprio da S. Nicola dall’annegamento.

Il tempio di Diana

Costantino aveva lasciato libertà di culto ai pagani, tuttavia è chiaro che almeno a partire dal 318, coi poteri giurisdizionali ai vescovi, i cristiani ebbero uno spazio privilegiato all’interno dell’impero. Non pochi vescovi, e sembra che Nicola sia stato fra di essi, si impegnarono per quanto possibile a cancellare dalle loro città i segni della religione pagana fino ad abbattere alcuni templi. La tradizione ci fa vedere Nicola impegnato in tal senso. Andrea di Creta nel suo celebre Encomio di S. Nicola, rivolgendosi al nostro Santo esclama: Hai dissodato, infatti, i campi spirituali di tutta la provincia della Licia, estirpando le spine dell’incredulità. Con i tuoi insegnamenti hai abbattuto altari di idoli e luoghi di culto di dèmoni abominevoli e al loro posto hai eretto chiese a Cristo. Pur rimanendo molto vicino al testo di Andrea, Michele Archimandrita, “concretizzava” l’opera di Nicola facendo riferimento non alle armi della parola e dell’insegnamento, ma a vere e proprie spranghe di ferro per abbattere il tempio di Diana, che si ergeva imponente. Era questo il maggiore di tutti i templi sia per altezza che per varietà di decorazioni, oltre che per presenza di demoni.
Che Michele Archimandrita si fosse documentato su fonti miresi dirette è dimostrato proprio da queste sue parole. Se non avesse fatto ricorso a tali documenti difficilmente avrebbe potuto sapere di questo ruolo preminente del tempio di Diana. Dopo recenti scavi archeologici è risultato infatti che nel 141 questo tempio era stato restaurato ed ampliato dal mecenate licio Opramoas di Rodiapoli. Una conferma, questa, che quanto dice il monaco Michele riflette i racconti che si narravano a Mira nell’VIII secolo.
E’ probabile che la verità sia quella di Andrea di Creta, che ci mostra un Nicola che abbatte il paganesimo con le armi della parola. Tuttavia, a giudicare dal carattere energico del vescovo di Mira (dimostrato in altre occasioni), non è impossibile che sia avvenuto secondo il racconto dell’Archimandrita. Ciò che li accomuna, ed era una credenza molto diffusa a livello popolare, è il particolare dei demoni che abitavano in questi templi pagani, per cui quando questi venivano demoliti, i demoni venivano a trovarsi senza un tetto ed erano costretti a cercarsi altre dimore.

Carestia e grano

Il santo vescovo era impegnato però non soltanto nella diffusione della verità evangelica, ma anche nell’andare incontro alle necessità dei poveri e dei bisognosi. La parola della fede era seguita dalla messa in pratica della carità.
Al tempo del suo episcopato mirese scoppiò una grave carestia, che mise in ginocchio la popolazione. Pare che Nicola prendesse varie iniziative per sovvenire ai bisogni del suo gregge, e l’eco di queste attraversò i secoli, rimanendo nella memoria dei Miresi. Una leggenda lo vede apparire in sogno a dei mercanti della Sicilia, suggerendo loro un viaggio sino alla sua città per vendere il grano, ed aggiungendo che lasciava loro una caparra. Quando i mercanti si resero conto di aver avuto la stessa visione e trovarono effettivamente la caparra, subito fecero vela per Mira e rifornirono la popolazione di grano.
Ancor più noto è l’episodio delle navi che da Alessandria d’Egitto fecero sosta nel porto di Mira. Nicola accorse e, salito su una delle navi, chiese al capitano di sbarcare una certa quantità di grano. Quello rispose che era impossibile, essendo quel grano destinato all’imperatore ed era stato misurato nel peso. Se fosse stato notato l’ammanco avrebbe potuto passare i guai suoi. Nicola gli rispose che si sarebbe addossato la responsabilità, e alla fine riuscì a convincerlo. Il frumento fu scaricato e la popolazione trovò grande sollievo, non solo perché si procurò il pane necessario, ma anche perché arò i terreni e seminò il grano che restava e poté raccoglierlo anche negli anni successivi. Quanto alle navi “alessandrine”, queste giunsero a Costantinopoli e, come il capitano aveva temuto, il tutto dovette passare per il controllo del peso. Quale non fu la sua gioia e meraviglia quando vide che il peso non era affatto diminuito, ma era risultato lo stesso della partenza delle navi da Alessandria.
Questo miracolo è all’origine non solo di tanti quadri che lo raffigurano, ma anche di tante tradizioni popolari legate al pane di S. Nicola. A Bari, anche per facilitarne il trasporto nei paesi d’origine, ai pellegrini che giungono nel mese di maggio vengono date “serte” di taralli, tenuti insieme da una funicella.

Nicola salva tre innocenti

Tutti gli episodi sinora narrati hanno subìto l’incuria del tempo. Essi venivano narrati dai miresi e da nonni a nipoti giunsero fino all’VIII-IX secolo. Il lungo travaglio orale fece loro perdere i connotati della “storia” per apparire piuttosto come “tradizione” o come “leggenda”. I nomi dei protagonisti delle vicende si perdettero quasi del tutto. E’ vero che in tante Vite di S. Nicola si trovano i nomi dei genitori, dello zio archimandrita, del suo predecessore sulla cattedra di Mira, del nocchiero che l’avrebbe condotto in pellegrinaggio in Egitto e in Terra Santa, e così via. Ma si tratta di nomi che nulla hanno a che fare col nostro Nicola. Bisogna rassegnarsi alla realtà che, ad eccezione del concilio di Nicea e del vescovo Teognide, nessun nome compare nella vita del nostro Santo prima della storia dei tre innocenti salvati dalla decapitazione.
Questa storia, insieme a quella successiva dei generali bizantini (Praxis de stratelatis), è il pezzo forte di tutta la vicenda nicolaiana. Nell’antichità, per esprimere il concetto che questa narrazione era la più importante di tutte quelle che riguardavano S. Nicola, spesso non veniva indicata come Praxis de stratelatis (racconto intorno ai generali) ma semplicemente come Praxis tou agiou Nikolaou (storia di S. Nicola), quasi che tutti gli altri racconti non rivestissero alcuna importanza a paragone con questo.
In occasione della sosta di alcune navi militari nel porto di Mira, nel vicino mercato di Placoma scoppiarono dei tafferugli, in parte provocati proprio dalla soldataglia che sfogava così la tensione di una vita di asperità. In quei disordini le forze dell’ordine catturarono tre cittadini miresi, i quali dopo un processo sommario furono condannati a morte. Nicola si trovava in quel momento a colloquio con i generali dell’esercito Nepoziano, Urso ed Erpilio, i quali gli stavano dicendo della loro imminente missione militare contro i Taifali, una tribù gotica che stava suscitando una rivolta in Frigia. Invitati da S. Nicola, i generali riuscirono a fare riportare l’ordine. Ma ecco che alcuni cittadini accorsero dal vescovo, riferendogli che il preside Eustazio aveva condannato a morte quei tre innocenti.
Seguito dai generali, Nicola prese il cammino per Mira. Giunto al luogo detto Leone, incontrò alcuni che gli dissero che i condannati erano nel luogo detto Dioscuri. Nicola procedette così fino alla chiesa dei santi martiri Crescente e Dioscoride. Qui apprese che i condannati erano già stati portati a Berra, il luogo ove solitamente venivano messi a morte i condannati. Ben sapendo che solo lui, in quanto vescovo, avrebbe potuto fermare il carnefice, accelerò il passo e vi giunse, aprendosi la strada fra la folla che faceva da spettatrice. Il carnefice era già pronto, e i condannati stavano già col collo sui ceppi, quando Nicola si avvicinò e tolse la spada al carnefice.
Avendo liberato gli innocenti dalla decapitazione, Nicola si recò al palazzo del preside Eustazio, entrandovi senza farsi annunciare. Giunto dinanzi al preside l’apostrofò accusandolo di ingiustizie, violenze e corruzione. Quando minacciò di riferire la cosa all’imperatore, Eustazio rispose che era stato indotto in errore da due notabili di Mira, Simonide ed Eudossio. Ma Nicola, senza contestare il particolare, gli rinfacciò nuovamente la corruzione e, giocando sulle parole, gli disse che non Simonide ed Eudossio, ma Crisaffio (oro) e Argiro (argento) l’avevano corrotto. Avendo così ristabilita la verità e la giustizia, Nicola non infierì ma perdonò al preside pentito.

I generali liberati dalla prigione

Edificati dal comportamento del santo vescovo, tre generali ripresero il mare e raggiunsero la Frigia, ove riuscirono a sottomettere le forze ribelli all’impero. Un po’ per il successo dell’impresa un po’ perché Nepoziano era parente dell’imperatore, il loro ritorno a Costantinopoli avvenne in un’atmosfera di vero e proprio trionfo. Tuttavia la gloria e gli onori durarono poco, perché queste sono spesso accompagnate da gelosie ed invidie.
Gli agiografi parlano di malevoli suggerimenti del diavolo, certo è che ben presto si formò un partito avverso a Nepoziano e compagni. I componenti di questo partito riuscirono a coinvolgere il potente prefetto Ablavio, il quale convinse l’imperatore che i tre generali stavano complottando per rovesciarlo dal trono. Convinto o meno dell’attendibilità della notizia, Costantino preferì non correre rischi, e li fece mettere in prigione. Dopo alcuni mesi i seguaci di Nepoziano si stavano organizzando su come liberare i generali. Per cui i loro avversari, col denaro promesso a suo tempo, tornarono da Ablavio e lo convinsero a suggerire all’imperatore un provvedimento più drastico. Infatti, Costantino diede ordine di sopprimerli quella notte stessa.
Appresa la notizia, il carceriere Ilarione corse ad avvertire i generali, che furono presi da grande angoscia. Sentendosi prossimo alla morte, Nepoziano si sovvenne dell’intervento in extremis del vescovo Nicola a favore dei tre innocenti. Allora levò al Signore questa preghiera: Signore, Dio del tuo servo Nicola, abbi compassione di noi, grazie alla tua misericordia e all’intercessione del tuo servo Nicola. Come, per i suoi meriti, hai avuto compassione dei tre uomini condannati ingiustamente salvandoli da sicura morte, così ora rida’ la vita anche a noi, mosso a misericordia dall’intercessione di questo santo vescovo.
Il Signore esaudì la preghiera di Nepoziano, fatta propria dai compagni. Quella notte S. Nicola apparve in sogno all’imperatore minacciandolo: Costantino, alzati e libera i tre generali che tieni in prigione, poiché vi furono rinchiusi ingiustamente. Se non fai come ho detto, conferirò con Cristo, il re dei re, e susciterò una guerra e darò in pasto i tuoi resti a fiere ed avvoltoi. Spaventato, Costantino chiese chi fosse: Sono Nicola, vescovo peccatore, e risiedo a Mira, metropoli della Licia.
Nicola apparve minaccioso anche ad Ablavio, e quando l’imperatore lo mandò a chiamare, entrambi pensarono ad un’opera di magia. Mandarono a prendere i tre generali per chiedere spiegazioni. Il colloquio aveva preso il binario della “magia”, quando Costantino chiese a Nepoziano se conoscesse un tale di nome Nicola. Nepoziano si illuminò, accorgendosi che la sua preghiera era stata esaudita. E narrò tutto all’imperatore, che seduta stante ne ordinò la liberazione. Anzi, volle che andassero a Mira a ringraziare il santo vescovo ed a portargli da parte sua preziosi doni, fra cui un Vangelo tutto decorato d’oro e candelieri ugualmente d’oro. Altri autori aggiungono che giunti a Mira si tagliarono i capelli in segno di gratitudine e di devozione verso il Santo.

La riduzione delle tasse

E’ difficile dire quanto ci sia di vero e quanto sia stato il parto della fantasia di un popolo consapevole di aver avuto un “progenitore” ed un difensore. Per i Miresi Nicola era colui che aveva riportato la retta fede, la giustizia ed il benessere alla loro città. Non per nulla, secondo la testimonianza sia della Vita Nicolai Sionitae sia dell’Encomio di Andrea di Creta, essi istituirono la festa delle “rosalie del nostro progenitore S. Nicola”.
Fra le tante iniziative del Santo a favore della popolazione, intorno al VII secolo si narrava il suo intervento per fare ridurre le tasse per i Miresi (Praxis de tributo).
E’ nota a diversi storici la tendenza di Costantino a gravare le popolazioni dell’impero con tasse esorbitanti. Ed anche se i cristiani cercavano delle attenuanti, i pagani come Zosimo ricordavano che Costantino era costretto a una pesante politica tributaria a causa della sua eccessiva prodigalità. L’anonimo scrittore che compose l’Epitome de Caesaribus descriveva così la sua politica tributaria: Per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone, negli ultimi dieci fu chiamato pupillo per le eccessive prodigalità.
Quando anche la città di Mira si trovò a dover pagare tasse esorbitanti, i rappresentanti del popolo si rivolsero a Nicola affinché scrivesse all’imperatore. Nicola fece di più. Partì alla volta di Costantinopoli e chiese udienza. L’anonimo scrittore qui si lascia prendere la mano e, non tenendo conto che Nicola era vissuto al tempo di Costantino, immagina i vescovi della capitale che gli rendono omaggio riunendosi nel tempio della Madre di Dio alle Blacherne, chiedendogli la benedizione. A parte l’esagerazione di una simile accoglienza, quel tempio sarebbe stato costruito un secolo dopo la morte del Santo.
L’abbellimento agiografico si nota anche al momento dell’arrivo di Costantino. Prima che cominciasse il colloquio, l’imperatore gettò il suo mantello ed ecco che questo, incrociando un raggio di sole, rimase sospeso ad esso. Il prodigio rese timoroso e benevolo l’imperatore. Quando Nicola gli riferì come i Miresi fossero oppressi dalle tasse, chiedendogli di apportare una sensibile riduzione, l’imperatore chiamò il notaio ed archivista Teodosio, e secondo il desiderio di Nicola operò una netta riduzione a soli cento denari.
Nicola prese la carta su cui era registrata questa concessione e legatala ad una canna, la gettò in mare. Per volere di Dio la canna giunse nel porto di Mira e pervenne nelle mani dei funzionari del fisco, i quali furono molto sorpresi ma si adeguarono. Intanto però a Costantinopoli i consiglieri di Costantino fecero notare all’imperatore che forse la concessione era stata un tantino esagerata. Per cui l’imperatore chiamò nuovamente Nicola per correggere la somma della tassa che i Miresi dovevano pagare. Il Santo gli rispose che da tre giorni la carta era pervenuta a Mira. Essendo ciò impossibile, Costantino promise che se le cose stavano veramente così avrebbe confermato la precedente concessione. I nunzi, da lui inviati per verificare quel che era accaduto, tornarono e riferirono che Nicola aveva detto la verità. Mantenendo la promessa, l’imperatore confermò la concessione.

La morte del Santo

Considerando la tradizione secondo la quale era già anziano al tempo del concilio di Nicea, con ogni probabilità il nostro Santo morì in un anno molto prossimo al 335 dopo Cristo. Come della sua nascita, anche della sua morte non si sa alcunché. Gli episodi e i particolari che si leggono in alcune Vite non riguardano il nostro Nicola, ma un santo monaco vissuto due secoli dopo nella stessa regione.

Traslazione delle reliquie

Nel 1087 una spedizione navale partita dalla città di Bari si impadronì delle spoglie di San Nicola, che nel 1089 vennero definitivamente poste nella cripta della Basilica eretta in suo onore. L’idea di trafugare le sue spoglie venne ai baresi nel contesto di un programma di rilancio dopo che la città, a causa della conquista normanna, aveva perduto il ruolo di residenza del catepano e quindi di capitale dell’Italia bizantina. In quei tempi la presenza in città delle reliquie di un santo importante era non solo una benedizione spirituale, ma anche mèta di pellegrinaggi e quindi fonte di benessere economico.


Autore: Padre Gerardo Cioffari O.P.
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07/12/2014 09:17
 
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Sant' Ambrogio Vescovo e dottore della Chiesa

7 dicembre (e 4 aprile)


Treviri, Germania, c. 340 - Milano, 4 aprile 397



Aveva scelto la carriera di magistrato – seguendo le orme del papà, prefetto romano della Gallia – e a trent’anni si trovava già ad essere Console di Milano, città che era allora capitale dell’Impero. Così, quel 7 dicembre dell’anno 374, in cui cattolici e ariani si contendevano il diritto di nominare il nuovo Vescovo, toccava a lui garantire in città l’ordine pubblico, e impedire che scoppiassero tumulti. L’imprevedibile accadde quando egli parlò alla folla con tanto buon senso e autorevolezza che si levò un grido: «Ambrogio Vescovo!». E pensare che era soltanto un catecumeno in attesa del Battesimo! Cedette, quando comprese che quella era anche la volontà di Dio che lo voleva al suo servizio. Cominciò distribuendo i suoi beni ai poveri e dedicandosi a uno studio sistematico della Sacra Scrittura. Imparò a predicare, divenendo uno dei più celebri oratori del suo tempo, capace di incantare perfino un intellettuale raffinato come Agostino di Tagaste, che si convertì grazie a lui. Da Ambrogio la Chiesa di Milano ricevette un’impronta che si conserva ancor oggi, anche nel campo liturgico e musicale. Mantenne stretti e buoni rapporti con l’imperatore, ma era capace di resistergli quand’era necessario, ricordando a tutti che «l’imperatore è dentro la Chiesa, non sopra la Chiesa». E quando seppe che Teodosio il Grande aveva ordinato una violenta e ingiusta repressione a Tessalonica, non temette di esigere dal sovrano una pubblica espiazione. Dicono che al termine della sua vita abbia confidato: «Non ho paura di morire, perché abbiamo un Signore buono!». Alla sua Chiesa lasciava un ricco tesoro di insegnamenti soprattutto nel campo della vita morale e sociale.

Patronato: Apicoltori, Vescovi, Lombardia, Milano e Vigevano


Etimologia: Ambrogio = immortale, dal greco


Emblema: Api, Bastone pastorale, Gabbiano


Martirologio Romano: Memoria di sant’Ambrogio, vescovo di Milano e dottore della Chiesa, che si addormentò nel Signore il 4 aprile, ma è venerato in particolare in questo giorno, nel quale ricevette, ancora catecumeno, l’episcopato di questa celebre sede, mentre era prefetto della città. Vero pastore e maestro dei fedeli, fu pieno di carità verso tutti, difese strenuamente la libertà della Chiesa e la retta dottrina della fede contro l’arianesimo e istruì nella devozione il popolo con commentari e inni per il canto.



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Milano 374. In una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, presbiteri e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani stavano discutendo animatamente sul nome del successore del vescovo Assenzio (ariano) morto di recente. Era un po’ di tempo ormai che le due fazioni si affrontavano animatamente anche per le strade, con qualche pericolo per l’ordine pubblico. Non si poteva far finta di niente.
E infatti Ambrogio, il governatore (della Lombardia, Liguria ed Emilia, con sede appunto a Milano) si recò in quella chiesa per calmare gli animi e per incoraggiare il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni, anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla popolazione essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di funzionario pubblico sembrava compiuta e con successo, quando accadde l’imprevisto che gli cambierà completamente la vita.
Qualcuno dalla folla, sembra un bambino, gridò forte: “Ambrogio vescovo” e l’intera assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi folgorati da quel grido (era un’ispirazione dall’alto?) ripeterono a loro volta “Ambrogio vescovo”. Non si diceva già allora “Vox populi, vox Dei”?.
A furor di popolo, ecco trovata la soluzione allo spinoso problema. Tutti d’accordo sul nuovo vescovo: il loro governatore, anche se era un semplice catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche. E l’interessato? Per la verità non era proprio entusiasta. Proprio lui ancora semplice catecumeno e per di più a completo digiuno di teologia (quindi senza un’adeguata preparazione ad essere vescovo)? Sembrava tutto assurdo.
Si appellò a Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico “datogli” dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore: anzi questi gli disse che si sentiva lui stesso lusingato per aver scelto un governatore “politico” (Ambrogio) che era stato ritenuto degno persino di svolgere l’ufficio episcopale (anche perché allora il vescovo di Milano aveva una specie di giurisdizione su quasi tutto il Nord Italia, quindi era un incarico molto prestigioso).
Ed Ambrogio accettò. Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda vita.

Un vescovo tutto per Dio e tutto per il popolo

Ambrogio era nato a Treviri, in Germania, da una nobile famiglia romana della Gens Aurelia. Suo padre era governatore delle Gallie, quindi un importante funzionario imperiale. Quando questi improvvisamente morì, Ambrogio con la sorella Marcellina (Santa) e la madre ritornarono a Roma. Qui continuò gli studi, imparò il greco e divenne un buon poeta e un oratore. Proseguì poi gli studi per la carriera legale ottenendo molti successi in questo campo come avvocato, finché l’imperatore Valentiniano lo nominò nel 370 governatore, con residenza a Milano. Una carriera impressionante.
Ambrogio fece il governatore solo quattro anni, ma la sua opera fu molto incisiva.
Era un uomo al di sopra delle parti e dei partiti, aveva costantemente l’occhio rivolto al bene di tutta la popolazione, non escludendo nessuno specialmente i poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò non solo la stima ma addirittura l’affetto sincero di tutta la popolazione, senza distinzione. Possiamo dire che fece così bene il governatore che il Popolo di Dio (con l’imperatore e il Vescovo di Roma Papa Damaso) lo ritennero degno di fare il vescovo. E la “promozione” non era da poco.
Fatto vescovo, decise di rompere ogni legame con la vita precedente: donò infatti le sue ricchezze ai poveri, le sue terre e altre proprietà alla Chiesa, tenendo per sé solo una piccola parte per provvedere alla sorella Marcellina, che anni prima si era consacrata Vergine nella Basilica di San Pietro durante una solenne liturgia di Natale, presente il Papa Liberio. Ambrogio ebbe sempre una grande stima per la madre, per la sorella e per la decisione presa da lei.
Consapevole della sua impreparazione culturale in campo teologico, si diede allo studio della Scrittura e alle opere dei Padri della Chiesa, in particolare Origene, Atanasio e Basilio. La sua vita era frugale e semplice, le sue giornate dense di incontri con la gente, di studio e di preghiera. Ambrogio studiava e poi faceva sostanza della sua preghiera ciò che aveva studiato, quindi, dopo aver pregato, scriveva e quindi predicava. Questo era il suo modo di porgere la Parola di Dio al popolo. Lo stesso Agostino d’Ippona ne rimase affascinato tanto da sceglierlo come maestro nella fede, proprio perché con il suo modo di fare e di predicare aveva contribuito alla sua conversione (insieme alla madre Monica, e naturalmente allo Spirito Santo).
Ogni giorno diceva la Messa per i suoi fedeli dedicandosi poi al loro servizio per ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi. Tutti potevano parlargli in qualsiasi momento. Ed è anche per questo che il popolo non solo lo ammirava ma lo amava sinceramente.
È rimasto famoso il suo comportamento quando alcuni soldati nordici avevano sequestrato, in una delle loro razzie, uomini donne e bambini. Ambrogio non esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E a coloro (gli ariani) che ebbero il coraggio di criticarlo per l’operato rispose:
“Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno... Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.

“Dove c’è Pietro, c’è la Chiesa”

La Chiesa del tempo di Ambrogio attraversava una grave turbolenza dottrinale: la presenza cioè dell’eresia ariana, originata e predicata da Ario. Questi negava la divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre, affermando che anche lui era una semplice creatura, scelta da Dio come strumento di salvezza. Come si vede un’eresia dirompente e devastante per la cristianità, che minacciava il centro stesso del Cristianesimo: Gesù Cristo, e questi Figlio di Dio.
Purtroppo ebbe molti seguaci anche nei ranghi alti delle autorità e cioè imperatori e imperatrici, governatori, ufficiali dell’esercito romano che la sostennero con il loro peso politico e militare. Ambrogio conosceva il problema già da governatore, ma dovette affrontarlo specialmente da vescovo di Milano scontrandosi addirittura con la più alta autorità: quella imperiale.
Nel 386 fu approvata una legge che autorizzava le assemblee religiose degli ariani e il possesso delle chiese, ma in realtà bandiva quelle dei cristiani cattolici. Pena di morte a chi non obbediva.
Ambrogio incurante della legge e delle conseguenze personali, si rifiutò di consegnare agli ariani anche una sola chiesa. Arrivarono le minacce contro di lui. Allora il popolo, temendo per il proprio vescovo, si barricò nella basilica insieme con lui. Le truppe imperiali circondarono e assediarono la chiesa, decisi a farli morire di fame. Ambrogio, per occupare il tempo, insegnò ai suoi fedeli salmi e cantici composti da lui stesso e raccontò al popolo tutto ciò che era accaduto tra lui e l’imperatore Valentiniano, riassumendo il tutto con la famosa frase: “L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa”.
Nel frattempo Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente, dopo aver sconfitto e giustiziato l’usurpatore Massimo che aveva invaso l’Italia, reintegrò Valentiniano (facendogli abbandonare l’arianesimo) e si fermò per un po’ di tempo a Milano.
La riconoscenza di Ambrogio all’imperatore tuttavia non gli impedì di affrontarlo in ben due occasioni, quando ritenne che il suo comportamento era riprovevole e condannabile pubblicamente. Fu specialmente dopo l’infame massacro di Tessalonica del 390, in cui morirono più di settemila persone, tra cui molte donne e bambini, in rivolta per la morte del governatore. Furono uccisi tutti senza distinzione di innocenti e colpevoli.
Ambrogio, inorridito per l’accaduto, insieme ai suoi collaboratori ritenne responsabile pubblicamente Teodosio stesso, invitandolo a pentirsi. Alla fine l’imperatore cedette e piegò la testa. Questo spiega la grande autorità morale di cui godeva il vescovo. Teodosio morì tre anni dopo e lui stesso ne fece un sincero elogio lodandone l’umiltà e il coraggio di ammettere le proprie colpe, additandone l’esempio anche agli inferiori.
Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
Nella Lettera apostolica Operosam Diem (1996) per il centenario della morte di Ambrogio, Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha messo in risalto due importanti aspetti del suo insegnamento: il convinto cristo-centrismo e la sua originale Mariologia.
Ambrogio viene considerato l’iniziatore della Mariologia latina. Giovanni Paolo II (in Operosam diem, n. 31):
“Di Maria Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto. Egli ne offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore, l’assiduità al lavoro e alla preghiera.
Pur nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani. Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo vescovo di Milano esclama: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio”.
Del suo cristo-centrismo così ha scritto Giovanni Paolo II:
“Al centro della sua vita, sta Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A Lui, tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la carità che proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona... Del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l’ardore di chi è stato letteralmente afferrato da Cristo e tutto vede nella sua luce”.
Questo suo pensiero centrale può essere sintetizzato nella famosa frase del De Virginitate “Cristo per noi è tutto”.
Ambrogio visse e operò totalmente e incessantemente tutto per Cristo e tutto per la Sua Chiesa. Il suo amore a Cristo era inscindibile dal suo amore alla Chiesa. Operare per far crescere l’amore a Cristo significava per lui lavorare, soffrire, studiare, predicare, piangere, rischiare la vita davanti ai potenti del tempo per la Chiesa, popolo di Dio, perché Ambrogio era profondamente convinto che “Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine” (La Chiesa risplende non di luce propria ma di quella di Cristo), senza dimenticare mai che “Corpus Christi Ecclesia est”, (Il Corpo di Cristo è la sua Chiesa), quindi i fedeli possono benissimo dire tutti: “Nos unum corpus Christi sumus”.
E per questi fedeli, che sono la Chiesa, che è il corpo di Cristo, e per amore di Cristo presente nella Sua Chiesa, Ambrogio vescovo lavorò, studiò, rischiò la vita, pianse, pregò, predicò, viaggiò e scrisse libri fino alla fine. Questa arrivò, per la verità non inaspettata, il 4 aprile, all’alba del Sabato Santo quando correva l’anno 397.

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08/12/2014 09:35
 
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Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

8 dicembre



Già celebrata dal sec. XI, questa solennità si inserisce nel contesto dell’Avvento-Natale, congiungendo l’attesa messianica e il ritorno glorioso di Cristo con l’ammirata memoria della Madre. In tal senso questo periodo liturgico deve essere considerato un tempo particolarmente adatto per il culto della Madre del Signore. Maria è la tutta santa, immune da ogni macchia di peccato, dallo Spirito Santo quasi plasmata e resa nuova creatura. Già profeticamente adombrata nella promessa fatta ai progenitori della vittoria sul serpente, Maria è la Vergine che concepirà e partorirà un figlio il cui nome sarà Emmanuele. Il dogma dell’Immacolata Concezione fu proclamato da Pio IX nel 1854. (Mess. Rom.)

Patronato: Patrona e Regina dell’ordine francescano

Martirologio Romano: Solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, che veramente piena di grazia e benedetta tra le donne, in vista della nascita e della morte salvifica del Figlio di Dio, fu sin dal primo momento della sua concezione, per singolare privilegio di Dio, preservata immune da ogni macchia della colpa originale, come solennemente definito da papa Pio IX, sulla base di una dottrina di antica tradizione, come dogma di fede, proprio nel giorno che oggi ricorre.



Maria Immacolata, di cui si celebra la festa l’8 dicembre, è segno, per volontà di Dio, di perfezione assoluta in una creatura umana: nessuna persona si avvicina alle sue altezze di bontà e di beltà e nessuno, neppure tutti gli angeli e tutti i santi messi insieme, ha maggior potere intercessorio sull’Onnipotente.
Per tale ragione è proprio all’Immacolata, Madre di Dio, a cui occorre rivolgersi in questi tempi di apostasia e di corruzione, implorando il suo Cuore Immacolato di presto trionfare, così come profetò a Fatima. I principi cristiani sono crollati e nelle società occidentali anche i comandamenti che Dio consegnò a Mosè sono stati calpestati: le Tavole della Legge sono state sostituite con le tavole del culto all’uomo e dei suoi “diritti”, che invece di liberarlo lo costringono a cadere sempre più nell’abisso. Soltanto l’Innocenza pura, ovvero la Vergine Immacolata, potrà venire in soccorso di tanta bruttura, capace di contaminare anche l’età dell’innocenza. Tuttavia esiste un altro tipo di corruzione della purezza: è quella che tocca coloro che sono chiamati alla vocazione, i quali, ignari, pensando di entrare in seminari o noviziati di formazione, ne escono, “grazie” ai loro docenti al passo con i tempi, con una Fede malsana.
Privilegiata per eccellenza, l’Immacolata è dolcezza e quiete inenarrabili. Tre cose Ella predilige: offrire sacrifici e rinunce a Dio, portare la Croce per amore di Gesù, recitare il Santo Rosario; nelle apparizioni sono questi i messaggi che porta all’umanità per indicare la via della Salvezza e nulla ha aggiunto, in quanto la Trinità, nella quale Lei vive, si è già manifestata nella Rivelazione, perciò alla Madre di Dio è rimasto il compito di avvertire e ammonire i suoi figli, che ama di perfetto amore.
L’Immacolata fu Paradiso in terra per Gesù e per San Giuseppe ed è il «Paradiso di Dio», come la definisce mirabilmente Grignion de Montfort: «Non c’è e non ci sarà mai creatura in cui Dio sia più grande – al di fuori di se stesso e in se stesso – che nella divina Maria, non eccettuati i santi, i cherubini e i più alti serafini. Maria è il paradiso di Dio e il suo mondo ineffabile, in cui il Figlio di Dio è entrato per operarvi meraviglie, per custodirlo e compiacersi. Ha fatto un mondo per l’uomo pellegrino: è il nostro; ha fatto un mondo per l’uomo beato, il paradiso; ma ne ha fatto un altro per sé e gli ha dato il nome di Maria. Questo è un mondo sconosciuto a quasi tutti i mortali della terra è incomprensibile a tutti gli angeli e i beati del cielo, che per l’ammirazione che provano nel vedere Dio così elevato e distante da loro, così segregato e nascosto nel suo mondo, la divina Maria, gridano giorno e notte: “Santo, Santo, Santo!”».

Autore: Cristina Siccardi





Che cosa vuol dire Immacolata Concezione?

Vuol dire che la Vergine Maria, pur essendo stata concepita dai suoi genitori (sant’Anna e san Gioacchino) così come vengono concepite tutte le creature umane, non è mai stata toccata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento.

Perché la Vergine Maria è stata concepita immacolatamente?

La risposta sta nel fatto che la Vergine Maria non solo avrebbe dovuto concepire il Verbo incarnato e quindi portare con sé, nel Suo Grembo, il Dio fattosi uomo; ma anche perché avrebbe dovuto dare al Verbo incarnato la natura umana. Il catechismo afferma che Gesù Cristo è vero Dio ma anche vero uomo, nell’unico soggetto che è divino. Si tratta dell’unione ipostatica.
Ebbene, non si può pensare che Dio, somma perfezione e somma purezza, possa aver ricevuto la natura umana da una creatura toccata –anche se brevemente – dal peccato e, quindi, in quanto tale, soggetta in qualche modo all’azione del Maligno.

In che parte del Vangelo si può facilmente dedurre che la Vergine Maria è Immacolata?

Nell’Annunciazione l’Angelo saluta Maria con l’appellativo “Piena di Grazia”. Tali parole fanno chiaramente capire che non si tratta semplicemente di un saluto rivolto a chi è nello stato di Grazia, ma a chi è totalmente pieno della Vita di Dio, totalmente pieno di questa Vita perché costitutivamente immacolato.

Chi ha promulgato il dogma dell’Immacolata Concezione?

Il dogma fu promulgato nella Cappella Sistina dal beato Pio IX l’8 dicembre 1854. Il Pontefice, durante il suo esilio in Gaeta (1849-1851) – dovuto alla Rivoluzione mazziniana che nel 1848-1849 aveva portato alla costituzione della Seconda Repubblica Romana, per sua natura massonica e anticristiana – aveva fatto voto in una cappella dedicata all’Immacolata che, qualora avesse ricevuto la grazia del ritorno a Roma e del ripristino dell’ordine cristiano nell’Europa allora sconvolta dalla Rivoluzione, avrebbe appunto impegnato tutto se stesso nell’attuazione della proclamazione del gran dogma mariano. Come Pio IX ebbe poi a dire, sentì tale esigenza come una chiamata interiore, che ricevette mentre era assorto in preghiera dinanzi all’immagine dell’Immacolata.

Perché si attese il XIX secolo per promulgare tale dogma?

Primo: perché il dogma dell’Immacolata Concezione è un dogma di approfondimento della Rivelazione (approfondimento vuol dire che è comunque contenuto implicitamente nella Rivelazione) per cui era naturale che tale approfondimento avvenisse nel corso della storia.
Secondo: perché tale dogma fu una risposta all’influenza illuminista (prima) e positivista (poi) che affermavano una sorta di “immacolata concezione” dell’uomo. Si tratta del mito del buon selvaggio secondo cui l’uomo sarebbe in natura buono ma poi verrebbe rovinato dalle strutture sociali. La conseguenza di questa errata antropologia era il ritenere che la soluzione di ogni male non stesse prima di tutto nella conversione del cuore dell’uomo ma solo nella teorizzazione di ideologie rivoluzionarie e utopiche atte a realizzare una sorta di “paradiso sulla terra”.
Ebbene, il dogma dell’Immacolata Concezione nel 1854 e la sua conferma venuta dall’Alto che si avrà quattro anni dopo a Lourdes (La Vergine si presentò a Bernadette con queste testuali parole: “Io sono l’Immacolata Concezione”), furono una risposta cattolica a questo errore. Se la Vergine Maria è stata concepita immacolatamente vuol dire che tutti gli altri uomini nascono macchiati dal peccato. E la salvezza non ci viene dalla scienza o dal progresso, ma solo dalla grazia divina e dalla nostra adesione – di fede e di opere – alla Redenzione di Cristo.
Occorre aggiungere anche che il fatto che si sia atteso tanto tempo prima di promulgare il dogma, è fattore ulteriormente accertativo della validità della decisione di Pio IX, in quanto fu frutto di secolari discussioni teologiche, che, pur basate su iniziali posizioni distanti, portarono però alla scoperta della verità sulla materia del dogma.
Inoltre, un altro fattore decisivo, era costituito dal fatto che ormai già da secoli, ovunque nella cattolicità, si venerava Maria anche sotto il titolo di Immacolata, e centinaia erano le cappelle già consacrate al suo immenso privilegio. Proprio in una di queste, come detto, il beato Pio IX ebbe la suggestione di giungere alla grande epocale decisione del dogma.

Autori: Corrado Gnerre e Massimo Viglione





«Ave o Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne». Queste parole dell’Angelo, rivolte a quest’umile verginella di Nazaret risuonano nella storia, nella nostra vita, soprattutto hanno scolpito la nostra identità di uomini.
«Ave o Maria»: possiamo dire che in questo saluto angelico rivolto ad una donna c’è il saluto che compendia l’inizio del mondo e della vita vera. L’inizio del mondo, perché? Con quel saluto, l’Angelo annunciava a Maria che in Lei vi era tutta la pienezza di Dio, la riconosceva piena di grazia. Con la risposta di Maria: «Ecco: sono la serva del Signore. Fiat, sia fatto di me come tu stai dicendo», in quel momento, si compiva il disegno eterno di Dio, Dio si incarnava in Lei, Dio diventava uomo in Lei e così poteva ricreare quel mondo creato ma abbrutito dal peccato, dalla disobbedienza nostra.
In Maria, Dio crea un nuovo mondo; in Maria Dio crea il mondo, lo ricrea. Diceva sant’Anselmo d’Aosta che Maria è la Madre della ri-creazione, di questo mondo ricreato, fatto bello, fatto puro, fatto santo, il mondo nuovo, il mondo di Dio. Maria è il mondo di Dio, il Paradiso di Dio. Maria, con questo saluto angelico, si professa la schiava, la serva, ma per mezzo della sua risposta all’Angelo, del suo Sì, permette a Dio che diventi uomo, dunque che Dio entri nel mondo, che Dio venga in mezzo a noi.
Maria la celebriamo tutta santa, tutta Immacolata: è il Giardino nuovo, il Grembo della Nuova Alleanza che accoglie il Verbo e in Lui accoglie tutti i figli di Dio, che diventeranno figli in quel Figlio, nel Figlio che Lei genera, dandoGli la natura di uomo, a Colui che era sempre Dio e che rimane Dio per sempre.
Maria, dunque, è l’inizio di questo mondo bello, di questo mondo rinnovato. Potremmo dire, in modo molto semplice, che la nuova creazione, quella promessa da Dio alla fine dei tempi, quei cieli nuovi, quella terra nuova, già sono presenti, già sono creati da Dio in questa creatura immacolata, senza macchia di peccato. Quella creazione nuova che inizia con la ri-creazione del mondo, per mezzo dell’Incarnazione, è già fatta da Dio, è già esistente, la si può già vedere in questa creatura tutta di Dio. Perciò Maria è il mondo di Dio, è il mondo della creazione bella, pura, santa, così come è uscita dalle mani di Dio.
Ecco cosa significa Immacolata Concezione. Forse oggi, in un mondo che vede la libertà come la capacità di fare il male – sono libero, secondo molti, quando sono capace di commettere il peccato –, questa parola non significa più niente: Immacolata Concezione sembra una parola vuota. Eppure, senza l’Immacolata noi non potremmo sospirare, così come facciamo, a questo mondo nuovo, a questo mondo bello, a questo mondo della bellezza. Immacolata Concezione significa che Dio in Lei ha fatto sì che mai potesse esserci la benché minima macchia di peccato. Per uno speciale privilegio della grazia, Dio ha preservato la sua Madre dal contagio della colpa originale: singulari privilegio dirà il beato Pio IX quando definirà l’Immacolata Concezione. Singulari privilegio in vista dei meriti di Cristo, dei meriti della Redenzione. Cristo ha salvato, ha redento la sua Madre in modo unico, facendo sì che mai cadesse in peccato, che non venisse contaminata dall’ombra, dalla macchia, dalla sporcizia del peccato. Perché? Perché quella Donna, quella Madre, quella Vergine doveva essere la Madre di Cristo, la Madre del Verbo Incarnato, la Madre di Dio e dunque la Madre nostra.
Immacolata Concezione significa perciò che in Lei non c’è alcun legame con il peccato, nessun legame con la falsa libertà, con quella concupiscenza che ci rende in fondo schiavi di noi stessi, delle nostre passioni disordinate, dei nostri modi di cercare noi stessi e quello che ci fa piacere, quello che ci procura semplicemente una soddisfazione, molto spesso egoistica. Il peccato è la scelta, in fondo, dell’egoismo, è una scelta egoistica, è un abuso della libertà, è una falsa libertà e lo si vede negli effetti tristi che rovinano e che sporcano la nostra anima, fatta bella però da Dio, creata bella e in vista dell’eterna bellezza. Nell’Immacolata tutto questo non c’è, per un singolare privilegio della grazia, perché Dio, in Lei, manifestasse la bellezza incontaminata della creazione uscita dalle sue mani, della creazione che Lui aveva voluto e che in realtà ha fatto. Dunque, Maria è stata predestinata, insieme con il Figlio, dall’eternità “santa e immacolata nella carità”. Ne è testimone la Lettera agli Efesini, che si legge in questa solennità: «Dio ci ha scelti per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4). Questa santità e questa immacolatezza che si applicano a tutti i figli di Dio, redenti nel Figlio, queste qualità cioè, sono state donate in modo unico, in modo singolare a Colei che è la Madre di Cristo, a Colei che è stata scelta anche quale Madre nostra.
Nella Madonna noi contempliamo questa bellezza di Dio, questa creazione nuova, ma allo stesso tempo possiamo vedere anche la Chiesa nuova, quella Chiesa che tutti noi sospiriamo; quella Chiesa libera dal compromesso del peccato, libera dai quei difetti umani che rovinano questo volto bello; quella Chiesa che noi vorremmo, quella Chiesa contro cui, in effetti, ci scagliamo quando vediamo i cattivi esempi di uomini ma non della Chiesa. La Chiesa è santa e immacolata, senza ruga, tutta santa, e Maria è la Madre della Chiesa. Maria è il modello della Chiesa; è quello che la Chiesa sarà nella pienezza dei tempi, è quello che la Chiesa è chiamata ad essere, è quello che noi, che siamo membra di questa Chiesa, siamo chiamati ad essere. Dunque, le promesse di Dio di una creazione nuova, di una Chiesa che entra nell’eternità senza macchia, senza compromesso col peccato c’è già: questa Chiesa è una Donna, questa Chiesa è una Madre, questa Chiesa è una Vergine, questa Chiesa è una Figlia, questa Chiesa è Maria.
La nostra fede in Dio e nella verità dell’Immacolata Concezione, il nostro credere che Maria è la Madre di Dio, è la nostra Madre Immacolata, non è secondario per la fede di un cristiano. La devozione alla Madonna non è qualcosa da relegare a una pietà più o meno marcata del fedele. La devozione alla Madonna che si innesta nella fede in Dio onnipotente che l’ha resa Immacolata, è necessaria, è il cuore della nostra identità cattolica. Credere in Dio che ha arricchito la sua Madre di queste prerogative uniche, e amare questa Madre che è già quello che noi dovremmo essere, che è già la Chiesa nella sua pienezza, è necessario, per rimanere nella Fede della Chiesa, per rimanere fedeli alla nostra identità cattolica. La Madonna, nell’impianto, se possiamo dire così, della Fede, è quella chiave di volta che tiene insieme tutte le verità, perché è una Madre che genera con il suo grembo i figli, che ha fatto il Figlio e che genera i figli di Dio. La Madonna, le verità che riguardano la Madonna e pertanto l’amore alla Madonna, ci fanno tenere la nostra attenzione su tutte le verità della fede, soprattutto della Chiesa in quanto tale. La devozione alla Madonna ci previene da quella tentazione di dire: «Cristo sì, ma la Chiesa non mi piace. Questa Chiesa non la voglio. Questa Chiesa così come è fatta non è la Chiesa di Cristo, dunque la scarto».
La devozione alla Madonna, l’amore alla Madonna ci previene da quella tentazione, sempre ricorrente nel popolo di Dio, di abbandonare i Sacramenti, di abbandonare la Confessione, di abbandonare l’amore a Gesù Eucaristia, di abbandonare l’adorazione a Gesù Eucaristia. Quando c’è un vero amore a Maria c’è la pratica sacramentale costante della Confessione, dell’Adorazione eucaristica, della fede viva nel popolo di Dio. Dove c’è anche una tradizione mariana, che si alimenta attraverso una pietà popolare, che può essere una processione mariana, una novena mariana, il santo Rosario, lì la fede diventa salda, lì la fede scende nella vita del popolo di Dio. Dove c’è la Madonna, lì c’è Gesù. In altri termini: dove c’è l’amore alla Madonna, lì c’è la verità di Cristo e della Chiesa, dei pastori e dei fedeli che in unità costituiscono l’unico popolo di Dio.
Per contro, dove non c’è la Madonna, dove non c’è questa fede in Dio e questa fede nelle verità mariane e una devozione vera alla Madonna, lì pian piano viene a mancare l’identità cattolica della Chiesa. Questo è già successo diverse volte. Quando si respinge la Madonna, la si ritiene qualcosa di superato, una devozioncella per vecchine che non hanno molto da fare, la fede s’illanguidisce, la fede diventa puro soggettivismo: credo quando mi sento di credere, vado a Messa quando me la sento, mi confesso forse a Natale. La fede perde quell’identità, perde quel calore che solo una Madre può dare, perché è la madre che genera la vita, che dà la vita al figlio, lo assiste, lo educa, lo segue nella sua crescita, lo guida. Una Chiesa senza una Madre diventa ben presto una Chiesa senza un cuore, una Chiesa senza un’identità, una Chiesa senza una forma, una Chiesa difforme che diviene facilmente un’altra cosa. Una Chiesa che non sa più generare. Non più la Chiesa che Cristo ha costituito, quella Chiesa che è già ben salda a Pentecoste dove ci sono i Dodici, dove c’è Pietro, la pietra della Chiesa, e i Dodici, che sono radunati attorno a Maria, sono alla scuola di Maria e Maria è la Madre e la Maestra di questa Chiesa.
L’Immacolata Concezione di Maria è quella verità che ci fa guardare all’identità della nostra fede, all’identità cristiana, all’identità cattolica. L’Immacolata è quel giardino di Dio purissimo che tiene salde in unità le verità della Fede e la nostra identità.
Ecco allora il segreto: dobbiamo amare la Madonna, dobbiamo venerare la Madonna. Da questo amore, da questa venerazione dipenderà la nostra esistenza cristiana, il nostro essere Chiesa in questo tempo, in questo momento. Purtroppo, un abbandono progressivo della Madonna, generato da un abbandono dello studio sistematico della Madonna, ha generato una Chiesa per tanti versi senza una forma, una Chiesa che ha smarrito la sua identità. Questo ci deve far riflettere attentamente e ci deve spingere a non essere superficiali, a non essere frettolosi nel liberarci di Maria per fare spazio a cose più nutrite, alle cose più importanti, liberarci di quello che noi riteniamo superfluo, secondario, quale la devozione alla Madonna, la recita del santo Rosario, la Consacrazione alla Madonna. Consacrazione sì, non basta solo affidamento. Bisogna consacrarsi alla Madonna, così come si è fatto sempre nella Chiesa, sin dai primi secoli.
Non siamo più superficiali perché questa superficialità ha portato la Chiesa, in tanti suoi membri, in uno stato di smarrimento, di smarrimento della fede, nelle secche di una Chiesa che ormai è diventata una semplice assemblea, ma non più quel Mistero di Fede creduto e vissuto. Non siamo più superficiali! Guardiamo alla fede dei nostri Padri, alla fede che ha plasmato la nostra cultura e la nostra identità. A Firenze, ad esempio, l’anno sociale iniziava il giorno dell’Annunciazione, quando l’Angelo disse: «Ave gratia plena». Concludendo, possiamo dire che l’Immacolata Concezione di Maria ci spinge tutti ad andare con fiducia a Maria, ad avvicinarci a Lei con fede, con amore e a mettere la nostra vita nelle sue mani, a consacrare la nostra vita a Lei, perché dov’è Maria, lì è Gesù, dov’è Gesù lì è Maria.


Autore: Padre Serafino M. Lanzetta FI

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09/12/2014 07:17
 
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San Siro di Pavia Vescovo

9 dicembre

sec. IV


Nel giovinetto che porse a Gesù i pani e i pesci per il miracolo della moltiplicazione, una leggenda fiorita in Italia, identifica il primo vescovo di Pavia, san Siro. Tale leggenda sarebbe riferita dall'autore del «De laudibus Papiae», uno scritto del 1330. Dietro a questo scritto ci sarebbe la «Vita di san Siro», risalente all'ottavo secolo e con l'intenzione di vantare l'anzianità della Chiesa di Pavia nei confronti di quella di Milano, dalla quale la prima dipendeva. Secondo questa Vita le origini del vescovado pavese sono da collegarsi con Aquileia, il cui primo vescovo Ermagora venne consacrato dall'evangelista Marco. Ermagora a sua volta avrebbe consacrato vescovi Siro, giunto in Italia al seguito di Pietro e Marco, ed Evenzio, inviandoli ad evangelizzare Pavia. Giunto a Pavia Siro estense la sua attività missionaria dal Ticino all'Adige, predicando a Verona, Brescia, Lodi e anche a Milano, dove Evenzio, inviato da Siro, avrebbe dato sepoltura ai martiri Gervasio e Protasio, ponendo sulla loro tomba una pietra sepolcrale con l'epitaffio dettato dal vescovo di Pavia. Le reliquie di san Siro sono conservate nella cattedrale di Pavia. (Avvenire)

Patronato: Pavia

Etimologia: Siro = nativo della Siria, dal latino

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Pavia, san Siro, primo vescovo della città.

Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:


Motivo di discussione, e di molteplici confronti fra Studiosi, è la presa di posizione di alcuni che ancora oggi identificano San Siro con quel giovinetto galileo che porse a Gesù Cristo i pani ed i pesci per il miracolo della moltiplicazione, facendo risalire ai tempi apostolici il transito terreno del Santo. In sintesi, e molti Documenti ne rendono ampia testimonianza, San Siro fu un Vescovo itinerante (e il Protovescovo di Pavia), che evangelizzò una vasta area dell’Italia settentrionale, vissuto nel IV secolo. Ad inquadrarlo cronologicamente nel IV secolo decine di fonti, le più autorevoli delle quali: Bibliotheca Hagiografica Latina, Bibliotheca Sanctorum, Le Diocesi d’Italia (Mons. Francesco Lanzoni), Storia Religiosa della Lombardia – Diocesi di Pavia (Mons. Vittorio Lanzani), Notizie appartenenti alla storia della sua Patria (G. Robolini). In breve e in risposta alle tesi che riportano la venuta di San Siro nella Nostra Penisola a seguito di San Pietro: “… la fondazione della diocesi è più tarda perché se il terzo vescovo di Pavia, Evenzio, visse, come è storicamente accertato, tra il 381 e il 397, il primo vescovo risale al massimo a metà del IV secolo” (Cattabiani A., Santi d’Italia, Milano: Bur Saggi, 2004, Vol. II, pp. 879 - 880). Il tentativo di fare apparire apostolica la fondazione della Chiesa di Pavia sono molteplici e ripetuti: escludendo testimonianze che troppo ci riportano indietro nel tempo e che utilizzavano come scusa la retrodatazione per tentare di separarsi da un vincolo ormai stretto che legava la Diocesi di Milano con quella di Pavia ad essa subordinata, si distinse sul finire del 1800 il Sacerdote Cesare Prelini di Pavia. Quest’ultimo, come si narra, scoprì sul pavimento, incise su una pietra della Chiesa dei SS. Gervasio e Protasio a Pavia (dove per secoli rimasero le spoglie mortali di San Siro, prima di essere traslate in Duomo), le lettere SURVS EPC (Siro Vescovo). Quella pietra, insieme con un’altra a questa complementare andarono a formare un’avello, subito identificato come prima sepoltura del Santo. A dar man forte al Prelini, il Principe degli archeologi cristiani: Giovanni Battista De’ Rossi, che assegnò all’inizio del II secolo la scritta SURVS e non la scritta EPC, considerata di mano più tarda (Vedi anche Bollettino di Archeologia Cristiana, Serie III, Anno I, N. 111, 1876). Confortato da ciò il Prelini compose tra il 1880 e il 1890 i due Volumi di: San Siro Primo Vescovo e Patrono della Città e Diocesi di Pavia – studio storico critico e riservò al De’ Rossi e alla sua dissertazione ampio spazio. Nonostante ciò negli anni a seguire altri studi assodarono che San Siro non era da considerarsi vissuto in epoca apostolica ma bensì nella prima metà del IV secolo e il De’ Rossi ritrattò la sua sentenza. Mons. Vittorio Lanzani, dal suo punto di vista inquadra l’avello sepolcrale di San Siro “come un sarcofago di reposizione successiva, quando ancora Siro non era venerato come santo. Il sarcofago vescovile pavese si impone comunque come una prova archeologica di alta antichità che tramanda il nome di SVRVS EPC e garantisce la continuità della sua memoria e della custodia delle sue reliquie” (Storia Religiosa della Lombardia – Diocesi di Pavia, p. 20). A dar manforte alle sopraccitate fonti si aggiungono quelle iconografiche, molto spesso poste in secondo piano, ma in questo caso assai efficaci, al fine di ancorare il Santo Patrono alla storia: Angelo Maria Raggi (Bibliotheca Sanctorum, Vol. XI, coll.1242-43) parla della più antica e nota figurazione di S.Siro, quale il bassorilievo che possiamo ammirare nella Chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio a Pavia sul pilastro antistante la cappella a lui dedicata: “In esso il Santo è figurato in abiti pontificali, con un pastorale ed un libro in mano, in una tipologia convenzionale ripresa anche in altre opere posteriori”. F. Gianani aggiunge: “Il bassorilievo era policromo, come se ne rilevano le tracce… Il Santo è rappresentato in abiti pontificali, anche col bastone pastorale, ma senza mitra. La sua casula (la pianeta) era dipinta di rosso, la dalmatia in verde, l’omophorion o pallio in giallo, il viso e le mani leggermente rosate” (Città di Pavia - La Basilica dei Santi Gervasio e Protasio nella Storia e nell’Arte, p.24). Ora l’importante scritto di Angelo Maria Raggi: “Sino a tutto il sec. XVI, come si nota, non esiste alcun riferimento alla pretesa identificazione di S. nel giovinetto galileo che porse a Gesù i pani ed i pesci per il miracolo della moltiplicazione… Questi compaiono solo dopo il 1600 (e spesso vennero arbitrariamente aggiunti anche a dipinti anteriori)”. (Bibliotheca Sanctorum, coll.1242-43).

Autore: Michele Chieppi
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10/12/2014 08:07
 
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Beati Antonio Martin Hernandez ed Agostino Garcia Calvo Salesiani, martiri

10 dicembre

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+ Picadero de Paterna, Spagna, 10 dicembre 1936

Martirologio Romano: Nel villaggio di Picadero de Paterna nello stesso territorio, beati martiri Antonio Martín Hernández, sacerdote, e Agostino García Calvo, religioso, della Società Salesiana, che nella stessa persecuzione ricevettero la stola gloriosa per la loro fede in Cristo.


Antonio Martin Hernandez coadiutore
Calzada de Béjar, Spagna, 18 luglio 1885 - Picadero de Paterna, Spagna, 10 dicembre 1936
Nacque a Calzada de Béjar (Salamanca) il 18 luglio 1885 in seno ad una famigliamolto cristiana. Attratto da una vocazione pedagogica, realizzò gli studi per insegnante in Salamanca, dove ebbe occasione di conoscere i salesiani e chiese di far parte della Congregazione. Fu ordinato sacerdote nel 1919. Iniziò il suo cammino salesiano in Campello (Alicante), e passò poi a Carabanchel (Madrid),a Sarria (Barcellona) come maestro dei novizie finalmente a Valenza come direttore del collegio. In tutte le case lasciò l'impronta di un uomo entusiasta,trasformando gli istituti in scuole gioiose e attraenti.Pedagogo equilibrato e lavoratore instancabile,seppe guadagnarsi sempre la fiduciadei suoi allievi.

Agustin Garcia Calvo coadiutore
Santander, Spagna, 3 febbraio 1905 - Picadero de Paterna, Spagna, 10 dicembre 1936
Nato a Santander il 3 febbraio 1905. Fece i suoi primi studi presso i salesiani della sua città. Andò a Campello (Alicante) come aspirante e decise di diventare salesiano coadiutore, facendo il noviziatoa Sarria (BarcelIona) e la sua professione religiosa nell'agosto del 1923. La casa di Valenza fu il principale campo della sua attività. Era un uomo semplice,lavoratore e sacrificato. Scrisse diverse opere di teatro per gli ex allievi. Fu testimone dell'uccisione del Sig. Ispettore, Don José Calasanz, e fu lui stesso ucciso due mesi dopo a Patema, insieme agli altri.

Fonte: www.sdb.org
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11/12/2014 06:40
 
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San Daniele lo Stilita Sacerdote

11 dicembre

Maratha, Samosata, 409 - Siria, 490 circa

Nasce a Maratha, nelle vicinanze di Samosata in Siria nel 409. Daniele a dodici anni chiede di essere accolto in un vicino monastero e davanti alla resistenza dell'abate gli risponde che con la sua fede sopporterà la dura vita del cenobio. Guadagna subito la fiducia dell'abate, a tal punto che lo accompagna ad Antiochia dove conoscono san Simone che, da poco, ha iniziato a vivere da asceta in cima ad una colonna. Tornato a Maratha, alla morte dell'abate Daniele viene scelto come suo successore, ma rifiuta l'incarico perché vuol tornare a visitare Simone. A causa delle guerre è costretto a fermarsi a Costantinopoli, quindi si ritira in un tempio abbandonato a Filempora. Nel 459 muore Simone e il suo mantello viene dato a Daniele che, ormai cinquantenne, decide di seguire l'esempio del maestro e si stabilisce su una colonna. Muore nel 490 e viene sepolto ai piedi della colonna sulla quale aveva vissuto trentatré anni e tre mesi. (Avvenire)

Etimologia: Etimologia: Daniele = Dio è il mio giudice, dall'ebraico

Martirologio Romano: A Costantinopoli, san Daniele, detto Stilita, sacerdote, che, dopo aver condotto vita monastica e superato molte difficoltà, seguendo l’esempio di vita di san Simeone, alloggiò sull’alto di una colonna per trentatré anni e tre mesi fino alla morte, imperterrito davanti all’impeto del freddo, del caldo o dei venti.


Testimoni estremi della fede, la cui vita di penitenza era sempre sotto gli occhi di tutti, gli stiliti incarnarono una forma originale di ascetismo cui stenteremmo a credere se non avessimo fonti storiche documentate. Nati nel V secolo in Oriente (si diffusero poi anche in Russia), questi anacoreti vivevano presso un villaggio o un monastero, su una colonna alta dai dieci ai venti metri. Su di essa predicavano, guarivano malati e celebravano l’Eucaristia, trasformando così un simbolo pagano (solitamente sulle colonne si innalzavano gli idoli) in luogo di elevazione cristiana. La piattaforma garantiva la sopravvivenza grazie ad una tettoia, mentre dal balcone vi era il contatto con i fedeli. Alcuni seguaci provvedevano al sostentamento dello stilita innalzando il cibo con una carrucola o una scala. Alla sommità accedevano quanti necessitavano di conforto spirituale o cercavano soluzioni a controversie. Il primo e il più celebre stilita fu S. Simeone detto “il vecchio” (390-459) che visse in Siria a Qal’At Sem’An, nei pressi di Antiochia, e fu famoso per i miracoli e per aver convertito anche alcuni arabi. Daniele fu un suo discepolo, come apprendiamo dalla dettagliata biografia scritta, con diversi particolari storici, da un giovane seguace.
Daniele nacque a Maratha (vicino a Samosata) nel 409 da pii genitori che lo consacrarono subito al Signore. Crebbe buono e a soli dodici anni chiese di essere accolto in un vicino monastero. Alle resistenze dell’abate rispose che era sì giovane ma, con la sua grande fede, avrebbe sopportato la dura vita del cenobio. Pochi anni dopo godeva già della sua fiducia, tanto da accompagnarlo in un viaggio ad Antiochia. Ospiti del monastero di Telanissos (Dair Sem’an), conobbero S. Simeone che aveva da poco iniziato a vivere da asceta in cima ad una colonna, incompreso dai compagni e accusato di vanagloria. Nonostante la grande calura, il santo li accolse e li benedisse facendo breccia nel cuore del giovane, cui però predisse molte sofferenze. Qualche tempo dopo l’abate morì e Daniele venne scelto come suo successore. Egli però, rifiutato l’incarico, tornò a far visita a Simeone con l’intento di raggiungere successivamente la Terra Santa. Ripiegò su Costantinopoli a causa delle guerre, per poi ritirarsi a Filempora, in un tempio abbandonato, sotto la protezione del patriarca S. Anatolio. Nel 459 Simeone morì e il suo mantello, destinato inizialmente all’Imperatore Sergio I, venne dato a Daniele che, ormai cinquantenne, decise di seguire l’esempio del maestro. Alcuni compagni lo aiutarono a stabilirsi su una colonna dove iniziò la sua vita di meditazione e preghiera. All’ordine iniziale dell’Imperatore Leone di lasciare il luogo, la guarigione di un ragazzo posseduto dal demonio convinse il messo imperiale a tornare dall’imperatore per raccontare l’accaduto. Questi chiese a Daniele di pregare affinché l’imperatrice Verena concepisse un figlio. A grazia ottenuta l’imperatore andò di persona a ringraziarlo, salendo sulla colonna e toccandogli i piedi. Fece poi costruire un’altra colonna collegata con un ponte alla precedente, mentre il luogo era ormai meta di pellegrinaggi. Durante una tempesta la struttura corse il pericolo di crollare, ma Daniele non l’abbandonò e, a pericolo scampato, fece graziare il costruttore condannato dall’imperatore per la sua imperizia.
Il santo stilita era continuamente esposto alle intemperie e durante un inverno particolarmente rigido fu salvato in extremis dall’assideramento. L’imperatore fece allora costruire una stanza in cui fosse maggiormente riparato. Purtroppo a Daniele non mancarono gli attriti col Patriarca di Costantinopoli Gennadio e solo dietro ordine imperiale questi andò a trovarlo. All’incontro, nonostante la giornata caldissima, assistette una grande folla e il presule, dopo aver celebrato le preghiere d’ordinazione, salì sulla colonna dove si diedero vicendevolmente la comunione.
Daniele era ormai famoso in tutto l’impero. Si narra che predisse un incendio nella capitale (465) e che davanti alla sua colonna furono siglati patti di alleanza tra principi. Le visite più gradite erano però quelle dei malati che, dopo aver ascoltato la sua sapiente parola, ricevevano i sacramenti. Scese dalla colonna solo quando, morto l’imperatore, gli eretici monofisiti usurpavano il trono. Portato a spalle dalla folla ottenne il riconoscimento del nuovo Imperatore Zenone che, da lì a poco, con gratitudine, andò a onorarlo sulla colonna. Lo stesso successivamente promulgò il decreto detto Henoticon, diretto a vescovi, chierici e monaci della chiesa orientale, relativo all’approvazione del Simbolo Niceno.
Daniele morì ultraottantenne nel 490 (o 493) dopo aver incontrato il Patriarca Eufemio e aver celebrato la Messa. Fu sepolto in un oratorio ai piedi di quella colonna su cui era vissuto trentatre anni e tre mesi.


Autore: Daniele Bolognini
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12/12/2014 09:27
 
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San Spiridione di Trimithonte Vescovo

12 dicembre


270 - 344



San Spiridione, pur avendo origini assai umili, divenne vescovo di una piccola zona remota nord-orientale dell'isola di Cipro, nei pressi di Salamina. Secondo lo storico Socrate, egli fu ritenuto degno della carica episcopale proprio per la santità dimostrata nell'attività precedente e fu così che fu fatto pastore di uomini nella città cipriota di Trimithonte. La sua profonda umiltà lo portò a continuare a pascolare anche il suo gregge animale, nonostante l'alto ufficio ecclesiastico assunto. Una leggenda narra che un giorno riuscì a catturare dei ladri che avevano tentato di rubargli delle pecore, pregò con loro, li liberò ed infine donò addirittura loro un montone, così da non aver trascorso l'intera notte svegli invano. Secondo alcune fonti avrebbe partecipato al Concilio di Nicea nel 325. Spiridione rimase coinvolto nella persecuzione anticristiana indetta da Galerio: secondo alcune tradizioni in tale contesto storico venne ferito e poi fu deportato ai lavori forzati nelle miniere. Alla sua morte, le reliquie furono traslate da Cipro a Costantinopoli, poi a Corfù, Zachitos e Cefalonia. (Avvenire)

Etimologia: Spiridione = regalo, dono, dal greco


Emblema: Bastone pastorale, Pallio, Berretto da pastore


Martirologio Romano: Nell’isola di Cipro, san Spiridone, vescovo, vero pastore delle sue pecore, le cui straordinarie azioni erano celebrate dalla bocca di tutti.








San Spiridione, pur avendo origini assai umili, proveniva infatti da una famiglia di pastori, divenne vescovo di una piccola zona remota nord-orientale dell’isola di Cipro, nei pressi di Salamina. Secondo lo storico Socrate, egli fu ritenuto degno della carica episcopale proprio per la santità dimostrata nell’attività precedente e fu così che fu fatto pastore di uomini nella città cipriota di Trimithonte. La sua profonda umiltà lo portò a continuare a pascolare anche il suo gregge animale, nonostante l’alto ufficio ecclesiastico assunto.
Spiridione fu un vescovo molto amato. Una leggenda narra che un giorno riuscì a catturare dei ladri che avevano tentato di rubargli delle pecore, pregò con loro, li liberò ed infine donò addirittura loro un montone, così da non aver trascorso l’intera notte svegli invano.
Pare che il santo vescovo presenziò al concilio di Nicea, anche se ad onor del vero il suo nome non compare tra i firmatari, motivo che comunque non è valido per escluderne a priori la presenza. Essendovi parecchie questioni di cui discutere, il concilio durò diversi mesi e dunque non tutti i vescovi potettero intrattenersi così a lungo abbandonando a se stesse le loro diocesi. Atanasio cita Spiridione tra coloro che mantennero posizioni ortodosse, in contrapposizione alle idee eretiche emerse al concilio di Sardica.
Rimase infine coinvolto nella persecuzione anticristiana indetta da Galerio: secondo alcune tradizioni in tale contesto storico perse l’occhio destro, qualche tendine e poi fu deportato ai lavori forzati nelle miniere.
Alla sua morte, le reliquie furono oggetto di traslazione da Cipro a Costantinopoli, poi a Corfù, Zachitos e Cefalonia. La venerazione nei suoi confronti continuò comunque costantemente nell’isola ove aveva esercitato il suo ministero. Nell’iconografia bizantina San Siridione è riconoscibile per il suo caratteristico berretto da pastore.


Autore: Fabio Arduino

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13/12/2014 08:34
 
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Sant' Antioco di Sulcis Martire

13 dicembre

Sec. II


Nel giorno della festa di santa Lucia la Sardegna ricorda anche un altro martire, sant’Antioco. Una figura legata alle miniere di questa regione, ai cui lavori forzati durante le persecuzioni i romani destinarono anche molti cristiani. Tra di essi si ricorda appunto Antioco, che fu inviato in esilio nella splendida isola che porta il suo nome (oggi congiunta alla terraferma con un ponte). La tradizione vuole che fosse un medico orientale che, nella prima metà del II secolo, ai tempi dell’imperatore Adriano, percorreva la Galazia e la Cappadocia prendendosi cura non solo dei corpi ma anche delle anime di quanti incontrava. Le conversioni da lui suscitate lo portarono all’arresto e all’esilio in Sardegna. Ma, anche prigioniero, la sua testimonianza cristiana fu talmente forte da aprire alla fede il cuore del soldato Ciriaco, che avrebbe dovuto essere il suo carceriere. La notizia fece infuriare le autorità imperiali che lo condannarono a morte. Prima di morire, comunque, Antioco invocò la protezione di Dio sulla Sardegna e sul suo popolo, che ancora oggi lo venera. (Avvenire)

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Nel promontorio di Sulcis in Sardegna, sant’Antioco, martire.


Lungo le coste meridionali della Sardegna, doppiato il Capo Spartivento e la Punta Teulada, s'incontrano due grandi isole rocciose: la più vasta è l'Isola di Sant’Antico, la più piccola, quella di San Pietro.
Il nome di San Pietro, Apostolo, anzi, Principe degli Apostoli, non ha bisogno di essere illustrato. Non tutti però, almeno fuori della Sardegna, conoscono il Santo che ha l'onore di stargli accanto, e quasi alla pari, al largo delle coste sarde.
Fin dai tempi antichi la Sardegna fu solcata da miniere, dalle quali si estraevano metalli e minerali pregiati. Al pesante lavoro delle miniere venivano addetti schiavi o prigionieri di guerra; e durante le persecuzioni imperiali, molti cristiani furono esiliati in Sardegna e costretti ai lavori forzati. Si ricordano ancora molti Santi e diversi Papi che soffrirono nelle miniere il loro lungo martirio.
L'Isola di Sant'Antioco è oggi congiunta alla terraferma con un ponte che la collega alla strada di Carbonia e di Iglesias. Ma un tempo, isolata e inospitale in mezzo alle acque, doveva servire egregiamente come luogo dì deportazione. Oggi, la zona del Sulcis, prospiciente alle due isole, è nota per l'estrazione del carbone fossile. Un tempo, vi si scavavano metalli, e l'isola dì Sant'Antioco si chiamava Plumbaria, proprio per le miniere di piombo. In questo luogo di lavoro e di deportazione sarebbe finito Sant'Antioco, il quale, secondo la tradizione, era un medico orientale, che, al tempo dell'Imperatore Adriano, cioè nella prima metà del Il secolo, percorreva la Galazia e la Cappadocia, ai confini orientali dell'Impero.
Egli non solo curava i corpi, ma vaccinava le anime col Battesimo, ed era ben noto per le innumerevoli conversioni di pagani. Quando l'Imperatore emise un Editto di persecuzione, lo zelante medico e missionario fu tra i primi ad essere arrestato. Si voleva far di lui un apostata, ma egli non piegò né alle torture né alle minacce. L'Imperatore allora lo inviò esule in Sardegna, nell'Isola Plumbaria, perché avesse tempo di pentirsi della sua ostinazione e di raffreddarsi nel suo entusiasmo di credente.
Giunse nell'isola condotto da un soldato di nome Ciriaco, che doveva essere suo custode ed aguzzino. Non pare però che fosse condannato ai lavori forzati, se è vero che si stabilì in una grotta presso le coste dell'isola, trasformandola in un piccolo oratorio sotterraneo. Qui passò i suoi giorni di esilio, pregando, meditando, digiunando.
Il suo esempio convertì il soldato Ciriaco, e quando la notizia di quel cristiano irriducibile giunse alle orecchie delle autorità imperiali di Cagliari, venne decisa una punizione esemplare. L'esule Antioco fu così colpito a morte, ma prima di morire egli pronunziò una accorata preghiera al Signore, invocandone la protezione sulla Sardegna e sul suo fiero popolo.
Per quanto incerta possa essere la Passione di questo antico Martire, certa e antichissima è la devozione dei Sardi per Sant'Antioco, ricordato con affetto e gratitudine in tutta l'isola, e specialmente nella regione del Sulcis. L'antica diocesi di Iglesias sì onora infatti di avere come Patrono l’esiliato di Cristo, il medico e Martire venuto d'oltremare.
La data di culto per la Chiesa Cattolica è il 13 dicembre mentre in diverse località della Sardegna viene festeggiato il 13 novembre.



Fonte:
Archivio Parrocchia
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14/12/2014 22:46
 
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Sant' Agnello di Napoli Abate

14 dicembre



All'inizio del decimo secolo Pietro, suddiacono della Chiesa napoletana che era stato liberato da una grave infermità per intercessione di Agnello, compose un «libellus miraculorum», in cui, oltre alla sua, racconta altre ventidue guarigioni miracolose operate dal santo. Da questo testo, che è la più antica fonte che ci parli di Agnello, apprendiamo che Gaudioso Settiminio Celio, vescovo di Abitina in Africa, avendo dovuto insieme con altri presuli abbandonare la sua sede invasa dai Vandali, riparò a Napoli e vi fondò un monastero, probabilmente basiliano, che poi prese il suo nome. Di questo monastero, nel VI secolo, divenne abate Agnello, che morì a sessantun'anni tra il 590 e il 604, forse nel 596, come molti affermano. Scrittori recenti parlano dei suoi interventi miracolosi per liberare Napoli e Sorrento, strette d'assedio dai Saraceni, ma l'agiografo citato non ne fa cenno. Il suo epitafio, rinvenuto nella chiesa parrocchiale a lui dedicata, dal punto di vista paleografico, secondo gli esperti, si accorda con l'età della sua morte. (Avvenire)

Etimologia: Agnello = messaggero, dal greco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Napoli, sant’Agnello, abate del monastero di San Gaudioso.


Al principio del sec. X Pietro, suddiacono della Chiesa napoletana, che era stato liberato da una grave infermità per intercessione di Agnello, compose un libellus miraculorum, in cui, oltre alla sua, racconta altre ventidue guarigioni miracolose operate dal santo. Da questo testo, che è la più antica fonte che ci parli di Agnello, apprendiamo che Gaudioso Settiminio Celio, vescovo di Abitina in Africa, avendo dovuto insieme con altri presuli abbandonare la sua sede invasa dai Vandali, riparò a Napoli e vi fondò un monastero, probabilmente basiliano, che poi prese il suo nome. Di questo monastero, in un anno sconosciuto del sec. VI, divenne abate Agnello, che morì a sessantun'anni tra il 590 e il 604, forse nel 596, come molti affermano.
Scrittori recenti parlano dei suoi interventi miracolosi per liberare Napoli e Sorrento, strette d'assedio dai Saraceni, ma l'agiografo citato non ne fa cenno. Il suo nome non figura nel Calendario marmoreo di Napoli, inciso verso l'800. Il suo epitafio, rinvenuto nella chiesa parrocchiale a lui dedicata, dal punto di vista paleografico, secondo gli esperti, si accorda con l'età della sua morte.
Fin dal sec. XV Agnello fu annoverato fra i patroni di Napoli ed è anche patrono di Guarcino, città del Lazio in provincia di Frosinone; gode pure di particolare venerazione a Lucca, dove, già dal sec. XII, gli fu dedicato un altare. Questa città contese con Napoli per l'autenticità delle sue reliquie e ne celebra la festa il 18 maggio, in contrasto con l'uso più comune che la fissa al 14 dicembre.


Autore: Sergio Mottironi
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15/12/2014 07:31
 
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San Bacco (Dahhat) il Giovane

15 dicembre










Bacco, il cui vero nome era Dahhat (l'allegro), nacque in una famiglia palestinese cristiana. I suoi familiari apostatarono abbracciando l'Islam, mentre lui si ritirò nella laura di san Saba, presso Betlemme, prendendo il nome di Bacchus. Ritornato a Gerusalemme, riuscì a ricondurre i suoi fratelli alla fede cristiana, eccetto uno che denunciò Bacco alle autorità musulmane per il suo eccessivo zelo.Bacco fu quindi decapitato nel 786-787.
Memoria il 15 dicembre.


Autore: Paola Cristofari

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16/12/2014 07:23
 
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Sant' Adelardo Monaco

16 dicembre


Etimologia: Adelardo = Alart



Figlio di s. Everardo, fondatore dell'abbazia di Cysoing (Eilla), Abelardo succedette al padre, se non come abate, almeno come guardiano o procuratore del monastero, fin verso l'870. A dire il vero, noi siamo poco e male informati sulla personalità di Abelardo: egli è ricordato nel testamento di s. Everardo e in un atto di donazione di sua madre Gisella, in data 14 aprile 869 e destinato all'abbazia di Cysoing .
In ogni modo, quel poco che si sa non permette di presentarlo come un modello di santità ed è senza dubbio per riconoscenza verso il loro fondatore che i canonici regolari di Cysoing hanno tenuto ad accordargli gli onori degli altari il 16 dicembre insieme con suo padre e altri membri della sua famiglia.


Autore: Albert D'Haenens
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POTRESTE AVERE DIECIMILA MAESTRI IN CRISTO, MA NON CERTO MOLTI PADRI, PERCHE' SONO IO CHE VI HO GENERATO IN CRISTO GESU', MEDIANTE IL VANGELO. (1Cor. 4,15 .
 
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