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RIFLESSIONI BIBLICHE

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2017 23:42
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26/07/2015 09:10
 
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Tutti gli evangelisti ci riportano il racconto del miracolo della moltiplicazione dei pani. Si tratta di nutrire una grande folla di persone e di seguaci di Gesù, radunati sulla riva nord-est del lago di Tiberiade (cf. Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10b-17). Come dimostra l’atteggiamento dei partecipanti, essi interpretano questo pasto come un segno messianico. La tradizione ebraica voleva che il Messia rinnovasse i miracoli compiuti da Mosè durante la traversata del deserto. Ecco perché, secondo questa attesa messianica, si chiamava “profeta” il futuro Salvatore, cioè “l’ultimo Mosè”. Infatti, secondo il Deuteronomio, Dio aveva promesso a Mosè prima della sua morte: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18,18). Ecco perché le persone che sono presenti durante la moltiplicazione dei pani cercano di proclamare re Gesù. Ma Gesù si rifiuta, perché la sua missione non è politica, ma religiosa.
Se la Chiesa riporta questo episodio nella celebrazione liturgica è perché essa ha la convinzione che Gesù Cristo risuscitato nutre con il suo miracolo, durante l’Eucaristia, il nuovo popolo di Dio. E che gli dà le forze per continuare la sua strada lungo la storia. Egli precede il suo popolo per mostrargli la via grazie alla sua parola. Coloro che attraversano la storia in compagnia della Chiesa raggiungeranno la meta di tutte le vie, l’eredità eterna di Dio (cf. Gv 14,1-7).
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27/07/2015 09:26
 
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La prima lettura di oggi mette in risalto un contrasto che deve provocare in noi una vera conversione: è il contrasto stridente fra l'atteggiamento di Aronne e quello di Mosè.
Aronne è stato complice dell'idolatria del popolo, è stato lui ad organizzare le cose e a rendere possibile la realizzazione del vitello d'oro. Ma quando Mosè gli domanda: "Che cosa ti ha fatto questo popolo, perché tu lo hai gravato di un peccato così grande?". Aronne si discolpa e getta tutta la colpa sul popolo: "Tu stesso sai che questo popolo è inclinato al male. Mi dissero: Facci un dio...".
Mosè invece, che non è stato per niente implicato in questo peccato di idolatria, che anzi è stato preso da profonda ira al vedere il vitello e il popolo in festa ("L'ira di Mosè si accese dice la Scrittura scagliò via le tavole; afferrò il vitello e lo bruciò nel fuoco"), davanti al Signore si fa intercessore: "Se tu perdonassi il loro peccato!", solidale con il suo popolo peccatore:
"Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!". E innocente ma è pronto a prendere su di sé il castigo:
"Cancellami dal tuo libro!", disposto ad essere rigettato da Dio per ottenere che il popolo sia perdonato.
È una lezione fortissima per noi, perché spontaneamente noi ci separiamo sempre dal peccato altrui. Pur non essendo certo del tutto innocenti, non vogliamo essere puniti con chi ha peccato. Loro devono portare la pena di quello che hanno commesso; noi siamo "i buoni", i giusti, quelli che piacciono al Signore. E invece per piacere a Dio dobbiamo farci solidali con i peccatori, portare con loro il castigo del loro peccato. Ciò che MoIsè ha proposto a Dio di fare, Gesù lo ha effettivamente compiuto: e~li, l'Innocente, ha preso su di sé il peccato di tutti noi. E l'agnello innocente che si è caricato delle nostre colpe, è colui che come dice san Paolo è diventato "maledizione" per liberare noi dalla maledizione del peccato. Una condizione necessaria e sempre difficile da accettare è soffrire il castigo meritato da altri. ~Sono tanti i cristiani che si ribellano quando devono soffrire qualcosa e si chiedono: "Che cosa ho fatto a Dio? Perché mi manda questa prova?". Dovrebbero invece contemplare Gesù sulla croce e riflettere su questo esempio di Mosè. "Se tu perdonassi il loro peccato... e se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto".
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28/07/2015 08:35
 
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Oggi ci soffermiamo sulla prima lettura, perché il Vangelo è quello su cui abbiamo meditato in una delle domeniche passate. In questo brano di Esodo notiamo che nell'Antico Testamento già si rivela in abbozzo il progetto di Dio di abitare in mezzo al suo popolo, anzi di avere con ciascuno di noi un rapporto personale profondo. Questa intenzione divina incomincia ad aver vita con l'iniziativa di Mosè che pianta la tenda e la chiama "tenda del convegno". "L'aveva piantata dice la Bibbia fuori dell'accampamento, ad una certa distanza": Dio infatti non può abitare in mezzo al suo popolo, perché il popolo ha peccato, si è allontanato da lui, è stato idolatra. La tenda quindi è distante, però è accessibile: "A questa tenda si recava chiunque volesse consultare il Signore". Giovanni nel Nuovo Testamento ci dirà che il Verbo di Dio, il Figlio di Dio, ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Mosè entrava nella tenda e, afferma la Scrittura, "il Signore parlava con lui faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo". Abbiamo di nuovo un abbozzo del progetto di Dio, cioè dell'incarnazione. Mosè si trova a faccia a faccia con il Signore, in modo misterioso, e il Signore gli parla come potrebbe parlare un uomo. Dio non si è ancora incarnato, il Figlio di Dio non si è ancora fatto uomo, ma in questo episodio, in cui Dio parla a Mosè come un uomo parla con un altro, c'è una certa somiglianza con quello che avverrà nel Nuovo Testamento. Con l'incarnazione di Gesù veramente un uomo ci parla, un uomo che nello stesso tempo è Dio e che ci parla non soltanto come un uomo ad un altro uomo, ma come un amico parla con un amico:
"Non vi chiamo più servi... vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi" (Gv 15, 15). Nella nuova alleanza ogni uomo, ciascuno di noi è invitato a questo rapporto personale, profondo con Dio, un~rapporto non soltanto faccia a faccia, ma cuore a cuore. E un privilegio meraviglioso, che dobbiamo accogliere con rispetto, con ammirazione, con riconoscenza. L'Eucaristia ci offre l'inaudita possibilità di ricevere Gesù, il Figlio di Dio fatto nostro fratello, nostro amico, non soltanto in mezzo a noi, ma dentro di noi, per parlare con lui, per ascoltarlo, per lasciare che egli guidi tutta la nostra vita e la riempia del suo amore. il Signore ci aiuti ad apprezzare sempre meglio questi doni sublimi.
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29/07/2015 08:15
 
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a cura dei Carmelitani
Commento Luca 10,38-42

1) Preghiera

Dio onnipotente ed eterno,
il tuo Figlio fu accolto come ospite a Betania
nella casa di santa Marta,
concedi anche a noi
di esser pronti a servire Gesù nei fratelli,
perché al termine della vita
siamo accolti nella tua dimora.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...



2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 10,38-42
In quel tempo, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi.
Pertanto, fattasi avanti, disse: ?Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti?.
Ma Gesù le rispose: ?Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c?è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta?.
Parola del Signore.



3) Riflessione

? La dinamica del racconto. La condizione di Gesù come maestro itinerante offre a Marta la possibilità di accoglierlo a casa sua. Il racconta presenta gli atteggiamenti delle due sorelle: Maria, seduta, ai piedi di Gesù, è tutta presa dall?ascolto della sua Parola; Marta, invece, è tutta presa dai molti servizi e si avvicina a Gesù per contestare il comportamento della sorella. Il dialogo tra Gesù e Marta occupa un largo spazio nel racconto (vv.40b-42): Marta inizia con una domanda retorica, «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?»; poi chiede un intervento di Gesù perché richiama la sorella che si è defilata dalle faccende domestiche, «Dille dunque che mi aiuti?» . Gesù risponde con un tono affettuoso, è questo il senso della ripetizione del nome «Marta, Marta»: gli ricorda che lei è preoccupata per «molte cose», in realtà, c?è bisogna di «una soltanto» e conclude con un richiamo alla sorella che ha scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta. Luca ha costruito il racconto su un contrasto: le due diverse personalità di Marta e Maria; la prima è presa dalle «molte» cose, la seconda ne compie una sola, è tutta presa dall?ascolto del Maestro. La funzione di questo contrasto è sottolineare l?atteggiamento di Maria che si dedica all?ascolto pieno e totale del Maestro, diventando così il modello di ogni credente.
? La figura di Marta. È lei che prende l?iniziativa di accogliere Gesù nella sua casa. Nel dedicarsi all?accoglienza del Maestro è presa dall?affanno per le molteplici cose da preparare e dalla tensione di sentirsi sola in questo impegno. È presa dai tanti lavori, è ansiosa, vive una grossa tensione. Pertanto Marta «si fa avanti» e lancia a Gesù una legittima richiesta di aiuto: perché deve essere lasciata sola dalla sorella. Gesù le risponde costatando che lei è solo preoccupata, è divisa nel cuore tra il desiderio di servire Gesù con un pasto degno della sua persona e il desiderio di dedicarsi all?ascolto di Lui. Gesù, quindi, non biasima il servizio di Marta ma l?ansia con cui lo compie. Poco prima Gesù aveva spiegato nella parabola del seminatore che il seme caduto tra le spine evoca la situazione di coloro che ascoltano la Parola, ma si lasciano prendere dalle preoccupazioni (Lc 8,14). Quindi Gesù non contesta all?operosità di Marta il valore di accoglienza riguardo alla sua persona ma mette in guardia la donna dai rischi in cui può incorrere: l?affanno e l?agitazione. Anche su questi rischi Gesù si era già pronunciato: «Cercate il suo regno e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Lc 12,31).
? La figura di Maria. È colei che ascolta la Parola: viene descritta con un imperfetto «ascoltava», azione continuativa nell?ascoltare la Parola di Gesù. L?atteggiamento di Maria contrasta con quello pieno di affanno e tensione della sorella. Gesù dice che Maria ha preferito «la parte buona» che corrisponde all?ascolto della sua parola. Dalle parole di Gesù il lettore apprende che non ci sono due parti di cui una è qualitativamente migliore dell?altra, ma c?è soltanto quella buona: accogliere la sua Parola. Questa attitudine non significa evasione dai propri compiti o responsabilità quotidiane, ma soltanto la consapevolezza che l?ascolto della Parola precede ogni servizio, attività.
d. Equilibrio tra azione e contemplazione. Luca è particolarmente attento a legare l?ascolto della Parola alla relazione con il Signore. Non si tratta di dividere la giornata in tempi da dedicare alla preghiera e altri al servizio, ma l?attenzione alla Parola precede e accompagna il servizio. Il desiderio di ascoltare Dio non può essere supplito da altre attività: bisogna dedicare un certo tempo e spazio a cercare il Signore. L?impegno per coltivare l?ascolto della Parola nasce dall?attenzione a Dio: tutto può contribuire, l?ambiente il luogo, il tempo. Tuttavia il desiderio di incontrare Dio deve nascere dentro il proprio cuore. Non esistono tecniche che automaticamente ti portano a incontrare Dio. È un problema di amore: bisogna ascoltare Gesù, stare con Lui, e allora il dono viene comunicato, e inizia l?innamoramento. L?equilibrio tra ascolto e servizio coinvolge tutti i credenti: sia nella vita familiare che professionale e sociale: come fare perché i battezzati siano perseveranti e raggiungano la maturità della fede? Educarsi all?ascolto della Parola di Dio. È la via più difficile ma sicura per arrivare alla maturità di fede.



4) Per un confronto personale

? So creare nella mia vita situazioni e itinerari di ascolto? Mi limito solo ad ascoltare la Parola in chiesa, oppure, mi dedico a un ascolto personale e profondo cercando spazi e luoghi idonei?
? Ti limiti a un consumo privato della Parola o diventi annunciatore di essa per diventare luce per gli altri e non solo lampada che illumina la propria vita privata?



5) Preghiera finale

Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà sul tuo santo monte?
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente. (Sal 14)
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30/07/2015 03:19
 
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E’ di grandissima consolazione sapere che Dio ha una dimora in mezzo al suo popolo e che la sua presenza la riempie. C'è una presenza di Dio generale, in tutte le cose, ma c'è anche una presenza personale, che permette il dialogo con lui; e Dio con il suo popolo ha voluto essere presente così. La dimora è luogo di incontro e di sicurezza, anticipazione e preludio di un'altra tenda, quella del Verbo di Dio.
Vera dimora di Dio è infatti Cristo. Lo fu la Vergine Maria nell'incarnazione, quando la nube dello Spirito la copri e la riempì la gloria del Signore; ora è Gesù la vera dimora, in cui rimanere. Nei discorsi d'addio del Vangelo di Giovanni ritorna questa parola come consolazione, invito, promessa: "Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (14,23); "Rimanete in me e io in voi" (15,4) e ancora: "Rimanete nel mio amore" (15, 9).
È questa l'attesa, il desiderio profondo di noi che lo amiamo: rimanere in lui ed essere sua dimora, in una intimità misteriosa ma realissima con lui, con il Padre e lo Spirito. E una realtà che si attua soprattutto nell'Eucaristia, nella comunione, in cui Cristo viene in noi con la sua presenza fisica e ci unisce, in lui, al Padre e allo Spirito Santo
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31/07/2015 06:35
 
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a cura dei Carmelitani
Commento Matteo 13,54-58

1) Preghiera

O Dio, nostra forza e nostra speranza,
senza di te nulla esiste di valido e di santo;
effondi su di noi la tua misericordia
perché, da te sorretti e guidati,
usiamo saggiamente dei beni terreni
nella continua ricerca dei beni eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 13,54-58
In quel tempo, Gesù venuto nella sua patria insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: "Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?". E si scandalizzavano per causa sua.
Ma Gesù disse loro: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua". E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità.


3) Riflessione

? Il vangelo di oggi racconta la visita di Gesù a Nazaret, la sua comunità di origine. Il passaggio per Nazaret fu doloroso per Gesù. Quella che prima era la sua comunità, ora non lo è più. Qualcosa è cambiato. Dove non c'è fede, Gesù non può fare miracoli.
? Matteo 13, 53-57ª: Reazione della gente di Nazaret, dinanzi a Gesù. É sempre bene ritornare verso la terra della tua gente. Dopo una lunga assenza, anche Gesù ritorna, come al solito, un sabato, e si reca alla riunione della comunità. Gesù non era il capogruppo, ma comunque prende la parola. Segno questo, che le persone potevano partecipare ed esprimere la loro opinione. La gente rimane ammirata, non capisce l'atteggiamento di Gesù: "Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?" Gesù, figlio del posto, che loro conoscevano fin da quando era bambino, come mai ora è così diverso? La gente di Nazaret rimane scandalizzata e non lo accetta: "Non è forse lui il figlio del falegname?" La gente non accetta il mistero di Dio presente nell'uomo comune come loro conoscevano Gesù. Per poter parlare di Dio lui doveva essere diverso. Come si vede, non tutto fu positivo. Le persone che avrebbero dovuto essere le prime ad accettare la Buona Notizia, sono le prime che rifiutano di accettarla. Il conflitto non è solo con i forestieri, ma anche con i parenti e con la gente di Nazaret. Loro non accettano, perché non riescono a capire il mistero che avvolge la persona di Gesù: "Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?" Non riescono a credere.
? Matteo 13, 57b-58: Reazione di Gesù dinanzi all'atteggiamento della gente di Nazaret. Gesù sa molto bene che "nessuno è profeta nella sua patria". E dice: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua". Infatti, dove non c'è accettazione né fede, la gente non può fare nulla. Il preconcetto lo impedisce. Gesù stesso, pur volendo, non può fare nulla. Rimane stupito dinanzi alla loro mancanza di fede.
? I fratelli e le sorelle di Gesù. L'espressione "fratelli di Gesù" causa molta polemica tra cattolici e protestanti. Basandosi su questo e su altri testi, i protestanti dicono che Gesù ebbe molti fratelli e sorelle e che Maria ebbe più figli! I cattolici dicono che Maria non ebbe altri figli. Cosa pensare di questo? In primo luogo, le due posizioni, tanto dei cattolici come dei protestanti, contengono argomenti tratti dalla Bibbia e dalla Tradizione delle loro rispettive Chiese. Per questo, non conviene discutere questa questione con argomenti che sono solo intellettuali. Poiché si tratta di convinzioni profonde, che hanno a che fare con la fede e con il sentimento degli uni e degli altri. L'argomento solo intellettuale non riesce a disfare una convinzione del cuore! Irrita e allontana soltanto! Anche quando non sono d'accordo con l'opinione dell'altro, devo rispettarla. In secondo luogo, invece di discutere attorno a testi, noi tutti, cattolici e protestanti, dovremmo unirci molto di più per lottare in difesa della vita, creata da Dio, vita così sfigurata dalla povertà, dall'ingiustizia, dalla mancanza di fede. Dovremmo ricordare alcune altre frasi di Gesù. "Sono venuto affinché tuttiabbiano vita e vita in abbondanza" (Gv 10,10). "Che tutti siano uno, affinché il mondo creda che Tu, Padre, mi hai mandato" (Gv 17,21). "Non glielo impedite! Chi non è contro di noi è a favore nostro" (Mc 10,39.40).


4) Per un confronto personale

? In Gesù qualcosa è cambiato nel suo rapporto con la Comunità di Nazaret. Da quando hai cominciato a partecipare alla comunità, qualcosa è cambiato nel tuo rapporto con la famiglia? Perché?
? La partecipazione alla comunità, ti ha aiutato ad accogliere e ad aver fiducia nelle persone, soprattutto nelle più semplici e povere?


5) Preghiera finale

Io sono infelice e sofferente;
la tua salvezza, Dio, mi ponga al sicuro.
Loderò il nome di Dio con il canto,
lo esalterò con azioni di grazie. (Sal 68)
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01/08/2015 07:07
 
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padre Lino Pedron
Commento su Matteo 14,1-12

Il racconto della morte del Battista continua la tematica dell'episodio precedente. Sebbene parli con parole autorevoli e compia gesti potenti (cfr Mt 13,54.58; 14,2), Gesù è il profeta contestato e la sua sorte viene prefigurata da quella del Battista.
Il motivo dell'arresto e dell'uccisione del Battista è ricordato nei vv. 3-4. Un profeta non può essere catturato se non per il disturbo che arrecano le sue parole o i suoi gesti.
Elia era perseguitato da Acab e da Gezabele (1Re 19-21) perché aveva loro rimproverato l'uccisione di un innocente cittadino di Samaria e si erano appropriati del suo podere.
Erode aveva sottratto la moglie a suo fratello e aveva ripudiato la propria. Un doppio delitto davanti al quale Giovanni non ha taciuto.
Il "non ti è lecito!" dà un'impostazione concreta alla sua azione missionaria.
Se l'annuncio non viene applicato ai fatti, tradotto nelle situazioni concrete, è, troppe volte, un grido inutile. Se il Battista e Gesù si fossero accontentati di puntare il dito contro il male e non contro i
malfattori, come fanno i filosofi e non solo i filosofi, non sarebbero finiti in prigione e al patibolo.
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02/08/2015 07:45
 
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Il Vangelo secondo san Giovanni ci offre vari discorsi che Gesù ha tenuto nella sinagoga di Cafarnao per spiegare ai credenti il significato della manna ricevuta nel deserto.
Queste spiegazioni devono aiutare i credenti del tempo della Chiesa a vivere in modo giusto. Il Vangelo di oggi riferisce il discorso che parla dell’importanza della fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo è l’inviato di Dio, egli porta l’ultima rivelazione ed apre la via che conduce a Dio. Colui che segue Gesù con fede, che entra con Gesù nella comunità mediante il battesimo, che prende Gesù come modello e lo ascolta, troverà attraverso di lui la verità che calma la fame di vita. Perché questa verità è Dio stesso che, attraverso Gesù Cristo, offre a tutti gli uomini la possibilità di condividere la sua vita.
Quello che hanno cercato, presentito, e in parte riconosciuto i pensatori, i profeti e i nostalgici di Dio di tutte le nazioni e di tutti i tempi, raggiunge attraverso Gesù la chiarezza e la verità di Dio. Questa verità è presente e può essere colta nella parola e nell’esempio di Gesù, ma soprattutto nella sua persona. Perché egli è la verità, egli è la via, egli è la vita di Dio in persona! E ci è offerto di vivere con devoto rispetto in modo assolutamente diretto, oggi, nella festa liturgica della sua Chiesa
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03/08/2015 05:35
 
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La liturgia di oggi ci propone ancora una volta il passo del Vangelo di Matteo riguardante il miracolo della moltiplicazione dei pani, accostandolo alla situazione degli Israeliti nel deserto e all'atteggiamento assunto da Mosè.
Nel deserto gli Israeliti protestano, si lamentano. La dura vita di oppressione vissuta in Egitto si trasforma nel ricordo in una esistenza paradisiaca: "Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle, dell'aglio... Ora non c'è più nulla". Sono obbligati a dipendere ogni giorno dalla porzione di manna che viene loro donata da Dio e questo non li soddisfa. Mosè è quindi costretto ad ascoltare i loro lamenti e, poiché questa situazione costituisce per lui "un peso troppo grave", anch'egli si lamenta: "Mosè disse al Signore: Perché hai trattato così male il tuo servo?". Ed è così abbattuto che chiede di morire: "Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire!".
Passiamo al Vangelo. La folla che ha seguito Gesù non ha il tempo di lamentarsi, perché prima i Dodici e poi Gesù stesso si preoccupano della sua sorte. L'agire degli Apostoli presenta però una certa somiglianza con quello di Mosè: in un primo momento cercano di evitare ogni responsabilità, suggerendo a Gesù di congedare tutta quella gente perché si aggiusti da sola, vada a comprarsi di che mangiare.
Ma Gesù rifiuta questa soluzione: si assume la responsabilità della situazione ed esorta i suoi a fare altrettanto: "Date loro voi stessi da mangiare!". Però manca praticamente tutto: hanno a disposizione soltanto cinque pani e due pesci e la volontà di condividerli.
E che cosa fa Gesù? Non imita Mosè, non si lamenta; anzi, alza gli occhi al cielo e "pronunzia la benedizione", cioè ringrazia il Padre. Pronunziare la benedizione nel linguaggio biblico vuol proprio dire benedire Dio per i suoi benefici, come facciamo in ogni Eucaristia al momento dell'Offertorio con le parole: "Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane... questo vino"; questa è una preghiera di ringraziamento, di rendimento di grazie.
Gesù rende grazie in un momento in cui non c'è abbondanza: c'è soltanto qualcosa che non è per niente sufficiente. Ma il suo atteggiamento di amore riconoscente sblocca la situazione, perché permette alla generosità del Padre celeste di manifestarsi. Gesù spezza il pane, lo dà ai discepoli e questi alla folla e tutti possono mangiare a sazietà. E viene fuori anche una sovrabbondanza: dodici ceste piene di pezzi avanzati!
Quando ci troviamo in una difficoltà, la prima cosa da fare è aprire gli occhi su ciò che abbiamo a disposizione. Gesù ha detto agli Apostoli di portargli i cinque pani e i due pesci; ha ringraziato Dio per questi doni iniziali. Anche noi dobbiamo incominciare con le possibilità che abbiamo, usandole con amore riconoscente. U lamento infatti chiude ogni possibilità, trasforma le situazioni in vicoli ciechi; il ringraziamento che pone ogni fiducia in Dio invece apre ogni situazione alla generosità divina, permettendo al Signore di sbloccarla. Dio infatti viene in aiuto degli uomini sempre. Li aiuta in modi imprevedibili, e opera meraviglie. E però fondamentale esprimergli il nostro amore riconoscente: questo deve essere l'atteggiamento continuo del cristiano. San Paolo, nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, li esorta: "Rendete grazie in ogni circostanza", quindi anche nei momenti difficili e di bisogno. Le situazioni difficili nascondono una grazia che ci viene offerta e che deve essere accolta con rendimento di grazie. I santi, testimoni credibili di questa verità, ci insegnano ad agire così, perché sanno che Dio nelle prove nasconde una grazia preziosa. Accoglierle con amore riconoscente ci apre alla gioia, allo slancio e ci permette di superarle, con l'aiuto del Signore.
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06/08/2015 09:23
 
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La Trasfigurazione non era destinata agli occhi di chiunque. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i tre discepoli a cui Gesù aveva permesso, in precedenza, di rimanere con lui mentre ridava la vita ad una fanciulla, poterono contemplare lo splendore glorioso di Cristo. Proprio loro stavano per sapere, così, che il Figlio di Dio sarebbe risorto dai morti, proprio loro sarebbero stati scelti, più tardi, da Gesù per essere con lui al Getsemani. Per questi discepoli la luce si infiammò perché fossero tollerabili le tenebre della sofferenza e della morte. Breve fu la loro visione della gloria e appena compresa: non poteva certo essere celebrata e prolungata perché fossero installate le tende! Sono apparsi anche Elia e Mosè, che avevano incontrato Dio su una montagna, a significare il legame dei profeti e della Legge con Gesù.
La gloria e lo splendore di Gesù, visti dai discepoli, provengono dal suo essere ed esprimono chi egli è e quale sarà il suo destino. Non si trattava solo di un manto esterno di splendore! La gloria di Dio aspettava di essere giustificata e pienamente rivelata nell’uomo sofferente che era il Figlio unigenito di Dio.
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07/08/2015 08:02
 
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L'Antico Testamento ha rivelato al popolo eletto l'amore personale di Dio e ha indicato il mezzo per rimanere in questo amore. Lo vediamo nella prima lettura di oggi. Mosè insiste sul fatto che Dio si è messo in rapporto personale, vivo e forte con Israele. Dio è andato a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie. Gli Israeliti devono ricordare le piaghe d'Egitto, con le quali Dio ha costretto il faraone a lasciar andare il popolo eletto; devono ricordarsi la vittoria divina sui carri egiziani che inseguivano Israele e furono inabissati nel mare. D'altra parte Dio ha parlato personalmente al suo popolo. Mosè ricorda l'incontro del Sinai: "Dal cielo il Signore ti ha fatto udire la sua voce per educarti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole di mezzo al fuoco". Tutto questo per amore, "perché dice Mosè il Signore ha amato i tuoi padri". E in un altro passo del Deuteronomio precisa: "il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli siete infatti il più piccolo di tutti i popoli , ma perché il Signore vi ama... vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati, liberandovi dalla condizione seivlle" (Dt 7,78).
Per rimanere in questo rapporto personale con Dio, in questa relazione d'amore, che cosa deve fare Israele? Deve rinunciare ai propri capricci, ascoltare la voce di Dio e conformarsi alle istruzioni divine che indicano la giusta via della fedeltà. Non è possibile rimanere nell'amore senza rinunciare all'egoismo. Non è possibile mantenersi in una relazione ottima con la persona amata se non si cerca di corrispondere ai suoi desideri. Perciò Mosè insiste con forza sull'osservanza delle istru zioni date da Dio. Tanto più che esse sono l'espressione del suo amore. Chi le osserva trova la vera felicità: "Osserva ribadisce Mosè osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sii felice tu, e i tuoi figli dopo di te".
Con la venuta di Gesù, l'aspetto personale della nostra relazione con Dio è diventato ancora più evidente, più forte, più intimo. Invece del tuono del Sinai, che faceva udire la voce di Dio, abbiamo un contatto personale con il Figlio di Dio fatto uomo come noi, fratello nostro. Il suo amore per noi si è manifestato in modo ancor più generoso, non soltanto con segni e prodigi, ma pagando di persona, fino a stancarsi, a soffrire, a morire.
Per rimanere in questo amore, che cosa dobbiamo fare? Gesù ce lo dice in parole chiare: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso...". Dobbiamo rinunciare radicalmente al nostro egoismo, non mettere più il nostro io al centro di tutto, anzi dobbiamo accettare di perdere la nostra vita a causa di Cristo. Se la vogliamo salvare, la perderemo. Se la perdiamo per lui, la troveremo.
Con questo paradosso Gesù ci dà una rivelazione decisiva per il retto orientamento della nostra vita. Proviamo in noi stessi due aspirazioni potenti, il desiderio della felicità e l'aspirazione all'amore. Infatti Dio ci ha creati per la felicità e per l'amore. Esiste però una certa incompatibilità fra questi due fini, almeno in modo temporaneo. Chi cerca direttamente la propria felicità vive nell'egoismo e si allontana dall'amore. Chi vuole vivere nell'amore deve rinunciare a cercare direttamente la propria felicità. Molte persone rimangono in una situazione ambigua: pretendono di voler amare, ma in realtà cercano soprattutto la propria felicità. Quanti drammi vengono provocati per questo!
Gesù non ci lascia nell'illusione. Ci dice chiaramente che, se vogliamo trovare la felicità, dobbiamo rinunciare a ricercarla e tendere ad un unico fine, il progresso nell'amore, seguendo la via che egli stesso ha tracciato. Chi vorrà salvare egoisticamente la propria vita, la perderà, ma chi perderà generosamente la propria vita per causa sua la troverà. "Per me dichiara Paolo il vivere è Cristo e il morire un guadagno" (Fil 1,21). Chiediamoci se camminiamo effettivamente in questa direzione
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08/08/2015 08:10
 
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padre Lino Pedron
Commento su Matteo 11,25-30

Il brano si articola sull'impotenza dei discepoli di guarire il fanciullo a causa della loro poca fede (v. 20), nel mezzo di una generazione senza fede (v. 17) e conclude presentando la potenza della vera fede (v. 20).
Per Matteo questo ragazzo è simbolo del popolo d'Israele incredulo (cfr Dt 32,5) che non ha percepito la presenza di Dio in mezzo a sé (v. 17).
I discepoli non possono scacciare il demonio con le loro forze, ma solo con la potenza di Dio. La fede è l'unico mezzo per mettersi in contatto con Dio e usufruire della sua potenza.
Matteo richiama la parabola del granello di senapa (13,31-32) la cui crescita va molto al di là delle attese iniziali.
Questo testo sembra contenere una contraddizione. Gesù rimprovera i discepoli per la loro poca fede e poi dice che un granellino di fede sposta le montagne.
Alcuni codici non parlano di poca fede (oligopistìa), ma di "nessuna fede" o di "incredulità". Comunque si voglia leggere il testo, si tratta nel primo caso di "nessuna fede" o di "poca fede" esitante, contraddittoria e dubbiosa; nel secondo caso si parla di un granellino di fede autentica
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09/08/2015 08:35
 
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fr. Massimo Rossi
Commento su Giovanni 6,41-51

"I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti...": ancora un riferimento all'Alleanza antica, significata dalla manna miracolosamente piovuta dal cielo; un'alleanza non definitiva, che Cristo portava, porta a compimento nel suo corpo e nel suo sangue.
Se solo provassimo a metterci nei panni dei rappresentanti religiosi del popolo, credo che anche noi faremmo fatica ad accogliere la rivelazione di Gesù: "Sono io il pane vivo disceso dal cielo! chi mangia di questo pane non morirà in eterno".
Ma come!?! Abbiamo creduto e insegnato, per secoli e secoli, che Dio aveva stretto con Mosè (e con noi) un'alleanza eterna! in nome di questa alleanza siamo usciti dall'Egitto; abbiamo affrontato un viaggio di 40 anni nel deserto, guerre di conquista (non proprio sante) per prendere possesso della Terra promessa; e poi l'istituzione del culto, la costruzione del Tempio, emblema di forza e gioiello che suscita invidia a re e regine; persecuzioni, deportazioni, soprusi sopportati per amore di Dio.... E ora, questo signor nessuno, di professione falegname - con tutto rispetto per i falegnami! -, Gesù di Nazareth, ci vuole convincere che la nostra storia è valsa a nulla? i sacrifici non servono - agnelli sgozzati, pani azzimi, erbe amare, digiuni... -; il Tempio sarà distrutto; la manna, la Legge, le alleanze... tutto inutile, una solenne finzione! Tutt'al più, una prova generale della vera, unica Alleanza, che, udite udite!! coincide proprio con Gesù di Nazareth, dice lui. Ma che combinazione!! e ha pure il coraggio - l'impudenza! - di ostentare se stesso come modello di umiltà e mitezza (cfr. Mt 11,29). Bisogna tuttavia riconoscergli che è un originale: per fare alleanza con lui, è necessario mangiare la sua carne e bere il suo sangue...
Ma chi si crede d'essere questo qui?! Certo, ha fatto il miracolo dei pani, sotto i nostri occhi... lo abbiamo visto e ci siamo sfamati... Però, tanto per citare ancora una volta Mosè, ai tempi di Mosè - bei tempi! si tava meglio quando si stava peggio! etc. etc. - anche gli indovini del Faraone avevano fatto gli stessi prodigi con i loro bastoni magici...
Un miracolo, per quanto eclatante, non fa di un uomo un Dio!...(non fa) di Gesù il Messia.
...Evvai con le mormorazioni!!
L'atteggiamento polemico dei farisei degenererà ben presto in ostilità; al termine del discorso di Gesù, sarà scontro aperto. Sappiamo come finisce la storia... condanna a morte ed esecuzione sul Calvario.

Predicare sull'Eucaristia è difficile! credere nell'Eucaristia è difficile!
Possiamo parlare del dono di Cristo: la dinamica del dono, la morale della gratuità, il rinnegamento di sé... la bontà del Padre, che non ha risparmiato suo Figlio, il suo unico Figlio, vittima di espiazione e autore della pace tra cielo e terra....E questo è un conto.
Ma, non appena cominciamo a percorrere le tappe della vita di Gesù, il discorso si complica, e qualcosa non torna: alla luce dei fatti della Passione, emerge la scomoda verità, la paradossale verità che questo "DONO DEL CIELO" viene a noi attraverso un atto di forza cruento, tragico, immorale, assurdo, ove l'uomo, tutti gli uomini hanno dato e danno il peggio di sé: gli artefici materiali della passione di Cristo hanno manifestato una violenza, una crudeltà che tutto esprime, tranne che gratitudine per il dono di Dio.
Siamo onesti! siamo sinceri!
Noi, questo dono del Cielo, il dono del corpo e del sangue del Signore Gesù, non lo volevamo, lo abbiamo rifiutato esplicitamente!! e, quel che è peggio, lo abbiamo rifiutato in nome di Dio, convinti di fare la volontà di Dio! È in nome di Dio, del Dio di Israele, che il sinedrio decretò la condanna a morte di Gesù. Proprio un bel modo di manifestare gratitudine (a Dio), non c'è che dire!
Ora, ciò che costituisce il vero problema, un nodo che non si riesce a sciogliere, è il fatto della relazione tra Passione di Cristo e dono del Padre.
In altre parole, l'unica via affinché si potesse manifestare la Grazia di Dio, la gratuità assoluta di Dio, era la Via Crucis, la via del tradimento, del rinnegamento, del rifiuto di Gesù da parte dell'uomo, dell'ammazzamento di un corpo (innocente) dato per noi.
Che poi, se ci pensiamo bene, è la dinamica ancestrale del sacrificio: e grazia si fondono misteriosamente, fino a non potersi distinguere dove finisce una e comincia l'altra.
E però, questa chimica tra santità di Cristo e malvagità degli uomini mantiene, per così dire, ben distinte e separate le due verità: il male dell'uomo rimane male, e non potrà mai ritenersi conditio sine qua non affinché si manifestasse la bontà e la santità di Dio!
Peccato dell'uomo e bontà di Dio: due grandezze tra loro incommensurabili, che la Passione (di Cristo) ha tuttavia legato in una relazione, ripeto, inscindibile, come lo sono i pali di una croce.

Nella Prima Lettura abbiamo ascoltato la confessione del profeta Elia, il quale si era macchiato del sangue dei sacerdoti della regina Gezabele, e ora, fuggiva nel deserto, inseguito dalla guardia reale: "Ora basta, Signore, prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri.": è vero, noi non siamo migliori dei nostri padri nella fede, i quali misero a morte il Signore.
Temo, credo che, se fossimo vissuti ai tempi di Gesù, anche noi avremmo alzato la voce, e forse anche le mani, contro di Lui.
Ma, anche a noi, come a Elia, Dio ordina: "Alzati e mangia!", ogni domenica.
"Alzati e mangia! Senza la forza di questo pane, è troppo lungo per noi il cammino, insopportabile la fatica, insostenibile il dolore...".
Con la forza di questo cibo, cammineremo anche noi fino alla fine (della vita), fino al monte di
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10/08/2015 11:08
 
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La parola del Signore di oggi, rivelata a ciascuno di noi, nella sua Chiesa, come membri della sua Chiesa.
La parola del Signore, oggi e sempre, è vera, vivificatrice, salvatrice, liberatrice. Ci guarisce da ogni malattia; ci risuscita dalla morte. Ci santifica.
Infallibilmente. È l’amore onnipresente che parla.
In una società che si scristianizza, cerchiamo delle soluzioni, i mezzi di una nuova evangelizzazione. Talvolta pensiamo di trovarli nei nostri progetti, nelle nostre vie. Oppure perdiamo la speranza di trovarli...
Il Signore ci comunica un atteggiamento infallibilmente fruttuoso: morire al nostro egoismo. Morire ogni giorno, come san Paolo. Che i nostri dinamismi egoistici vengano uccisi, immobilizzati. È così che guadagneremo la Vita, che è Cristo stesso, per la nostra personalità individuale, per la Chiesa, per il mondo.
Noi moriamo con lui e risusciteremo con lui. Come amici che lo servono e sono là dove lui è: sulla croce, nella gloria. Ascoltiamo la sua parola nel Vangelo. Contempliamo la parola di san Lorenzo, che ha ascoltato la sua voce e non ha indurito il suo cuore
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11/08/2015 07:32
 
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a cura dei Carmelitani
Commento Matteo 18,1-5.10.12-14

1) Preghiera

Dio onnipotente ed eterno,
che ci dai il privilegio di chiamarti Padre,
fa' crescere in noi lo spirito di figli adottivi,
perché possiamo entrare
nell'eredità che ci hai promesso.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 18,1-5.10.12-14
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: "Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?".
Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: "In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli".


3) Riflessione

- Qui nel capitolo 18º di Matteo inizia il quarto grande discorso sulla Nuova Legge, il Discorso della Comunità. Come già è stato detto in precedenza (lunedì della 10a Settimana dell'Anno), il vangelo di Matteo scritto per le comunità dei giudei cristiani della Galilea e della Siria, presenta Gesù come il nuovo Mosè. Nel VT, la Legge di Mosè venne codificata nei cinque libri del Pentateuco. Imitando il modello antico, Matteo rappresenta la Nuova Legge in cinque grandi Discorsi: (a) Il Discorso della Montagna (Mt 5,1 a 7,29); (b) Il Discorso della Missione (Mt 10,1-42); (c) Il Discorso delle Parabole (Mt 13,1-52); (d) Il Discorso della Comunità (Mt 18,1-35); (e) Il Discorso del Futuro del Regno (Mt 24,1 a 25,46). Le parti narrative intercalate tra i cinque Discorsi, descrivono la pratica di Gesù e mostrano come praticava ed incarnava la nuova Legge nella sua vita.
- Il vangelo di oggi riporta la prima parte del Discorso della Comunità (Mt 18,1-14) che ha come parola chiave i "piccoli". I piccoli non sono solo i bambini, ma anche le persone povere e senza importanza nella società e nella comunità. Gesù chiede che questi piccoli siano sempre nel centro delle preoccupazioni della comunità, poiché "il Padre non vuole che si perda nemmeno uno di questi piccoli" (Mt 18,14).
- Matteo 18,1: La domanda dei discepoli che provoca l'insegnamento di Gesù. I discepoli vogliono sapere chi è il più grande nel Regno. Il semplice fatto di questa loro domanda rivela che avevano capito poco o nulla del messaggio di Gesù. Il Discorso della Comunità, tutto intero, è per far capire che tra i seguaci e le seguaci di Gesù deve vigere lo spirito di servizio, di dono, di perdono, di riconciliazione e di amore gratuito, senza cercare il proprio interesse e la propria promozione.
- Matteo 18,2-5: Il criterio fondamentale: il minore è il maggiore. I discepoli chiedono un criterio per poter misurare l'importanza delle persone nella comunità: "Chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli?". Gesù risponde che il criterio sono i piccoli! I piccoli non hanno importanza sociale, non appartengono al mondo dei grandi. I discepoli devono diventare bambini. Invece di crescere verso l'alto, devono crescere verso il basso e verso la periferia, dove vivono i poveri, i piccoli. Così saranno i più grandi nel Regno! Il motivo è questo: "Chi riceve uno di questi piccoli, riceve me!" Gesù si identifica con loro. L'amore di Gesù verso i piccoli non ha spiegazione. I bambini non hanno merito. E' la pura gratuità dell'amore di Dio che qui si manifesta e chiede di essere imitata nella comunità da coloro che si dicono discepoli e discepole di Gesù.
- Matteo 18,6-9: Non scandalizzare i piccoli. Questi quattro versi sullo scandalo dei piccoli vengono omessi nel vangelo di oggi. Diamo un breve commento. Scandalizzare i piccoli significa: essere motivo per loro di perdita di fede in Dio ed abbandono della comunità. Matteo conserva una frase molto dura di Gesù: "Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare". Segno che in quel tempo molti piccoli non si identificavano più con la comunità e cercavano altri rifugi. E oggi, in America Latina, per esempio, ogni anno, circa 3 milioni di persone abbandonano le chiese storiche e vanno verso le chiese evangeliche. Segno questo che non si sentono a casa tra di noi. Cosa ci manca? Qual è la causa di questo scandalo dei piccoli? Per evitare lo scandalo, Gesù ordina di tagliare il piede o di cavare l'occhio. Questa frase non può essere presa letteralmente. Significa che si deve essere molto esigente nel combattere lo scandalo che allontana i piccoli. Non possiamo permettere, in nessun modo, che i piccoli si sentano emarginati nella nostra comunità. Poiché in questo caso, la comunità non sarebbe più un segno del Regno di Dio.
- Matteo 18,10-11: Gli angeli dei piccoli stanno alla presenza del Padre. Gesù evoca il Salmo 91. I piccoli fanno di Yavé il loro rifugio e prendono l'Altissimo quale loro difensore (Sal 91,9) e per questo: "Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda; egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede". (Sal 91,10-12).
- Matteo 18,12-14: La parabola delle cento pecore. Secondo Luca, questa parabola rivela la gioia di Dio per la conversione di un peccatore (Lc 15,3-7). Secondo Matteo, rivela che il Padre non vuole che si perda nemmeno uno di questi piccoli. Con altre parole, i piccoli devono essere la priorità pastorale della Comunità, della Chiesa. Devono stare nel centro della preoccupazione di tutti. L'amore verso i piccoli e gli esclusi deve essere l'asse della comunità di coloro che vogliono seguire Gesù. Poiché è così che la comunità diventa la prova dell'amore gratuito di Dio che accoglie tutti.


4) Per un confronto personale

- Chi sono le persone più povere del nostro quartiere? Essi partecipano alla nostra comunità? Si sentono bene o trovano in noi un motivo per allontanarsi?
- Dio Padre vuole che nessuno dei piccoli si perda. Cosa significa questo per la nostra comunità?


5) Preghiera finale

Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti,
sono essi la gioia del mio cuore.
Apro anelante la bocca,
perché desidero i tuoi comandamenti. (Sal 118)
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12/08/2015 07:37
 
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Nella prima lettura di oggi troviamo il racconto della morte di Mosè. Mosè muore prima dell'entrata nella Terra promessa. Il Signore gli dice: "Questo è il paese che ho promesso ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe...
Te l'ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!". Mosè non ha potuto portare a termine la grande impresa divina incominciata con l'esodo dall'Egitto; malgrado tutte le sue doti, tutte le grazie ricevute, egli non ha adempiuto l'impresa: ne ha fatto la parte principale, lasciando a Giosuè le gesta finali. E un fatto che osserviamo regolarmente nell'Antico Testamento e che dimostra che niente nell'Antico Testamento è perfetto adempimento del progetto di Dio. Troviamo, nell'AT, molte prefigurazioni di Cristo, però nessuna di esse è perfetta. Mosè per l'inizio, Giosuè per la fine, prefigurano ciascuno un aspetto dell'opera di Cristo. Il mistero di Cristo è tanto ricco che non poteva essere prefigurato in una sola vita umana.
Vediamo, all'inizio della Genesi, che già Abele prefigura il mistero di Cristo; Abele muore, ma in un certo senso si manifesta vivo dopo la morte: la voce del suo sangue si fa sentire, secondo il racconto biblico. Però in realtà Abele rimane morto, non risorge. Prefigura in modo imperfetto la risurrezione di Cristo. Similmente per il sacrificio di Abramo: Isacco ne esce vivo, però lui non è morto; prefigura parzialmente la risurrezione di Cristo, che esce vivo dal proprio sacrificio, ma per aver vinto la morte, passando attraverso la morte. Nella storia di Giuseppe vediamo che i suoi fratelli lo odiano al punto che lo vogliono uccidere, e questa è una prefigurazione della passione di Gesù, però non lo uccidono:
anche qui la prefigurazione è imperfetta. Giuseppe si ritrova vivo in Egitto, senza aver subito la morte.
Così avviene per tutte le prefigurazioni: vi vediamo un aspetto del mistero di Cristo, ma non il mistero totale. il regno di Davide prefigura il regno di Cristo; ma Davide non è stato in grado di edificare la casa di Dio. Salomone costruisce il tempio, però si tratta solo di un edificio materiale, non della vera "casa" di Dio. U vero tempio è Cristo risorto, come vediamo nel Vangelo di Giovanni.
Solo Cristo è la pienezza. Cristo adempie tutte le prefigurazioni; realizza nel suo mistero pasquale una sintesi straordinaria, stupenda, di tutti gli aspetti del piano di Dio. Possiamo provare una grande ammirazione per questo mistero di Cristo, che illumina tutto l'Antico Testamento e ne viene anche parzialmente illuminato. Cristo ha adempiuto tutte le figure; Cristo è la pienezza della grazia. Approfondiamo la nostra fede in lui, quando riflettiamo sulle figure antiche e vediamo come egli le ha adempiute e superate
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13/08/2015 07:37
 
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Nel bel racconto del passaggio del Giordano da parte degli Israeliti, possiamo notare l'insistenza sull'arca dell'alleanza. il personaggio principale, si può dire, non è Giosuè, non è il popolo: è l'arca, l'arca dell'alleanza, che viene chiamata anche "arca di Dio", "arca dell'alleanza del Signore di tutta la terra".
Grazie all'arca dell'alleanza un ostacolo insormontabile, cioè il Giordano, che era in piena durante tutto il tempo della mietitura, come avviene ancora oggi, viene superato con facilità.
Questo ci dimostra che l'elemento decisivo nella nostra vita, per superare le difficoltà, per vincere gli ostacoli, non sono le nostre forze, non sono le nostre capacità, ma è la presenza di Dio, l'unione con Dio. L'arca si chiama "arca dell'alleanza"; l'arca simboleggiava proprio la presenza di Dio in mezzo al suo popolo; l'arca conteneva due realtà, esprimenti la presenza di Dio: da un lato un dono di Dio, la manna e, dall'altro lato, una esigenza di Dio, le tavole dell'alleanza, cioè il Decalogo.
Se vogliamo essere uniti a Dio dobbiamo accogliere allo stesso modo questi due aspetti della presenza di Dio nella nostra vita.
il dono di Dio. Questo aspetto è sempre il primo, il più importante; tutto comincia con l'amore di Dio per noi. "Non siamo stati noi ad amare Dio dice san Giovanni ma è lui che ci ha amati". La manna simboleggia questo amore di Dio, premuroso, generoso, che ci mantiene in vita, che ci fa progredire. La manna lo sappiamo è anche la prefigurazione del dono di Dio in Cristo, nell'Eucaristia. il pane dal cielo non lo diede Mosè dice Gesù nel Vangelo di Giovanni ma è il mio Padre che vi dà il vero pane dal cielo. Il pane dal cielo è la carne del Figlio di Dio, data per la vita del mondo.
La nostra vita deve essere orientata da questo dono di Dio. Ricevere il dono di Dio nell'Eucaristia è fondamentale, se vogliamo avere il giusto orientamento e superare le difficoltà della vita in modo positivo; invece di esserne abbattuti saperle trasformare in occasioni di progresso.
Per questo è anche necessario accogliere l'altro aspetto della presenza divina, cioè l'esigenza divina. Le tavole dell'alleanza esprimevano la volontà di Dio per il suo popolo; una volontà di amore, una volontà di liberazione; una volontà molto positiva, però che talvolta può anche sembrare un'esigenza severa, sgradevole, che non ci permette di seguire i nostri capricci, di cercare le nostre soddisfazioni.
Nel Nuovo Testamento l'esigenza di Dio è diventata ancora più profonda e più positiva allo stesso tempo, perché è stata riassunta da Gesù nel duplice comandamento dell'amore: "Amerai il Signore tuo Dio... Amerai il tuo prossimo". Anzi l'esigenza è diventata:
"Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato": una esigenza meravigliosa, in fondo: soltanto amare. Siamo fatti per amare, lo sentiamo. Quindi è una esigenza che accogliamo con entusiasmo, quando la capiamo bene. Però d'altra parte è una esigenza reale, perché l'amore è esigente, l'amore non si vive senza accettare sacrifici, senza accettare rinunce. L'amore è duro come l'inferno, dice il Cantico dei Cantici. In certe circostanze sentiamo che non è facile amare sul serio. È quindi una vera esigenza. Però una esigenza che è contemporaneamente un dono di Dio. Gesù viene in noi per amare; possiamo amare grazie al suo cuore, che ci è dato. Sant'Agostino diceva: "Dammi ciò che comandi, comanda ciò che vuoi". La vita cristiana è proprio questo accogliere il dono di Dio, il dono dell'amore di Dio, non soltanto un modo passivo, essendo amati da lui, ma in modo anche attivo: amando con lui. E così tutte le difficoltà diventano occasione di crescita e di cammino.
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14/08/2015 08:10
 
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padre Lino Pedron


Con la domanda dei farisei sul divorzio appare lo scacco dell'amore in seno alla coppia. E' questa infatti la prima cellula dove "due sono uniti nel nome di Cristo" (Mt 18,20). L'intervento dei farisei mette sotto accusa Gesù e la novità del Regno.
La domanda "E' lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?" è importante. Al tempo di Gesù l'interpretazione di Dt 24,1 contrapponeva i seguaci di due scuole rabbiniche, quella di Hillel che ammetteva il divorzio per qualsiasi motivo, e quella di Shammai che richiedeva, come minimo, una cattiva condotta comprovata, anzi, un adulterio da parte della moglie.
La risposta di Gesù supera subito la disputa interpretativa tra i seguaci di Hillel e di Shammai. Alla maniera rabbinica, egli cita i brani di Gen 1,17 e 2,24 situando così la discussione a livello superiore: quello della volontà del Creatore. La distinzione tra i sessi trova quindi la sua origine nel Creatore: è più un'intenzione creatrice vissuta e rivelata che un semplice fenomeno di natura.
Gesù cita Gen 2,24: "L'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (v. 5) per sottolineare che è la volontà creatrice di Dio che unisce l'uomo e la donna. Quando si
uniscono, è Dio che li unisce: la congiunzione dell'uomo e della donna è l'effetto della parola di Dio.
La risposta di Gesù è quindi chiara: per volontà esplicita di Dio creatore il matrimonio è indissolubile, non si può divorziare per nessun motivo. Un testo di Malachia (2,13-16) dichiarava già prima di Cristo che ripudiare la propria moglie è rompere l'alleanza di Dio con il suo popolo (cfr anche Os 1-3; Is 1,21-26; Ger 2,3; 3,1.6-12; Ez 16 e 23; Is 54,6-10; 60-62).
Questa risposta di Gesù pare tuttavia in contraddizione con la legge di Mosè, che permetteva di dare un attestato di divorzio. Gesù, nuovo Mosè, riporta con forza la questione nei suoi giusti termini: all'amore di Dio che fa alleanza con l'uomo e gli dà la capacità di superare la durezza del cuore (v. 8), cioè la mancanza di docilità alla parola di Dio. La legge espressa in Gen 1,27 e 2,24 non è mai stata modificata o abolita.
Di fronte a questo "amore impossibile" i discepoli reagiscono violentemente: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (v. 10). Essi indietreggiano davanti all'insopportabile esigenza dell'indissolubilità del matrimonio: impossibile da capire dagli uomini chiusi alla rivelazione di Dio, ma possibile per quelli che ricevono da Dio la grazia di capire.
Agli eunuchi per nascita o resi tali dagli uomini, Gesù aggiunge una terza categoria: quelli "che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (v. 12). L'eunuco è colui che non può compiere l'atto della generazione. Gli eunuchi per il regno dei cieli sono, anzitutto, coloro che, separati dal coniuge, continuano a vivere nella
continenza, saldamente fedeli al vincolo matrimoniale.
Anche là dove la legge di Mosè permetteva qualche indulgenza, il regno dei cieli esige e promette la comunione indissolubile d'amore in seno alla coppia e disapprova ogni atto che tende a distruggere l'unità sacra del matrimonio come è stata istituita dal Creatore.
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15/08/2015 07:36
 
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Omelie.org - autori vari
Pellegrini e non vagabondi!

COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Paolo Matarrese

Fermandoci a meditare su questa festa dell'Assunzione di Maria in cielo, sembra essere proprio questa una delle chiavi di lettura: come Maria, ognuno di noi è pellegrino e non vagabondo! C'è infatti una differenza sostanziale tra il pellegrino e il vagabondo che sta nella meta e la speranza di raggiungerla! Il vagabondo e il pellegrino possono percorrere la stessa strada, incrociare le stesse persone, affrontare le stesse lotte ma il pellegrino sa dove sta andando il vagabondo no. Il pellegrino affronta il cammino con la speranza di chi sa che tutto è necessario per arrivare alla meta! Questa festa dell'Assunzione di Maria in cielo con l'anima e il corpo, ci ricorda che noi siamo pellegrini nella nostra vita e non vagabondi; che la nostra storia, condotta dall'amore di Dio, non è costellata da episodi senza senso che ci sbattono da una parte all'altra delle sponde della vita, ma che ci spingono verso una meta!
Abbiamo ascoltato nella II lettura San Paolo che definisce "Cristo risorto come primizia", cioè Colui che, attraverso la sua morte e risurrezione, ha riaperto le porte del cielo ad ogni uomo. La risurrezione di Cristo trasforma la morte in un passaggio per essere accolti tra le braccia di Dio Padre e godere in pienezza della stessa gioia e pace di Cristo. Se la primizia della risurrezione è Cristo, possiamo allora senza mezzi termini definire l'Assunzione di Maria in cielo come primo frutto di questa primizia. La festa dell'Assunzione ci ricorda il nostro destino di pienezza di vita nella comunione con Dio. Maria assunta in cielo nell'anima e nel corpo è il mistero della nostra fede che ci mostra che anche noi, come Maria, potremmo risorgere un giorno nell'anima e nel corpo ossia tutta la nostra storia, le nostre relazioni di amore vissute attraverso il cuore e i gesti del nostro corpo, troveranno la loro pienezza e il loro compimento nell'Amore di Dio! Nulla della nostra storia andrà perduto, nulla vissuto senza un senso, nulla di tutti quei gesti di fedeltà, di amore, di umiltà, di giustizia fatti con l'anima e con il nostro corpo saranno stati vani...
Ma la festa dell'assunzione di Maria non ci parla soltanto della meta ma anche della strada da compiere per noi pellegrini. Stiamo ormai nel pieno del tempo estivo, un tempo dove, riposandoci un po' di più, dovremmo avere più facilità nel riflettere su come stiamo vivendo, sul nostro cammino. Spesso però le letture che facciamo della nostra vita sono abbastanza desolanti: avremmo voluto fare di più, fare meglio, fare scelte più coraggiose e magari ci ritroviamo un pochino delusi, scoraggiati, disorientati. Nella I lettura, il libro dell'Apocalisse racconta che "Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito".
Più che l'immagine di Maria, in questa donna possiamo ritrovare l'immagine del popolo di Dio e dell'umanità intera. Di fronte al nuovo possibile che Dio ci mostra e vuole far nascere nella vita della Chiesa, dell'umanità e in ognuno di noi, c'è il male che si oppone e che tenta di divorarlo! La lettura prosegue con un epilogo bellissimo: "Suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio".
Mi piace pensare che il nuovo nasce, il bene vince perché è nelle mani di Dio! Questa donna non tiene per se il figlio che nasce ma è messo nelle mani di Dio ed è per questo che il deserto dove camminerà sarà il rifugio preparato da Dio stesso. L'Assunzione di Maria comincia dall'Annunciazione quando ella accoglie il nuovo e la salvezza (per lei vissuta in maniera singolare!) che Dio vuole compiere nella sua storia che si esprime concretamente in questo viaggio verso Elisabetta che abbiamo ascoltato nel vangelo: "Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa". La storia di Maria diventa un'assunzione continua, un cammino sicuro guidato da Dio. Certo sarà anche deserto, ma nulla potrà portargli via la sua speranza, la sua gioia i suoi amori perché non le appartengono più. All'inizio della sua storia non c'è più quello che saprà compiere o realizzare perché all'inizio della sua storia c'è lo sguardo di Dio e la sua vita è messa nelle Sue mani. Maria va da Elisabetta innanzitutto per cantare la sua gratitudine. Non sarà più lei che dovrà guardarsi, giudicarsi, misurarsi ma sarà Dio che la guarderà e questo la renderà beata (felice-bella) guidandola nella sua missione così particolare...è qui che inizia l'assunzione di Maria che troverà compimento e si concretizzerà nell'assunzione del suo corpo! Lo stesso Gesù ai suoi discepoli un giorno ha detto "rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli" (Lc 10,20).
Oggi questa festa spinge anche noi a metterci o rimetterci in cammino da pellegrini in maniera nuova e questo potrà avvenire quando permetteremo a Dio di "disperdere i superbi e rovesciare i potenti dai troni", cioè quando cominceremo a smettere di guardarci pensando che noi stessi siamo la fonte del nostro bene e del bene degli altri, di quelli che desideriamo amare o, peggio ancora, quando pensiamo che nella nostra vita e intorno a noi non ci sia più spazio per il bene, che non ci siano più margini per ripartire! Un padre gesuita scriveva: "la vera grazia che uno si può aspettare nell'arco della sua vita è quella di avere la certezza di vivere bene non perché si è organizzato la vita da solo, ma perché guidato dalle mani di Dio...allora si capirà finalmente la differenza tra una vita vissuta secondo la propria volontà che vuole, desidera, lotta ma non può, e una vita vissuta con la propria volontà che aderisce alla volontà del Dio misericordioso". Chiediamo la grazia al Signore che questa festa dell'Assunzione oltre che a risvegliare la speranza sul nostro futuro e quello del mondo, ci dia il coraggio di lasciare a Lui, almeno un pochino di più, la possibilità di assumere dentro il Suo Amore la mia e la tua vita, proprio come ha fatto con Maria!
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16/08/2015 07:09
 
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mons. Roberto Brunelli
La sapienza si è costruita la casa

Il discorso che andiamo leggendo da alcune domeniche, il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, prosegue oggi con un brano (Giovanni 6,51-58) che insiste sul concetto-chiave: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno". Sarà opportuno, in proposito, ricordare che egli parlava a uomini di duemila anni fa, quando certe parole avevano un significato non proprio uguale a quello di oggi. E' il caso di "carne": invitando a cibarsi della sua carne, Gesù non intendeva invitare all'antropofagia, neppure in senso simbolico; il termine "carne" designava una persona vivente (per dire che il Figlio di Dio si è fatto uomo, lo stesso evangelista usa l'espressione "Il Verbo si fece carne"). Mangiare di lui significa stabilire un'intima connessione con lui, una comunione di vita, un'amicizia profonda nel senso che a questo rapporto tra gli uomini davano anche i pagani: idem velle idem nolle, dice Sallustio, cioè due sono amici quando vogliono le stesse cose e non vogliono le stesse cose.
All'amicizia con lui, Gesù ha dato la forma visibile e sensibile dell'Eucaristia: che è dunque l'espressione da parte sua dell'offerta-invito a condividere la sua vita, a fare nostri i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua volontà, le sue prospettive per il futuro. Ecco perché nella celebrazione dell'Eucaristia, cioè nella Messa, la comunione è preceduta dal memoriale del suo sacrificio redentore e, prima ancora, dall'ascolto della sua Parola: per conoscere chi è, che cosa ha fatto e che cosa continua a dire Colui che si va ad accogliere sotto le specie del Pane, per vivere in pienezza la relazione con lui.
"Mangiare la carne" del Figlio di Dio comporta dunque anche non pretendere di essere più intelligenti di lui, di sapere meglio di lui come condurre la nostra vita; comporta il fare nostra la sua sapienza, che entrando nel mondo egli ha messo così largamente a nostra disposizione. Lo dice anche la prima lettura (Proverbi 9,1-6), con una plastica personificazione della Sapienza divina, immaginata costruirsi una casa tra gli uomini e invitarli a un generoso convito: "La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: ?Chi è inesperto venga qui!' A chi è privo di senno ella dice: ?Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l'inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza'".
Alla saggezza accenna anche la seconda lettura (Efesini 5,15-20): "Fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi". E a queste parole l'apostolo Paolo aggiunge un esempio, una delle possibili concrete applicazioni: "...da saggi, facendo buon uso del tempo". A proposito dell'uso del tempo: è proprio vero, pregi e difetti degli uomini non hanno età, nel senso sia che si riscontrano in ogni stagione della vita, sia che riguardano gli uomini d'oggi come quelli di duemila anni fa. Spesso non lo si percepisce, ma il tempo è un valore, e non banalmente per il detto popolare che il tempo è denaro. Il tempo è come un baule vuoto che ci è stato donato; dipende da noi che cosa metterci dentro: se nulla, se cose positive, se cose negative. Dando per scontata la seconda e la terza ipotesi, non sempre si considera la prima: a fronte delle tante belle cose che si possono fare, quanto tempo va perduto! Quante chiacchiere a vuoto, quante ore davanti alla tivù, quante letture frivole, quanti sbadigli! All'epoca di Paolo c'era evidentemente chi del tempo non faceva buon uso: il richiamo vale intatto anche duemila anni dopo. Almeno, per chi cerca la saggezza.
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17/08/2015 07:16
 
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All'inizio del Libro dei Giudici ci viene offerta una visione generale della storia del popolo eletto durante questo periodo. E uno schema teologico, desolante e poi anche confortante. Voglio dire che tutto comincia con l'infedeltà umana, però si manifesta la fedeltà di Dio, che alla fine ha il sopravvento.
Infedeltà umana. "Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore". Questa frase torna poi come un ritornello in tutto il libro. Gli Israeliti non sono riconoscenti a Dio, cercano altri dei, più disponibili alle loro aspirazioni immediate. Abbandonano il Signore e vogliono servire i Baal. il risultato è l'ira del Signore e il castigo: "Si accese l'ira del Signore contro Israele e li mise in mano ai razziatori, che li depredarono". Israele è così di nuovo in una situazione di oppressione e di schiavitù, per sua colpa. Allora implora nuovamente il Signore, e il Signore si lascia commuovere dai gemiti del suo popolo oppresso e gli manda dei "giudici", cioè dei capi ispirati da lui, che prendono in mano la situazione e riescono a vincere gli oppressori, perché il Signore "era con il giudice e li liberava dalla mano dei loro nemici". Ma purtroppo lo schema si ripete:
dopo la morte del giudice gli Israeliti di nuovo fanno ciò che è male agli occhi del Signore e la situazione peggiora: ritorna l'oppressione e ricominciano i gemiti. E il Signore sempre si lascia commuovere.
Dio educa cosi il suo popolo alla conversione, conversione innanzitutto alla fiducia in lui, a rimanere fiduciosi in lui attraverso tutte le circostanze, fiduciosi in lui anche malgrado i peccati commessi, a tornare al Signore misericordioso per ritrovare la pienezza di vita. La fedeltà di Dio così ha il sopravvento sull'infedeltà dell'uomo.
Nel Vangelo di oggi una lezione complementare ci viene data mostrando che la fedeltà umana, quando c'è, ha bisogno di un complemento divino. Vediamo questo ragazzo che vuol sapere qual è la via buona per ottenere la vita eterna, e interroga Gesù. Gesù gli dice: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". È la fedeltà umana, richiesta per ottenere tutte le grazie di Dio. il ragazzo ha sempre osservato tutti i comandamenti e chiede: "Che cosa mi manca ancora?". Se la sua fedeltà è stata completa, cosa può mancargli?
La risposta di Gesù è paradossale, come spesso accade. "Non ti manca niente; hai troppo. Ti manca di farti povero di beni terreni per essere disponibile all'amore divino". "Va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi".
"Beati i poveri" ha detto Gesù "perché di essi è il regno dei cieli". Distaccarsi da tutto per fare spazio ai veri tesori: ecco il segreto della vita in pienezza. Distaccarsi anche da se stessi per accogliere la vita di Cristo: "Vivo non più io, vive in me Cristo". E un cammino lungo, non facile, però pieno di speranza. Gesù vuole comunicarci la sua gioia, l'ha detto più volte: "La mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena".
Questo si ottiene con il distacco da tutti i beni materiali per accogliere l'amore generoso di Cristo
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18/08/2015 07:14
 
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Nella vocazione di Gedeone, riferita nella prima lettura di oggi, si manifesta il modo apparentemente strano con cui Dio sceglie i suoi strumenti per intervenire nella storia del suo popolo. Gedeone non è un personaggio di grande rilievo, lui stesso lo fa notare al Signore che lo chiama: "Signore mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse, e io sono il più piccolo nella casa di mio padre".
Come mai il Signore sceglie uno strumento così debole, così disprezzabile, dalla famiglia più povera e, in questa famiglia, il più piccolo?
Questo modo di fare di Dio lo ritroviamo ancora dopo, quando Gedeone deve combattere i Madianiti. Egli, vedendo la loro forza, convoca tutti gli Israeliti; un gran numero viene per combattere: sono trentaduemila uomini. Cosa dice Dio? Dice: "La gente che è con te è troppo numerosa". Come mai troppo numerosa? I Madianiti sono molto forti, forse trentaduemila uomini non basteranno! Ma Dio dice di no, perché Israele potrebbe vantarsi e dire: "La mia mano mi ha salvato!". Quindi il Signore ordina a Gedeone di rimandare a casa prima tutti quelli che non si sentono troppo forti, troppo coraggiosi, che hanno qualche obiezione possibile. Rimangono diecimila uomini. "E ancora troppo", dice Dio. E allora propone una prova un po' speciale: vedere come questi uomini si mettono per bere l'acqua di un torrente. Trecento prendono una posizione insolita: proprio questi trecento sono scelti. Così il numero va bene, è abbastanza piccolo perché si manifesti la potenza e la grandezza di Dio.
Dio regolarmente sceglie i suoi strumenti in questo modo. San Paolo lo diceva quando, parlando della sua vocazione che stimava in modo straordinario, osservava: "Abbiamo questo tesoro in vasi di creta", cioè portiamo queste grazie in condizione di debolezza, di infermità umana, "perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi". Questo è importante: che l'uomo non possa attribuire a se stesso ciò che in realtà viene da Dio. Sarebbe un gran danno, anzitutto per lui stesso, perché se l'uomo si chiude in sé, nella sua superbia, non vive più nella corrente dell'amore di Dio, si separa dalla fonte di ogni bene e si ritrova isolato, senza vera gioia, senza vera pienezza. Invece, se accetta una condizione umile, allora può veramente ricevere tutta l'abbondanza della grazia divina. San Paolo lo ha esperimentato. Essendo provato, supplicava il Signore di liberarlo, e Gesù gli rispose: "Ti basta la mia grazia; la potenza si rivela nella debolezza". E la regola per le opere di Dio.
Quindi non dobbiamo avvilirci quando ci sentiamo deboli, incapaci, quando i nostri mezzi appaiono inadeguati per l'opera che ci è affidata, quando sopravvengono difficoltà da ogni parte, ostacoli che non siamo in grado, umanamente parlando, di superare. Invece di lamentarci, dobbiamo allora proclamare la nostra fiducia. Se cerchiamo di fare l'opera del Signore con amore, lui manifesterà la sua potenza e la sua bontà, darà una grande fecondità apostolica ai nostri umili sforzi
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19/08/2015 06:57
 
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La Bibbia non manca di realismo. Ci aiuta a non sopravvalutare le istituzioni umane, spesso le ridimensiona, offrendoci in proposito vedute contrastanti, che ci preservano da entusiasmi troppo facili.
Nella prima lettura di oggi l'apologo di Iotam presenta l'istituzione della monarchia in modo dispregiativo, anzi sarcastico. Gli alberi racconta Iotam vogliono crearsi un re. Evidentemente hanno della monarchia un concetto alto: per farlo re cercano un albero di grandi qualità, di grandi capacità, perché occorre che il re sia il migliore di tutti. Si rivolgono quindi all'ulivo, che produce l'olio, derrata tanto preziosa, l'olio che nutre, l'olio che serve per preparare rimedi, per preparare profumi, l'olio che può anche dare una fiamma che illumina. Ma l'ulivo rifiuta di diventare re. Si rivolgono al fico, il cui frutto è così squisito; il fico rifiuta. Si rivolgono alla vite: "Vieni, regna su di noi!", ma anche la vite rifiuta. Perché? Perché tutti questi alben hanno un concetto bassissimo del compito di un re: dicono che il re "si agita al di sopra degli alberi".
L'ulivo risponde: "Rinunzierò forse al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini e andrò ad agitarmi sugli alberi?". Così viene descritta la funzione del re, la posizione del re: agitarsi al di sopra degli altri. E il fico: "Rinunzierò alla mia dolcezza e al mio frutto squ~sito e andrò ad agitarmi sugli alberi?".
E una grande lezione di umiltà per gli ambiziosi che aspirano al potere per essere al di sopra degli altri. Devono prendere coscienza della relativa sterilità della loro posizione. Comandare di per sé non è un'attività produttiva; se non ci fossero altre persone che lavorano, che producono, chi comanda non servirebbe a niente.
D'altra parte però è indispensabile che vi siano amministratori, dirigenti, capi politici, per far sì che gli sforzi produttivi degli altri contribuiscano a un'opera comune e non si perdano in diverse direzioni, non siano contrastanti tra di loro. L'autorità però deve essere un servizio, un servizio effettivo, non un vano agitarsi al di sopra degli altri, non uno sfruttamento egoistico delle capacità altrui, non un dominio ispirato alla superbia. L'autorità deve essere un servizio. "Chi è il più grande tra voi ha detto Gesù diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve" (Lc 22, 26). La vera grandezza consiste nel servire umilmente, per amore. È la grandezza di Cristo, che non ritenne come un privilegio da conservare la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se stesso, fattosi obbediente fino alla morte di croce (cfr. Fil 2, 8ss.). Umiliò se stesso, per mettersi al servizio di tutti, per dare la vita in riscatto di tutti, per diventare il Servo di Jahvè, diventare il nostro Signore e fratello grazie a questo servizio
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20/08/2015 08:48
 
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cura dei Carmelitani


1) Preghiera

O Dio, che hai preparato beni invisibili
per coloro che ti amano,
infondi in noi la dolcezza del tuo amore,
perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa,
otteniamo i beni da te promessi,
che superano ogni desiderio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 22,1-14
In quel tempo, Gesù riprese a parlare in parabole ai capi dei sacerdoti e agli anziani e disse: "Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. E disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì.
Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti".


3) Riflessione

? Il vangelo di oggi narra la parabola del banchetto che si trova in Matteo ed in Luca, ma con differenze significative, procedenti dalla prospettiva di ogni evangelista. Lo sfondo che conduce i due evangelisti a ripetere questa parabola è lo stesso. Nelle comunità dei primi cristiani, sia Matteo che Luca, continuava ben vivo il problema della convivenza tra i giudei convertiti ed i pagani convertiti. I giudei avevano norme antiche che impedivano loro di mangiare con i pagani. Anche dopo essere entrati nella comunità cristiana, molti giudei mantenevano l'usanza antica di non sedersi alla stesso tavolo con un pagano. Così Pietro ebbe conflitti nella comunità di Gerusalemme, per essere entrato a casa di Cornelio, un pagano e per aver mangiato con lui (At 11,3). Questo stesso problema era vivo in modo diverso nelle comunità di Luca e di Matteo. Nelle comunità di Luca, malgrado le differenze di razza, di classe e di genere, avevano un grande ideale di condivisione e di comunione (At 2,42; 4,32; 5,12). Per questo, nel vangelo di Luca (Lc 14,15-24), la parabola insiste nell'invito rivolto a tutti. Il padrone della festa, indignato per il mancato arrivo dei primi invitati, manda a chiamare i poveri, gli storpi, i ciechi, e li invita a partecipare al banchetto. Ma c'è ancora posto. Allora, il padrone della festa ordina di invitare tutti, fino a riempire la casa. Nel vangelo di Matteo, la prima parte della parabola (Mt 22,1-10) ha lo stesso obiettivo di Luca. Arriva a dire che il padrone della festa ordina di far entrare "buoni e cattivi" (Mt 22,10). Ma alla fine aggiunge un'altra parabola (Mt 22,11-14) sul vestito di festa, che insiste in ciò che è specifico dei giudei, la necessità di purezza per potere comparire dinanzi a Dio.
? Matteo 22,1-2: L'invito a tutti. Alcuni manoscritti dicono che la parabola fu raccontata per i capi dei sacerdoti e per gli anziani del popolo. Questa affermazione può servire perfino di chiave di lettura, perché aiuta a capire alcuni punti strani che appaiono nella storia che Gesù racconta. La parabola comincia così: "Il Regno dei Cieli è simile a un re che fece una festa di nozze per suo figlio". Questa affermazione iniziale evoca la speranza più profonda: il desiderio della gente di stare con Dio per sempre. Diverse volte nei vangeli si allude a questa speranza, suggerendo che Gesù, il figlio del Re, è lo sposo che viene a preparare le nozze (Mc 2,19; Apoc 21,2; 19,9).
? Matteo 22,3-6: Gli invitati non vogliono venire. Il re invita in modo molto insistente, ma gli invitati non vogliono venire. "Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero." In Luca sono i doveri della vita quotidiana ad impedire di accettare l'invito. Il primo dice: "Ho comprato un terreno. Devo vederlo!" Il secondo: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli!" Il terzo: "Ho preso moglie. Non posso andare!" (cf. Lc 14,18-20). Secondo le norme e le usanze dell'epoca, quelle persone avevano il diritto e perfino il dovere di non accettare l'invito fatto (cf Dt 20,5-7).
? Matteo 22,7: Una guerra incomprensibile. La reazione del re dinanzi al rifiuto è sorprendente. "Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città". Come interpretare questa reazione così violenta? La parabola fu raccontata per i capi dei sacerdoti e per gli anziani del popolo (Mt 22,1), i responsabili della nazione. Molte volte, Gesù aveva parlato loro sulla necessità di conversione. Pianse perfino sulla città di Gerusalemme e disse: "Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stingeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata." (Lc 19,41-44). La reazione violenta del re nella parabola si riferisce probabilmente al fatto secondo la previsione di Gesù. Quaranta anni dopo, Gerusalemme fu distrutta (Lc 19,41-44; 21,6;).
? Matteo 22,8-10: Il banchetto non viene abolito. Per la terza volta, il re invita la gente. Dice ai suoi servi: "Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali". I cattivi che erano esclusi, per essere considerati impuri, dalla partecipazione nel culto dei giudei, ora sono invitati, specificamente, dal re a partecipare alla festa. Nel contesto dell'epoca, i cattivi erano i pagani. Anche loro sono invitati a partecipare alla festa delle nozze.
? Matteo 22,11-14: Il vestito della festa. Questi versi raccontano che il re entrò nella sala della festa e vide qualcuno senza l'abito della festa. E il re chiese: 'Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì". La storia racconta che l'uomo fu legato mani e piedi e fu gettato fuori nelle tenebre. E conclude: "Molti sono i chiamati, ma pochi eletti". Alcuni studiosi pensano che si tratti di una seconda parabola che fu aggiunta per mitigare l'impressione che rimane della prima parabola, dove si parla di "cattivi e buoni" che entrano per la festa (Mt 22,10). Pur ammettendo che non è certo l'osservanza della legge che ci dà la salvezza, bensì la fede nell'amore gratuito di Dio, ciò in nulla diminuisce la necessità di purezza del cuore quale condizione per poter comparire dinanzi a Dio.


4) Per un confronto personale

? Quali sono le persone che sono normalmente invitate alle nostre feste? Perché? Quali sono le persone che non sono invitate alle nostre feste? Perché?
? Quali sono i motivi che oggi limitano la partecipazione di molte persone nella società e nella chiesa? Quali sono i motivi che certe persone addicono per escludersi dal dovere di partecipare alla comunità? Sono motivi giusti?


5) Preghiera finale

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. (Sal 50)
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21/08/2015 07:01
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Il comandamento dell'amore


Le interrogazioni degli scribi e dei farisei mirano sempre a "mettere alla prova" il Signore. Si ritenevano arbitri infallibili e insindacabili nei loro giudizi e nelle loro interpretazioni della legge e di conseguenza, ritenevano di poter giudicare lo stesso Cristo. Non si arrendono neanche dinanzi all'evidenza e persistono ostinatamente nelle loro trame. La gente semplice ed umile invece accoglie le parole di Cristo e gli riconosce una speciale "autorità", che mancava invece ai falsi dottori della legge, ma proprio questo ulteriormente li ingelosisce. Le loro interrogazioni, comunque, a prescindere dalle loro perverse intenzioni, ci offrono l'occasione propizia di ascoltare le sapienti ed illuminanti risposte del Cristo. Oggi Egli ci informa sul primo e più importante di tutti i comandamenti, quello che tutta la legge contiene e sublìma: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Dio va messo al primo posto, va amato con la migliore intensità possibile, nulla, assolutamente nulla dobbiamo anteporre a quell'amore. E ciò perché Dio è Amore e vuole inabitare in noi e solo amandoLo gli consentiamo di essere e agire in noi santificandoci con la sua grazia. In virtù di questo amore, che ci rende figli e fratelli in Cristo, diventiamo capaci di amare anche il nostro prossimo come noi stessi. Diventiamo capaci soprattutto di superare la schiavitù della legge e conseguire la vera libertà dei figli di Dio. Così formiamo un solo corpo, "Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati ad un solo Spirito". Non dobbiamo però mai dimenticare che noi amiamo con l'amore che Dio stesso ci dona e di conseguenza non possiamo attingere da noi stessi, è Lui la fonte, da Lui dobbiamo attenderci nell'intensità della preghiera, la capacità e la forza di amarlo e di amare il nostro prossimo e noi stessi nel modo giusto. Sappiamo bene infatti quante deviazioni accadono in nome dell'amore quando questo sgorga soltanto dal cuore inquinato dell'uomo...

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22/08/2015 07:21
 
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Quando un popolo è oppresso, o quando un paese è invaso da un altro, esso è per così dire nelle tenebre. L’angoscia di un individuo è una specie di oscurità. Ogni volta che un popolo o un individuo è nel buio, cerca la luce della liberazione spera ardentemente che un giorno verrà la luce.
Quando un popolo cammina nelle tenebre, è portato di solito a dedurre che Dio lo ha abbandonato. È una conclusione sbagliata, perché è stato, invece, il popolo ad abbandonare Dio. Quando il popolo si pente, comincia a ritrovare la retta via: può camminare nella luce e avere speranza.
Qualche volta, questa speranza di luce si localizza su un bambino la cui nascita può dare corpo e vita alla speranza. Per gli abitanti della Palestina settentrionale, l’invasione degli Assiri era stata oscurità e tristezza, ma la profezia di Isaia sulla nascita di un bambino era capace di infondere speranza.
L’annuncio della nascita di questo fanciullo si riferiva ad un futuro re, dotato di una notevole saggezza e prudenza, un guerriero che sarebbe stato ritenuto un eroe dal suo popolo. Con la sua potenza avrebbe riportato la pace e così l’oscurità si sarebbe cambiata in luce.
La cristianità primitiva ha visto in questo bambino portatore di speranza Gesù di Nazaret. Avendo Maria dato alla luce la speranza fatta carne, è onorata come Regina del cielo.
Gesù non fu un guerriero né un eroe. Però, insegnò la sapienza. Si dedicò al popolo. Proclamò una pace che il mondo non può dare. Non fu il tipo di re che il popolo si era immaginato, ma trasformò le tenebre in
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23/08/2015 07:22
 
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don Maurizio Prandi
Il cielo non è muto

E' un brano fortemente drammatico questo del vangelo di Giovanni perché ci presenta il fallimento di Gesù. Siamo al termine di questo cammino cominciato cinque domeniche fa e Gesù è chiamato a fare i conti con chi non se la sente più di seguirlo e lo abbandona, lo lascia, torna alla vita di prima. Gesù ha moltiplicato i pani, la gente lo ha cercato, lo ha seguito; lui è andato a Cafarnao e nella sinagoga ha fatto questo lungo discorso, questa lunga predicazione dove ricordate si autodefinisce il pane disceso dal cielo, e dove afferma che la sua carne è vero cibo e il suo sangue vera bevanda. Qual è l'esito della predicazione di Gesù? Un esito fallimentare, lo abbiamo appena ascoltato: da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui... chissà Gesù cos'ha provato, chissà quali cocci avrà cercato di mettere insieme tra fallimento e delusione, tra tristezza e impotenza. Chissà... forse questi ci avevano già pensato prima e hanno preso la palla al balzo e quando Gesù l'ha detta un po' più grossa, via! Alle volte forse capita: non te la senti più e alla prima occasione buona lasci. Gesù ora si è pienamente rivelato e nel momento in cui chiede adesione a sé trova lo stesso muro di incredulità che avevano eretto prima i giudei; ma qui non si tratta dei Giudei, si tratta dei suoi discepoli. Sono colti da una crisi e molti si allontanano da lui, non camminano più con lui. Specifico questo verbo, camminare, perché nelle scorse settimane, nella varie celebrazioni lo abbiamo scelto come "icona" del credere: la fede come cammino, non come adesione cieca ad un dogma imposto. La parola fede cosa suscita in me? Cosa vuol dire avere fede?
Non so se possono aiutare, ma queste poche righe di don A. Casati forse gettano una piccola luce è il vangelo di oggi ci dice, con una immagine viva, non pallida, che cosa è la fede: la fede è andare, camminare. Noi abbiamo molto impoverito l'immagine della fede, identificandola prevalentemente in un insieme di parole, di dichiarazioni, di proclamazioni. E' una immagine pallida della fede, se la confronto con quella del vangelo che dice: aver fede è andare dietro a Gesù. Non camminavano più con lui i discepoli; quando scrivo queste cose immagino il cammino che abbiamo fatto ieri e che hanno fatto milioni di persone nei secoli e mi dico che si, la fede va misurata non sulle parole, ma sul verbo andare, camminare. Non posso che domandarmi allora: E io? Cammino con Lui? Dove sono rispetto a Lui?


Parto proprio da quello che dicono i discepoli e che sembra essere la ragione dell'arrendersi di tanti: questa parola è dura, chi può ascoltarla? Cosa vuol dire che una parola è dura? La traduzione del termine greco può avere tre significati: dura, pesante, insopportabile. Chi è che mi rivolge parole dure, pesanti insopportabili? Una parola è dura, pesante insopportabile quando? Certamente quando non la comprendo, e mi viene il nervoso, cerco di capire ma proprio non riesco. Faccio una parentesi, e dico le stesse cose che già domenica scorsa accennavo nell'omelia proprio sul verbo capire quando Gesù stesso, nel vangelo, a proposito della perplessità di tanti di fronte alle parabole afferma che non tutti capiscono questa parola e poi rafforza dicendo: chi può capire, capisca..., vi ricordo che la domanda dei discepoli è: questo discorso è duro, chi può capirlo? Qui non è l'invito a capire con la testa, ma con la vita, facendo esperienza. Il verbo che l'evangelista (in questo caso) Matteo metteva in bocca a Gesù significa: aver territorio. E' una cosa che mi piace, e per capire è necessario avere un territorio, avere lo spazio sufficiente, la Parola di Dio è grande e non tutti possono riceverla. Non tutti capiscono, perché non fanno spazio Parola. Chi può fare spazio, lo faccia raccomanda Gesù, perché soltanto così la Parola può farci fare esperienza di Gesù. Quali spazi nella mia vita e per chi sono questi spazi?



Gesù dice una cosa importantissima subito dopo. Dice che la carne non giova a nulla. L'ho sempre intesa come un giudizio morale su tutto ciò che è carnale e quindi legato al piacere corporale e lì metteteci dentro un po' quello che volete; oggi la intendo un po' diversamente, perché Gesù fa un'affermazione che può farci fare un salto di qualità: guardate... la carne non giova a nulla, non serve a nulla, deperisce, è destinata alla morte, ma lo stile di Dio è proprio quello di assumere la condizione di ciò che non conta, non serve, non giova. Il vangelo infatti ci dice che il Verbo si fece carne... ci credo che poi tutti se ne vanno! Gesù dice ai suoi che il vero servizio è assumere la condizione di ciò che non giova a nulla e quindi di chi non conta nulla. Don Daniele Simonazzi diceva che per Gesù, farsi carne, ha voluto dire morire. La condivisione, la carità, è farsi, è diventare come chi non serve a niente è e ci sono delle persone che non servono assolutamente a niente, che sono di troppo o che non producono, che sono fuori di testa o che aspettano soltanto di dare l'ultimo respiro: Gesù assume la loro condizione e allora non ci può essere niente di loro che ci ripugni o che dobbiamo tenere a distanza.



È bellissimo che Gesù dica: le mie parole sono spirito e vita. La parola di Gesù e le tante parole che si fanno oggi. Ci danno il respiro di Dio le parole di Gesù; ieri vi dicevo dei cieli aperti: ecco, ci sono parole che chiudono i cieli, ci sono parole che tolgono il respiro, ci sono parole che chiudono il cuore: all'andata del pellegrinaggio al santuario della Guardia le persone dicevano, ripetendo di cui nessuno ricordava l'autore: ne ha uccisi di più la parola che la spada. Gesù cerca di spiegare che la sua Parola non uccide come alcune parole degli uomini e qui allora si può pensare che la durezza del linguaggio di Gesù sia dovuta al fatto che lo si comprende benissimo! E' duro quel linguaggio perché lo si capisce, eccome! Lo capisco, ma non intendo offrire il mio spazio interiore, il mio territorio a chi si sta offrendo in cibo per me, perché in fondo in fondo, invitando anche me ad offrirmi in cibo fa suonare troppi campanelli d'allarme. Gesù porta i suoi discepoli e anche noi che lo ascoltiamo al dunque: non si può certo misurare, però possiamo lavorarci un po' sopra e cercare di capire se questo capitolo sesto del vangelo di Giovanni è entrato nel nostro cuore. Alla fin fine cosa possiamo dire delle cose che abbiamo ascoltato dal vangelo: che fare la comunione, ovvero mangiare un'azione, una scelta, un gesto di Gesù, dovrebbe portare anche noi a legarci a coloro che non servono a niente entrando nella logica del dono e sottraendoci a quella del profitto... ripeto: naturalmente c'è chi, a questo punto, se ne va!!!



A questo punto, parlando ai discepoli, la svolta! La propongo così come l'ho ascoltata da p. Ermes Ronchi:
Ed ecco la svolta del racconto: Forse volete andarvene anche voi? In Gesù c'è consapevolezza della crisi, ma anche fierezza e sfida, e soprattutto un appello alla libertà: siete liberi, andate o restate, ma scegliete; e seguite quello che sentite dentro! Gesù non ordina quello che devi fare, non impone quello che devi essere, ma ti porta a guardarti dentro: che cosa desideri davvero? Dove va il tuo cuore? Finita la religione delle pratiche esterne e degli obblighi, si apre quella del corpo a corpo con Dio, a tu per tu con la sua vita, fino a diventare una cosa sola con lui.

Sono chiamato anch'io a scegliere di nuovo. E ci aiuta la stupenda risposta di Pietro: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Tu solo: Dio solo. Un inizio bellissimo. Non ho altro di meglio. È davvero l'affare migliore della mia vita. Hai parole: il cielo non è muto, Dio parla e la sua parola crea, ribalta la pietra del sepolcro, vince il gelo, apre strade e incontri, carezze e incendi. Parole di vita: che portano vita ad ogni parte di me. Danno vita al cuore, lo rendono spazioso, ne sciolgono la durezza. Danno vita alla mente, che vive di verità altrimenti si ammala, e di libertà o muore. Danno vita allo spirito: mantengono vivo un pezzetto di Dio dentro di noi, nutrono la nostra parte di cielo. Parole che danno vita anche al corpo, perché in Lui siamo, viviamo e respiriamo: togli il tuo respiro e siamo subito polvere. Parole di vita eterna, che creano cose che meritano di non morire, che regalano eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore

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24/08/2015 07:10
 
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Filippo e Natanaele sono due nuovi discepoli di Gesù. Il primo riceve direttamente la chiamata; il secondo la riceve tramite un suo amico. I due si ritrovano in Gesù. Questo incontro ha rappresentato per loro un’esperienza di fede, un cambiamento nel loro comportamento, una nuova dimensione nel modo di vedere le cose, che li apre ad altre possibilità.
Esso ha rappresentato per loro una rottura con il passato, il penetrare in un nuovo mondo, in un nuovo tragitto di vita, poiché cercare Gesù vuol dire cercare la verità - cercare la luce, cercare Dio -.
“Vieni e vedi”... Entrare nell’intimità di Gesù significa scoprire il suo modo di vivere, vivendo con lui... cioè con gli uomini nostri fratelli. È soltanto nell’esperienza comunitaria, nell’interesse per il modo di vivere degli altri, nel fatto di rimanere e di solidarizzare con gli altri, che noi acquistiamo a poco a poco l’esperienza della nostra fede. “Vedrete il cielo aperto”... Dio si presenta e prende contatto con gli uomini, attraverso Cristo; egli vuole sentirsi vicino agli uomini, ed è tra di loro che ha fissato la sua tenda, nella comunità. Il cielo, in questa prospettiva del Vangelo, viene a noi tramite Cristo. Attraverso la nostra partecipazione, nella misura in cui lo possiamo, alla vita di Dio. Quante cose potremmo vedere e provare se noi seguissimo Gesù
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25/08/2015 07:11
 
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Il ministero apostolico di san Paolo non ha seguito un percorso tranquillo, senza ostacoli, anzi tutto il contrario. L'Apostolo ha dovuto in continuazione affrontare situazioni difficili, di persecuzione, spesso drammatiche. Lo ricorda e lo troviamo nella lettura di oggi quando scrive ai Tessalonicesi: "Dopo aver prima sofferto e subito oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto nel nostro Dio il coraggio di annunziarvi il Vangelo di Dio in mezzo a molte lotte". A Filippi
san Luca lo racconta negli Atti degli apostoli Paolo e i suoi compagni erano stati arrestati, battuti, incarcerati e liberati grazie a un intervento provvidenziale, un terremoto, mentre nella notte Paolo e Sila cantavano inni, ringraziando Dio in questa situazione di persecuzione e di sofferenza.
Chi ha sofferto e subito oltraggi normalmente è scoraggiato, non ha più l'audacia di continuare nella stessa attività pubblica. San Paolo invece dice: "Abbiamo avuto il coraggio di annunziarvi il Vangelo di Dio". Non ha smesso di predicare; arrivato a Tessalonica, subito si è messo di nuovo ad annunciare il Vangelo. Però notiamo che Paolo scrive: "Abbiamo avuto nel nostro Dio il coraggio di annunziarvi il Vangelo". Riconosce che questo atteggiamento umanamente sorprendente è stato un dono di Dio. Paolo è consapevole della propria debolezza, è consapevole di ricevere sempre la forza del Signore. E dal Signore riceve anche la sua integrità morale. In questo brano infatti troviamo due affermazioni: Paolo fa osservare la propria integrità perfetta nel ministero e il suo amore generoso per i Tessalonicesì.
L'integrità perfetta è frutto di una operazione divina che san Paolo chiama "qualificare": "Dio ci ha qualificati per affidare a noi il Vangelo"; non "ci ha trovati degni", come viene tradotto nel lezionario, ma "ci ha resi degni" di affidarci il Vangelo. Dio prova prima di affidare un ministero, prova la persona e per mezzo della prova la migliora, la rende capace di adempiere la missione che egli le affida.
Qualificato da Dio, Paolo è preoccupato di rimanere nelle stesse disposizioni che Dio gli ha dato: "Come Dio ci ha resi degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo", senza pronunciare parole di adulazione, senza pènsieri di cupidigia, con perfetta purezza di intenzioni, con una assenza completa di manovre ambigue: sarebbe indegno del Vangelo.
E d'altra parte Paolo si impegna generosamente, con tutta la sua affettività nel ministero. Non si atteggia a funzionario di Dio, cioè non scompone la sua vita in due settori, uno in cui è funzionario, ministro di Dio, l'altro in cui vive gli affetti personali, le relazioni personali: Paolo si impegna completamente nel suo ministero e la sua affettività non è per niente ostacolata, ma piuttosto sviluppata dallo slancio del suo zelo apostolico. Scrive ai Tessalonicesi: "Potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo, invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura delle proprie creature". L'affettività di Paolo non è soltanto una affettività maschile, ma anche un'affettività materna. Anche nella lettera ai Galati la esprime con parole commoventi, scrivendo che soffre le doglie del parto, finché essi siano di nuovo generati, partoriti in Cristo. "Così affezionati a voi dice ai Tessalonicesi avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari". L'affetto materno è un affetto oblativo quando è autentico, un affetto generoso. E san Paolo lo prova. Non vuol soltanto predicare, dare questo dono di Dio, ma vuole associare al dono di Dio un dono personale, che andrebbe volentieri fino al dono della propria vita. L'Apostolo ci mostra quindi una via di progresso continuo nella santità e nella carità.
La vocazione cristiana è unire sempre santità e carità. L'integrità personale, la perfetta purezza d'intenzione, l'assenza completa di manovre ambigue segnano questa aspirazione alla santità e, d'altra parte, l'impegno generoso di tutta l'affettività rivela che la santità non restringe il cuore, ma lo apre e gli permette di dare tutto per testimoniare la carità di Cristo
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26/08/2015 07:13
 
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Le letture bibliche di questa settimana ci offrono un contrasto continuo tra la descrizione dello spirito farisaico, nel Vangelo, e quella del ministero apostolico nella prima lettera ai Tessalonicesi.
Gesù denunzia con vigore estremo le tendenze farisaiche; Paolo ricorda ai Tessalonicesi il suo comportamento di Apostolo di Cristo.
Poiché Gesù si rivolgeva agli scribi e ai farisei, ebrei, spontaneamente non prendiamo per noi quanto egli dice in proposito, invece dovremmo essere attenti a considerare rivolti anche a noi questi ammonimenti severi, perché, se si trovano nel Vangelo, vuoi dire che sono scritti per la nostra edificazione. Non possiamo pretendere di non avere in noi le tendenze farisaiche; siamo sempre tentati di cercare la nostra soddisfazione, di cercare di essere stimati, onorati; siamo sempre tentati di rimanere superficiali in ciò che facciamo per il Signore, di accontentarci di cose esterne, e non andiamo volentieri dentro di noi, perché ciò richiede uno sforzo penoso.
Quando Gesù rimprovera agli scribi e ai farisei di preoccuparsi soltanto dell'esterno, senza cercare la santità interiore, dobbiamo prenderlo per noi, altrimenti cadiamo esattamente nel difetto farisaico, dicendo: "Queste cose valgono per gli altri, non per noi!".
L'Apostolo Paolo ci mostra come deve essere profondo l'impegno cristiano. E una vita condotta davanti a Dio nella giustizia, nella santità. "Dio stesso è testimone", dice Paolo, "come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti". Paolo sta davanti a Dio così, in questo sforzo di corrispondere pienamente, profondamente, alla esigenza di Dio, che è nello stesso tempo un dono divino.
E nel brano di oggi parla del suo amore paterno per i fedeli. E interessante vedere come, nella stessa lettera, egli esprime prima un amore materno, oblativo, pronto a sacrificare la propria vita per il bene dei figli e poi un amore paterno, che trova la sua caratteristica nell'ambizione paterna. L'amore materno è oblativo; l'amore paterno è ambizioso, cioè vuole che i figli diventino persone veramente mature, con grandi qualità e con grandi attuazioni. Paolo, come fa un padre per i figli, dice: "Abbiamo esortato ciascuno di voi". Non si è accontentato di una predica generica, di discorsi fatti davanti a tutta la comunità; ha esortato ciascuno dei Tessalonicesi, si è preoccupato del caso singolo, ha incoraggiato ciascuno e, quando era utile, ha anche "scongiurato".
Ciò che Paolo desidera è che i suoi cristiani si comportino in maniera degna "di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria", dice. E possiamo osservare che Paolo è preoccupato del rapporto di ciascuno con Dio. Spesso i genitori hanno come ideale di ottenere che i figli si comportino in maniera conforme a un certo codice di vita sociale, le cosiddette "buone maniere". Paolo non si preoccupa di un codice di condotta, ma di una condotta che sia degna di Dio, che permetta un relazione profonda di ciascuno con Dio, un Dio generoso: "Dio vi chiama al suo regno e alla sua gloria", un Dio ambizioso, che ha per noi progetti molto alti: "Il suo regno, la sua gloria", non è roba da poco. E l'Apostolo, consapevole di questa vocazione cristiana, non risparmia nessuno sforzo per condurre i suoi fedeli in questa via: comportarsi in maniera degna di Dio. È un'ambizione paterna profonda e altissima, che manifesta tutta la forza della carità divina.
San Paolo sapeva di avere a disposizione la forza della parola di Dio per ottenere questa trasformazione, e lo dice. I Tessalonicesi hanno accolto la parola di Dio, "che opera in voi che credete". Paolo non pretende che siano i suoi sforzi a ottenere la trasformazione dei cristiani, ma sa che trasmettendo la parola di Dio mette in loro una potenza che opera queste meraviglie
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