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RIFLESSIONI BIBLICHE

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2017 23:42
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31/10/2016 07:04
 
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Il Vangelo è scuola di convivialità. Gesù non vuole impedirci di ricevere persone care: parenti, amici, conoscenti. Ma, nel discorso al suo ospite, egli insiste sulla gratuità del dono. Da coloro che conosciamo bene, che amiamo e che ci riamano, noi abbiamo già la nostra ricompensa: l’affetto e la stima di chi appartiene alla nostra cerchia familiare.
È necessario non dimenticare coloro che ci sono più lontani per distanza o condizione sociale (senza tetto, immigrati, isolati, ecc). Tutti loro, tesi verso di noi, rappresentano l’immagine e la condizione di Cristo. È attraverso il nostro atteggiamento nei loro confronti che saremo giudicati nella “risurrezione dei giusti”. Ed anche qui, in quest’ultima prospettiva, risiede la gratuità. Se dobbiamo tradurre in gesti l’amore verso gli uomini nostri fratelli, non è per guadagnare più tardi una retribuzione; ma è in risposta alla grazia di essere stati accettati e accolti da Dio. In altri termini, il Vangelo di oggi è un richiamo a vivere fin dal presente la vita dell’amore attivo. Più tardi, e fin d’ora, vi è una ricompensa, quella di comportarsi come figli dell’Altissimo, figli di colui che è buono anche nei confronti degli ingrati e dei peccatori.
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01/11/2016 07:22
 
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don Maurizio Prandi
La giusta direzione

Non è banale, credo, cominciare proprio da dove domenica siamo in un certo senso arrivati... cominciare da quel desiderio che Bartimeo aveva di poter vedere. Dico questo perché il verbo vedere è fondamentale nella liturgia di oggi. Nella prima lettura: vidi un angelo... vidi una moltitudine immensa...; nella seconda lettura: saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è...; nel vangelo: Gesù, vedendo le folle, salì sul monte...

Chiedendo allora proprio come Bartimeo di poter vedere ci accostiamo alla Parola di Dio partendo, e perdonerete la ripetizione, da quanto il nostro vescovo Alberto ha proposto durante il ritiro ai preti della Diocesi dieci giorni fa. Proprio perché è necessario saper vedere, come chiesa, come preti, non possiamo sentirci giudici, ma servitori della salvezza... dico questo perché ogni anno, il testo del libro dell'Apocalisse ci interpella con l'immagine splendida di quella moltitudine immensa che nessuno poteva contare... la salvezza è moltitudine ma la salvezza è anche sapere che non è compito nostro contare o stabilire i criteri per poter entrare o stare fuori (d'altronde abbiamo appena ascoltato che la salvezza appartiene a Dio...). Una delle mie condanne ad esempio, (me lo faceva notare una persona amica), è proprio quella del contare, nel senso che rischio di perdere la bellezza e il valore di un incontro perché magari mi perdo a contare chi non è venuto. Questa presunzione di contare, questa volontà di contare... scrive don Angelo Casati ricordando la domanda che veniva fatta a Gesù: "sono pochi quelli che si salvano?". Sono pochi i veri credenti, sono pochi gli onesti, sono pochi i praticanti; il valore di alcune cose non dipende dal numero: cose più semplici magari, come il senso e l'importanza di un incontro, o più sorprendenti, come l'ampiezza del cuore di Dio. L'ampiezza del cuore di Dio ce lo dicono i 144.00, che sappiamo essere un numero simbolico che indica semplicemente la totalità (12 tribù di Israele x 12 apostoli x 1000 che è il numero della totalità massima agli occhi di Dio), l'ampiezza del cuore di Dio ce la dice il sigillo con il quale ognuno a questo punto viene segnato: qualcosa che sappiamo serve per chiudere e custodire qui invece apre all'incontro e il sigillo è dato a ciascuno, ogni vita è meravigliosa, ognuno, come dicevo domenica scorsa, di fronte a Dio ha un nome e un cognome, ognuno, di fronte a Dio, è qualcuno. Che bello: qui si specifica la preziosità di ognuno, pochi versetti dopo c'è la moltitudine, l'immensità! Non solo il sigillo allora, ma anche questa moltitudine immensa ci dice l'ampiezza del cuore di Dio, quello si che non si può misurare fortunatamente!
Quante immagini significative ci presenta la prima lettura: lo stare in piedi dice la partecipazione ad un processo (il linguaggio di Giovanni qui è giuridico) ed il giudice è l'Agnello seduto sul trono. Tutto è carico di misericordia, perché sappiamo bene che il trono è la Croce e l'Agnello è Gesù; come posso aver paura di un giudice crocifisso, come posso aver paura di un giudice ferito, come posso aver paura di un giudice che è morto per me? E poi mi colpisce molto quel davanti, di fronte, è un richiamo, almeno per me al giorno della creazione dell'uomo e della donna, quando Dio disse: voglio fargli un aiuto che gli stia di fronte.
Davanti alla Croce contemplo lo sposo, cioè contemplo chi è capace di dare la sua vita per me, come l'uomo e la donna che per tutta la vita stanno l'uno di fronte all'altra specchiandosi nell'amore reciproco posso provare, senza tremare di paura a specchiarmi in Lui per verificare la mia vita e di fronte al suo dono, con onestà, chiedermi se sono stato capace almeno di sporcarmi un poco le mani.


Ancora due elementi che mi paiono importanti e che traggo dalla riflessione fatta dalle famiglie della Visitazione: la "folla grande" di oggi è universale: "ogni nazione, razza, popolo e lingua". Tale descrizione non indica solamente la partecipazione di tutta l'umanità alla storia della salvezza vissuta e profetizzata in direzione delle genti dai padri ebrei, ma, mi sembra, vuole sottolineare pure la "particolarità" di ogni nazione che entra nel dono di Dio. Dunque, c'è una salvezza che unifica tutto il genere umano, ma che non annulla le particolarità e le diversità, perché come dicevo prima ogni vita è meravigliosa. Mi piace molto la proposta che il libro dell'Apocalisse fa regalandoci questa visione di una umanità unita intorno a Dio e all'Agnello e che propone un grande incontro tra molti e diversi.


Leggo quanto gli ultimi versetti della prima lettura dicono a proposito della grande tribolazione al salmo responsoriale e al vangelo che nella solennità di oggi viene proclamato dalla chiesa: non viene sottolineato qui il fatto che nonostante una vita sporcata dal peccato Dio ci accoglie comunque; non si tratta di una vita sporcata, imbrattata, si tratta di una vita lavata, immersa quotidianamente nella sequela di Gesù. Questo ci dice la prima lettura, questo riprende il salmo che, parlandoci di mani e di cuore, ci parla di una vita segnata da un agire onesto e da una coscienza limpida, trasparente. Quando celebro un battesimo, arrivato al momento delle litanie dei santi, sottolineo proprio questo: la quotidianità chiediamo, durante la celebrazione, l'aiuto dei santi, persone che hanno vissuto pienamente il loro battesimo, la loro immersione mettendo al centro Dio e chi Dio ce lo ha rivelato pienamente: Gesù.


Non è casuale allora che ancora una volta attraverso la seconda lettura ci venga ricordata l'importanza della nostra condizione e del nostro nome: figli (!) e del nome di Dio: Padre (!). Carissimi dice il testo, cioè amati e visto che non si può amare in generale ritorna qui il rapporto personale che Dio desidera avere con ognuno di noi, perché, e ripeto quanto affermato prima: ogni vita è meravigliosa! E poi aggiunge: vedete che è un invito forte a renderci conto del dono che Dio ci fa in questa relazione personale.


Per quello che riguarda il vangelo mi limito ad un accenno partendo ancora una volta dal verbo vedere e legandolo ad un momento di preghiera vissuto insieme ad alcune persone. Ascoltando proprio il brano di vangelo delle Beatitudini, qualcuno ha condiviso questo pensiero: questo brano di Vangelo mi commuove sempre. Pensavo allora questa cosa, che personalmente mi piace: forse queste parole che Gesù ha voluto dare ai suoi discepoli, vengono proprio dalla commozione che Gesù prova vedendo le folle. Per questo ha chiesto ai discepoli di andare con lui sul monte: voleva avere un momento solo con loro per dirgli che aveva visto, in quella folla, poveri in Spirito, ovvero persone così abbandonate da poter contare solamente su Dio e sul suo sostegno; ma aveva visto anche uomini e donne nel pianto, capaci cioè di provare dei sentimenti, capaci di amare; aveva visto persone capaci di farsi carico delle miserie degli altri, o tanto semplici da essere trasparenza di un cuore limpido, altre sommamente miti, ovvero salde nei loro principi ed ideali (seminano serenità, amano e pregano per i propri nemici, testimoniano il vangelo senza fare crociate ma dialogando e cercando un incontro) e incapaci di qualsiasi gesto di violenza o di prevaricazione.


Ha detto ai suoi discepoli che queste persone sono beate... e proprio in questi giorni leggevo in Servizio della Parola qualcosa di affascinante e che bene si inserisce nel cammino che stiamo facendo: beato è colui che marcia nella giusta direzione. Che bello allora per la nostra chiesa, per le nostre comunità potersi dire beate perché camminano nella giusta direzione, poter stare a fianco e fare lo stesso cammino di chi è povero in spirito, di chi piange, di chi è misericordioso, di chi è mite, puro, opera la pace, è perseguitato.




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02/11/2016 08:08
 
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padre Gian Franco Scarpitta
Misericordia e purgatorio

Subito dopo aver esaltato quanti intercedono a buon diritto per noi, soprattutto per i loro meriti e per la maggior gloria conseguita presso il Signore, la Chiesa ci invita a commemorare con fede, accanto ad essi, anche tutti gli altri fratelli che sono naturalmente congedati da noi. Questa giornata è dedicata insomma a tutti i defunti, considerando che, complice il prevalere delle imperfezioni umane, non a tutti i nostri cari viene dato di raggiungere la gloria piena immediatamente dopo il transito da questo mondo. Come pure vi sono coloro che per loro preferenza personale hanno scelto di morire già in questa vita per mezzo dell'illusione di vivere, cioè scegliendo il peccato e rifiutando categoricamente la misericordia di Dio e ora subiscono per conseguenza la retribuzione dell'empio. Cioè l'inferno. Quest'ultima è purtroppo una realtà esistente e non frutto di immaginazione o di artefatti elucubrativi: come esiste una dimensione di gloria e di beatitudine per chi è stato giusto e fedele, così deve esistere anche un fosso di perdizione eterna per quanti hanno scelto di confidare solo nel male nel mistero dell'iniquità. Dio ha destinati tutti alla salvezza e alla vita eterna, ma non pregiudica il libero arbitrio dell'uomo e con esso neppure la possibilità che egli possa decidere di perdere stesso. L'inferno è una dimensione di eterna condanna per quanti, per loro scelta e non per volontà divina, nell'ostinazione del peccato e confidando esclusivamente nella perversione e nell'errore, hanno deliberatamente voluto perdere se stessi e la misericordia di Dio, per quanto grande e onnipotente non può certo imporsi a chi rifiuta espressamente la misericordia. Mi piace pernsare comunque a una frase che una volta mi disse un bravo sacerdote "Dio ti ama sempre e se dovessi andare all'inferno, ti amerà anche lì. Perché a perderti sarai stato solo tu."
Nella fede in un Dio onnipotente amore e misericordia, noi confidiamo tuttavia che fra i nostri defunti nessuno sia precipitato all'inferno. Piuttosto, i nostri cari defunti, se non hanno meritato il premio immediato del paradiso, neppure hanno subito la condanna irreparabile della dannazione eterna: essi probabilmente (Dio solo può saperlo con assoluta certezza) si trovano in una dimensione di purificazione dalle loro imperfezioni terrene; si stanno approssimando un po' per volta al premio della beatitudine e dell'eterna visione del volto di Dio mondando i rimasugli di imperfezione acquisiti durante la vita presente; secondo la promessa di Paolo, stanno raggiungendo la salvezza definitiva come attraverso un fuoco (1 Cor 3, 15). Tutto questo viene spiegato dalla Tradizione della Chiesa con il termine di "purgatorio", che prima ancora di ogni giustificazione esegetica ci ragguaglia della certezza che Dio è misericordia e perdono oltre la nostra immaginazione. Dio consente ai suoi fedeli di espiare le proprie colpe anche al di fuori del loro corpo mortale. Di cosa si tratta se non di un evidente contrassegno dell'amore di Dio nei nostri confronti? Come interpretare quest'ulteriore possibilità di salvezza se non come un atto di misericordia da parte di un Dio la cui pazienza è inverosimilmente infinita e prescinde anche dalla temporalità terrena? Nel purgatorio risiede infatti la prova convincente che la misericordia del Signore valica le ristrettezze del nostro tempo, che la comprensione divina per le insufficienze umane non ha limiti e prescinde dai nostri parametri e dalle nostre misure. Rimediare alle nostre lacune sarebbe cosa impossibile nell'ambito della sola vita terrena e le fragilità umane non consentirebbero di salvarci se dovessimo porre rimedio ai nostri errori nel ristrettissimo spazio di tempo che abbiamo a nostra disposizione; nessuno potrebbe quindi salvarsi nel solo aut - aut inferno - paradiso. Se Dio è davvero amore e misericordia, egli lo è fino all'estremo e non poteva non concederci una dimensione intermedia di purificazione prima dell'ingresso nella gloria. Certo, il purgatorio richiede sconto di pene temporali, esercizio di rinunce e di patimenti, ma sempre la grande disposizione di Dio ha fatto in modo che i nostri defunti traggano sollievo anche nell'esercizio di purificazione: le nostre preghiere e le nostre opere di carità, come pure qualsiasi atto d'amore e nei confronti degli altri, quando applicati ai nostri defunti, ottengono loro una riduzione delle pene temporali e rendono molto più spedito il loro itinerario verso la salvezza. Anche le Messe suffragate per le anime dei nostri cari, nelle quali lo stesso Cristo agisce nel mistero della transustazione del pane e del vino, soni di supporto affinché l'aggravio di pena per loro si riduca notevolmente e possiamo essere certi che in ogni celebrazione eucaristica vi è il vantaggio per le anime di coloro per cui essa viene applicata. La preghiera per la salvezza dei nostri defunti non è mai cosa vana (2Mac 12, 42 - 46) ed è salutare per loro che noi eleviamo a Dio orazioni e penitenze come pure Messe di suffragio; soprattutto nelle opere di carità esercitate con fede e umile disposizione si trova un coefficiente di indubbio aiuto per la purificazione di quanti ci hanno preceduti. Nella preghiera riscontriamo che coloro che noi definiamo morti vivono (o sono chiamati a vivere) la comunione con Colui che ha affrontato la morte per averne ragione e per sconfiggerla definitivamente e di conseguenza entrano nella Vita piena. Non bisogna immaginare le anime dei nostri cari come delle larve o delle ombre vaganti per l'Ade, quali venivano interpretate nell'antichità pagana, ma piuttosto la realtà fondamentale di noi stessi, la nostra reale soggettività che è destinata, al dissolversi del corpo, all'incontro risolutivo con Dio a cui in ogni caso è destinata. Il purgatorio non è di ostacolo a tale relazione comunionale e i nostri suffragi ne favoriscono la realizzazione. L'anima è la parte fondamentale di noi stessi che unita simbioticamente al corpo materiale forma la persona, che a sua volta resta tale anche al momento del trapasso. E' la nostra anima personale, cioè la nostra soggettività, che si eleva all'incontro con Dio. In definitiva, il morire è in realtà un appuntamento con l'Eternità al quale dipende esclusivamente da noi mancare o giungere puntuali. Dio ci attende con pazienza nonostante siano prolungati i nostri ritardi.
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03/11/2016 08:26
 
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Non è facile oggi riconoscere la necessità di convertirsi. L’educazione e la catechesi ce ne danno una prova. Bisogna essere soddisfatti delle proprie azioni e non rimettere in questione né se stessi né gli altri. Perché far sprofondare l’uomo nel dubbio di sé, dal momento che porta già il pesante fardello della vita? Fa male riconoscersi peccatore, rompere con il proprio passato e ripartire in direzione opposta.
Far sì che il fedele riconosca i propri sbagli non è più l’interesse prioritario dei pastori della Chiesa. Nel migliore dei casi, l’invito alla conversione viene lanciato indirettamente, poiché i pastori temono che le chiese vengano disertate ancora di più. Anche nella nostra vita privata, spesso, chiudiamo gli occhi di fronte agli sbagli dei fratelli, perché non vogliamo rischiare di perderli.
L’illusione della non colpevolezza imprigiona anche i cristiani. Ma l’approvare o lo scusare va contro tutta la tradizione biblica, a cominciare dai profeti dell’Antico Testamento fino alla predicazione dell’ultimo apostolo. Ma non è tutto: tale tendenza pastorale non ha un sostegno spirituale realistico né un fondamento nella catechesi. È raro che l’uomo sia felice come quando risponde all’invito alla conversione. “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11). Che cosa potrebbe darci una gioia più profonda del ritorno al Padre che ci ama, che già ci attende e ci offre il suo perdono senza nulla chiederci in cambio?
Se il senso del peccato e della conversione tende a scomparire del tutto dai messaggi pastorali, bisogna cercarne la ragione nella società che ci circonda, che si è allontanata da Dio. Solo chi è toccato dalla maestà e dalla santità di Dio prende coscienza del peccato, in se stesso e negli altri. La conversione diventa allora la sua parola chiave non soltanto perché essa concede agli uomini di pregustare la felicità eterna, ma perché allora Dio esulta di gioia. Quando Gesù parla del “cielo” (Lc 15,7), allude in realtà a Dio. E nella corte celeste (Lc 15,10) si effonde una gioia di cui molti cristiani non sanno conoscere l’intensità e la profondità.
Questo brano di Vangelo è davvero una Buona Novella. Chi non se ne dimentica, non può mai perdere la speranza, in qualunque situazione si trovi. E tale Buona Novella esorterà gli uomini a seguire maggiormente Gesù per annunciare alle pecore smarrite la misericordia del Padre affinché Dio ne abbia gioia.
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04/11/2016 09:18
 
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Un pastore buono è un dono eccellente per la Chiesa, come san Carlo è stato per la Chiesa di Milano e per tutta la Chiesa. Consacrato vescovo a soli 25 anni, questo giovane, vissuto negli agi e negli onori del suo rango, si diede tutto al servizio del suo popolo, profondendo ricchezze e salute, sostenendo fatiche e penitenze estreme, che certamente gli abbreviarono la vita. Propugnò con energia e pazienza l'applicazione del Concilio di Trento, con la costante preoccupazione di formare sacerdoti santi e pieni di zelo.
L'amore di Gesù crocifisso era per lui modello e continuo sprone. "San Carlo è stato detto fu l'uomo della preghiera, delle lacrime, della penitenza intesa non come opera eroica ma come partecipazione misteriosa, appassionata alle sofferenze di Cristo, al suo entrare nel peccato del mondo, fin quasi allo scoppio del cuore e alla divisione dell'animo".
Oggi preghiamo in modo speciale per il nostro papa, vero buon pastore intrepido e noncurante di sé, che moltiplica i viaggi, i discorsi, che accoglie tutti, che annuncia con coraggio e franchezza la verità del Vangelo in ogni circostanza e in ogni punto del mondo.
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05/11/2016 09:02
 
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Le prime parole del Vangelo di oggi ricavano una morale dalla parabola dell’amministratore infedele. Gesù ci chiede di usare bene il denaro e la ricchezza. Il termine stesso “mammona”, un calco greco di origine ebraica, è legato all’idea di “fedele”, “contare su”. Il Signore guarda al nostro fine ultimo. Le ricchezze devono essere usate per “le dimore eterne”. Soltanto allora, come Gesù insegna ai discepoli, la speranza che affidiamo all’iniqua ricchezza produrrà come frutti l’eternità e la fedeltà.
Nei versetti che seguono, vediamo Gesù esigere da noi, nel nostro rapporto con le ricchezze nostre e altrui, che ci prepariamo ai beni eterni e che ne diamo una prima prova nel campo propriamente socio-economico. Una dichiarazione davvero stupefacente sulle labbra del Signore, dato che le cose di questo mondo abitualmente non lo interessano. Qui non predica in alcun modo indifferenza verso il creato: esorta piuttosto a essere integri in ogni occasione.
Così, quando il Signore parla delle vere ricchezze, non vuole cancellare la differenza fra quanto appartiene a me e quanto, invece, appartiene a te. I beni altrui non devono in alcun caso essere loro sottratti. La prospettiva escatologica è ricordata non perché nei nostri rapporti con le ricchezze terrene regni in certo qual modo l’arbitrario, ma perché il denaro può avere sull’uomo un potere fascinatorio. E il Vangelo di oggi in questo senso si rivela estremamente attuale. Il fascino che esercita il possesso materiale ha al giorno d’oggi una forza raramente raggiunta in passato.
Ciò è probabilmente una conseguenza del nostro sistema economico, in cui alla mano d’opera corrisponde un costo preciso in denaro, e in cui si finisce per dare un valore maggiore alle cose materiali che all’attività e al sapere umano. Soltanto la prudenza ci potrà preservare dal pericolo di una nuova schiavitù. Senza contare che tutte le reti televisive, tutti gli altoparlanti spingono gli uomini a cedere a bisogni sempre nuovi e a cercarne soddisfazione con l’acquisto di beni materiali. Tale mercato stimola costantemente le nostre attitudini materialistiche. Una tendenza che, del resto, è confermata da teorie filosofiche tipo il “Sono ciò che possiedo” di Jean-Paul Sartre.
I beni non vengono più subordinati alla persona. L’uomo che li possiede non è più totalmente libero, ma gli oggetti che egli possiede costituiscono il suo essere stesso.
Non ci si deve allora stupire se anche i “grandi” comincino a vacillare. Fino ai governi occidentali, eletti democraticamente, che sono scossi da scandali e corruzione. Il mondo politico conosce sempre arricchimenti disonesti e repentini. E quando il privato perpetra una frode al fisco, ciò viene da molti considerato al massimo un delitto di gente onesta.
“Non potete servire a Dio e a mammona”. I continui errori dell’uomo moderno, che si ripercuotono su scala mondiale, giustificano pienamente l’avvertimento che il Signore ci dà, senza usare mezzi termini, riguardo il denaro. Perché il denaro è così pericoloso? Perché colui che se lo procaccia con successo si ritrova solo, con se stesso e con tutte le preoccupazioni che il suo denaro gli dà. È preoccupato delle porte che il denaro sembra aprirgli; pensa ad assicurazioni e conti in banca; il suo domani gli si presenta al sicuro da ogni problema. Gli piacerebbe poter dire a se stesso: “Hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia” (Lc 12,19). Ma Dio è ormai per lui un’idea priva di ogni importanza. Tutte le preoccupazioni e le gioie della sua esistenza non tengono più conto di Dio.
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06/11/2016 07:21
 
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Commento a cura di Paolo Ricciardi

Non so perché novembre è associato solo al ricordo dei defunti, quando il primo giorno del mese è la festa di tutti i Santi, celebrata qualche giorno fa. Come sempre, noi uomini tendiamo a vedere gli aspetti che ci buttano giù, e la preghiera per i nostri cari diventa un tempo di lutto e basta, di ricordi e di rimpianti, mentre nella fede siamo chiamati ad alzare lo sguardo, per contemplare ciò che ci attende.
E in queste ultime tre domeniche del Tempo ordinario il vangelo di Luca ci presenta Gesù nei suoi ultimi giorni della vita terrena. Giunto a Gerusalemme, meta del suo viaggio, accolto trionfalmente per poi essere rifiutato, il Signore ci invita oggi proprio a guardare al dono della Resurrezione dei morti, contemplando il Dio dei viventi; domenica prossima ci inviterà a fissare lo sguardo sulle ultime realtà; mentre nella Solennità di Cristo Re ci metteremo sotto la croce, sul Calvario, per vedere da vicino l'amore misericordioso di Gesù fino al dono della vita e alla promessa per il buon ladrone: "oggi sarai con me nel paradiso".
Un invito alla Vita, dunque, ad avere uno Sguardo di fede e, mentre il cammino giubilare è agli ultimi giorni, un desiderio di Misericordia che duri per sempre.
Stimolato da una questione sollevata dai sadducei - che, come i farisei, tentano sempre invano di mettere in difficoltà Gesù - il Signore, a pochi giorni dalla sua morte e resurrezione, ci dà un grande insegnamento.
Di fronte ad una storia paradossale - quella della donna data in moglie a sette fratelli - Gesù risponde indicando la resurrezione come uno stato di vita completamente diverso dalla vita terrena. Lì non ci saranno i legami umani, non sarà più necessario il matrimonio, perché saremo legati con tutti dall'amore per il Signore. Se il problema dell'uomo è morire senza discendenza, quindi senza poter lasciare il proprio nome, Gesù risponde che il fine dell'uomo non è essere padre, ma diventare ciò che già siamo: figli della resurrezione e figli di Dio.
Ascoltando questo vangelo sorge però una angosciante domanda: ma allora non vedremo più i nostri cari, non ci riconosceremo? Tranquilli... certo che ci riconosceremo. Saranno i nostri cari a venirci incontro, ad abbracciarci, ad accoglierci e poi, con loro, vedremo, con stupore, che tutti ci saranno cari, conosciuti e sconosciuti, perché tutti illuminati dall'amore di Dio.
Gesù però non si accontenta di affermare la risurrezione, ma aggiunge una argomentazione tratta dall'esperienza di rivelazione che ebbe Mose davanti al Roveto ardente: "Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi".
Dio "di": nella preposizione "di", ripetuta cinque volte, è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio.
Così totale è il legame, che il Signore giunge a qualificarsi non con un nome proprio, ma con il nome di quanti ha amato. L'amore si mostra e si qualifica con il nome degli amati.
Il nome di Dio si intreccia con il nome di uomini, è tutt'uno con il mio nome, anch'io amato per sempre, anch'io appartenente a un Dio vivo.
Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre...
Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste.
Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza.
Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé, da qualificarsi attraverso i nomi di quanti hanno vissuto nella sua amicizia, che "si sono tenuti uniti a lui e lui è stato, e lui è, la loro vita" (cf Dt 30, 20).
Il legame di Dio con me è il punto decisivo, la mia vita è parte della sua. Lui ricorda il mio nome accanto a quello di Isacco, e pronuncia il mio e ogni nome insieme a quello di Gesù, il primo dei risorti; e con ogni singolo uomo ha stretto un patto eterno che san Paolo esprime così: "nulla potrà mai separarci dall'amore di Dio, né morte né vita" (Rm 8, 38-39), nulla al mondo, nulla al di là del mondo, nulla mai.
Dio stesso è la nostra vita, e lui vive di noi, vive di me, poiché l'amato è la vita di chi ama.
La fede nella risurrezione è allora una fede in un amore che conosce molti doveri, ma il primo di questi è di essere vicino, unito, inseparato amore.
Ecco allora la speranza, la luce di grazia che deve ravvivarsi soprattutto in questo mese di novembre: il cammino dell'uomo non va dalla vita verso la morte, ma dalla morte alla Vita. La morte sta dietro, alle spalle, non davanti. "Il re del mondo ci risusciterà a vita nuova ed eterna", afferma con forza uno dei fratelli maccabei, prima di subire il martirio. Sì, sarà così. E davanti a me starà Dio, il Dio dei viventi.
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07/11/2016 07:43
 
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Le diverse parole di questo brano si concatenano sorprendentemente, meglio di quanto sembrerebbe a prima vista.
Scandalizzare significa qui non suscitare negli altri il biasimo ma, al contrario, indurre a confondere il bene e il male, distogliere da ciò che Dio attende e che è il vero bene.
Si comprende allora come provocare la caduta o lo smarrimento del proprio fratello sia ancora più grave che cadere o ingannare se stessi. Si comprende soprattutto l’estrema responsabilità che deriva da questa cosa ammirevole: l’immensa solidarietà umana.
Da un punto di vista generale, statistico, è inevitabile che avvenga lo scandalo. Ma non è mai necessario che io lo provochi e ne sia vittima. L’inevitabile non è una scusa ma una ragione precisa per stare in guardia. Ed è ancora troppo passivo: abbiamo la responsabilità bella e buona, pur senza giudicare, e nell’intento di perdonare senza limiti, di rivelare agli altri il male che seminano intorno a loro. Quale fede non esige ciò dagli uni e dagli altri?
Ma la fede non è una questione di quantità: l’essenziale, è che essa sia, anche in embrione, la nostra fiducia in Cristo, il nostro slancio verso di lui, il nostro desiderio di lui.
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08/11/2016 08:07
 
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Nessuno contesterà il fatto che questa parabola descrive con precisione i rapporti fra gli uomini. Persino l’atteggiamento del padrone è giusto, irreprensibile: un servo, infatti, non è tenuto a servire soltanto provvisoriamente, per qualche ora. Non può mettersi al posto del padrone alla fine della giornata di lavoro. La parabola ci convince, la sua logica è stringente. Eppure ci disgusta: ci rifiutiamo di applicarla a noi stessi. Noi che siamo i discepoli ci aspettiamo, segretamente, un piccolo vantaggio, una ricompensa, che superi un po’ il normale. Speriamo in un trattamento di favore, e ci sembra persino di avere per ciò buone ragioni.
La pertinenza dell’esempio non lascia spazio a contraddizione alcuna: è altrove che dobbiamo cercare. Scopriamo che il Signore ci considera come servi inutili. Il nostro ruolo è allora senza importanza? Si potrebbe fare a meno della nostra persona? Ciò ci sembra troppo grave.
Gesù non esige mai dai suoi discepoli qualcosa che egli non abbia compiuto in prima persona. Egli è stato in mezzo agli uomini “come colui che serve” (Lc 22,27). Ha lavato i piedi ai suoi apostoli, per darci l’esempio (cf. Gv 13,15). Ha annunciato Dio umiliandosi e in tal modo esprime in mezzo ai suoi un amore che arriva fino a noi.
Le parole sull’inutilità del servo ci rivelano le intenzioni e le azioni di Gesù stesso. Egli era talmente colmo della volontà del Padre che la sua “schiavitù” non si dava pensiero alcuno riguardo alla sua importanza o alla ricompensa. L’amore è sempre gratuito: non ha altra finalità al di fuori di se stesso. È orientato verso l’altro, è votato all’abnegazione.
Proprio come la predicazione di Gesù non è centrata su se stesso, ma piuttosto sul Padre che è nei cieli e sul suo regno, come ad esempio nel discorso della montagna. Proprio come egli non appare in quei brani del Nuovo Testamento che proclamano l’amore del Padre per il peccatore: ad esempio, nell’episodio del figliol prodigo, in quello del banchetto nuziale o, ancora, in quello della pecorella smarrita. H. U. von Balthasar, a proposito di tali parabole, scrive: “Il figlio se ne va, si fa servo, finisce per scomparire del tutto fra noi e il Padre”.
“In quel giorno chiederete nel mio nome e io non dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama” (Gv 16,26).
Signore, togli dalla nostra anima ogni residuo del nostro io e colmaci del tuo amore.
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09/11/2016 11:53
 
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Casa di Preghiera San Biagio FMA
Commento su Gv 2, 16

«Non fate della casa del Padre mio un mercato!».

Gv 2, 16

Come vivere questa Parola?

Si avvicinava il tempo di Pasqua e Gesù salì a Gerusalemme; oggi il Vangelo ci invita a contemplare il Cuore di Cristo che desidera pregare nel Santo Tempio, desidera incontrarsi con suo Padre nella preghiera per i suoi fratelli.

Giunto al tempio, non trova gente che cerca Dio, ma gente che fa i propri affari: i mercanti di bestiame per l'offerta dei sacrifici; i cambiamonete, i quali scambiano denaro "impuro" recante l'immagine dell'imperatore con monete approvate dall'autorità religiosa per pagare la tassa annuale del tempio. Allora, il cuore di Gesù, cuore di Figlio, denuncia l'atteggiamento di quelli che hanno trasformato il culto di Dio in commercio. Il culto è diventato il pretesto per fare lucro. Gesù attacca l'istituzione centrale di Israele, il tempio, simbolo del popolo e della sua elezione.

Il gesto di Gesù è un gesto di purificazione, è il richiamo al culto autentico, alla corrispondenza tra liturgia e vita; un richiamo che vale per ogni epoca e anche oggi per noi.

La liturgia non è una cosa strana, lontana, e mentre si celebra io penso a tante cose. C'è una corrispondenza tra la celebrazione liturgica e la mia vita. La Costituzione conciliare "Sacrosanctum Concilium" definisce la liturgia come «la prima e indispensabile fonte alla quale i fedeli possono attingere il vero spirito cristiano»

Il discepolo di Gesù va in chiesa per incontrare il Signore e trovare nella sua grazia, la forza di pensare e agire secondo il Vangelo. Per cui non possiamo illuderci di entrare nella Casa del Signore e "ricoprire", con preghiere e pratiche di devozione, comportamenti contrari alle esigenze della giustizia, dell'onestà o della carità verso il prossimo. Non possiamo sostituire con "omaggi religiosi" quello che è dovuto al prossimo, rimandando una vera conversione.


Gesù, voglio pregare con Te e come Te, infiamma il mio cuore perché con le tue parole, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, io possa rivolgermi il Padre sentendomi a Casa, la Casa della preghiera.


La voce di Papa Francesco

Vi auguro che questa circostanza ravvivi in tutti voi l'amore per la casa di Dio. In essa voi trovate un grande aiuto spirituale. Qui potete sperimentare, ogni volta che lo volete, la potenza rigeneratrice della preghiera personale e della preghiera comunitaria. L'ascolto della Parola di Dio, proclamata nell'assemblea liturgica, vi sostiene nel cammino della vostra vita cristiana. Vi incontrate tra queste mura non come estranei, ma come fratelli, capaci di darsi volentieri la mano, perché accomunati dall'amore per Cristo, fondamento della speranza e dell'impegno di ogni credente. A Lui, Gesù Cristo, Pietra angolare, ci stringiamo fiduciosi in questa Santa Messa, rinnovando il proposito di impegnarci per la purificazione e la pulizia interiore della Chiesa edificio spirituale, di cui ognuno di noi è parte viva in forza del Battesimo.

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10/11/2016 04:58
 
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La domanda che Gesù ha posto ai suoi discepoli, la pone continuamente anche a noi, per impegnarci a contemplarlo più profondamente, ad approfondire il suo mistero: "Voi chi dite che io sia?".
San Leone Magno, divenuto papa nel V secolo, affermò con fede luminosa la divinità di Cristo e la sua umanità: Cristo, Figlio del Dio vivente e figlio di Maria, uomo come noi. Non ha accettato, per esprimerci così, che si abbreviasse il mistero, né in una direzione né nell'altra, e il Concilio di Calcedonia ha cercato una formula che preserva tutta la rivelazione. Dio si è rivelato a noi nel Figlio, e il Figlio è un uomo che è vissuto in mezzo a noi, ha sofferto, è morto, è risorto.
"Dio dice la lettera agli Ebrei aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti". E parlando per mezzo dei profeti Dio aveva fatto desiderare la sua presenza: "Se tu squarciassi i cieli e scendessi!" esclamava Isaia. E Dio è disceso, si è reso presente nel Figlio: "A noi Dio ha parlato per mezzo del Figlio".
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12/11/2016 08:42
 
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Casa di Preghiera San Biagio FMA
Commento su Lc 18,1-2; 7-8

«In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. In una città viveva un giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. [...] E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Lc 18,1-2; 7-8
Come vivere questa Parola?

Oggi, il nostro unico Maestro di preghiera, Gesù, ci suggerisce, quando ci rivolgiamo a Dio, «di pregare sempre, senza stancarci mai». A lungo andare, essendo una preghiera vera, fatta con l'attesa umile, paziente e costante, essa verrà esaudita sicuramente.
A meno che non si cada nella superstizione, accontentandoci di una preghiera magica, superstiziosa, che esige la risposta automatica e istantanea da parte di Dio, con la pretesa di piegarlo alla nostra volontà.
La parabola del vangelo di oggi è molto suggestiva. Una vedova, come poteva essere a quel tempo, senza assistenza, senza sostentamento, sola; di fronte a lei un giudice senza coscienza, che non temeva né Dio né gli uomini. L'abisso tra la preghiera da parte della vedova e l'esaudimento da parte del giudice non poteva essere più grande. La donna si affida alla preghiera contro ogni speranza, non avendo più niente da perdere, mettendovi dentro tutto il suo sconforto e tutta la sua vita. Gesù fa notare che anche fra gli uomini una preghiera così insistente, non può mancare di essere esaudita. A maggior ragione quando è indirizzata a Dio. Se essa non recede, se si affida completamente a lui, gridando verso di lui, instancabilmente, «giorno e notte», allora Dio si china e ascolta questa preghiera.
Tertulliano, nel testo riportato alla fine, che si trova nella sua opera "sulla preghiera" (il primo trattato patristico su questo tema), descrive la preghiera cristiana con alcune pennellate che la caratterizzano e la contraddistinguono dalla "superstizione" pagana (vedi subito qui sotto).
La voce del fondatore della letteratura cristiana occidentale

«Offriamo la nostra preghiera a Dio come ostia a lui gradita e accetta:

offerta con tutto il cuore, nutrita dalla fede,

curata dalla verità, integra per l'innocenza,

pura per la castità, coronata dall'amore,

accompagnata dal corteo delle opere buone»

Tertulliano De oratione 28, 3-4
Don Ferdinando Bergamelli SDB
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13/11/2016 09:09
 
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I discepoli ammirano l’architettura del tempio. Gli occhi di Gesù si spingono più in là: egli vede la distruzione di Gerusalemme, i cataclismi naturali, i segni dal cielo, le persecuzioni della Chiesa e l’apparizione di falsi profeti. Sono manifestazioni della decomposizione del vecchio mondo segnato dal peccato e dalle doglie del parto di nuovi cieli e di una terra nuova. In tutte le pressioni e le estorsioni esercitate sulla Chiesa, noi non dovremmo vedere qualche cupa tragedia, perché esse purificano la nostra fede e confortano la nostra speranza. Esse sono altrettante occasioni per testimoniare Cristo. Altrimenti il mondo non conoscerebbe il suo Vangelo né la forza del suo amore. Ma un pericolo più grande incombe su di noi: si tratta dei falsi profeti che si fanno passare per Cristo o che parlano in suo nome. Approfittando delle inquietudini e dei rivolgimenti causati dalla storia, i falsi profeti guadagnano alle loro ideologie, alle loro idee pseudo-scientifiche sul mondo e alle loro pseudo-religioni. La vera venuta di Cristo sarà invece così evidente che nessuno ne dubiterà. Gesù incoraggia i suoi discepoli di ogni tempo a rimanere al suo fianco sino alla fine. Egli trasformerà tutte le infelicità, tutti i fallimenti e persino la morte del martire in risurrezione gloriosa e in adorazione.
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15/11/2016 08:35
 
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Perché Gesù cerca Zaccheo? Perché una tale provocazione, e perché correre un tale rischio?
Tutti, dall’uomo della strada al notabile, sanno che vi sono cose che non si fanno perché esiste una legge di purezza, che è mortalmente pericoloso infrangere. Fermarsi da Zaccheo, per esempio, capo degli esattori delle tasse. Che Gesù rinnovi questo genere di infrazioni e sarà la morte.
Allora perché?
Perché l’etichetta incollata su Zaccheo impedisce alla gente di vedere chi è veramente questo piccolo uomo appollaiato sul suo albero, tutto contento di vedere Gesù, Zaccheo, anche lui un figlio di Abramo. Perché è proprio il fatto che quest’uomo sia considerato come impuro, cioè perduto, che fa scaturire la misericordia di Dio, il quale guarda al cuore e non alle apparenze.
Perché questa visita di Gesù nella casa di Zaccheo è la realizzazione esemplare del nuovo comportamento che ci è proposto e che, sulla scia della croce, restituisce ad ogni uomo la sua identità di figlio di Dio
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16/11/2016 09:15
 
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Il brano del vangelo di oggi costituisce la conclusione del racconto del viaggio, che nel terzo Vangelo occupa ben dieci capitoli.
Durante il cammino che lo conduce a Gerusalemme, il Signore insegna ai suoi discepoli come devono vivere e agire per compiere la volontà di Dio. Le sue istruzioni assumono il valore di un testamento: esse sono tutte pregne della gravità di colui che sa che la sua fine è ormai prossima: Gerusalemme vorrà la sua morte.
Tutta l’importanza dell’insegnamento di Gesù si trova riassunta nella parabola di oggi, rinforzata dall’annuncio della caduta della città e della minaccia che ne verrà ai suoi discepoli (Lc 19,27)
Può sembrare strano, allora, che Gesù non accenni nemmeno a esortare a resistere e a opporsi. Questa situazione rischiosa non deve spingerci a rinchiudere l’eredità dell’insegnamento e della salvezza che Gesù ci ha lasciato in un forziere: ad archiviare il tutto come se si trattasse di un mero documento storico, almeno fino al ritorno (cf. Lc 19,15) del Re dell’Universo. Ciò stupisce ancora di più perché la prima comunità cristiana di Gerusalemme, che ha conservato questa parabola, si aspettava che il ritorno trionfale del Signore seguisse di poco la risurrezione di Gesù, con il pericolo di cadere nella tentazione dell’ultimo servo: non affrontare alcun rischio, ma tenere riposta la “mina” in un fazzoletto (cf. Lc 19,20).
Ma al Vangelo è estranea ogni mentalità del barricarsi. Lo Spirito di Dio, scendendo sulla terra, spalanca le porte alla folla impaurita. Il cristianesimo, se è ben compreso, è caratterizzato dall’apostolato e dalla missione. Nessuno è cristiano per salvare soltanto se stesso. E colui che è abitato da Cristo non tiene certo alla salvezza soltanto di se stesso! Il suo regno lo spinge all’azione. Il suo cuore è pieno di gioia e di gratitudine per il dono prezioso della vita eterna. Allora, non può impedirsi di parlare: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). E nessuno deve impedirlo! La mentalità ristretta dei funzionari che hanno paura di perdere il posto non trova spazio nel Vangelo.
Per essere testimoni e per diffondere il Vangelo, non c’è alcun bisogno di studi e di diplomi. I soli criteri sono l’autenticità e la fedeltà al lieto messaggio.
La nuova evangelizzazione dell’Europa non è un’invenzione di papa Giovanni Paolo II. Con tale impulso, il papa non fa che rispondere alla desolazione della incredulità, che irretisce un gran numero di uomini. Questo, del resto, è il dovere di ogni battezzato, se, al ritorno di Cristo, non vuole sentirsi dire: “Servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato [...]. Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci” (Lc 19,22-25).
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17/11/2016 08:43
 
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Casa di Preghiera San Biagio FMA
Commento su Lc. 19, 41-44

" Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

Lc. 19, 41-44

Come vivere questa Parola?

Le lacrime impotenti di Gesù, figura della sua morte, esprimono la potenza di un amore senza limiti. L'amore muore perché non è amato. Il pianto di Gesù rivela il mistero più grande di Dio: la sua passione per noi! Quel popolo amato, quella città santa che, per la durezza del suo cuore, per la presunzione della sua mente e per l'orgoglio della sua vita, non l'ha riconosciuto! E Dio, di fronte alla nostra libertà, alle nostre scelte, si ferma e l'unica cosa che può fare è piangere! Il pianto esprime l'impotenza davanti al rifiuto, ma rivela pure la grandezza di un amore fedele anche nell'infedeltà! Dentro questo amore, fedele fino "alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8), il cuore intuisce la luce della Speranza e della Misericordia, l'unica che riesce a sconfiggere la durezza del nostro male e del nostro peccato.


Aiuta anche noi Signore a saper piangere!


La voce del Papa


"Cari ragazzi e ragazze, al mondo di oggi manca il pianto! Piangono gli emarginati, piangono quelli che sono messi da parte, piangono i disprezzati, ma quelli che facciamo una vita più meno senza necessità non sappiamo piangere. Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime. Invito ciascuno di voi a domandarsi: io ho imparato a piangere? Quando vedo un bambino affamato, un bambino drogato per la strada, un bambino senza casa, un bambino abbandonato, un bambino abusato, un bambino usato come schiavo per la società? O il mio è il pianto capriccioso di chi piange perché vorrebbe avere qualcosa di più? Questa è la prima cosa che vorrei dirvi: impariamo a piangere, come lei [Jun] ci ha insegnato oggi. Non dimentichiamo questa testimonianza. La grande domanda: "perché i bambini soffrono?", l'ha fatta piangendo e la grande risposta che possiamo dare tutti noi è imparare a piangere (...). Se voi non imparate a piangere non siete buoni cristiani. E questa è una sfida (...). Siate coraggiosi, non abbiate paura di piangere!"

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18/11/2016 09:41
 
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Da una parte Dio, la vita in un impegno contemplativo e creatore, il dono, la condivisione dei beni, l’azione di grazie.
Dall’altra Mammona, il prestigio, il possesso, il profitto, il gusto del potere, vale a dire la morte.
Allora, come essere certi di scegliere con chiarezza, come sfuggire a questa confusione ingannatrice che intesse nel quotidiano i termini di questa unica alternativa?
Come cacciare i mercanti dai templi dello Spirito che siamo noi stessi?
Ma queste domande inquiete, non sono forse proprio l’indizio che Cristo è all’opera con il potere che appartiene a lui solo, quello di ristabilire una capacità di preghiera in coloro che si sanno abitati dal suo Spirito, di generare la violenza pacifica in quelli che vogliono impadronirsi del suo Regno?
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19/11/2016 08:30
 
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A volte si pensa di poter confondere gli avversari con delle domande-trabocchetto. Ma ci si dimentica che formuliamo queste domande secondo la nostra logica e la nostra visione del mondo, senza tener conto che esistono altri punti di vista e altre prospettive di vita. Possiamo dimenticare, ad esempio, che la nostra esistenza attuale non è che una tappa provvisoria e che la vita di risorti nel Regno si svolgerà secondo norme completamente diverse. È forse per questo che le Scritture si mostrano così discrete sulla natura di questa vita futura?
Ma, se Cristo, alla vigilia di entrare nel mistero pasquale, ci dice che Dio è il Dio dei vivi, è per chiederci di avere qui la massima fiducia in lui e di allargare la nostra riflessione e il nostro cuore alla dimensione di quella realtà completamente diversa che è la nostra risurrezione.
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20/11/2016 07:18
 
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padre Ermes Ronchi
La storia del re che morì amando, all'inverosimile

Se sei il Cristo, salva te stesso! Sono scandalizzati gli uomini religiosi: che Dio è questo che lascia morire il suo Messia?
Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: se sei il re, usa la forza! Salvati. C'è forse qualcosa che vale più della vita? Ebbene sì, risponde la narrazione della Croce, qualcosa vale di più, l'amore vale più della vita. E appare un re che muore ostinatamente amando; giustiziato, ma non vinto; che noi possiamo rifiutare, ma che non ci rifiuterà mai. E la risurrezione è il sigillo che un amore così non andrà mai perduto.
Un malfattore appeso alla croce gli chiede di non essere dimenticato e lui lo prende con sé. In quel bandito raggiunge tutti noi, consacrando - in un malfattore - la dignità di ogni persona umana: nella sua decadenza, nel suo limite più basso, l'uomo è sempre amabile per Dio. Proprio di Dio è amare perfino l'inamabile. Non ha meriti da vantare il ladro. Ma Dio non guarda al peccato o al merito, il suo sguardo si posa sulla sofferenza e sul bisogno, come un padre o una madre guardano solo al dolore e alle necessità del figlio.
Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. E Gesù non solo si ricorda, fa molto di più: lo porta con sé, se lo carica sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta, lo riporta a casa: sarai con me! E mentre la logica della nostra storia sembra avanzare per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio è la terra nuova che avanza per inclusioni, per abbracci, per accoglienza.
Ricordati di me prega il peccatore, sarai con me risponde l'amore. Sintesi estrema di tutte le possibili preghiere.
Ricordati di me, prega la paura, sarai con me, risponde l'amore. Non solo il ricordo, ma l'abbraccio che stringe e unisce e non lascia cadere mai: con me, per sempre. Le ultime parole di Cristo sulla croce sono tre parole regali, tre editti imperiali: oggi-con me-paradiso.
Oggi: adesso, subito; ecco l'amore che ha sempre fretta; ecco l'istante che si apre sull'eterno, e l'eterno che si insinua nell'istante.
Con me: mentre la nostra storia di conflitti si chiude in muri, frontiere e respingimenti, il Regno di Dio germoglia in condivisioni e accoglimenti.
Nel paradiso: quel luogo che brucia gli occhi del desiderio, quel luogo immenso e felice che «solo amore e luce ha per confine».
E se il primo che entra in paradiso è quest'uomo dalla vita sbagliata, allora non c'è nulla e nessuno di definitivamente perduto, nessuno è senza speranza. Le braccia del re-crocifisso resteranno spalancate per sempre, per tutti quelli che riconoscono Gesù come compagno d'amore e di pena, qualunque sia il loro passato: è questa la Buona Notizia di Gesù Cristo.
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21/11/2016 07:21
 
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Oggi contempliamo una bambina che si dà completamente al Signore.
La Chiesa ha capito che l'atteggiamento di Maria all'annunciazione non era una improvvisazione e che nella sua anima l'offerta andava preparandosi da tempo, si era già progressivamente realizzata. E commovente vedere una bambina attirata dalla santità di Dio, che vuoi darsi a Dio, una bambina che capisce che l'opera di Dio è importante, che bisogna mettersi al servizio di Dio, ciascuno con le proprie capacità, aprirsi a Dio; una bambina che capisce che non si può compiere l'opera di Dio senza essere santificati da lui, senza essere consacrati da lui, perché non è possibile neppure conoscere la volontà di Dio, se il peso della carne ci chiude gli occhi.
Maria realizzava quello che san Paolo più tardi proporrà come ideale dei cristiani: offrire se stessi:
"Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio... Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio" (cfr. Rm 12,12).
Cerchiamo allora di comprendere più profondamente le condizioni dell'offerta. Lo facciamo tenendo presente il canto del Magnificat, perché è chiaro che nessun Vangelo può corrispondere esattamente alla festa di oggi, che non è riportata in nessuna pagina della Bibbia: l'offerta di Maria bambina non è un avvenimento che abbia attirato l'attenzione e sia stato registrato. Scegliere il Magnificat non è un anacronismo, perché esso esprime i sentimenti che si sono formati nell'anima di Maria ben prima del giorno della visitazione, sentimenti di fondo che sono proprio la base della sua offerta:
già della sua offerta di bambina, poi della sua offerta all'annunciazione e infine della sua offerta sul Calvario. Tutto parla del riconoscimento dei doni di Dio. Prima dell'offerta c'è sempre il dono di Dio e il riconoscimento di questo dono. "Ha guardato l'umiltà (la povertà, l'insignificanza) della sua serva... Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente... Di generazione in generazione si stende la sua misericordia": è proprio la scoperta dell'amore di Dio che fa pensare all'offerta, è la riconoscenza che suscita il bisogno di offrire. L'offerta, ripeto, è sempre una risposta al dono che ci è stato fatto:
Dio ci previene con il suo amore e noi diamo a lui ciò che egli ci ha dato. San Paolo lo dice nello stesso capitolo della lettera ai Romani: "Abbiamo doni diversi, secondo la grazia data a ciascuno di noi" e la nostra offerta non può che consistere nei doni che abbiamo ricevuto, che noi riconosciamo come doni gratuiti, che non ci erano dovuti e attraverso i quali noi vediamo l'amore del Signore.
E proprio per questa ragione, riconoscendo il suo amore, noi li mettiamo a sua disposizione, come offerta riconoscente.
D'altra parte l'offerta ha anche l'aspetto di una preghiera di domanda, ed è buona cosa rendercene conto. Offrire a Dio è sempre domandargli di trasformare i doni che portiamo a lui, di santificarli. Lui solo li può santificare, lui solo può consacrare; noi possiamo "presentare", proprio come dice la festa di oggi: "Presentazione di Maria al Tempio".
San Paolo non dice diversamente. Egli ci esorta a offrire i nostri corpi, a presentarli in offerta, ma la trasformazione è Dio che la opera e presentando noi gli domandiamo di rendere perfetto quello che gli offriamo e che per quanto ci riguarda è sovente pieno di imperfezioni.
Gli domandiamo di trasformare le povere realtà terrestri che gli presentiamo, questi doni umani che vengono dalla sua creazione, che hanno bisogno di essere trasformati per servire alla comunione con lui.
E, dato che la nostra offerta è in fondo sempre una preghiera di domanda, possiamo offrire tutto, anche quello che ci sembra completamente inutilizzabile nella nostra vita: i fardelli che ci pesano, che sentiamo come un ostacolo, le difficoltà, le sofferenze che in un certo senso sono assurde. Cristo crocifisso ci insegna che possiamo presentare a Dio tutto, perché tutto sia trasformato e che proprio le cose che sembrano più inutilizzabili sono state trasformate nel modo più meraviglioso. Niente era più inutilizzabile di una croce, patibolo dei malfattori, e tuttavia è sulla croce che si è realizzata la trasformazione capitale, che ha creato una nuova terra e ha fatto sì che l'amore di Dio riempisse tutte le cose.
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22/11/2016 08:01
 
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Riccardo Ripoli
Per creare ordine ci vuole il disordine

Non resterà pietra su pietra che non venga distrutta

Spesso mi domando perché c'è una fase della vita, l'adolescenza, in cui Dio ci ha programmati per essere ribelli, andare contro corrente, osteggiare le cose più palesi, rifiutare tutto ed il contrario di tutto. Credo che il motivo stia nel fatto che nulla si crea, nulla si trasforma senza una dolorosa e difficile trasformazione. Guardate il bruco che diventa farfalla, il pulcino che deve uscire dall'uovo. Così è per l'uomo in tutta la sua vita. Quante pene d'amore per conquistare la persona amata, che fatica per mantenere in piedi un buon rapporto, una famiglia, un lavoro, un cliente. Per far crescere un popolo occorre spesso una rivoluzione, talvolta fatta con le armi, altre volte solo ideologica. Fa parte del nostro essere, fa parte di noi. Così per chi crede è naturale che la morte sia parte della vita, l'atto finale, la prova più difficile da superare. Pensate quale soddisfazione per un adolescente che entri nel mondo degli adulti dopo aver capito i propri errori, quanta esperienza e quanta forza ha acquisito, o che gioia nel poter godere dell'amore dell'uomo o della donna faticosamente conquistato, quanta soddisfazione nel guardarsi indietro e poter vedere di aver costruito qualcosa di buono da lasciare ai propri cari, al mondo intero. Se così è durante la nostra vita, a maggior ragione deve necessariamente esserlo alla fine della nostra esistenza. Tribolazioni, pene, preoccupazioni, dolori, tragedie non possono essere fini a sé stesse, ma segnano un passaggio, un momento di grande difficoltà per raggiungere una vita migliore. La distruzione del nostro corpo non può e non deve essere fine a sé stessa. Anche gli amici atei che non credono nel Paradiso dopo la morte possono avere una loro eternità, dopo la vita su questa terra, nella memoria e nel ricordo delle persone alle quali hanno fatto del bene che le ricorderanno per sempre, tramandandone lo spirito, i valori ed i principi.
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23/11/2016 08:48
 
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Questo brano di Vangelo espone alcune delle questioni fondamentali della vita: la salvezza, le persecuzioni, la fine dei tempi. Quando avverrà tutto ciò? Questi interrogativi, sempre presenti, sono l’espressione del nostro smarrimento di fronte alla vita. Perciò desideriamo conoscere, scoprire il senso del nostro passato e del nostro futuro. In questo modo cerchiamo di superare la nostra disperazione, la nostra paura di fronte alla fine dei tempi, di fronte a tutte le sofferenze che vengono elencate in questo brano. Tuttavia spesso la nostra fede nella potenza di Dio vacilla.
Ma tutti i tormenti, tutte le persecuzioni sopportate per la gloria di Dio sono per noi altrettante occasioni di testimoniare la potenza del Redentore e l’Amore di Dio!
Il Vangelo non ci fornisce soluzioni pronte per i nostri problemi. Esso ci ricorda soltanto che è importante perseverare e restare radicati nella verità di Gesù Cristo. Durante la nostra vita terrena, siamo portati a subire tentazioni, a soffrire pene, dispiaceri, incomprensioni, crisi di disperazione di ogni specie al punto che la vita ci può sembrare vuota e priva di significato.
Ma per quanto dolorose e vane possano sembrare le cose terrene e la vita, la vittoria sulla rovina definitiva, eterna e assoluta è nelle mani di Cristo (Lc 21,8-9).
I discepoli e i fedeli di Cristo, quelli che hanno fondato e costruito la loro vita sulla Parola di Dio, possono far fronte a tutte le persecuzioni e trionfare su di esse, stimolati e fortificati dalla grazia di Nostro Signore. Di conseguenza, noi che crediamo in Dio, dobbiamo salvaguardare i valori umani che il mondo spesso calpesta. È nostro dovere proteggere questi valori e la dignità dell’uomo, perché è nostro fratello in Cristo.
In mezzo al mondo che disprezza e irride i valori sacri dell’uomo e di Dio, dobbiamo difenderli e continuare a praticarli.
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24/11/2016 08:33
 
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Nella regione del Tonchino, Annam e Cocincina – ora Vietnam – ad opera di intrepidi missionari, risuonò per la prima volta nel sec. XVI la parola del Vangelo. Il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell’Oriente. Dal 1625 al 1886, salvo rari periodi di quiete, infuriò una violenza persecuzione con la quale gli imperatori e i mandarini misero in atto ogni genere di astuzie e di perfidie per stroncare la tenera piantagione della Chiesa. Il totale delle vittime, nel corso di tre secoli, ammonta a circa 130.000. La crudeltà dei carnefici, non piegò l’invitta costanza dei confessori della fede: decapitati, crocifissi, strangolati, segati, squartati, sottoposti a inenarrabili torture nel carcere e nelle miniere fecero rifulgere la gloria del Signore, «che rivela nei deboli la sua potenza e dona agli inermi la forza del martirio» (M.R., prefazio dei martiri). Giovanni Paolo II, la domenica 19 giugno 1988, accomunò nell’aureola dei santi una schiera di 117 martiri di varia nazionalità, condizione sociale ed ecclesiale: sacerdoti, seminaristi, catechisti, semplici laici fra cui una mamma e diversi padri di famiglia, soldati, contadini, artigiani, pescatori. Un nome viene segnalato: Andrea Dung-Lac, presbitero, martirizzato nel 1839 e beatificato nel 1900 anno giubilare della redenzione da Leone XIII. Il 24 novembre è il giorno del martirio di alcuni di questi santi.
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24/11/2016 08:34
 
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Casa di Preghiera San Biagio FMA
Commento su Ap 19,9

«Beati gli invitati al banchetto di nozze dell'Agnello!»

Ap 19,9

Come vivere questa Parola?

Non ci sono esclusi a questo banchetto di nozze! Lo sappiamo bene: nel vangelo un paio di volte abbiamo una parabola di Gesù che parla di un banchetto di nozze. Chi è escluso, lo è perché ha scelto di esserlo, rifiutando l'invito, non accettando le condizioni dell'invito. Questo banchetto è per tutti, senza distinzioni.

Giovanni riceve dall'angelo l'invito a scrivere questa beatitudine, dopo aver sentito dalla sua voce che Babilonia la grande è caduta. In altre parole, l'angelo conferma a Giovanni che la morte è sconfitta, che il bene è più forte del male e gli fa udire la folla dei salvati che canta alleluia. Nei momenti di persecuzione e di difficoltà è importante non dimenticare che il male non può più prevalere ora, che comunque si presenti, la sua aggressività non può togliere la certezza della vita per sempre in Dio.

L' immagine del banchetto rappresenta bene la chiesa, la comunità dei credenti che amano Dio e il figlio suo Gesù Cristo. I credenti si riuniscono per mangiare, per celebrare la nuova alleanza con Dio, per condividere le fatiche e le soddisfazioni di vivere per il Vangelo. Per resistere nelle persecuzioni, nella tentazione.


Signore, questa beatitudine ci dia la forza di sostenere i cristiani perseguitati nel mondo e dia loro la certezza di non essere soli, né inutili. Che la comunione con te ripaghi ogni sofferenza.


La voce di una mistica

Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile.

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25/11/2016 08:32
 
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Due riflessioni di carattere apocalittico costituiscono questo testo: una parabola sui segni premonitori della fine dei tempi (Lc 21,29-31), e una sentenza enigmatica sulla venuta prossima del regno di Dio (Lc 21,-32-33).
Come il germogliare degli alberi in primavera, gli eventi evocati da Luca nel capitolo 21 del suo Vangelo sono segni premonitori della fine del mondo: guerre, persecuzioni dei credenti, terrore e morte (Lc 21,26-27).
Una lettura attenta e approfondita ci permette di scoprire il segno della fine iscritto nella natura stessa dell’uomo. La vita dell’essere umano è un movimento che, da una parte va verso una comprensione e una scoperta sempre più grande del mondo, dall’altra va verso la morte e la sua disparizione.
La morte e la risurrezione di Cristo ci fanno comprendere che la vita umana e terrena va silenziosamente verso la sua rovina ed è precisamente dopo la morte di Cristo che rifulge il messaggio di una vita nuova in Dio, che si manifesta in maniera luminosa a Pasqua e che ci dà la gioia di vivere. Il segno della croce di Cristo è il segno dell’amore di Dio per l’uomo e della salvezza che gli viene accordata. Tutta la vita dell’uomo è circondata da misteri divini fondamentali. E oggi, che il nostro mondo si rivela in cattivo stato, la fiamma della speranza in Gesù Cristo - che ci ha salvato morendo sulla croce - deve continuare a brillare nei nostri cuori.
L’amore di Dio è più forte della morte! Dio non ci dimenticherà al momento della nostra morte. Egli ci promette la felicità che non avrà mai fine.
In questo mondo tutto passa come i fiori di primavera. Così avviene anche dell’uomo. Questo ci procura afflizione, ma la risurrezione di Gesù ci dà una speranza nuova: quella della vita eterna in Dio.
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26/11/2016 08:46
 
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Le parole di Gesù ci chiedono di essere pronti e vigilanti: l’ultimo giorno è vicino. Dunque bisogna prepararsi ad esso.
Questo avvertimento ci ricorda che esiste la Verità e che la nostra vita ha un senso profondo. Questa Verità è precisamente nostro Signore, che dà un fondamento alla nostra esistenza e che con la sua grazia illumina il nostro essere interiore. È a motivo di questo dono e del suo appello che è necessario che rimaniamo pronti e vigilanti.
Per questa ragione, il dovere della vigilanza è un imperativo primordiale in vista del mondo futuro. Ogni uomo ha il dovere di preoccuparsi della sua vita personale, in modo che la morte non lo colga in stato di peccato mortale. L’avvertimento, l’esortazione che costituisce questo brano di Vangelo si applica anche alla nostra situazione presente, all’importanza, al significato e al valore del tempo che viviamo.
Per comprendere nel modo giusto la fine del mondo, è necessario che non perdiamo di vista questo: il regno di Dio (il regno di Gesù) arriverà domani e la prossimità della sua venuta comporta un sovrappiù di tentazioni e un combattimento più grande; ma essa ci porta nello stesso tempo la speranza di avere parte alla risurrezione di Cristo. Nella nostra esistenza quaggiù, siamo simultaneamente portatori di segni di morte e di risurrezione. Per questo dobbiamo essere attenti alla parola di Gesù e impregnare di essa la nostra esistenza per non correre il rischio di essere condannati al momento del giudizio finale.
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28/11/2016 09:20
 
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Colui che sta per venire non deluderà la nostra attesa? La storia del centurione romano ci assicura in proposito. Colui che viene è un “salvatore”: questo significa il suo nome “Gesù”; questa è la ragione della sua venuta fra noi, della sua Incarnazione.
Il centurione non ha chiesto esplicitamente la guarigione del suo servo. Si è limitato ad un appello disperato e, insieme, confidente. Gesù non può restare insensibile. Subito gli comunica la sua decisione: “Io verrò e lo curerò”. Allora il centurione mostra un bel senso di rispetto, cosciente della sua indegnità: “Signore, io non son degno...”. Come avrebbe reagito all’annuncio del mistero eucaristico in cui il Salvatore viene in noi e non soltanto a casa nostra? L’atteggiamento di rispetto e di umiltà di questo pagano sono così belli che la Chiesa ci fa ripetere il grido del suo cuore nel momento della comunione.
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29/11/2016 07:16
 
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Quando coloro che credono di poter risolvere tutti i problemi e rispondere a tutti i “perché” dell’uomo con la sola forza della ragione, facendo un atto di suprema intelligenza, piegano la mente di fronte alla Mente Suprema che è il Logos, il Verbo di Dio, essi penetrano in una dimensione spirituale in cui si partecipa della luce divina che arricchisce la stessa mente umana.
Non è possibile conoscere il Padre, andare al Padre, se non si passa per Gesù. Ora, fra le sue parole ce n’è una in cui si coglie il cuore del suo insegnamento e si ha in mano la chiave della salvezza, perché è su quella che saremo giudicati: “Qualunque cosa avete fatto al più piccolo l’avete fatta a me” (Mt 25,40).
Egli si nasconde sotto le spoglie di ogni nostro prossimo, che diviene così - come Gesù - via per andare al Padre, per conoscere il Padre. È così semplice da essere quasi incredibile: per arrivare a Dio, passare per l’uomo con tutte le implicazioni che la vita personale e sociale comporta.
È così semplice che Gesù ha voluto avvertirci. È una verità, egli ci dice, che solo i semplici afferrano, i piccoli.
E con ciò la strada è aperta veramente per tutti, anche per gli adulti, gli anziani, i sapienti, i furbi, se sanno farsi piccoli, accantonando per un momento tutta la loro scienza ed esperienza di vita, per mettersi all’ascolto del Signore, e vivere la sua parola.
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30/11/2016 09:39
 
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Oggi celebriamo la festa dell'Apostolo Andrea, fratello di Simon Pietro e amico di Giovanni e di Giacomo. Il Vangelo ci narra come Andrea ha ascoltato la parola di Dio che gli era rivolta: ""Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono". E questa adesione pronta che ha permesso agli Apostoli di diffondere la parola, la "buona notizia" della salvezza. La fede viene dall'ascolto e ciò che si ascolta è la parola di Cristo, che anche oggi la Chiesa diffonde fino alle estremità della terra.
Siamo dunque sollecitati ad ascoltare la parola, ad accoglierla nel cuore. Essa è un rimedio salutare. E una parola esigente, ed è questo il motivo per cui facilmente vorremmo chiudere le orecchie a Dio che ci parla: capiamo che l'ascolto avrà delle conseguenze. Dobbiamo pensare che la parola di Dio è davvero un rimedio, che se qualche volta ci fa soffrire è per il nostro bene, per prepararci a ricevere i doni del Signore.
Ma la parola non è solo un rimedio, è un cibo, il cibo indispensabile per l'anima. E detto nei profeti che Dio metterà nel mondo una fame, non fame di pane, ma di ascoltare la sua parola. E di questa fame che abbiamo bisogno, perché ci fa continuamente cercare e accogliere la parola di Dio, sapendo che essa ci deve nutrire per tutta la vita. Niente nella vita può avere consistenza, niente può veramente soddisfarci se non è nutrito, penetrato, illuminato, guidato dalla parola del Signore.
Nello stesso tempo la parola di Dio è una esigenza. Gesù ne parla come di seme che deve crescere e diffondersi Ovunque. Da questa parola viene la fecondità di Ogni apostolato. Se si dicono parole umane, non è il caso di considerarsi apostoli, ma se abbiamo accolto in noi la parola di Dio, essa ci spinge a proclamarla, a diffonderla dappertutto, per mettere gli uomini in comunicazione con Dio.
Da san Giovanni sappiamo che non è facile ascoltare la parola di Dio, che non è opera umana.
Gesù rimprovera ai farisei di non essere capaci di ascoltare la sua parola, perché non sono docili a Dio:
"Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me" (Gv 6,45), dice il Signore: per ascoltare la parola di Dio bisogna essere stati intimamente docili al Padre.
Infine, questa Parola fa la nostra felicità, perché è mezzo di comunicazione. La parola è sempre mezzo di comunicazione, è il mezzo per eccellenza della comunicazione umana. Senza di essa non potremmo comunicare fra noi, non potremmo capirci, non potremmo lavorare insieme. Ora, la parola di Dio è il mezzo della comunicazione con Dio. Se vogliamo essere in comunione con Dio dobbiamo accogliere in noi la sua parola.
D'altronde è lui che nella sua bontà e generosità ci dà la sua parola, ci mette in comunicazione, è lui che parla per primo, che ci apre le orecchie perché possiamo ascoltare, come dice un salmo, e ci dà la gioia di parlare con lui. La parola di Dio è anche il mezzo migliore per essere in comunione fra noi. Non facciamoci illusioni: la vera fraternità è possibile soltanto nella parola di Dio. Se noi la rifiutiamo, i più bei desideri, i più bei propositi di essere in comunione con gli altri sono destinati al fallimento, perché manca il vero fondamento, che è la comunione con Dio.
Domandiamo a sant'Andrea di insegnarci ad ascoltare, ad accogliere la parola di Dio molto generosamente, molto semplicemente, molto fraternamente, per essere in comunione con Dio e gli uni con gli altri.
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01/12/2016 08:53
 
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Poiché ci ama, il Salvatore ci mette in guardia contro l’illusione; per entrare nel regno dei cieli non basta dire: “Signore, Signore”. Non si tratta qui di una condanna della preghiera. Noi dobbiamo dire: “Signore, Signore”, essendo però consapevoli che non basta sussurrarlo a bassa voce, mentre ogni nostra decisione testimonia che Gesù non è per noi il Signore. La preghiera, separata da un amore obbediente, è un illusione, se non una menzogna.
Gesù sarà davvero il nostro Signore solo se il nostro cuore si fa simile al suo, reso appassionato dall’amore per il Padre, capace di dire, senza esitazione alcuna, che suo nutrimento è fare la volontà del Padre... fare sempre ciò che gli è gradito.
Sarebbe rischioso affidare la nostra volontà ad un altro, se l’“altro” non fosse Dio, il Dio di dolcezza e misericordia. Volere ciò che egli vuole significa scegliere la felicità. Volere altro significa accettare il rischio di una costruzione fragile ed effimera: si tratterà di una soluzione illusoria, essa potrà resistere per un po’, ma crollerà agli assalti delle varie prove cui sarà sottoposta.
Proprio del buon cristiano è l’ascoltare Gesù, parola d’amore del Padre. E noi dobbiamo allora lasciare che questa parola ci trasformi, che ci renda conformi all’amorosa volontà del Padre, ascoltarla e farla vivere in noi!
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