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RIFLESSIONI BIBLICHE

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2017 23:42
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26/06/2015 06:33
 
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Tutta la Sacra Scrittura parla del mistero di Cristo, della sua passione e risurrezione. "Dio afferma la Dei Verbum al n. 16 ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nell'Antico e l'Antico diventasse chiaro nel Nuovo... I Libri dell'Antico Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo, che essi illuminano e spiegano".
Così la prima lettura di oggi parla della risurrezione. Paolo nella lettera ai Romani spiega che Abramo, credendo all'annuncio della nascita di Isacco, credette senza saperlo nella risurrezione di Cristo, perché lui e Sara erano vecchi, "quasi morti", eppure egli credette che Dio, da due esseri così avanzati in età, poteva suscitare un figlio, Isacco, che è profezia e promessa della risurrezione.
Anche il Vangelo è un annuncio di risurrezione. Gesù tocca un lebbroso e lo guarisce: "Gesù stese la mano e lo toccò... e subito la lebbra scomparve". Quel toccare il lebbroso, considerato peccatore, impuro, tanto da rendere impuro chi venisse inavvertitamente in contatto con lui, è simbolo della passione di Cristo. Gesù, facendosi uomo, ha toccato veramente la nostra lebbra; si è presentato nella sua passione come "leprosum", peccatore per noi e in cambio, con la sua morte e risurrezione, sorgente di vita, ci ha dato la guarigione.
Avviciniamoci fiduciosamente all'Eucaristia con le nostre lebbre, con la nostra morte, perché Gesù ci vivifichi. Ogni Messa ci deve "rimettere in piedi", pronti al servizio dei fratelli, grazie alla risurrezione di Gesù
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27/06/2015 07:34
 
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La prima lettura che la liturgia ci propone oggi ci dà una lezione di ospitalità e mette in luce il valore profondo che Dio le attribuisce.
Abramo "nell'ora più calda del giorno", riposa tranquillo all'ingresso della tenda. Certamente non avrebbe nessuna voglia di scomodarsi. Eppure "appena li vide dice la Bibbia a proposito dei tre ospiti giunti in modo misterioso corse loro incontro, si prostrò fino a terra...". E li supplica di fermarsi presso di lui "per un boccone di pane". Per lui è bello accogliere questi uomini che non ha mai visto, e si dà premurosamente da fare, dà ordini a Sara e serve loro un pasto generoso. E la più squisita ospitalità: premurosa, modesta, generosa.
E la narrazione ci dice che è il Signore stesso che Abramo accoglie e rifocilla e che, prima di allontanarsi da lui, gli promette un figlio, contro ogni possibilità umana. Ma "c'è forse qualche cosa impossibile per il Signore?".
L'ospitalità, valore sommamente coltivato in Oriente, ha in Abramo il suo modello religioso e diventa, nel Nuovo Testamento, un valore cristiano, al quale Gesù promette una grande ricompensa: "Chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto".
L'autore della lettera agli Ebrei esorta i cristiani:
"Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli Angeli senza saperlo" (13,2). E san Benedetto, con stupenda concisione, scrive nella sua Regola: "Hospes venit, Christus venit".
Accogliere gli altri ci dà la certezza di ricevere Cristo stesso.
E c'è, per dire così, la più grande delle "accoglienze": ricevere Gesù, come egli vuol essere ricevuto. Marta si era data un gran daffare per ricevere Gesù, ma fu Maria ad accoglierlo come egli desiderava: lei che, seduta ai suoi piedi, ascoltava la sua parola.
Gesù può anche voler essere accolto in un modo ancora più profondo: accogliendo nella nostra carne le sue sofferenze, a favore della sua Chiesa, per completare la sua opera di redenzione, come scrive Paolo ai Colossesi.
Domandiamogli la grazia di essere pronti ad accoglierlo sempre come egli vuole, con riconoscenza e umiltà.
Allora egli cenerà con noi, e noi con lui
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28/06/2015 05:21
 
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Ecco due miracoli di Gesù legati uno all’altro. Il loro messaggio è complementare. Si tratta di due donne: una all’inizio della sua vita, l’altra al termine di lunghe sofferenze che la sfiniscono. Né l’una né l’altra possono più essere salvate dagli uomini (vv. 23 e 26). Ma sia l’una che l’altra saranno salvate dall’azione congiunta della forza che emana da Gesù e dalla fede: per la donna la propria fede, per la bambina la fede di suo padre (vv. 34 e 36). Bisogna notare soprattutto che la bambina ha dodici anni (v. 42) e che la donna soffre da dodici anni (v. 25). Questo numero non è dato a caso. C’è un grande valore simbolico poiché esso è legato a qualcosa che si compie. Ci ricordiamo che Gesù fa la sua prima profezia a dodici anni (Lc 2,42 e 49). Gesù sceglie dodici apostoli, poiché è giunto il tempo. Significano la stessa cosa le dodici ceste di pane con le quali Gesù sfama i suoi discepoli (Mc 6,43). E la fine dei tempi è simboleggiata dalle dodici porte della Gerusalemme celeste (Ap 21,12-21). Così come la donna dell’Apocalisse (immagine di Maria, della Chiesa) è coronata da dodici stelle (Ap 12,1). Senza parlare dell’albero della vita originale che si trova, in un parco, al centro della città e dà dodici raccolti. E quando sappiamo che il giorno per Gesù conta dodici ore (Gv 11,9) capiamo che i nostri due miracoli non sono semplici gesti di misericordia, ma che nascondono una rivelazione: essendo giunto il tempo, l’umanità peccatrice (Gen 3,12) è liberata dai suoi mali. Gli uomini non possono fare nulla per lei, e lo riconoscono (v. 35), ma per Dio nulla è impossibile (Lc 1,37). Gesù non chiede che due cose: “Non temere, continua solo ad aver fede” (v. 36).
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29/06/2015 07:20
 
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Per capire l’azione e insieme la bellezza della narrazione del Vangelo, bisogna considerare il suo sfondo geografico. Cesarea di Filippo si estendeva ai piedi del monte Ermon. Una delle grotte era dedicata al dio Pan e alle ninfe. Sulla sommità di una rupe, Erode aveva fatto costruire un tempio in onore di Cesare Augusto, mentre Filippo, suo figlio, aveva ingrandito questa località dandole il nome di Cesarea. Venerare un idolo e un uomo dagli Ebrei era considerato un’opera satanica, e perciò la grotta era considerata l’ingresso del regno di Satana: l’inferno. Ci si aspettava che, un giorno o l’altro, gli abissi infernali scuotessero questa rupe e inghiottissero il tempio sacrilego. In questo luogo spaventoso, si svolse un dialogo fra Gesù, il Figlio del Dio vivente, e Simone, il figlio di Giona. Gesù parla di un’altra pietra sulla quale edificherà un altro tempio, la Chiesa di Dio. Nessuna potenza infernale potrà mai prevalere su di essa. Simone, in quanto responsabile e guardiano, ne riceve le chiavi, e così il potere di legare e di sciogliere, cioè l’autorità dell’insegnamento e il governo della Chiesa. Grazie a ciò, Simone ne è diventato la pietra visibile, che assicura alla Chiesa ordine, unità e forza. La Chiesa non potrà essere vinta né da Satana né dalla morte, poiché Cristo vive ed opera in essa. Ogni papa è il Pietro della propria epoca
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30/06/2015 04:45
 
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Due lezioni complementari ci vengono offerte dalle letture bibliche di oggi. Da una parte siamo invitati ad ammirare la premura di Dio per salvare Lot, per preservarlo dalla catastrofe che doveva inghiottire Sodoma e Gomorra; dall'altro lato sentiamo, nel Vangelo, l'invito di Gesù alla fede quando i pericoli ci minacciano.
La premura di Dio per salvare Lot è veramente impressionante, e il testo ci insiste molto: "Gli Angeli fecero premura a Lot dicendo: Su, prendi tua moglie e le tue figlie che hai qui ed esci per non essere travolto nel castigo della città". Lot non aveva premura, indugiava, voleva restare nella sua abitazione, nel suo ambiente abituale, voleva aspettare che il pericolo fosse veramente imminente; ma gli Angeli lo prendono per mano, lo fanno uscire, lo conducono fuori della città. E poi insistono ancora: "Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro, non fermarti dentro la valle, fuggi per non essere travolto". E Lot indugia di nuovo, chiede di non dover andare troppo lontano.
Il Signore ha premura di salvarci. E noi siamo spesso reticenti, svogliati, non ci rendiamo conto dei pericoli; vogliamo rimanere nelle nostre abitudini, siamo attaccati ai nostri beni, alle circostanze ordinarie della nostra vita. Dio ci invita a prendere vie sicure, oneste e noi preferiamo sentieri oscuri, ambigui, non vogliamo rinunciare risolutamente alle situazioni pericolose. Dio è perseverante e insiste. Siamo fortunati ad avere un Padre così premuroso, che vede i pericoli molto meglio di noi e che ci invita ad ascoltarlo, ad andare avanti, per trovare la pienezza della vita.
Nel Vangelo la situazione è diversa. Gli Apostoli sono in mare, sulla barca con Gesù. "Ed ecco scatenarsi dice il Vangelo una tempesta violenta". Per chi si trova su una barca quando viene una tempesta non ci sono alternative: bisogna affrontare il pericolo, non è possibile fuggire. E soltanto possibile la preghiera; e gli Apostoli ricorrono alla preghiera. Gesù dormiva. accostatosi a lui, lo svegliarono dicendo: "Salvaci, Signore, siamo perduti"". E Gesù, "levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia".
Però Gesù fa un rimprovero agli Apostoli. La loro preghiera non era animata da una grande fede, ma piuttosto da una grande paura. "Perché avete paura – dice Gesù – uomini di poca fede?".
Se ci siamo imbarcati con Gesù, non dobbiamo aver paura: non abbiamo niente da temere. L'importante è proprio essere imbarcati con Gesù anche se lui sembra dormire, se è presente siamo sicuri. Questo non vuoi dire che avremo una esistenza tranquilla, al riparo da ogni sofferenza, da ogni prova; ma vuol dire che siamo sicuri dell'aiuto del Signore e della vittoria finale.
San Paolo con un tono di sfida, nella sua lettera ai Romani, dice: "Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, per virtù di colui che ci ha amati". Se siamo con Cristo, siamo più che vincitori. Dobbiamo quindi avere un animo da vincitori; non cedere alla paura, ma ricorrere con fiducia al Signore nei pericoli, nelle prove, nelle sofferenze. Chiedere al suo amore di darci il rimedio alla situazione difficile, perché è sempre nel suo amore che si trova il rimedio. Se siamo preoccupati di rimanere nell'amore di Cristo, possiamo essere sicuri di essere sempre vincitori.
Le due letture raggiungono infine la stessa conclusione: l'importante è essere uniti a Dio nell'amore, una unione che suppone il distacco da tante cose secondarie. Solo quelli che sanno distaccarsi dalle cose secondarie possono salvarsi, possono camminare verso la vittoria: "Siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati". "Sono persuaso dice san Paolo che né morte né vita, né Angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che ci è dato in Gesù Cristo, nostro Signore
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01/07/2015 08:06
 
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E' molto commovente la storia di Agar disperata nel deserto, con il suo bambino che sembra destinato ormai a morire di sete. "Non voglio vederlo morire!". Agar non pensa a pregare, ma Dio ode il pianto del bambino "e un Angelo di Dio chiamò Agar dal cielo: Che hai Agar? Non temere... Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano...". La situazione è umanamente disperata, ma Dio è fedele e interviene. E qui vengono le parole a cui dobbiamo fare attenzione: "Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d'acqua". C'era un pozzo, ma la disperazione l'aveva come accecata e non lo vedeva: l'intervento divino le fa vedere la salvezza.
Dobbiamo sempre chiedere al Signore che ci apra gli occhi per vedere, chiederglielo nella preghiera. Se Dio ci dà la sua luce riusciamo a vedere le cose nella loro realtà e a trovare soluzioni positive nella perplessità e nell'incertezza.
E dobbiamo pregare che il Signore apra gli occhi ai responsabili del mondo, perché trovino soluzioni giuste e umane ai tanfi conflitti, alle tante ingiustizie, perché sappiano fare leggi eque e rispettose della dignità di ogni persona. Pregare perché gli uomini accecati dall'egoismo o dalla disperazione aprano finalmente gli occhi e vedano la strada della vera salvezza. Siamo vicini al Salvatore e non lo vediamo. Anzi, facciamo sovente come la gente di Gadara dopo la guarigione dei due indemoniati. "Tutta la città uscì allora incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio". Loro lo hanno visto, ma con occhi carnali, resi ciechi dall'egoismo. Non hanno visto in lui il liberatore potente contro il demonio, ma colui che aveva causato la perdita della mandria di porci e non capiscono che stanno allontanando da sé la salvezza.
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02/07/2015 07:11
 
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Siamo di fronte alla pagina densissima del sacrificio di Abramo. Dio gli domanda una cosa terribile: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va ... e offrilo in olocausto". Abramo non rifiuta, non risparmia il proprio figlio. Egli ha il vero senso del sacrificio, sa che è un atto di unione a Dio, sa che è un atto più di Dio che dell'uomo, perché solo Dio può santificare e ciò che è offerto in sacrificio è santificato. E parte. Non capisce, non sa come Dio farà, ma ha fiducia in
lui, "cammina nella fede", come dice san Paolo: "Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti" (Eb 11,19). Un sacrificio è sempre una risurrezione, perché è azione divina; se fosse un'azione umana sarebbe semplice distruzione, ma è azione di Dio.
È bellissimo, nel racconto biblico di Gn 22, il dialogo fra Abramo e Isacco. "Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: Padre mio! Rispose: Eccomi, figlio mio. Riprese: Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?". Il racconto dice che l'agnello è lui, Isacco, ma egli non lo sa e chiede dove sia l'agnello. "Abramo rispose: Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". Non è un modo per sfuggire alla domanda: veramente egli stesso non sa dove sia l'agnello. Egli fa quello che pensa di dover fare per adempiere il comando di Dio, ma intuisce che qualcosa dovrà succedere, che Dio procurerà la vittima per l'olocausto. E la fiducia, la fede di Abramo sono ricompensate. Al momento estremo, Dio interviene:
"Abramo, Abramo! Non stendere la mano contro il ragazzo... Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio". Non Isacco viene sacrificato, ma un ariete che Abramo vede con le corna impigliate in un cespuglio. "Poi l'Angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: Perché tu hai fatto questo... io ti benedirò con ogni benedizione... Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce".
Adesso noi sappiamo che questa pagina è profezia del sacrificio di Gesù, che realmente Dio ha provveduto l'agnello per l'olocausto. L'agnello non è Isacco, non è l'ariete, è l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo di cui parla il Vangelo. Quando vediamo Isacco caricato della legna per il sacrificio, è Gesù che vediamo, caricato della croce, Gesù che sale al Calvario, offerto da Dio stesso. "Dio scrive san Paolo non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi". L'unico sacrificio gradito al Padre è quello di Gesù, il grande dono del Padre agli uomini. Noi dobbiamo inserirci in questo sacrificio, per crescere nell'unione con Dio. Chiediamo la grazia di capire il vero significato del sacrificio nella nostra vita e di riconoscere, con la fede e la fiducia di Abramo che è Dio stesso che lo realizza: "Sul monte Dio provvede". Noi offriamo, Dio santifica. Quando Dio ci chiama ad un sacrificio, sovente non vediamo bene, ci sembra che la strada non abbia sbocchi. Allora è il momento della massima fiducia: "Dio provvederà". Dio provvede l'agnello per l'olocausto e Dio realizza in noi il sacrificio alla sua maniera divina, sempre positiva.
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03/07/2015 08:44
 
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Vorrei raccontarvi una storia. Parla di un ragazzo. Aveva una decina di anni e non sapeva ancora cosa volesse dire essere malato. Sulla strada aveva improvvisamente notato qualcosa che non andava. Sentiva un dolore acuto, aveva freddo e non sapeva cosa fare. Al dolore si aggiungeva il fatto che nessuno si occupava di lui, che nessuno lo notava. Le persone passavano senza prestargli attenzione. Finì col rientrare a casa. Tremava, e sperava che qualcuno lo sentisse. In quel momento arrivò sua madre e se ne accorse. Gli disse: “Non stai bene. Sei malato”. E nello stesso istante, il peggio passò. Il ragazzo pensò: “Qualcuno sa e vede come sto”. Certamente è avvenuta la stessa cosa per i discepoli quando improvvisamente è apparso Gesù in mezzo a loro e hanno detto: “Vedete, sono io”. Nell’istante stesso in cui si è mostrato a loro, la loro paura si è trasformata. Capisco che Tommaso si sia mostrato tanto riluttante quando gli hanno detto: “Abbiamo visto il Signore”. Probabilmente non era così poco credente come sembra a prima vista. Forse aveva vagato per la strada senza sapere cosa fare, con una grande tristezza in fondo al cuore a causa degli avvenimenti recenti. Ed ecco che gli altri gli dicono: “Abbiamo visto il Signore e mangiato con lui”. Sentiamo che Tommaso vorrebbe vedere di persona cose ancora più grandi. Gesù avvicina Tommaso con molta tenerezza. Tommaso può mettere la mano sulle sue ferite. Potrebbe capitare anche a noi, che abbiamo tutti un Tommaso in noi. Perché non siamo forse Tommaso quando diciamo: “Se non vediamo, non crediamo”?
Gesù dice a Tommaso: “Vieni, puoi toccarmi”. E poiché Gesù è così vicino a Tommaso e gli manifesta una tale tenerezza, egli non può che gridare, sconvolto: “Mio Signore e mio Dio!”.
Se capitasse a qualcuno tra noi di sentire il tenero amore e la presenza di Gesù, allora anche noi potremmo incontrarlo.

GEORG LOKAY
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04/07/2015 09:07
 
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I discepoli di Giovanni narra il brano evangelico si scandalizzano perché i discepoli di Gesù non digiunano; noi forse, ascoltando la prima lettura, ci siamo scandalizzati per l'inganno perpetrato a danno del fratello maggiore da Giacobbe e da sua madre Rebecca. Queste due letture hanno in comune un insegnamento: dobbiamo abbandonare il nostro modo di pensare e capire che il dono di Dio è una cosa veramente nuova, gratuita, sconcertante. E una lezione che Gesù ha
ripetuto parecchie volte. Non ci sono diritti umani, non ci sono regole per la grazia divina. Dio è libero, è generoso, e noi dobbiamo accettare questa generosità stupenda e sconcertante, che si diverte, per così dire, a fare ciò che nessuno si aspetta. Veramente "ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote": chi pensava di aver diritto alla grazia divina non l'ha ricevuta, mentre essa si è riversata su chi non accampava diritto alcuno. Dobbiamo proprio abbandonare le nostre categorie mentali di meriti, di diritti, per aprirci in semplicità e umiltà alla novità della grazia. E un lavoro sempre da ricominciare, perché sempre ricadiamo nella piccola logica della nostra mente: siamo fedeli, quindi meritiamo la grazia, Dio deve darci qualche cosa. Dio invece non si lascia imprigionare nella logica umana. Gli operai dell'ultima ora, nella parabola narrata da Gesù, sono pagati per primi e ricevono quanto gli altri, che hanno sopportato la fatica e il caldo di tutta la giornata. E uno scandalo. Ma il padrone della vigna non si scompone: "Forse non posso fare del mio quello che voglio?". Abituiamoci a questo modo di agire di Dio e siamo contenti della fantasia divina, che dà molto a quelli che non lo meritano, ai peccatori, che preferisce i piccoli. I grandi devono umiliarsi: allora anche loro riceveranno molto, non per i loro meriti, ma perché si sono messi al livello dei piccoli. E una lezione importante, che viene sottolineata anche da san Paolo quando scrive che Dio è libero nei suoi doni: ha amato Giacobbe ed odiato Esaù; ha scelto ciò che non è, cioè gli umili, i poveri, i deboli e a loro ha dato la sua forza, la sua grazia, il suo amore.
La nostra anima deve essere libera, gioiosa, quasi danzare nella libertà, e non rinchiudersi nella grettezza dei calcoli umani. Così testimoniamo la gioia dei figli di Dio, per l'inedita generosità del Padre celeste.
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05/07/2015 07:16
 
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Nella storia, nel quotidiano più ordinario, il Dio eterno si fa prossimo dell’uomo. Attira la sua attenzione e gli invia dei “segni”: per esempio, facciamo l’esperienza inattesa del suo aiuto; incontriamo un uomo che testimonia di lui con forza. La sua preghiera ci coinvolge e noi “prendiamo gusto a essere con Dio”. Ascoltiamo la sua parola in modo nuovo. Scopriamo subito il suo intervento negli avvenimenti della nostra vita e scopriamo sempre più chiaramente il “filo conduttore”. Ma può accadere che talvolta percepiamo l’incontro con lui come una esigenza che ci disturba, che ci irrita e ci provoca. È necessario abbandonare la terra ferma, osar affrontare l’ignoto, forse cambiare.
E subito ricominciamo a fare questi ragionamenti: Perché dare un senso particolare a tale avvenimento? Non è piuttosto il caso a ordinare tutto, le leggi naturali come gli obblighi sociali? Perché prendere le elucubrazioni del nostro spirito come “messaggi di Dio”? Uno psicologo potrebbe spiegare meglio i diversi motivi delle nostre reazioni.
Il nostro io percepisce un rischio, e rifiuta, per pigrizia o per autodifesa. Peggio: la nostra vita prende allora una cattiva direzione.
Gesù viene nella sua città natale. L’interesse che suscita aumenta sempre di più. Il suo insegnamento suscita meraviglia. Da lui emana una saggezza indicibile. Ma molto presto l’attrattiva che egli esercita si altera: La gente è stupita: “Donde gli vengono queste cose? Non è costui il carpentiere?”, rampollo di una famiglia ordinaria? E trasmetterebbe una nuova dottrina? Annuncerebbe una esigenza?
Era certamente in gioco l’invidia. E soprattutto il “buon senso”.
È per questa ragione che i contemporanei di Gesù rifiutano di riconoscere l’azione di Dio nell’avvenimento. E non è tutto: deformano l’evento di Cristo e lo trasformano in “scandalo”, in una forza del male che spinge al peccato. Tale interpretazione “tenebrosa” finisce per rassicurarli, dopo una simile provocazione.
Ecco una tranquillità pagata molto cara! La fede in Dio e la redenzione in Gesù Cristo diventano inaccessibili. Invece, gli abitanti di Nazaret avrebbero dovuto rischiare di abbandonarsi. Soltanto colui che ha una relazione di intimità con il Redentore sarà salvato. Colui che si è blindato nell’autoconservazione rimane chiuso alla salvezza. E sospettare con cattiveria che l’attrazione di Cristo sia una tentazione contro Dio in realtà non fa che rassicurare il suo egoismo, per quanto “ragionevoli” possano apparire i suoi argomenti.
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06/07/2015 08:54
 
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Le letture di oggi devono suscitare in noi il desiderio di una fede più grande. Gesù dice a questa donna: "La tua fede ti ha guarita". La fede ha fatto sì che il contatto fisico con lui ("Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita") fosse un contatto ben diverso da quello ordinario: "In quell'istante la donna guarì". La fede vede nella realtà nuove possibilità, invisibili nell'assenza di fede. Gesù stesso esprime ciò che vede la fede, quando dice: "La fanciulla non è morta, ma dorme". Sembra morta, ma la fede vede che può rivivere. Per quelli che non hanno fede queste sono parole senza senso e, dice il Vangelo, "si misero a deriderlo". Vedono la realtà concreta e dicono: "E evidente, è morta, ne siamo ben sicuri, non può certo vivere di nuovo", perché non vedono la nuova possibilità che la fede mette in quella realtà.
Noi che crediamo in Gesù siamo chiamati a vedere queste nuove possibilità e a trasformare anche realtà di morte in realtà di vita.
Il racconto della visione di Giacobbe suscita gli stessi pensieri. Giacobbe ha preso una pietra, se l'è posta come appoggio sotto la testa: è una pietra. Ma in questa pietra c'è la presenza di Dio e Giacobbe al suo risveglio lo riconosce: "Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo". C'era una possibilità che lui ignorava, e il Signore gliel'ha rivelata; era possibile una relazione fra il cielo e la terra: "una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli Angeli di Dio salivano e scendevano su di essa". Quella non era una comune pietra, ma il luogo della presenza di Dio.
Quante volte noi vediamo soltanto "pietre", fermandoci all'aspetto più immediato della realtà: qualche difficoltà, la malattia, le contrarietà, qualche dissenso sul lavoro o in famiglia, li vediamo solo come tante pietre sul nostro cammino. Se abbiamo fede viva scopriamo che queste pietre, concrete, non sono la realtà totale. Noi vediamo l'apparenza ma nel profondo c'è l'amore del Signore, che ci offre la possibilità di un rapporto più vivo con lui, di una trasformazione della realtà quotidiana.
Chiediamo al Signore la grazia di avere gli occhi aperti e di aumentare la nostra fede, perché possiamo vedere le cose nella loro vera, profonda realtà.
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07/07/2015 08:19
 
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L'episodio del Libro della Genesi che leggiamo oggi è molto misterioso; i Padri l'hanno letto come una prova spirituale che Dio impone a Giacobbe, come già ad Abramo, anche se in modo diverso.
"Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora". La lotta ìnizia al buio e si compie nel buio; non solo nel buio della notte, ma della conoscenza: Giacobbe non sa con chi lotta. Abramo aveva sentito la voce di Dio, sapeva che era lui, ma anch'egli deve muoversi nella notte: "Partì senza sapere dove andava", come dice la lettera agli Ebrei. Giacobbe invece ha scelto la sua destinazione, ma lungo la strada Dio lo chiama ad un cambiamento interiore attraverso una lotta con lui, lotta prolungata e dura, di cui è difficile dire di più.
È il momento più drammatico e misterioso della vita di Giacobbe, che per continuare il parallelo con Abramo si può far corrispondere alla salita sul monte nel territorio di Moria dove, dopo un'agonia di dolore e di obbedienza, Dio gli conferma la sua promessa e la sua benedizione.
Giacobbe, pur lottando, sente che il suo avversario non ha intenzioni malevole, capisce confusamente che Dio gli è vicino, tanto è vero che vuol essere benedetto: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto". E con la benedizione riceve un nome nuovo. Giacobbe ha lottato con Dio, ha avuto la conferma della sua vocazione: è ormai un uomo nuovo, un uomo di Dio.
Nel cammino spirituale avviene qualcosa di simile. Scelto il cammino, si presentano presto difficoltà per cui bisogna lottare. Sovente le certezze iniziali scompaiono, tutto diventa buio e c'è la tentazione di lasciar perdere: è il momento della lotta per rimanere fermi nelle proprie decisioni, senza cambiare nulla. Ci possono essere anche difficoltà esterne: sono permesse da Dio per farci progredire nella luce e nella grazia.
Noi vorremmo una vita tranquilla, serena, pacifica... Serena sì, pacifica sì, ma nell'accettazione fiduciosa delle traversie che Dio permette per amore e che non ci mancheranno mai, perché la nostra vita non può avere altro modello che quella di Gesù.
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08/07/2015 03:55
 
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"Chiamati a sé i dodici discepoli, Gesù diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità". Non manda quindi i suoi Apostoli soltanto per predicare, ma anche per guarire. Soltanto dopo il Vangelo dice: "Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino". Anche Gesù faceva la stessa cosa, cioè non si limitava a predicare, ma guariva. Così il Vangelo è completo, nel senso che non è una legge, non è soltanto un insieme di precetti dati da Dio per la nostra salvezza, è realmente un dono di Dio che ci salva. La predicazione del Vangelo deve dimostrare che esso è realmente un regalo di Dio e non prima di tutto una esigenza. Per questo Gesù dà agli Apostoli il potere di guarire, come segno della presenza fra noi di Dio che salva.
I cristiani noi devono agire anche ora così. Non dobbiamo soltanto "predicare", insegnare che questo si fa e quest'altro no; dobbiamo prima di tutto dare testimonianza della bontà di Dio verso l'uomo, anima e corpo. Dio ci ha creato anima e corpo e non disprezza il corpo. il Signore Gesù non ha disprezzato i corpi ammalati, anzi, si è chinato su di loro con predilezione. Poteva dire e l'ha detto, non agli ammalati ma a tutti che è necessario portare la propria croce, e questo è vero ed essenziale, però ai malati, a tutti coloro che avevano una sofferenza, un bisogno, si avvicinava non con un precetto, ma con la sua infinita bontà e la sua potenza di sanazione e di consolazione. Anche noi dobbiamo con le nostre azioni far vedere che Dio è buono, che è qualcuno che si dona, portando sempre e a tutti la sua pace e la sua gioia.
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09/07/2015 06:48
 
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La storia di Giuseppe è già come una bellissima anticipazione del Vangelo; vi si trovano sentimenti così delicati di bontà da commuoverci sempre. Nella lettura di oggi Giuseppe si rivela ai suoi fratelli: "Io sono Giuseppe!". Atterriti alla presenza di colui che avevano voluto sopprimere, essi non trovano neppure la forza di parlare, ma egli li rassicura: "Venite vicino a me! Sono il vostro fratello che voi avete venduto per l'Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate: Dio mi ha mandato qui prima di voi per mantenervi in vita". Questo è meraviglioso. Giuseppe riconosce, nella terribile vicenda di cui egli stesso fu vittima, l'intenzione provvidente e misericordiosa di Dio. Avrebbe potuto dire: "Dio mi ha salvato e ora mette nella tribolazione i miei persecutori. Adesso io posso rallegrarmi, e loro portano giustamente il peso del peccato che hanno commesso". In fondo è anche detto nella Scrittura che Dio premia i buoni e punisce i malvagi. Ma Giuseppe ha letto più profondamente l'intenzione di Dio. "Voi mi avete venduto". E la cruda realtà, ma al disotto di essa c'è l'intenzione positiva di Dio:
"Dio mi ha mandato qui prima di voi per salvarvi".
La generosità divina si serve anche del male per il bene, ma non è facile riconoscerlo quando il male si è accanito contro di noi. E ancor meno facile è aiutare chi ci ha fatto del male, capire che Dio vuol associarci alla sua infinita bontà dandoci la possibilità di perdonare e di compiere il bene a favore di chi ci ha offeso. E veramente rivelazione divina.
Infatti la storia di Giuseppe è prefigurazione di quella di Cristo, della sua passione e glorificazione. Gesù fu consegnato alla morte per invidia, come Giuseppe fu mandato incontro a una morte quasi sicura per l'invidia dei suoi fratelli. Ma questa vicenda di morte sfocia invece, per volontà di Dio, nella glorificazione di Giuseppe; e Gesù, per aver accettato volontariamente la morte, è glorificato alla destra del Padre suo. Giuseppe avrebbe potuto punire duramente i suoi fratelli ed invece li ha salvati dalla morte; Gesù potrebbe usare il suo potere divino per punire i peccatori, invece porta loro risurrezione e vita. L'ingiustizia tremenda della morte
di Gesù si è trasformata in salvezza e giustificazione per tutti; Giuseppe, alla morte di Giacobbe, dirà ai suoi fratelli pieni di timore: "Non temete! Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene. Sono io forse al posto di Dio?". E stupendo: Giuseppe aderisce di tutto cuore a questa trasformazione operata da Dio. Proprio per questo è figura del Signore Gesù ed è insieme un modello per noi, insegnandoci a riconoscere in ogni vicissitudine l'intenzione di amore di Dio
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10/07/2015 06:06
 
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"Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali, vi flagelleranno nelle loro sinagoghe... E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi.
Non è certo facile quello che Gesù chiede ai suoi discepoli, mentre predice persecuzioni di ogni specie, anzi sul piano puramente umano è addirittura impossibile. Ma questo è l'atteggiamento positivo dell'amore, fondato sulla fede. Non siamo forse suoi? Ed egli ha detto che nessuno potrà mai strapparci dalla sua mano. "Se Dio è per noi scriverà Paolo chi sarà contro di noi?".
La preoccupazione è atteggiamento naturale, che ci angustia; che, se ci lasciamo andare ad essa, ci mette sulla via dell'egoismo; che, oltre a tutto, è inutile e sterile. E’ saggezza cristiana non preoccuparci in anticipo delle cose che temiamo. Forse non accadranno mai e, se accadranno, avremo allora il dono che il Signore ci farà della sua forza per viverle come egli vuole.
La vera fiducia respinge decisamente tutte le preoccupazioni personali circa la propria sorte.
Chiediamo al Signore che ci aiuti ad essere fedeli oggi, che aumenti la nostra fede e la nostra speranza, così che ci abbandoniamo lietamente alla sua volontà, nella certezza che egli ci aiuterà sempre molto di più e molto meglio di quanto noi possiamo immaginare.
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11/07/2015 08:38
 
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Noi potremmo facilmente tenere il Vangelo a distanza pensando: “Sono i discepoli ad essere coinvolti, o, tutt’al più, i santi come Benedetto, che Dio ha chiamato a realizzare una grande opera”. Ma il Vangelo non è solo un libro di storia. Non si accontenta di raccontare gli avvenimenti. Gli apostoli, i santi e i missionari rimandano a me. Guardate Pietro che ha accompagnato Gesù e gli altri discepoli che hanno abbandonato tutto; o guardate Benedetto che, giovane studente, rifiuta la vita brillante di Roma per ritirarsi nella solitudine! Tutti sono implicati nella storia. Noi saremmo semplici spettatori? Il Vangelo non ci riguarderebbe?
Eppure il Vangelo parla dell’avvento di un nuovo regno, del segreto inaudito che fa sì che Dio permetta che nasca un regno senza fine. Ciò significa dunque che Dio ha delle aspettative su di noi. È il dramma dell’amore. E la mia storia con Dio. La storia del regno dei cieli è già cominciata. Bisogna continuare a raccontare la storia come storia di Dio e del suo mondo. In questo Vangelo, è la sua storia che Gesù racconta quando dice: “Nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria...” (Mt 19,28).
Per Gesù, ciò vuol dire amore fino alla croce.
Egli sa: “Mio padre mi manda nel mondo per amore e dice: Tu genererai un popolo nuovo. La tua missione è di diffondere l’amore nel mondo intero”. Dio vuole che il suo amore si riversi nel mondo. Si tratta del dramma dell’amore. Noi possiamo parteciparvi lasciando che Dio ci mostri il nostro posto. Poiché egli si indirizza a noi, personalmente. Quante volte abbiamo rifiutato questo invito: eppure la redenzione ha luogo qui e ora, oggi. Non è in teoria, ma nell’istante stesso che Gesù ama, agisce e parla. Ciò che importa è che io alzi gli occhi per vedere cosa accade. A cosa serve, se qualcuno mi perdona in teoria ma non nel suo cuore, né ora? La pratica di Gesù ci mostra una cosa: egli è andato incontro a tutti. Il suo invito valeva per tutti. Non debbo, dunque avere paura. Non sono tenuto a diventare prima un uomo a posto, posso venire quale sono. E, per una comunità, ciò significa semplicemente poter esistere anche con le proprie debolezze.
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12/07/2015 07:56
 
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Per mezzo dei suoi messaggeri, Dio ha preparato l’umanità, nel corso di una lunga storia, alla venuta di suo Figlio e alla rivelazione della salvezza da lui portata. Partendo dal popolo di Israele, il suo amore redentore doveva estendersi a tutti gli uomini. È il motivo per cui Gesù ha chiamato i Dodici a formare il nucleo del popolo definitivo di Dio e li ha fatti suoi collaboratori. Sono stati incaricati di vincere il potere del male, di guarire e di salvare gli uomini che avessero creduto al loro messaggio.
Solo una piccola parte del popolo di Israele ha creduto in Gesù e in quelli che egli ha mandato. Dopo la sua risurrezione, Gesù ha di nuovo mandato i suo discepoli e accresciuto la loro missione e i loro poteri. Da allora gli inviati di Dio si recano presso tutti i popoli per offrire agli uomini il perdono di Dio e la vita nuova.
Ma non vi è che una piccola parte dell’umanità che ha sentito l’offerta divina e ha trovato la fede nell’amore di Dio e nella sua salvezza. Oggi che sono state smascherate le ideologie moderne del razionalismo e del nazionalismo, del fascismo e del socialismo, che si sono rivelate false dottrine di salvezza, si è operata una nuova apertura per il Vangelo presso molti popoli e molti uomini. E noi cristiani siamo tenuti, in modo nuovo, a portare la nostra testimonianza al nostro prossimo: per mezzo della nostra preghiera e del nostro impegno personale. Da questa testimonianza dipende non solo l’avvenire dell’umanità, ma anche quello della comunità ecclesiale ed il destino di ogni cristiano
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13/07/2015 05:58
 
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Mt.10,34 ss
La lettura di questo passo del Vangelo, che presenta da un lato le forti esigenze e dall'altro le dolci promesse per chi segue Gesù, mi richiama alla mente una poesia di Paul Claudel, in cui il poeta si domanda come venga a noi la grazia. E risponde: la grazia viene in modo attraente, idillico, e viene anche come fuoco che incendia la casa. E una poesia che Claudel scrisse per i lebbrosi di un ospedale, con l'intenzione di confortarli: il male può essere grazia, dura, forte, ma penetrante fino in fondo, come una spada.
E Gesù dice: "Vi porto la spada, la separazione, la croce, il "perdere la vita"": un amore a imitazione del suo amore di crocifisso. "Non sono venuto a portare pace, ma una spada... Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me...".
Ma la ricompensa è infinitamente sovrabbondante: chi accoglie i suoi discepoli, chi accoglie "questi piccoli che credono" e lui, accoglie il Padre. "Verremo a lui e faremo dimora presso di lui", scrive Giovanni nel suo Vangelo. E nulla andrà perduto: anche un bicchiere di acqua dato per amor suo avrà la sua ricompensa.
Sono i due aspetti che dobbiamo accogliere per essere veri discepoli di Gesù: sofferenza e promessa di gioie che mai entrarono in cuore d'uomo
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14/07/2015 07:21
 
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I Lettura Es 2,1-15
Lo chiamò Mosè perché l’aveva tratto dalle acque; cresciuto in età, egli si recò dai suoi fratelli.
Salmo (Sal 68)
Voi che cercate Dio, fatevi coraggio.
Vangelo Mt 11,20-24
Nel giorno del giudizio, Tiro e Sidòne e la terra di Sòdoma saranno trattate meno duramente di voi

La prima lettura di oggi ci dà un insegnamento per i tempi di angustie e di avversità, la seconda per quando le cose vanno bene.
Nel testo dell'Esodo a ogni passo si incontrano difficoltà. Gli Ebrei, ridotti in schiavitù, con la uccisione dei figli maschi si stanno avviando all'estinzione: tutto sembra perduto. il bambino, che la madre non può più tenere nascosto, viene affidato alle acque del Nilo, e sembra destinato a sicura morte. Invece vive, è raccolto dalla figlia del faraone ed è educato come un piccolo egiziano. Cresciuto, si fa difensore dei suoi fratelli oppressi, e si direbbe che per essi spunti un'alba di speranza, ma deve fuggire: sembra proprio che il Signore abbia abbandonato il suo popolo. Invece la nascita di Mosè è veramente l'inizio della liberazione. In quel momento però nessuno sa niente di questo bambino salvatore, che pure sarà il condottiero preparato da Dio per ridare al suo popolo la libertà.
In tutte le circostanze avverse il Signore ci domanda di avere ferma fiducia in lui, presente e operante in mezzo a noi e che certamente prepara la soluzione delle difficoltà, soluzione sempre positiva, perché disposta dal suo amore. La croce di Gesù fu l'inizio di una vita nuova.
Nel Vangelo invece si parla di un intervento di Dio straordinario e palese: Gesù si rivolge infatti alle città "nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli", dove quindi molte gravi difficoltà erano state risolte, molta gioia era stata vissuta per i segni compiuti da Gesù, e che "non si erano convertite". Quando tutto procede bene, in serenità, in pace, senza contrasti, dobbiamo chiederci se facciamo la nostra parte, se rispondiamo al desiderio di Dio, se i doni che egli ci fa producono frutto in noi, se di questo bene ci serviamo per fare bene, a vantaggio degli altri e a gloria di Dio
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15/07/2015 07:45
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Dio aborrisce un animo cattivo

Il popolo di Israele si è allontanato da Dio. Egli si serve dell'Assìria per punire il suo popolo. Ma questa nazione si leva in superbia quasi che fosse solo per la sua forza che potesse eseguire la spedizione punitiva. Inoltre alla superbia aggiunge anche la crudeltà e la volontà di sterminio. Dio non approva questi sentimenti e fa predire dal profeta una punizione disastrosa, la peste che falcerà la vita del fior fiore delle sue milizie. La Parola di Dio ci spinge a fare la nostra riflessione. La sua validità è perenne. Non potrebbe essere questo passo un avviso per chi ha potere e responsabilità di guida? Se il potere viene da Dio, questo va esercitato non tanto come affermazione personale con tutte le deviazione che le passioni umane possono suggerire, ma in spirito di servizio: Chi avrà bene amministrato merita lode. Comprendere queste verità e orientare secondo il loro dettame la nostra vita è molto difficile. E' grazia del Signore che va impetrata con la preghiera e con il desiderio grande di penetrare nei segreti di Dio. Seconda la parola del vangelo questa comprensione esige la rinunciare alla alterigia per farci piccoli non solo dinanzi agli altri ma anche nel nostro cuore. Allora ci troveremmo nel numero di quanti, potrebbero essere illuminati dal Signore e entrare nella conoscenza del suo mistero, che si svela ai piccoli. Voglia il Signore mantenere ogni uomo nella verità della propria piccolezza per meritare la rivelazione delle realtà grandi. Viene così anticipato quello che ci sarà riservato in cielo dove né occhio vide, né orecchio udì, né mente mai può immaginare quello che Dio tiene preparato per chi lo ama
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16/07/2015 03:13
 
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La prima lettura ci dà una rivelazione misteriosa di Dio, e gli esegeti non si stancano di ricercare il senso preciso di questa espressione, discutono indefinitamente per sapere che cosa significa questo "éheyé asher éheyé", come si dice in ebraico. "Io sono colui che sono", "io sono chi sono", e altre traduzioni ancora sono possibili, ma è certo che Dio in seguito nomina se stesso come "IoSono": "Dirai agli Israeliti: "IoSono" mi ha mandato a voi". il nome di Dio è misterioso: "IoSono". Egli non può rivelarsi se non così all'uomo, in prima persona: "Io sono". Questa è senza dubbio la più profonda rivelazione di Dio. Dio non può essere nominato come un oggetto; è lui che deve "nominarsi" nella nostra vita, è lui che fa sentire la sua presenza, è lui che rivela il suo essere: "IoSono". E non si può parlare di Dio in altro modo, bisogna che sia lui a parlare di sé. "IoSono mi ha mandato a voi". E continuamente nella vita egli dice a noi, come ha detto a Mosè: "IoSono".
"Io sono". Questo lo mette nello stesso tempo lontanissimo e vicinissimo a noi. Molto lontano perché questa affermazione: "Io sono" è il contrario di quello che noi possiamo dire di noi stessi. Noi non possiamo che constatare i limiti del nostro essere e continuamente siamo chiamati a dire: "Io non sono". Se siamo sinceri, dobbiamo confessare che veramente non siamo. Siamo talmente limitati, talmente deboli, talmente impotenti! In ogni momento dobbiamo convenire di non essere all'altezza degli avvenimenti, di non essere capaci di fare ciò che sarebbe necessario, di non essere fedeli, di non essere generosi. E Dio, all'opposto, dice continuamente: "Io sono", senza limite alcuno. E la sua rivelazione. E dunque molto diverso da noi. E nello stesso tempo ci è vicinissimo, perché dicendo: "Io sono" dice: "Io sono qui, Io sono presente, sono vicino a te, sono con te". Infatti in questo testo egli si rivela come il Dio dei padri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, come colui che vuol liberare, colui che vuol far cessare l'oppressione, che vuol far uscire il suo popolo dall'Egitto dove è umiliato, verso il paese dove scorre latte e miele. La presenza di Dio è una presenza intima, soccorrevole.
"Io sono". Possiamo contare su di lui: questo "Io sono" illimitato è nello stesso tempo un "Io sono con te", come egli dice in altri testi.
Questa misteriosa parola, "Io sono" è stata ripresa da Gesù per rivelare in modo paradossale di essere egli stesso Dio. Ha detto ai suoi avversari: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono" (Gv 8,28), e ancora: "Se non credete che Io Sono morirete nei vostri peccati". L'adesione a questa rivelazione di Dio è radicalmente indispensabile per uscire dai nostri peccati, per uscire dai nostri limiti umani. Al momento del suo arresto Gesù ha ripetuto ancora questa parola. Nel Vangelo di Giovanni la si deve chiaramente comprendere come una manifestazione della sua divinità. "Gesù si fece innanzi e disse loro: "Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù, il Nazareno". Disse loro Gesù: "Sono io!"". Come succede spesso nel Vangelo giovanneo, queste parole hanno il significato ordinario: "Gesù di Nazaret sono io" e nello stesso tempo un significato più profondo: "Io Sono, in unione con il Padre".
Gesù si è dunque rivelato come il Nome del Padre, e si è rivelato, paradossalmente, nel momento in cui, in un certo senso, egli si spogliava della sua divinità per essere soltanto un uomo che soffre. Ma così egli ha realizzato in un modo più profondo la presenza di Dio al centro dell'esistenza umana.
Così egli ha dato un profondo significato al suo invito: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo su di voi; imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero".
Perché è dolce il giogo del Signore Gesù, perché il suo carico è leggero?
Possiamo rispondere: perché "Io Sono", Gesù, ha portato la presenza di Dio fino al fondo della nostra miseria, morendo sulla croce per noi e con noi, prendendo su di sé tutti i nostri dolori. Da allora possiamo davvero ascoltare la parola di Dio: "Io Sono! " in qualunque circostanza. Per quanto oppressi siamo, possiamo, dobbiamo sentire Gesù che ci dice: "Io sono! Sono vicino a te, sono con te in questa difficoltà, in questa angoscia. Non c'è angoscia umana che mi rimanga estranea, perché Io sono per sempre nel cuore dell'angoscia umana". Ecco perché il carico del Signore è leggero: si è sempre in due a portarlo, perché egli lo porta con noi.
"Io Sono". In Gesù il Dio lontano, il Dio diverso, si è fatto vicino, si è identificato con noi per poterci dire: "Io sono con te, Io, il Dio che era, che è, che sarà".
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17/07/2015 04:26
 
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Si potrebbe vedere un certo contrasto tra le minuziose prescrizioni dell'Esodo riguardanti l'agnello pasquale e le parole di Gesù nel Vangelo di oggi: "Misericordia voglio e non sacrificio".
Parlando così Gesù esprime lo spirito dell'Antico Testamento, tutto simboli. Per esempio, il sangue di un agnello non è capace di salvare, così tutte le prescrizioni del sacrificio non sono cose essenziali, ma precisano il significato del simbolo. L'agnello è precisato due volte deve essere mangiato "non crudo, nè bollito nell'acqua, ma solo arrostito al fuoco". Qui possiamo trovare qualcosa che mette in rapporto "sacrificio" e "misericordia". La morte di Gesù è totale dono di sé, supremo sacrificio, atto di misericordia. Ora, Gesù nella sua passione è trasformato dallo Spirito Santo che è il vero fuoco, fuoco di carità e di misericordia. La carne "arrostita al fuoco" suggerisce questo vero sacrificio.
La vita cristiana non è fatta di sacrifici rituali, ma è unione con Cristo. Quando partecipiamo alla Messa non siamo presenti a una funzione, ma ci uniamo a Gesù, offrendo la nostra vita nella sua, per essere consumati nel fuoco dell'amore.
"Misericordia voglio e non sacrificio". Gesù riporta questa frase della Scrittura al termine di una controversia con i farisei, scandalizzati contro i suoi discepoli che in giorno di sabato coglievano spighe per sfamarsi. I farisei erano certi di essere nel giusto e di fare la volontà di Dio accanendosi su innumerevoli prescrizioni, dettagli, minuzie. Ma questa non è saggezza evangelica. Dio si è manifestato come liberatore e vuole che il nostro slancio verso di lui sia obbedienza di figli liberi, obbedienti perché liberi, capaci di considerare le situazioni, di giudicare, di decidere per il bene. Dio vuole che viviamo nella carità e ogni precetto. è subordinato ad essa: "Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato". Così la nostra vita renderà testimonianza a lui, Dio che crea uomini liberi.
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18/07/2015 06:04
 
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Luca nel suo Vangelo dell'infanzia ci dice che Gesù era sottomesso a Giuseppe e a Maria. Come uomo, egli ha imparato la mitezza da sua madre, che non ha mai gridato, che ha alzato la sua voce solo per magnificare il Signore.
Oggi il Vangelo ci presenta Gesù proprio come il servo mite e umile di cuore. E umile il Figlio di Dio che, di fronte ai farisei che tramano "per toglierlo di mezzo", non contende, ma si allontana; è mite il Figlio di Dio che guarisce tutti. Compie veramente la figura del servo di Dio che non oppone resistenza con la violenza, ma con la mitezza, di colui di cui Isaia ha detto:
"Lo Spirito del Signore è sopra di me; mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi".
Ma c'è un altro aspetto. Per due volte Isaia, nel passo riportato dal Vangelo odierno, parla di "genti", cioè dei pagani, di tutte le nazioni: "Annunzierà la giustizia alle genti", "Nel suo nome spereranno le genti". Appare chiaramente l'intenzione di Dio di estendere a tutto il mondo la sua carità, il suo amore forte e umile. Così si spiega anche la prima lettura. Dio si è scelto e formato un popolo, dopo averlo liberato dalle mani dei pagani. Ma tutti i privilegi che egli ha elargito a questo popolo: "l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi", come scrive Paolo ai Romani (9,4), gli sono dati per la salvezza delle genti. Paolo stesso, ebreo da ebrei, è stato chiamato per essere l'apostolo delle genti. E san Pietro scrive nella sua prima lettera, parlando dei profeti: "Fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate".
Tutti i doni, tutte le grazie che il Signore ci fa sono per l'utilità di tutti, come scrive ancora Pietro: "Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta mettendola a servizio di tutti".
Domandiamo a Gesù di spalancarci il cuore alla universale carità che riempie il suo, fornace ardente di carità
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19/07/2015 08:03
 
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fr. Massimo Rossi
Commento su Marco 6,30-34

Avete appena ascoltato la descrizione di una giornata-tipo degli apostoli: oggi, come venti secoli fa, l'agenda quotidiana del predicatore è fitta di impegni. L'amore per le pecore senza pastore costituisce uno dei due assi di quell'ipotetico grafico, sul quale è tracciata la linea della vita di Cristo: il secondo asse è l'amore per Dio. Sulla linea della vita di Cristo dobbiamo sovrapporre la vita del discepolo: amare soltanto Dio, o soltanto gli uomini non è possibile, non lo è almeno secondo la fede, che il cristiano ha scelto come unità di misura assoluta dell'amore.
L'amore per gli uomini non è solo questione di annuncio delle verità evangeliche, predicate, insegnate... Alla scuola di Cristo noi impariamo l'amore integrale per tutto ciò che è dell'uomo: mente, cuore, spirito, corpo... Tra la statura teologica e spirituale di Agostino di Ippona e l'ardore della promozione umana di Teresa di Calcutta, non c'è alcuna differenza di valore; si tratta di due tratti diversi e complementari della carità.
Stiamo celebrando il bicentenario della nascita di don Bosco, uno dei santi sociali, che animarono la società torinese, incarnando l'attenzione e la cura che la Chiesa da sempre mostra per gli affaticati e gli oppressi, per i poveri e gli emarginati... "I poveri li avete sempre con voi...": questa dichiarazione apparentemente cinica e priva di speranza nel riscatto dei poveri, esprime il tormento del Signore per tutti i poveri del mondo, un tormento che scaturisce dalla consapevolezza di essere ormai alla fine della sua vita e della sua missione.
Al tempo stesso, non possiamo trascurare il contesto nel quale Gesù ebbe a pronunciare questa sentenza: il Signore sedeva a cena, in casa dell'amico Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria: ad un tratto Maria si alzò da tavola e, presa una libbra di olio profumato, vero nardo assai prezioso, ne cosparse i capelli di Gesù; tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento. Giuda Iscariota intervenne per criticare quel gesto: sarebbe stato meglio devolvere in beneficenza i soldi spesi, ben trecento denari (cfr. Gv 12).
L'attenzione a coloro che sono meno fortunati, va moderata con l'attenzione a Dio in quanto tale: la promozione umana va sintonizzata con la liturgia! La liturgia senza l'impegno della carità sarebbe un mero intellettualismo religioso. La promozione umana senza la liturgia sarebbe solo filantropia: con tutto il rispetto per i filantropi - ce ne fossero! -, la loro dedizione ai poveri tradisce sempre una connotazione autoreferenziale, che non appartiene, almeno in teoria, alla carità. La fede in Dio orienta l'attenzione del credente, spostandola da sé all'altro: qualunque cosa faccia, o dica, l'apostolo tiene lo sguardo costantemente fisso su Dio e sull'uomo. Questo significa rinnegare sé stessi, perdere la propria vita... Certo, la nostra umanità, intrinsecamente fragile, per quanto generosa e sensibile al prossimo, non sarà mai in grado di concepire un'azione totalmente pura da ogni egoismo... Dunque, smettiamola di fare il processo alle intenzioni nostre e altrui! Il processo alle intenzioni è un po' come la Guardia di Finanza... quando ti entra in casa, o in fabbrica, e controlla ai raggi X i registri dei conti, qualche sbavatura, qualche imperfezione colpevole la trova sempre. Onore al merito dei finanzieri, comunque!
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato emerge la stanchezza fisica, emotiva e mentale degli apostoli, continuamente alle prese con i drammi dell'uno, dell'altro... Una vera e propria processione di disperati, ciascuno col suo problema, ciascuno degno di essere preso a carico, come se fosse l'unico...
È cosi anche oggi!... Chi bussa alla porta di un convento, o di una parrocchia, non è mai come gli altri... il suo bisogno è diverso, è unico, almeno secondo la sua propria percezione. Difficile, guardare negli occhi un povero, un carcerato, un malato, uno straniero... e riconoscere in lui il vero volto di Cristo! Difficile, guardare un povero senza pensar male di lui: "Eccone un altro che ti vuole spillare soldi, inventando, che so, la malattia del figlio, un viaggio per raggiungere un paese lontano...": quale sarà la verità?
Anche Gesù, a margine della moltiplicazione dei pani per migliaia di persone, denuncia: "Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'Uomo vi darà!" (Gv 6,26ss.). Tuttavia la critica espressa dal Signore non influenza la sua volontà di bene, offerta a tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti... come (Gesù stesso) dichiara nel famoso discorso della montagna (cfr. Mt 5, 45).
Concludo con una parola sul riposo del discepolo: mi vengono in mente le figure di Francesco di Assisi, di Domenico di Guzman, iniziatori del movimento mendicante che approdò alla fondazione dei due rispettivi Ordini religiosi medievali: i frati Minori e i Predicatori. Tanto l'uno che l'altro morirono cinquantenni, letteralmente consumati dalla fatica del loro ministero.
Nei Vangeli continuamente risuona la coscienza che la messe è molta, aumenta in modo esponenziale; ma gli operai sono pochi, sempre di meno, e non bastano mai! Quest'anno noi Domenicani del centro-nord Italia abbiamo chiuso ben tre conventi! Il numero delle potenziali vocazioni e i motivi che attirano ad entrare in convento, o in seminario, non sono incoraggianti...
Si parla di desertificazione della fede. Le percentuali dei fedeli che frequentano la Messa e, in genere, dell'interesse per le questioni religiose, sono sempre più sconfortanti.
Ebbene, lasciamo le statistiche ai talk-show televisivi di seconda serata. Prendiamo atto che il lavoro non manca, almeno nel campo del Signore. Paradossalmente, i riscontri di segno negativo ci confermano nella convinzione che la Parola di Dio può essere annunciata e vissuta molto di più e meglio in questa società scristianizza, che in quella di ieri, ove si dormiva sugli allori di un cristianesimo forte, nell'illusione che niente e nessuno lo avrebbe mandato in crisi. Credere che la Chiesa sarebbe stata per sempre l'ago della bilancia della nostra società, è stato forse imprudente... Semplici come colombe, ma avveduti come serpenti, insegna il Signore ai discepoli (cfr. Mt 10,16): non siamo stati né semplici, né avveduti... Ora abbiamo imparato la lezione. Non siamo migliori, né peggiori degli altri. E il mondo non è un demone da combattere, ma da amare...
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20/07/2015 08:09
 
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Possiamo capire l'angoscia degli Ebrei stretti fra il mare e l'esercito egiziano e riconoscerci anche nella loro reazione di viltà che li fa rimpiangere la schiavitù prima aborrita e la decisione di seguire Mosè: "Forse perché non c'erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?... Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani?". La loro soluzione sarebbe di arrendersi e tornare in schiavitù.
Ma vediamo piuttosto la soluzione di Dio. Il Signore disse a Mosè: Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino". La soluzione è da cercare in avanti, nella continuazione del cammino intrapreso fidandosi di lui.
E qui viene l'insegnamento per noi. In ogni cammino vitale si incontrano ostacoli, difficoltà anche gravi e tante volte possiamo essere tentati di bloccarci, di tornare indietro, alla situazione che oggi ci sembra più tranquilla, con meno problemi. Ma questo non è il pensiero di Dio. "Chi mette mano all'aratro e poi si volta indietro non entrerà nel regno dei cieli" ha detto Gesù. La soluzione non è nel voltarci indietro, ma nel pregare il Signore che ci faccia trovare la sua soluzione. Essa potrà essere inaspettata, ma sempre in continuazione al cammino iniziato in obbedienza alla sua volontà. E neppure dobbiamo chiedere "segni", come i farisei nel Vangelo di oggi. Dio agli Israeliti nel deserto ha dato segni strepitosi e li darà anche ai nostri tempi, se così gli piacerà, ma non tocca a noi chiederli. La richiesta di segni è molte volte un alibi per la nostra pigrizia, per la riluttanza a compiere la volontà del Signore.
Oggi la liturgia della parola ci dà una lezione di coraggio e di fiducia. Dio è forte ed è fedele, e ci chiama ad avanzare insieme con lui, che fa delle difficoltà mezzi per "dimostrare la sua gloria", la sua presenza vittoriosa. "Io sono il Signore", dice a Mosè. Da noi vuole solo una totale fiducia, come la richiedeva al popolo di Israele per dargli la Terra promessa
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21/07/2015 07:44
 
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L'impressionante scena del passaggio del mar Rosso ci è di grande aiuto a capire meglio le meraviglie che Dio ha compiuto nella redenzione, di cui è figura la liberazione degli Ebrei, compiuta con mano potente, malgrado gli sforzi dei nemici. Anche noi siamo stati liberati, liberati dal peccato, con un gesto di potenza: la risurrezione di Gesù, che viene però dopo l'estrema umiliazione della morte di croce. Dobbiamo quindi nutrire gli stessi sentimenti di Israele: "Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l'Egitto e il popolo temette il Signore". E il timor di Dio, che è rispetto sommo, obbedienza, amore.
Ma vorrei sottolineare un altro aspetto: le stesse realtà possono servire alla vita e alla morte e tutto, se siamo uniti a Dio, può cooperare al bene. Qui il mare per gli Israeliti è cammino sicuro, una protezione meravigliosa, "una muraglia a destra e a sinistra"; per gli Egiziani invece è acqua di perdizione. Vedremo ripetersi la stessa cosa durante il viaggio nel deserto: i serpenti saranno per gli Ebrei strumenti di morte, ma il serpente di bronzo elevato su un'asta diventa strumento di vita; ecc. Così prendiamo coscienza della potenza della fede: le cose possono servire al bene e al male, ma essenziale è l'adesione a Dio. Pietro camminerà sull'acqua, finché avrà fiducia nel Signore.
In realtà è Gesù che ha trasformato l'acqua amara della sua passione in acqua viva per la nostra salvezza. Morte e vita si intrecciano: sarà la morte del Figlio a donare a noi la vita di figli di Dio.
Restiamo saldi nella fede. Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede
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22/07/2015 07:32
 
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Riccardo Ripoli
Donna, perché piangi?

A volte noi "ometti" prendiamo in giro le donne perché piangono, ma quanta più forza di noi hanno dentro. Quanto riescono a sopportare le donne per amore del loro uomo, per un ideale, per i propri figli. Purtroppo nel cammino dell'affido ho visto tante mamme abbandonare i bambini, oppure maltrattarli, ma sono una minima parte rispetto agli uomini che mal si comportano. Una donna piange nel silenzio per non rattristare chi la ama, piange quando è maltrattata senza farsene accorgere per proteggere i figli, versa lacrime quando si immedesima nel dolore di un'amica, ha occhi languidi per distribuire dolcezza, ha la fierezza di un capo capace di organizzare ogni cosa, ma sa mettersi in disparte per alimentare la nostra parte maschile che vuole dominare.
Ho visto coppie crescere nel percorso dell'affido e quasi sempre il desiderio di aiutare un bambino proveniva dalla donna che, trovandosi il marito contrario, riusciva pian piano a instillare anche in lui il desiderio di accoglienza. La donna è furba, molto più di noi, ma, al contrario degli uomini, il più delle volte usa questa sua dote per il bene degli altri, specie dei figli.
I momenti più dolci e più belli del Vangelo si hanno quando ad essere protagonista è una donna. Pensate alla maternità di Maria e alla dolcezza della risposta umilissima della Madonna "sia fatta la tua volontà"; al giorno in cui la madre di Gesù scopre che sua cugina è in dolce attesa, non ci pensa nemmeno un istante e parte alla volta di Elisabetta per accudirla; al dolore che silenziosamente la Madonna ha portato in grembo per tutta la vita di Gesù sapendo che sarebbe dovuto morire e mai si è permessa di dire nulla, restando però vicino al figlio fino all'ultimo istante.
Quante mamme coraggio hanno sfidato la mafia, la camorra, gli spacciatori. Quante mamme ho visto stare vicine ai figli delinquenti e nello stesso tempo piangere con le madri delle vittime dei loro stessi figli.
Le donne non sono l'altra metà del cielo, sono il cielo intero dove noi uomini abbiamo la fortuna di poter vivere come meteore perché una donna ci ha amati e ci ha lanciati nella vita.
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23/07/2015 08:25
 
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padre Lino Pedron
Gv.15,21ss

In questo brano Gesù scongiura i suoi amici di rimanere in lui, nel suo amore, per portare molto frutto e per godere la gioia in pienezza. L'espressione dominante di questo testo è "rimanere in", che ricorre sette volte.
Gesù si presenta come la vite della verità: in questo modo afferma di essere il Cristo, il profeta definitivo atteso dagli ebrei e la fonte della rivelazione piena e perfetta.
Nell'Antico Testamento la vite ha simboleggiato il popolo d'Israele.
Il salmo 80 canta la storia del popolo di Dio utilizzando l'immagine della vite che Dio ha divelto dall'Egitto per trapiantarla in Palestina, dopo averle preparato il terreno.
La presentazione del Padre, come l'agricoltore che coltiva la vite identificata con Gesù, richiama il canto d'amore di Isaia 5,1-7 nel quale il Signore è descritto come il vignaiolo che cura la casa d'Israele.
La vite-Gesù produce numerosi tralci; non tutti però danno frutto. Il portare frutto dipende dal rapporto personale del discepolo con Gesù, dall'unione intima con il Cristo. L'opera purificatrice di Dio nei discepoli di Gesù ha come scopo una fecondità maggiore.
Dio purifica i discepoli dal male e dal peccato per mezzo della parola di Gesù. Per Giovanni la purificazione è legata alla parola di Cristo, cioè all'adesione, per mezzo della fede, alla sua rivelazione.
Gesù parla della mutua immanenza tra lui e i suoi amici. Nel passo finale del discorso di Cafarnao, egli aveva fatto dipendere questa comunione perfetta tra lui e i suoi discepoli dal mangiare la sua carne e dal bere il suo sangue (Gv 6,56). La finalità della comunione intima con Gesù, il frutto che ogni tralcio deve portare è la salvezza.
L'uomo separato da Cristo, che è la fonte della vita, si trova nell'incapacità di vivere e operare nella vita divina. Senza l'azione dello Spirito Santo è impossibile entrare nel regno di Dio (Gv 3,5); senza l'attrazione del Padre, nessuno può andare verso il Cristo e credere in lui (Gv 6,44.65).
Come il mondo incredulo si trova nell'incapacità totale di credere (Gv 12,39) e di ricevere la Spirito della verità (Gv 14,17), così i discepoli, se non rimangono uniti al Cristo, non possono operare nulla
sul piano della fede e della grazia (v. 5).
Chi non rimane in Cristo, vite della verità, non solo è sterile, ma subirà la condanna del giudizio finale (v. 6).
Una conseguenza benefica del rimanere in Gesù è l'esaudimento delle preghiere dei discepoli da parte del Padre. L'unione intima e profonda con Gesù rende molto fecondi nella vita di fede e capaci di glorificare Dio Padre (v. 8).
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24/07/2015 07:53
 
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Mercoledì la liturgia ci ha fatto leggere la parabola del seminatore, oggi ascoltiamo la sua spiegazione, data da Gesù stesso. E un testo conosciutissimo e i testi conosciutissimi possono generare una sensazione di fastidio, ma è una tentazione contro la parola di Dio e dobbiamo stare attenti a non caderci. C'è un modo di considerare la parola di Dio come oggetto della nostra curiosità invece che come essa è, parola di vita. E un seme, ha detto Gesù. E c'è il rischio di fare come un naturalista che prende in mano un seme, lo osserva, lo seziona, lo esamina al microscopio e, soddisfatta la sua curiosità di studioso, lo butta via. il seme e così la parola di Dio non è fatto per questo, ma per suscitare la vita.
Questa parabola è sempre utile per chiunque, perché il nostro atteggiamento verso la parola di Dio facilmente tende a svicolare davanti alle sue esigenze e così a non accogliere le grazie che in essa Dio ci comunica. Molti la studiano, ma senza comprenderla come parola di vita, che può salvare la nostra vita.
Dice Gesù che c'è "1'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante". E qui troviamo un altro motivo che rende molto utile riflettere ripetutamente su questa parabola. Noi cerchiamo la gioia della parola, ed è cosa ottima, ma sovente tutto sembra finire li, perché non abbiamo costanza. Bisogna cercare la vita che è nella parola, con uno sforzo penoso, duro, perché essa possa mettere radici nella terra sassosa del nostro cuore, radici profonde, che resistano a tutte le stagioni.
Nella preghiera bisogna essere perseveranti nella parola di Dio, superando la stanchezza, lo scoraggiamento, per trovarvi la sorgente profonda; allora soltanto darà frutti in noi e non sarà solo motivo di una gioia superficiale.
Accogliere la parola di Dio è vivere uniti a lui, è prendere sul serio la vita, offrendo con semplicità la nostra vita perché sia feconda per tutto il mondo.
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25/07/2015 07:23
 
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La domanda della madre dei figli di Zebedeo che si prostra davanti a Gesù con i suoi due figli, Giacomo e Giovanni, riflette l’ambiguità con la quale il popolo e i discepoli, anche quelli che sono stati scelti - i Dodici -, capiscono Gesù, la sua persona e il suo messaggio, e cosa significa seguirlo. Essi chiedono un posto influente in politica, un potere nel mondo. La risposta di Gesù li forza ad un cambiamento radicale di prospettiva in rapporto con lui. Essi si dichiarano disposti a bere dal calice da cui lui stesso deve bere. Si tratta di un regno, quello che annuncia Gesù, che si trova completamente nelle mani del Padre e che si raggiunge con un cammino di dolore e di passione, non una qualsiasi passione o dolore, ma del dolore e della passione del Figlio, di Gesù. Per entrare in questo regno, nel regno del Padre, non è sufficiente bere dal calice ma bisogna bere dal calice di Cristo.
Gli altri dieci non hanno un’opinione di Cristo diversa da quella della madre e dei figli di Zebedeo. Reagiscono con indignazione e gelosia. Tutti pretendono il primo posto al fianco di colui che sperano sia il futuro Re di Israele. La lezione che dà Gesù, riunendoli, approfondisce fino all’estremo il contenuto paradossale della sua azione liberatrice - incomprensibile per gli uomini, ineffabilmente luminosa vista secondo l’amore di Dio -: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”. Di qui nasce l’esigenza fondamentale per chi vuole essere suo discepolo: l’esigenza del servizio che va fino al dono della vita per il Maestro e per i fratelli.
Giacomo, il figlio di Zebedeo, ha assimilato la lezione, rapidamente e in modo eroico. Fu il primo degli apostoli a bere dal calice del Signore. Il suo primo martire.
Una venerabile tradizione della Chiesa di Compostella e delle altre diocesi della Spagna lo riconosce come il suo primo evangelizzatore. Attraverso l’esperienza di un apostolato intrepido - rendere testimonianza del Vangelo fisicamente fino al “Finis terrae” allora conosciuto -, egli seppe che cosa significa servire nel senso di Cristo. Per la Chiesa, e per i suoi membri più giovani, rimangono e rimarranno sempre il suo esempio affascinante e la sua intercessione
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