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MEDITIAMO LE SCRITTURE (Vol 4) Anno B

Ultimo Aggiornamento: 04/12/2012 08:06
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25/12/2011 09:56
 
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PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Marco Simeone

La festa di Natale per me è sempre stata una festa strana, forse perché è la più incrostata dalle sovrastrutture del mondo, o forse perché è una festa che parla di gioia, che è un sentimento particolare, e alla gioia ci si educa. È molto più facile esultare, farsi prendere dall'euforia o da tutti gli altri sentimenti "gratta e vinci" che siamo stimolati a vivere da ciò che ci circonda; oggi invece si parla insieme di gioia e di serenità, di pace e di speranza: roba seria. Si, perché quando la seconda lettura dice che è apparsa la grazia apportatrice di salvezza, il nostro cuore dovrebbe alzare il capo, proprio come un prigioniero a cui viene comunicata la scarcerazione, come un malato a cui viene detto che una medicina c'è, come una coppia in crisi che per un istante ritrova il sorriso e ritorna ai primi giorni del fidanzamento.
E questo vuol dire che il nostro cuore deve funzionare bene, saper andare in profondità, essere capace di ascoltarsi nel profondo, col coraggio anche di affrontare le ferite che ci sono; per questo abbiamo vissuto l'avvento, abbiamo provato a prepararci (con esiti altalenanti..). Eppure adesso ci siamo: è nato, è qui. Forse alla radice il Natale c'è proprio questo: una notizia. Ma attenzione che non si fermi soltanto a questo. Perché una notizia è un fatto che viene reso manifesto, poi sta a chi l'ascolta entrarci dentro o tenersene alla larga; come che sia, il fatto rimane lì in tutta la sua realtà.
Noi oggi accogliamo una notizia che conosciamo e che ancora non viviamo appieno (almeno io): Dio è l'Emmanuele, il Dio-con-noi, quello che ha piantato la sua tenda tra noi per restare, per fare corpo con noi. Bella notizia, ma cosa implica? Implica che io devo riconoscere che ho bisogno di Dio, bisogno come l'assetato dell'acqua, come l'affamato di cibo, come quello che crolla dal sonno: un bisogno dell'anima che è forte e tangibile almeno come quelli del nostro corpo. Ma l'assetato non si mette a fare i complimenti, non "spizzica", beve e si disseta.
Tutte le letture ci parlano di luce che brilla nelle tenebre: I - il popolo che cammina nelle tenebre; II - ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani che sono il buio dell'anima; il vangelo parla della notte dei pastori; dice un salmo che "alla Sua luce vediamo la luce"; la luce che brilla stanotte mi fa vedere quanta poca luce ci sia nella mia vita e quante tenebre la coccolano; e mi fa una proposta, ecco la notizia: Dio è venuto a stare con me per vivere insieme e per trasformarmi.
La gioia nasce da questo contrasto: se io sto bene per conto mio per il natale proverò una forma di benevolenza, ma in fondo al cuore declinerò l'offerta, tanto a che mi serve un'altra luce? Un'altra speranza? Come quando si gioca a carte: "sto!" le mie carte mi bastano. Oppure ho il coraggio di guardarmi dentro e allora cambia la musica. Isaia dice che il bastone dell'aguzzino è stato spezzato: io ho un aguzzino? Chi è? Quale è? Forse quel peccato o quel vizio (ira, pigrizia, etc.); oppure quel problema che mi ha tolto il sorriso: bene, oggi è stato spezzato. O come ci dice S. Paolo posso finalmente incamminarmi per avere un cuore puro, senza surrogati o scorciatoie al punto che posso "vivere con sobrietà, giustizia e pietà" felice di farlo, realizzato. Ma allora dovrei riconoscere che nel mio cuore ci sono desideri mondani: io?! Io che sono così bravo/bello/buono/cristiano? Quanti dei nostri desideri di bene potremmo dire che sono come Dio vuole, nei contenuti e nei metodi per realizzarli? Sono domande da farsi. O come ci dice il Vangelo che i pastori, non molto ben visti, dal punto di vista della pratica religiosa del tempo, avvisati dall'angelo si sono messi in movimento, ci hanno creduto al punto di prendere armi i e bagagli e incamminarsi. Qualcuno potrebbe dire che è difficile non credere quando un angelo ti ha parlato: io ricorderei semplicemente che Gesù faceva miracoli davanti ai farisei e questi non credevano, ma anche che tante volte Dio ci ha dato un segno chiaro ed inequivocabile e noi ancora facciamo i vaghi?
Aggiungiamo un altro pezzo: come si compie tutto ciò? Dio ha scelto una via così rocambolesca che ancora oggi facciamo fatica a comprendere tutte le implicazioni di quel gesto: visto che eravamo così malmessi, così in fondo al pozzo, che tra tiraci una fune per farci salire da noi, creare un ascensore che ci riportasse su, ha scelto di? tuffarsi e di stare con noi!
Ha scelto la condivisione della nostra realtà, ha scelto di soffrire come noi, ha scelto di soffrire per noi (a causa nostra e a favore nostro); che strano! Però forse significa che Dio Lui per primo ci crede all'amore, che si prende sul serio quando dice di volerci bene come un padre o come uno sposo "? nella buona e nella cattiva sorte?"; la via della debolezza che ha scelto Dio serve per riaccendere in noi la capacità di amare, di abbassare le difese e di riscoprire che siamo fatti a Sua immagine, che se non amiamo siamo morti, che la chiusura e la paura ci rendono aridi, sterili.
Un ultimissimo pensiero, perché altrimenti è troppo lunga la predica, potrebbe essere questo: dove nasce Gesù? Duemila anni fa in una grotta/stalla, molto più probabilmente nel sotto casa di qualcuno (luogo deputato a tenere anche gli animali). Un luogo che nessuno avrebbe mai pensato per un messia che volesse farsi accettare. E quest'anno quale è il luogo più impensato dove nasce Gesù? E sappiamo che nascere vuole dire tuffarcisi dentro. Io vi propongo un luogo nuovo: se quest'anno nascesse proprio in chiesa, nella Chiesa, perché il Suo corpo mistico arrivi a maturità? Cosa potrebbe cambiare nella Chiesa, nella mia comunità parrocchiale, in me che sono chiesa nel DNA dal giorno del mio battesimo? Una canzone famosa finisce col dire: "io mi sto preparando, ed è questa la novità".

SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Stefano e Teresa Cianfarani

Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un'altra fede e i non credenti, cui l'antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia.
Attraverso i secoli, da Natale a Natale, da Notte Santa a Notte Santa, questa gioia ci colpisce. Anche ad un mondo profano, ad una società secolarizzata, questa notte porta qualcosa a cui nessuno sfugge: uno squarcio di luce, una ventata di gioia, anche per il più oscuro dei derelitti. In gran parte è soltanto folclore, diranno molti. Forse possono avere ragione. Ma che cosa importa? E se il folclore non fosse che la religione provvisoria dei poveri, in attesa della Rivelazione, alla quale basterebbe forse la gioiosa proclamazione che noi abbiamo da poco sentito in questa notte per trasformarsi in fede e in lode delle meraviglie di Dio? Perché la grazia di Dio è veramente manifestata per la salvezza di tutti gli uomini.
Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un'altra luce splendente, fintanto che le campane della messa di mezzanotte suonano e il miracolo della notte santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori: "E il Verbo si fece carne". Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata.
Nessuno è escluso da questa gioia. Neppure coloro che non sanno. Non importa che siano in pochi a comprendere, purché tutti possano partecipare al banchetto. Chi ha avuto la possibilità di comprendere, faccia in modo che anche gli altri prendano parte alla loro gioia. E la Chiesa, che è la sola a capire pienamente il Cristo nascente in questa notte fra le sue braccia, è in festa affinché il mondo intero riceva qualche briciola del banchetto. Anche al tempo di Gesù erano veramente in pochi a capire. A questa festa di gioia, non può essere dimenticato Colui che vi presiede. Un giorno Gesù ci svelerà il segreto della gioia di Dio. Lo farà tracciando il ritratto di un pastore che, avendo perduto una sola pecora delle cento che aveva, lascia le novantanove ed ogni altra cosa per andare alla ricerca della pecora smarrita. Avendola trovata, se la carica sulle spalle, e, felice, la riporta all'ovile. La gioia di Natale, è proprio questa gioia di Dio. Gioia di Dio siamo noi, che abbiamo bisogno della misericordia, noi per il quale il Figlio di Dio ha abbandonato tutto, il Padre e tutti gli esseri celesti, per raggiungerci e salvarci. Ci prenderà sulle spalle, ci porterà nelle sue braccia come si porta un neonato, e finirà per condurci per sempre nella gioia di Dio.
Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono ancora divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi in una notte oscura. Già all'indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa ed indossa il colore del sangue e, nel quarto giorno, il violetto del lutto: Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i bambini innocenti, i lattanti di Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle rozze mani dei carnefici, sono i seguaci che attorniano il Bambino nella mangiatoia. Che significa questo? Dov'è ora il giubilo delle schiere celesti, dov'è la beatitudine silente della notte santa? Dov'è la pace in terra? Pace in terra agli uomini di buona volontà. Ma non tutti sono di buona volontà.
Per questo il Figlio dell'eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il mistero dell'iniquità aveva avvolto la terra. Le tenebre ricoprivano la terra, ed egli venne come la luce che illumina le tenebre, ma le tenebre non l'hanno compreso. A quanti lo accolsero egli portò la luce e la pace; la pace col Padre celeste, la pace con quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore e profonda del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre. Ad essi il Principe della pace non porta la pace ma la spada. Per essi egli è pietra d'inciampo, contro cui urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l'incanto del Bambino nella mangiatoia non deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell'incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti. Alla luce, che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante la notte del peccato.
Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa terra. I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la via che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione. Era l'annuncio della passione, della lotta fra la luce e le tenebre che si era già manifestata già attorno alla mangiatoia!
La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell'ora, probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui aveva risposta al tuo timore nel momento dell'annunciazione: "Non temere Maria!". Quante volte il Signore, il tuo Figlio, aveva detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non temete! Nella notte del Golgota, tu sentisti nuovamente questa parola.
La redenzione, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino.

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