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CREDENTI

RIFLESSIONI BIBLICHE

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    Coordin.
    00 06/09/2017 07:22
    All'inizio di questa ventiduesima settimana abbiamo visto come Gesù a Nazaret abbia resistito alla tendenza possessiva dei suoi compaesani, costringendoli ad accettare di non essere i destinatari privilegiati del suo ministero e dei suoi miracoli. Chi vuol impossessarsi di Gesù egoisticamente, per proprio profitto e godimento non lo riceve affatto, perché l'unione con lui non è possibile se non nell'amore generoso, nell'apertura di cuore. Nel Vangelo di oggi lo stesso orientamento viene confermato, la stessa lezione ci viene data, questa volta a Cafarnao, città dove Gesù si era recato dopo la sua visita a Nazaret. Lì, dopo aver insegnato con autorità nella sinagoga, andò nella casa di Simon Pietro. "La suocera di Simon Pietro era in preda ad una grande febbre. Lo pregarono quindi per lei", con grande fiducia nell'efficacia della sua parola. Effettivamente Gesù, "chinatosi sull'ammalata, intimò alla febbre e la febbre la lasciò". Ne risultò che a questa notizia "tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui". Con una bontà straordinaria Gesù ebbe cura di ciascuno di loro:
    "Imponendo su ciascuno le mani, li curava". Come è significativa questa attenzione personale di Gesù per ciascuno! Egli dirà più tardi: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me"; il buon pastore "chiama le sue pecore per nome", le conosce una per una.
    Occuparsi personalmente di ogni singola persona è certamente una grande fatica. Gesù l'affrontava generosamente. Si capisce quindi facilmente che quando, il giorno seguente, egli andò altrove, "le folle lo cercarono e, raggiuntolo, lo volevano trattenere perché non se ne andasse via da loro". Gesù aveva suscitato la gratitudine, la stima, l'ammirazione. ~ suo ministero aveva ottenuto pieno successo. La reazione naturale sarebbe di approfittarne, cedendo al desiderio della gente. Gesù invece non cede, non accetta di fermarsi a Cafarnao.
    Dichiara: "Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche nelle altre città". Con questa risposta corre il rischio di deludere la gente; però egli è consapevole di avere una missione più ampia. Non è venuto per cercare il proprio successo, bensì per fare la volontà del Padre, che l'ha mandato in cerca delle pecore smarrite, dovunque si trovino.
    Con questo atteggiamento dinamico Gesù rivela al mondo la stupenda generosità di Dio. L'amore divino è sconfinato, non accetta limiti, cerca di salvare tutti, va incontro anche ai propri nemici, per proporre la riconciliazione e l'unione.
    A questo proposito possiamo osservare una grande differenza tra il ministero di Gesù e quello di Giovanni Battista. La vocazione del Battista, infatti, non fu di andare in cerca della gente. Egli si mise a predicare non in una città, ma in un luogo disabitato. Non andava verso la gente; era la gente a venire da lui. Gesù invece prese ad annunziare il regno di Dio dove stava la gente; si muoveva, "andava predicando nelle sinagoghe della Giudea". Anche san Matteo dice: "Percorreva tutte le città e i villaggi, predicando il Vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9,35). Così Gesù mise in moto "la missione": è stato il primo missionario. Risorto, estese questa missione al mondo intero. Agli undici Apostoli disse: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt 28, 19); "Andate intutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Mc 16, 15). Apparve poi a Paolo sulla strada di Damasco per fare di lui l'"Apostolo delle nazioni" (Rm 11,13; cfr.At9, 15;22, 15;26, 1718). Nellaprimalettura di oggi vediamo che Paolo si rallegra della diffusione del Vangelo che "in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa" (Col 1, 6).
    ~ dinamismo straordinario della missione cristiana parte, lo dobbiamo capire, da una esigenza dell'amore. Gesù ci ha rivelato, a parole e ancor più con i fatti, che il vero amore è universale. Se vogliamo essere uniti a lui nell'amore, dobbiamo aprire sempre più il nostro cuore.
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    00 07/09/2017 06:44
    Per san Pietro l'episodio della pesca miracolosa segnò un nuovo inizio, dopo il suo primo incontro con Gesù. "Gesù gli disse: "Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini"".
    Ogni nuovo giorno per un cristiano è un nuovo inizio: dobbiamo sempre essere a disposizione del Signore e ogni giorno cominciare con la sua parola. Tutti i giorni sembrano uguali; in realtà, nella ripetitività delle occupazioni c'è sempre la novità della parola di Dio che ci dà una piccola luce per quella giornata, che ci dà la forza e la fiducia che, appoggiati ad essa, il nostro giorno sarà fruttuoso per noi e, misteriosamente, per tutto il mondo. Gli Apostoli sulla parola di Gesù gettarono di nuovo le reti, "e presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano".
    Viviamo ogni giorno così, lasciando che il nostro lavoro sia reso spiritualmente fecondo dalla potenza della parola del Signore. Non sempre ne vedremo i frutti, è vero, ma la fede ci rende certi che in lui nulla va perduto.
    "Portate frutto in ogni opera buona ci esorta san Paolo nella prima lettura rafforzandovi con ogni energia secondo la gloriosa potenza di Dio, per poter essere forti e pazienti in tutto; ringraziando con gioia il Padre". Nei tratti semplici della vita quotidiana, sotto le ordinarie apparenze della vita di ogni uomo, opera sempre "la gloriosa potenza di Dio"; per questo bisogna essere attenti e vigilanti a non lasciarla operare invano, per esserne testimoni nella nostra condotta.
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    Coordin.
    00 08/09/2017 09:58
    La liturgia ci fa chiedere a Dio che la festa della natività della Madonna ci faccia crescere nella pace. Ed è effettivamente una festa che deve aumentare la pace in noi, perché ci parla dell'amore di Dio verso di noi.
    La nascita di Maria è il segno che Dio ha preparato per noi la salvezza: per questo ha preparato il corpo e l'anima della madre di Gesù, che è anche madre nostra.
    San Paolo nella lettera ai Romani scrive: "Quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (8,29). Questo è particolarmente vero per la Vergine santa, predestinata ad essere conforme all'immagine del Figlio di Dio e figlio suo. E Dio ha predisposto tutte le cose secondo questa intenzione: "Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio", troviamo poco prima nella stessa lettera.
    Dio ha preparato tutte le generazioni umane in vista della nascita di Maria, in vista della nascita di Gesù, e insieme ha agito con mezzi soprannaturali.
    E nel Vangelo di oggi si può dire che appaiono sia la parte naturale che quella soprannaturale, l'una e l'altra necessarie per la nascita di Maria.
    Questa lunga serie di generazioni, così monotone alla lettura, è in realtà come la sintesi di una storia vivente, spesso anche di peccatori, che è stata condotta da Dio verso la nascita di Maria e di Gesù.
    Alla fine però il disegno di Dio si è realizzato con mezzi straordinari, sconcertanti: Giuseppe non capisce ciò che succede, perché avviene per opera dello Spirito Santo. Non bastano dunque le generazioni
    umane che si succedono nel tempo per il compimento del progetto di Dio: è necessario l'intervento dello Spirito Santo.
    Tutto dunque ci parla dell'amore di Dio: amore di Dio creatore, amore di Dio salvatore.
    Oggi dobbiamo, più di sempre, dire a Dio la nostra riconoscenza, la nostra gioia perché egli ha amato Maria e ci ha amati.
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    Coordin.
    00 09/09/2017 07:59
    Cristo, che era sin dall'inizio Signore di tutto il creato, si mostra consapevole, nel Vangelo di oggi, di essere Signore del sabato, il che significa la sua uguaglianza con Dio, perché è Dio ad aver stabilito la legge del sabato, come riferisce il racconto della Genesi.
    Questa uguaglianza viene affermata più esplicitamente nel quarto Vangelo, quando Gesù, criticato da certi Giudei perché aveva guarito un paralitico in giorno di sabato, rispose loro: "11 Padre mio opera sempre e anch'io opero". L'evangelista fa allora questo commento: "Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo", perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.
    Orbene, Gesù, Signore di tutto, ha accettato la sorte degli schiavi, anzi il supplizio riservato agli schiavi ribelli, il supplizio della croce. L'ha accettato per portare a termine l'opera d'amore affidatagli dal Padre, liberandoci completamente dal male.
    Nella prima lettura di oggi Paolo esprime questo mistero di amore e ne fa l'applicazione ai Colossesi, dicendo: "Anche voi un tempo eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive che facevate, ma ora Dio vi ha riconciliati per mezzo della morte del corpo di carne di Cristo, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto". Tutti eravamo nemici, perché tutti soggetti al peccato e Dio, per mezzo di Cristo, ha operato la riconciliazione.
    Osserviamo che è uno strano modo di concepire la riconciliazione, nel senso che, di solito, a cercare la riconciliazione deve essere la persona che ha recato offesa, non chi è stato offeso. Invece, nel caso della salvezza, è Dio ad aver cercato la riconciliazione e ad averla attuata. Si tratta di una generosità stupenda. Nella lettera ai Romani Paolo esprime il suo stupore e la sua ammirazione davanti a questo modo di agire di Dio:
    "Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito... Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi". E continua: "Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo". E si meraviglia, riflettendo: "A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene, ma Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi".
    L'ambizione di Dio per noi è molto alta: ci vuole "santi, immacolati, irreprensibili". Questa ambizione è l'espressione del suo amore paterno, ed egli l'ha resa ormai realizzabile. Non è un sogno irraggiungibile diventare santi, immacolati, irreprensibili al cospetto di Dio, ma una possibilità che ci è sempre offerta, perché la morte di Gesù, il suo amore ci ottiene tutte le grazie necessarie per vivere anche noi in questa generosità che viene dal Padre, che passa attraverso il cuore di Gesù e ci raggiunge nei sacramenti.
    La condizione viene espressa da san Paolo: occorre restare "fondati e fermi nella fede", cioè aderire a Cristo mediante la fede, essere in questo modo collegati alla corrente di amore che viene da Dio e passa attraverso Cristo. Chi è saldo nella fede riceve la grazia e diventa santo.
    San Paolo diceva: "Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Ciascuno di noi dovrebbe poter proclamare questa stessa frase. Credere in Cristo vuol dire credere nel suo amore, credere nel Figlio di Dio che mi ha amato al punto da dare la propria vita per me. Cristo è veramente degno di fede, perché ci ha tanto amati. Contemplandolo sulla croce rinnoviamo la nostra fede nel suo amore e cosi cammineremo sulla via della santità.


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    Coordin.
    00 10/09/2017 08:03
    padre Gian Franco Scarpitta
    Correzione, amore e comunione

    Un autore anonimo scrive: ?Se non hai un amico che ti avvisi dei tuoi difetti, paga un nemico perché lo faccia?. Effettivamente non ci si rende conto di quanto sia importante considerare con attenzione e obiettività le lacune, le carenze e le defezioni che normalmente ci caratterizzano, soprattutto perché esse possono costituire un pericolo anche per la nostra stessa vita, perché ogni mancanza o difetto può trasformarsi in occasione di rovina o di capitolazione. Nella misura in cui si riconosce una colpa, ammettendola si cerca di emendarsi da essa; quanto più consideriamo i nostri errori tanto più saremo capaci di porvi rimedio e di evitarli, con prosperose conseguenze di successo per noi stessi e per gli altri. Ai tempi del liceo ginnasio ricordo che il professore di matematica, che solitamente usava intervenire bruscamente e con pedanteria ad ogni minimo errore nelle interrogazioni, una volta commentò: ?Io devo evitare che sbagliate in classe, perché voi possiate evitare di commettere errori nella vita... Devo rimproverarvi su ciò che in fondo è banale, perché nessuno un giorno possa rimproverarvi su ciò che è fondamentale. Non vi perdono un minuto di ritardo a scuola, perché non diventi imperdonabile il ritardo che potreste portare sul posto di lavoro.? A dire il vero, che si qualche volta si possa sbagliare è comprensibile e spesso anche produttivo, abituarsi a sbagliare diventa però dannoso soprattutto perché si inizia a credere nei propri errori. Avere dei difetti è caratteristico di ciascuno, ma legittimare i propri difetti induce ad accentuarne la portata, a renderli ancora più perniciosi.
    Quindi è proprio vero che la correzione fraterna è sinonimo di amore e omettere di correggere gli altrui errori corrisponde a mancare di carità. Se siamo invitati tutti ad espletare il sommo Comandamento dell'amore universale verso Dio e verso il prossimo, non possiamo disattendere la correzione fraterna, la premura nel riprendere i fratelli che sbagliano, l'interessamento affinché gli altri non commettano più peccato. Il capitolo 33 del libro di Ezechiele, da cui è tratta la prima Lettura di oggi, è abbastanza istruttivo su questo aspetto della correzione come sinonimo di carità, perché sottolinea che essa non soltanto è doverosa, ma rientra fra i Comandamenti stessi di Dio. Non è l'unico passo biblico in cui ci si chiede espressamente di collaborare affinché gli altri non cadano in peccato, senza contentarsi dell'atteggiamento mediocre e distaccato per cui siamo attenti solo a non sbagliare noi stessi. Ciascuno è in realtà responsabile che gli altri emendino la propria condotta; a tutti deve interessare il ravvedimento di quanti si trovano nell'errore, tutti dovremmo sentirci in dovere di recuperare chi sbaglia e al momento del giudizio sarà quindi premura del Signore domandare conto anche a noi degli errori dei fratelli, se cioè ci saremo adoperati nella correzione e nell'emendazione di essi, perché limitarci a non peccare noi stessi può diventare sinonimo di egoismo e d'indifferenza e contrassegna un qualunquismo e un disinteresse che non è certamente cristiano.
    La correzione va certamente esercitata con delicatezza e premurosa carità e non è un autodominio o un'imposizione nei confronti di chi sbaglia. Chi corregge non può non considerare di essere interessato a sua volta da limiti e da defezioni e di essere anch'egli suscettibile di errori, quindi occorre che eviti ogni sorta di prevaricazione e di sottomissione, che sarebbe solo umiliante e non otterrebbe che l'effetto contrario. Essa va tuttavia esercitata senza riserve e senza refrattarietà.
    Denunciare alle forze dell'ordine una persona sorpresa in flagranza di reato, come insegna il Diritto e il buon senso civico, è dovere fondamentale di tutti i cittadini; non già perché chi ha sbagliato venga sottoposto a critica, giudizio o condanna, ma perché possa questi essere messo in condizioni di potersi emendare e intanto la comunità possa essere al sicuro da chi nuoce. In un regime di democrazia, qualsiasi cittadino può esclamare ?Sei in arresto? alla persona che sul momento infrange la legge perché tutti quanti rispondiamo della sicurezza e della serenità del vivere sociale. In un ambito di Chiesa, istituzione voluta da Dio per la nostra salvezza, tutto ciò diventa ancora più rilevante perché è volontà di Dio che si eserciti la correzione fraterna per l'edificazione dello stesso Corpo Ecclesiale. La stessa Chiesa è una comunità sempre in cammino, che si riscopre continuamente colpevole, che necessita di convertire gli altri non prima di aver emendato se stessa. La Chiesa Sante è anche peccatrice e nei suoi membri esercita sempre il ruolo indispensabile di conversione reciproca dei peccatori. In essa siamo tutti penitenti, cioè doverosi e desiderosi di conversione e mentre ci orientiamo verso il Signore non possiamo mancare di correggerci gli uni gli altri. Gesù nel suo discorso pedagogico prevede di fatto, sia pure per inciso, le cosiddette ?pene medicinali?, orientate cioè al recupero e all'emendazione di chi ha sbagliato perché chi pecca vada punito in proporzione alla sua colpa e venga invitato a riflettere, a considerare se stesso e a mutare vita. L'esercizio della correzione è dato ai singoli fratelli, quindi all'intera comunità ecclesiale senza escludere tuttavia che il colpevole possa fare la sua scelta definitiva di errore. In tal caso non potremo far altro che considerarlo ?pagano e pubblicano?, ossia ostile e refrattario alla misericordia del Signore che si espleta nei fratelli.
    Non deve mancare in ogni caso la premura dell'intero Corpo di Cristo (la Chiesa) affinché chi è manchevole possa sperimentare l'amore di Dio, che è amore di riconciliazione e non di vendetta. E affinché noi tutti nell'esercizio della correzione fraterna possiamo ravvivare la gioia della comunione e della vita insieme.
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    Coordin.
    00 11/09/2017 08:53
    Nella prima frase della prima lettura di oggi le traduzioni sono di solito inesatte. L'ha fatto osservare a ragione l'ultimo commento pubblicato sulla lettera ai Colossesi, quello di padre Aletti, professore all'Istituto Biblico. Per migliorare lo stile della frase di Paolo, i traduttori infatti modificano un po' l'ordine delle parole. Sembra poca cosa; in realtà cambia il senso. Traducono: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo". Con questa traduzione fanno dire a Paolo che la passione di Cristo è stata manchevole; manca qualche cosa ai patimenti di Cristo, e Paolo ha l'ambizione di completare ciò che manca. Questa idea non poteva certamente venire in mente a san Paolo. Egli in realtà non parla dei patimenti di Cristo in questa frase. Dice "tribolazioni", il che già indica una sfumatura; ma soprattutto l'espressione "nella mia carne" non si trova prima, ma dopo le parole "che manca alle tribolazioni di Cristo". La frase si deve tradurre: "Completo quello che manca nella mia carne alle tribolazioni di Cristo", oppure: "quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne".
    Alla passione di Cristo non manca niente, è sufficiente per salvare il mondo intero; però la passione di Cristo deve essere applicata alla vita di ciascun credente e questo comporta una certa dose di tribolazioni: "Dobbiamo soffrire con lui dice altrove san Paolo per poter essere glorificati con lui". Ogni vocazione cristiana comprende quindi una parte di tribolazioni, che deve essere attuata. In questo senso Paolo dice che completa ciò che manca all'applicazione della passione di Cristo nella sua esistenza. E una vocazione alta, questa applicazione alla nostra vita della passione di Cristo. Paolo la vede in modo molto positivo, al punto di dire:
    "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi". Egli è convinto della fecondità di questa partecipazione alla passione di Cristo; vede la passione nella luce della risurrezione; sa che la partecipazione alla passione è condizione per partecipare alla risurrezione. Parla quindi di letizia, di gioia anche nelle sofferenze.
    E non è il solo ad avere questa prospettiva. San Pietro nella sua prima lettera invita tutti i cristiani a rallegrarsi quando hanno parte alle sofferenze di Cristo:
    "Quando avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, affinché anche quando si manifesterà la sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare".
    La nostra vocazione cristiana ci porta a riconoscere la grazia nascosta nelle sofferenze e nelle prove della vita, grazia preziosa di unione a Cristo nella sua passione, grazia dell'amore autentico, che accetta di pagare di persona. Se il valore supremo è quello dell'amore autentico, occorre accogliere i mezzi necessari per progredire nell'amore non soltanto con rassegnazione, ma con gioia.
    Chiediamo allora al Signore di aiutarci a riconoscere la grazia nascosta nei momenti difficili. Se l'apprezziamo al suo giusto valore, potremo dire con san Paolo:
    "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa".
    È chiaro che la partecipazione alla passione di Cristo si fa sempre in un orientamento d'amore. Paolo scrive: "Le sofferenze che sopporto per voi... Completo quello che manca a favore del corpo di Cristo che è la Chiesa". Soltanto se accogliamo la sofferenza in questa prospettiva di offerta generosa di amore potremo provare in noi la gioia stessa del Signore.




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    Coordin.
    00 12/09/2017 08:40
    Nella lettura di oggi una espressione di san Paolo attira subito l'attenzione. L'apostolo chiede ai cristiani di essere radicati e fondati nella fede, "abbondando nell'azione di grazie". Questo verbo "abbondare", lo sappiamo, è caratteristico del temperamento generoso di Paolo; diceva di sovrabbondare di gioia, sovrabbondare di amore, sovrabbondare di fede... E qui invita i Colossesi ad abbondare nel rendimento di grazie. In greco abbiamo la parola "eucaristia" che significa rendimento di grazie. Perché abbondare nell'azione di grazie, nell'amore riconoscente? Lo spiega dopo: perché siamo stati colmati di grazie.
    "In Cristo dice siamo stati sepolti e risuscitati". il mistero pasquale di Cristo non è un evento individuale; Cristo ci ha preso con sé, di modo che esso vale per ciascuno di noi: "Con lui siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati... Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati". Siamo stati ricolmati di grazie e lo dobbiamo ricordare sempre, per la nostra gioia e per avere con Dio quella relazione di amore riconoscente che è assolutamente fondamentale nella vita spirituale.
    Gli esegeti hanno osservato che san Paolo parla spesso dell'amore del prossimo, invita ad amare gli altri con generosità e non invita quasi mai ad amare Dio:
    parla raramente dell'amore verso Dio. Dicono talvolta che Paolo per Dio vede la relazione sotto il profilo della fede, e per il prossimo sotto il profilo dell'amore. Questa affermazione però è inesatta. Per Dio Paolo vede una relazione d'amore riconoscente; non adopera la parola "agàpe" amore perché questo termine esprime l'amore generoso e non l'amore riconoscente. Egli quindi invita spesso i cristiani a vivere nella riconoscenza verso Dio. Egli stesso, e l'abbiamo già osservato, incomincia regolarmente le sue lettere con una espressione di gratitudine verso Dio: "Ringrazio sempre il mio Dio per voi..."; talvolta usa una espressione diversa, ma che ha lo stesso significato: una espressione di benedizione di Dio: "Benedetto sia Dio...", che era usata dagli Ebrei per esprimere la riconoscenza.
    Dobbiamo prendere sul serio questo invito dell'Apostolo ad "abbondare nel rendimento di grazie". Troppo spesso rimaniamo in un'atmosfera più o meno negativa di lagnanze, di lamentele, anche perché siamo pieni di difetti e la nostra vita spirituale non è perfetta come dovrebbe, quindi abbiamo sempre motivi di insoddisfazione. Però, se viviamo nella fede, dobbiamo mettere al secondo posto questa insoddisfazione e al primo, invece, la riconoscenza verso il Signore per tanti doni che abbiamo ricevuto, per tanti doni che in continuazione riceviamo. Vivendo nella riconoscenza, cresceremo nell'amore in maniera molto più efficace che non con i nostri poveri sforzi e i nostri lamenti.
    Dobbiamo considerare con attenzione ciò che sentiamo in ogni Messa. La preghiera della Messa è una preghiera eucaristica, cioè di rendimento di grazie, come il prefazio mette in evidenza magnificamente: "E veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore...". Prendiamo sul serio questa affermazione solenne della Chiesa. Temo che la frequenza con cui la ascoltiamo la faccia passare inavvertita: non siamo veramente convinti che rendere grazie è fonte di salvezza, non apriamo abbastanza il nostro cuore nell'atteggiamento dell'amore riconoscente, che è così benefico e d'altra parte è doveroso. Però è un dovere che riempie di gioia poter ringraziare Dio, è una sorgente di letizia continua.
    Perciò anche san Paolo diceva ai Tessalonicesi appena convertiti: "Rallegratevi sempre, pregate in continuazione, rendete grazie in ogni circostanza". Questa è l'atmosfera della vita cristiana: un'atmosfera di gioia, grazie alla preghiera e alla riconoscenza.
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    Coordin.
    00 13/09/2017 07:57
    Paolo Curtaz
    Commento su Lc 6,20-26

    Luca riprende Matteo e il suo discorso della montagna con la strabiliante pagina delle beatitudini. Ma aggiunge qualcosa di suo, scoperto nella sua lunga e meticolosa indagine sull'origine della fede che egli ha conosciuto attraverso la predicazione di Saulo. Sintetizza le beatitudini e aggiunge quattro ammonizioni, quattro "guai" che spaventano, soprattutto nelle pagine del vangelo della misericordia. Perché lo fa? Me lo sono chiesto mille volte! Ma quest'anno questa pagina cade in una data che è diventata simbolica per noi uomini del ventunesimo secolo: l'11 settembre, momento in cui ci siamo paventati sapendo che si poteva usare la fede per giustificare ogni crimine e che la religione, invece di unire, poteva drammaticamente dividere. Ha ragione Luca a non fare le cose semplici: è impegnativo vivere le beatitudini e su tutto rischia di prevalere la logica del mondo, così ben sintetizzata nella drammatica sintesi che egli ne dà: piacere, ricchezza, potere. L'orizzonte in cui Luca si situa, però, ci apre alla speranza: le beatitudini contrapposte alla logica del mondo emergono ancora di più in tutta la loro strabiliante novità e innovazione!
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    Coordin.
    00 15/09/2017 08:53
    Il mondo ha tanto bisogno di compassione e la festa di oggi ci dà una lezione di compassione vera e profonda. Maria soffre per Gesù, ma soffre anche con lui e la passione di Cristo è partecipazione a tutto il dolore dell'uomo.
    La liturgia ci fa leggere nella lettera agli Ebrei i sentimenti del Signore nella sua passione: "Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte". La passione di Gesù si è impressa nel cuore della madre, queste forti grida e lacrime l'hanno fatta soffrire, il desiderio che egli fosse salvato da morte doveva essere in lei ancora più forte che non in Gesù, perché una madre desidera più del figlio che egli sia salvo. Ma nello stesso tempo Maria si è unita alla pietà di Gesù, è stata come lui sottomessa alla volontà del Padre.
    Per questo la compassione di Maria è vera: perché ha veramente preso su di sé il dolore del Figlio ed ha accettato con lui la volontà del Padre, in una obbedienza che dà la vera vittoria sulla sofferenza.
    La nostra compassione molto spesso è superficiale, non è piena di fede come quella di Maria. Noi facilmente vediamo, nella sofferenza altrui, la volontà di Dio, ed è giusto, ma non soffriamo davvero con quelli che soffrono.
    Chiediamo alla Madonna che unisca in noi questi due sentimenti che formano la compassione vera: il desiderio che coloro che soffrono riportino vittoria sulla loro sofferenza e ne siano liberati e insieme una sottomissione profonda alla volontà di Dio, che è sempre volontà di amore
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    Coordin.
    00 17/09/2017 09:17
    padre Ermes Ronchi
    L'unica misura del perdono è perdonare senza misura

    «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L'unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché il Vangelo di Gesù non è spostare un po' più avanti i paletti della morale, ma è la lieta notizia che l'amore di Dio non ha misura. Perché devo perdonare? Perché cancellare i debiti? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.
    Gesù lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di una città: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava..»" e il re provò compassione. Il re non è il campione del diritto, ma della compassione. Sente come suo il dolore del servo, e sente che questo conta più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell'oro. E per noi subito s'apre l'alternativa: o acquisire un cuore regale o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, "appena uscito", trovò un servo come lui.
    "Appena uscito": non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo. "Appena uscito", ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l'esperienza di come sia un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: "Dammi i miei centesimi"», lui perdonato di miliardi!
    Eppure, questo servo "'malvagio" non esige nulla che non sia suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele. Così anche noi: bravissimi a calare sul piatto tutti i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri. E passiamo nel mondo come predatori anziché come servitori della vita.
    Giustizia umana è "dare a ciascuno il suo". Ma ecco che su questa linea dell'equivalenza, dell'equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell'eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l'altra guancia, dare senza misura, profumo di nardo per trecento denari.
    Quando non voglio perdonare (il perdono non è un istinto ma una decisione), quando di fronte a un'offesa riscuoto il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché annullare il debito, stringo un nuovo laccio, aggiungo una sbarra alla prigione.
    Perdonare, invece, significa sciogliere questo nodo, significa lasciare andare, liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, credere nell'altro, guardare non al suo passato ma al suo futuro. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica.



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    Coordin.
    00 18/09/2017 09:13
    Durante la sua vita la missione di Gesù era necessariamente ristretta: egli era mandato a predicare il Vangelo del regno al popolo eletto, secondo le promesse divine.
    La sua prospettiva però non era ristretta, perché sapeva benissimo che Dio aveva promesso, per mezzo della discendenza di Abramo, la benedizione per tutte le nazioni. Questo allargamento universale è stato reso possibile ed effettivo grazie al mistero pasquale di Cristo; tuttavia anche prima alcuni episodi evangelici lo lasciavano prevedere. Oggi ne leggiamo uno molto significativo: un centurione esprime la sua fede nell'intervento di Gesù per la guarigione di un suo servo.
    La distanza tra i pagani e il popolo eletto si manifesta nell'atteggiamento di quest'uomo, che umilmente non vuole nemmeno disturbare il Signore: non lo chiama, non lo invita ad andare a casa sua, lo prega di comandare da lontano alla malattia: "Comanda con una parola e il mio servo sarà guarito".
    Però, d'altra parte, questa manifestazione di fede dimostra che la grazia lavorava anche nel cuore dei pagani, con risultati meravigliosi, anzi Gesù esclama: "Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!". La Chiesa ha scelto, proprio per il momento prima della comunione, le parole del centurlone:
    "Non sono degno che tu venga nella mia casa, ma di' soltanto una parola e la mia anima sarà guarita".
    Nella prima lettura l'apertura universale dell'amore di Cristo si manifesta attraverso le esortazioni di san Paolo, che raccomanda che "si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini". La comunità cristiana non può richiudersi su se stessa, è chiamata ad essere portatrice di grazie per tutti, ci è richiesta una totale apertura di cuore.
    "C'è un solo Dio e un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù", quindi la sua mediazione ha valore universale e deve essere proposta a tutti.
    San Paolo precisa che i cristiani devono pregare in modo speciale per i governanti: "Per i re scrive e per tutti quelli che stanno al potere". I governanti hanno una responsabilità pesante, importante, li dobbiamo compassionare sinceramente, anche perché sono soggetti a tentazioni più forti degli altri uomini; un pensatore ha detto: "il potere corrompe", e il potere assoluto corrompe assolutamente; c'è un rischio tremendo per chi sta al potere, il rischio di abusarne a proprio profitto, per il proprio interesse. ll risultato naturalmente è l'ingiustizia che si diffonde liberamente. Per questo motivo è tanto necessario pregare per i governanti. Noi cristiani dobbiamo avere il senso della preghiera universale, aprire davvero il nostro cuore ai bisogni del mondo intero, non essere sempre preoccupati dei nostri interessi, dei nostri bisogni, delle nostre necessità, o di quelle dei nostri cari. Certamente dobbiamo avere un effetto particolare e una particolare cura per chi ci sta vicino, però, se vogliamo essere uniti al cuore di Gesù, dobbiamo nutrire nella preghiera una carità che si estenda a tutti, pregare e anche ringraziare dice san Paolo a nome di tutti gli uomini. Aprendo largamente il nostro cuore, riceviamo anche largamente le grazie del Signore e il suo amore universale.
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    00 19/09/2017 08:01
    Il racconto della risurrezione del figlio della vedova di Nain presenta due atteggiamenti di Gesù: la sua compassione e il miracolo che egli compie. Spontaneamente noi siamo portati a rilevare più il miracolo, ma la cosa più grande è la compassione di Gesù:
    "il Signore ne ebbe compassione, e le disse: "Non piangere!". E accostatosi toccò la bara". E il figlio di Dio che si avvicina, si fa prossimo al dolore umano e gli offre consolazione, senza neppure esserne richiesto: "Giovinetto, dico a te, alzati!... E lo diede alla madre". L'espressione di Luca è identica a quella che troviamo nel Libro dei Re al racconto della risurrezione del figlio della vedova per mezzo di Elia e anticipa il giudizio del popolo: "Un grande profeta è sorto tra noi". Gesù è un grande profeta, come Elia, come Eliseo.
    Qui l'evangelista chiama Gesù "Signore", per la prima volta dopo il racconto della nascita: la vittoria sulla morte incomincia a manifestare Gesù come Signore, padrone di tutte le cose, della vita e della morte. Così si fa chiaro il significato messianico di questo episodio.
    Soltanto Luca, tra gli evangelisti, riporta questo miracolo, che mette in evidenza la tenerezza di Gesù per gli umili e i poveri, come tanti altri passi del Vangelo lucano, nel quale la misericordia divina risplende in modo particolare.
    Ringraziamo il Signore di essersi fatto conoscere da noi attraverso gli occhi dei suoi evangelisti e apriamo il cuore alla sua carità, alla sua compassione, perché egli lo trasformi e lo renda davvero sempre più assomigliante al suo.
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    00 20/09/2017 09:21
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su 1Cor 13,8

    "La carità non avrà mai fine"

    1 Cor 13,8
    Come vivere questa Parola?

    Sembra, ma non è un'affermazione qualsiasi. E' forte come una diga che si oppone all'infrangersi di grandi acque. Proviamo a pensarci.

    Posso ottenere il possesso di una quantità enorme di cose belle e preziose: una villa con splendido ampio giardino tinteggiato di svariati fiori; ma le mura subiscono il degrado inferto dal tempo. Non parliamo dei fiori, degli alberi stessi che, non curati, perdono colore, profumo, vita stessa.

    Pensiamo a montagne di banconote, di soldi liquidi. Intrighi burocratici e improvviso cambiare di interessi economici manovrati dai grandi detentori delle ricchezze mondiali possono, di punto in bianco, far crollare enormi somme di denaro. La giovinezza passa in fretta. Passano gli agi e le più desiderate capacità con il trascorrere del tempo.

    C'è una cosa sola che non passa: la carità, vale a dire l'amore con cui Dio ci ama e quello che, per amor Suo, noi c'impegniamo ad avere per il nostro prossimo oltre che per noi stessi.

    Sotto un cielo uggioso per le avvisaglie delle piogge già quasi autunnali ho in cuore la luce di questa certezza: tutto sta passando tranne quel che più conta: percepirmi amata infinitamente da Dio, crederlo con tutte le forze e imparare a scommettere sul fatto che, con il Suo aiuto, potrò amare sempre nel giusto modo ossia nel solco del suo comandamento.
    Signore, il soffio delicato del Tuo Spirito tenga desta in me la Fede nel Tuo Amore che dura sempre e la capacità di amare in Te e per Te senza stancarmi mai!
    La voce della fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù

    "La carità esercitata all'esterno non dovrebbe essere che il traboccare della carità profonda attinta nella vita di orazione, l'irradiare di Cristo stesso".
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    00 21/09/2017 09:51
    Nel Vangelo odierno Matteo stesso racconta la propria chiamata da parte di Gesù. San Gerolamo osservava che soltanto lui, nel suo Vangelo, indica se stesso con il proprio nome: Matteo; gli altri evangelisti, raccontando lo stesso episodio, lo chiamano Levi, il suo secondo nome, probabilmente meno conosciuto, quasi per velare il suo nome di pubblicano. Matteo invece insiste in senso contrario: si riconosce come un pubblicano chiamato da Gesù, uno di quei pubblicani poco onesti e disprezzati come collaboratori dei Romani occupanti. I pubblicani, i peccatori chiamati da Gesù fanno scandalo.
    Matteo presenta se stesso come un pubblicano perdonato e chiamato, e così ci fa capire in che cosa consiste la vocazione di Apostolo. E prima di tutto riconoscimento della misericordia del Signore.
    Negli scritti dei Padri della Chiesa si parla sovente degli Apostoli come dei "principi"; Matteo non si presenta come un principe, ma come un peccatore perdonato. Ed è qui ripeto il fondamento dell'apostolato: aver ricevuto la misericordia del Signore, aver capito la propria povertà e pochezza, averla accettata come il "luogo" in cui si effonde l'immensa misericordia di Dio: "Misericordia io voglio; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori".
    Una persona che abbia un profondo sentimento della misericordia divina, non in astratto, ma per se stessa, è preparata per un autentico apostolato. Chi non lo possiede, anche se è chiamato, difficilmente può toccare le anime in profondità, perché non comunica l'amore di Dio, l'amore misericordioso di Dio. ~ vero Apostolo, come dice san Paolo, è pieno di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, avendo esperimentato per se stesso la pazienza, la mansuetudine e l'umiltà divina, se si può dire così: l'umiltà divina che si china sui peccatori, li chiama, li rialza pazientemente.
    Domandiamo al Signore di avere questo profondo sentimento della nostra pochezza e della sua grande misericordia; siamo peccatori perdonati. Anche se non abbiamo mai commesso peccati gravi, dobbiamo dire come sant'Agostino che Dio ci ha perdonato in anticipo i peccati che per sua grazia non abbiamo commesso. Agostino lodava la misericordia di Dio che gli aveva perdonato i peccati che per sua colpa aveva commesso e quelli che per pura grazia del Signore aveva evitato. Tutti dunque possiamo ringraziare il Signore per la sua infinita misericordia e riconoscere la nostra povertà di peccatori perdonati, esultando di gioia per la bontà divina.
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    Coordin.
    00 22/09/2017 09:22
    Nella sua vita pubblica Gesù ha suscitato la dedizione di molte donne, che lo seguivano assistendo generosamente con i propri beni lui e i Dodici. Certamente esse non "consideravano la pietà come fonte di guadagno", come san Paolo scrive a Timoteo. Erano donne che erano state guarite e liberate dal Signore e per questo gli erano devote, avendo ricevuto da lui il vero senso della loro vita. Tutti gli evangelisti parlano di queste donne, ma gli altri solamente alla fine del Vangelo, nel racconto della passione, perché esse furono fedeli fino alla fine, mentre gli Apostoli si erano dispersi. E le troviamo al mattino della risurrezione, perché furono le prime a giungere al sepolcro.
    Gesù capisce profondamente il cuore delle donne, ne conosce la generosità, la profondità dei sentimenti e vuole che le donne siano con lui, perché gli sono utili nel suo ministero. Egli ha chiamato i Dodici perché stessero con lui, e ha chiamato, perché stessero con lui, anche queste donne.
    Luca, dicevo, è l'evangelista che ne parla di più, perché il suo è il Vangelo dei rapporti personali, intimi con il Signore, della dedizione a lui. San Matteo ha una prospettiva più ampia: parla a tutta la Chiesa; san Marco è specialmente preso dal mistero della persona di Gesù; Luca invece è proprio l'evangelista della donazione personale al Signore e per questo è più interessato ai rapporti interpersonali, più sensibile al ruolo delle donne nella vita di Gesù e dei suoi apostoli. San Matteo, per esempio, parla dell'infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe, mentre Luca si pone nella prospettiva di Maria e riporta nel suo Vangelo molti episodi in cui compaiono le donne, che gli altri evangelisti non hanno conservato: per esempio la risurrezione del figlio della vedova di Nain. Ed è ancora solo Luca che, al momento della passione, parla del pianto delle donne di Gerusalemme.
    Le letture di oggi ci suggeriscono intenzioni molto complete di preghiera. Preghiamo dunque perché gli Apostoli e i cristiani del nostro tempo sappiano evitare tutte le contese, le questioni oziose, che non sono la vera, la sana dottrina secondo la pietà. Preghiamo perché sappiano evitare la grande tentazione della ricerca del denaro. Preghiamo per coloro che vogliono arricchirsi ad ogni costo, perché capiscano che il desiderio smodato del denaro è la radice di tutti i mali. Preghiamo perché gli Apostoli e tutti i cristiani tendano ai veri beni: la fede, la carità, la pazienza, la mitezza. E chiediamo che tutti siano guariti "da spiriti cattivi e da infermità", come le donne di cui parla il Vangelo. Preghiamo perché tutti possano raggiungere la vita eterna alla quale sono chiamati.
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    Coordin.
    00 23/09/2017 08:16
    Casa di Preghiera San Biagio FMA
    Commento su Lc 8.15

    "Beati coloro che custodiscono la Parola di Dio con cuore integro e buono e producono frutto con perseveranza".

    Canto al Vangelo (cfr. Lc 8.15)
    Come vivere questa Parola?

    Beati vuol dire contenti. E' un genere di contentezza che non va di pari passo con il mangiar bene e cercare la felicità nel chiasso-baldoria del molto possedere. La gioia conosce piuttosto le vie del cuore. Attinge a tutto, anche a quello che, fuori, parla ai nostri sensi di cose vere, buone e belle. Chiede però di battere le vie dell'interiorità.

    E' dunque dentro di me che, se faccio spazio alla Parola di Dio meditata (respirata!) di primo mattino, io sgattaiolo sempre via dalla pesantezza del ?doverismo', dell'obbedire alla legge per la legge, dalla pedanteria del far questo e quello solo perché è mio compito, dal grigiore di ciò che è nella nebbia di una vita non motivata dall'Alto.

    Invece il cuore diventa integro e buono se è illuminato ogni giorno dalla Parola di Dio. Essa è il sole che lo fa maturare in questa ?integrità e bontà' dove la cattiveria, tutto ciò che è male non alligna.

    Bisogna però educarsi a cercare questa ricchezza dell'interiorità! E ciò vuol dire non essere sempre a caccia di quel che TV, ipod, telefonini e aggeggi nuovi scaricano assiduamente nei nostri ambienti.

    Il seme della Parola chiede al nostro cuore di essere "buon terreno": capace di silenzio, di ascolto di quel che vale, di netto rifiuto dell'insulsaggine.
    Signore, dammi un cuore capace di perseverare nell'accogliere ogni giorno la Parola e ogni giorno impegnarmi a viverla.
    La voce di un filosofo rumeno

    "Il vero contatto fra gli essere si stabilisce con la presenza silenziosa, con lo scambio misterioso, interiore, che assomiglia alla preghiera profonda".
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    00 24/09/2017 10:11
    don Alberto Brignoli
    Grazia e Giustizia

    A Gesù ci possiamo rivolgere chiedendogli di tutto: un aiuto, un'illuminazione, anche un miracolo, come ne ha fatti tanti nella sua vita terrena...veramente di tutto. Tranne una cosa: non chiediamogli di svolgere la funzione di rappresentante sindacale, perché farebbe solamente dei danni! Almeno, stando alla parabola che abbiamo ascoltato, che è presente solo in Matteo (uno che di furbate con i soldi se ne intendeva...) e che certamente lascia sconcertati, perché non ce l'aspetteremmo mai che il Maestro faccia passare come insegnamento una palese ingiustizia. Eh, sì: non occorre essere dei sindacalisti per capire che un operaio va retribuito in base al lavoro che fa, né più né meno, e che chi lavora più ore debba essere pagato di più. Non puoi pagare 6 ? l'ora un operaio con la stessa qualifica e lo stesso livello di uno che paghi 10 ? l'ora: c'è qualcosa che non torna. C'è un'evidente ingiustizia: se nel ritirare la busta paga mi accorgo che mi è stato tolto qualcosa, magari a vantaggio di un fannullone che arriva al lavoro quando vuole, altroché se protesto e faccio valere i miei diritti! Non può il Vangelo - che si presenta come un annuncio di liberazione dalle ingiustizie - narrarmi una parabola in cui dei braccianti agricoli che lavorano dodici ore vengono pagati un denaro, e altri braccianti agricoli che lavorano un'ora sola vengono pagati ugualmente un denaro! Una roba del genere è impensabile!
    Difatti, non può essere pensata se non con il modo di pensare di Dio, il quale - lo dice Isaia nella prima lettura - non coincide con il nostro modo di pensare. L'uomo fa coincidere la giustizia con la retribuzione; Dio fa coincidere la giustizia con la grazia. Ciò che per l'uomo è un premio alle sue fatiche, per Dio è un regalo, e come tale è gratuito, ossia dato per pura grazia.
    Non c'è altro modo per comprendere questa parabola se non a partire da quanto la precede, nei versetti finali del capitolo 19 di Matteo, quando Pietro a nome dei discepoli chiede a Gesù quale sarà il loro premio per aver lasciato tutto e averlo seguito: ?Che cosa ne avremo in cambio??. E Gesù gli risponde con un elenco di cose che sanno evidentemente di regalo: qui sulla terra, riceverete il centuplo di quello che avete lasciato, e poi la vita eterna, e nella vita eterna un trono nell'assemblea del giudizio, per giudicare le dodici tribù d'Israele. Esagerato...per una barca, due reti e una casetta in riva al lago, tutte ?ste cose? A dei poveri, umili pescatori di Galilea? Proprio così: è proprio un discorso di regali gratuiti e abbondanti, incommensurabilmente più grandi delle loro fatiche e dei loro sacrifici! Per il solo fatto di aver detto di sì al Maestro, loro che erano considerati ultimi saranno i primi, e i primi, gli ultimi.
    E questa è pure la frase con cui termina la parabola degli operai nella vigna, una parabola che presenta evidenti situazioni di ingiustizia, umanamente parlando, ma che secondo la logica della grazia e della gratuità non fa una piega. Chi vuole avere a che fare con un Dio retributore che ci ripaghi secondo quanto facciamo, è servito: stabilisca pure con Dio il salario di un denaro, come fanno gli operai della prima ora, e questo gli verrà dato, senza togliergli un solo centesimo. Nessun torto: questo hai pattuito, questo ti viene dato. D'altronde, tu sai bene come devi fare con Dio, sei esperto: lavori per lui da tempo, lo conosci da sempre, sai bene che è necessario mettere in chiaro sin dall'inizio quale dev'essere la paga. C'è chi invece Dio lo incontra per grazia, senza conoscerlo più di tanto, senza nemmeno sapere che è Dio, senza immaginare a che ora passa nella sua vita, senza nemmeno aspettarselo dopo una giornata intera passata in giro, a zonzo, alla ricerca di qualcosa da fare, ma anche no, oppure dopo una vita tormentata, in cui Dio non si è mai fatto vivo più di tanto e non lo ha mai chiamato una sola volta per stare con lui. Ecco, adesso Dio passa e dice anche a lui di andare a lavorare nella vigna: a qualcuno dice che gli darà ?ciò che è giusto?, ad altri (guarda caso gli ultimi) non dice proprio nulla, se non rimproverarli benevolmente per non essersi fatti avanti subito a cercare un po' di lavoro. Assunti per ultimi e pagati per primi, e per di più quanto i primi! I quali, ovviamente, non la mandano a dire al padrone: se si paga per retribuzione, ?a cottimo?, noi dobbiamo prendere di più di questi che hanno lavorato neppure il dieci per cento di quello che abbiamo lavorato noi! E, infatti, a loro il padrone paga secondo il criterio di retribuzione: dà loro quanto pattuito. Il fatto è che con gli ultimi usa il criterio della grazia e della gratuità, e li paga quanto vuole (in questo caso come i primi) perché con loro non ha pattuito nulla, per cui è libero di fare quello che vuole, così come loro sono stati liberi di andare a lavorare senza chiedere al padrone ?Quanto mi dai??.
    Ma il problema riguarda ovviamente i primi, quelli della prima ora, che prima ancora di iniziare a lavorare per lui chiedono ?Quanto mi dai??, come se non si fidassero del padrone. E siccome vedono di non essere considerati più e meglio degli ultimi arrivati, allora la buttano sul personale e sul confronto, sempre fastidioso e pieno di rancore, di rabbia, di invidia: ?Noi abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo, e questi invece han lavorato solo un'ora, e veniamo trattati alla stessa maniera! Non è giusto! Perché faticare così tanto??. Come quando noi, cristiani della prima ora, giunti di buon mattino a lavorare nella vigna del Regno di Dio e quindi esperti delle cose di Dio, avanziamo delle pretese nei suoi confronti: vogliamo sapere quale sarà il nostro compito, che responsabilità avremo, quali spazi ci verranno dati, in quali orari faremo i nostri incontri, a che ora faremo le riunioni, quali aule avremo per il catechismo, quante riunioni avremo in un anno, chi saranno i nostri colleghi, quali celebrazioni dovremo fare, chi ci sarà nel gruppo con noi, e via dicendo, e una volta chiarito questo, sotto a lavorare, come facciamo da anni. E noi sì, che abbiamo lavorato, nella vigna che è la ?nostra? comunità (?nostra? perché ci sentiamo padroni): altro che questi qua che arrivano all'ultimo momento e gli vengono dati i nostri stessi spazi, fanno le stesse cose che facciamo noi, le loro idee vengono tenute in considerazione tanto quanto le nostre, vengono dati loro incarichi anche più belli dei nostri, e magari finora sono stato ai margini della vigna, in piazza a fare niente, senza preoccuparsi più di tanto della comunità! Non è giusto che siano considerati uguali a noi!
    Infatti, Dio non ha mai parlato di giustizia, con loro: con i primi, ha parlato di giustizia e quindi agisce con giustizia, perché sa che fanno le cose solo se sanno cosa ne hanno in cambio, e alla fine a loro non toglie niente. Con gli ultimi, invece, agisce per grazia, gratuitamente: non pattuisce nulla, chiede solo la loro disponibilità a lavorare nella vigna, e di fronte a una chiamata inattesa e a un sì incondizionato, questi si ritrovano ricompensati dalla bontà del Signore, che è pura gratuità, regalo, grazia.
    Pensiamoci due volte, prima di mormorare contro chi arriva alla fede solo alla fine della vita; pensiamoci due volte, prima di mormorare contro chi vuole portare idee nuove in ambienti vecchi; pensiamoci due volte, prima di rimproverare a Dio di essere troppo buono...



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    Coordin.
    00 25/09/2017 07:52
    Fate attenzione a come ascoltate" dice il Signore. Quando ascoltiamo la parola di Dio dobbiamo preoccuparci di approfondirla, di accoglierla con tutto il cuore. Questo vale oggi per il passo del Libro di Esdra che parla della ricostruzione del tempio di Gerusalemme, per ordine di Ciro: "Così dice Ciro re di Persia: il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruìrgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giudea". E meraviglioso: Dio causa un enorme cambiamento della scena mondiale affinché il suo tempio in Gerusalemme possa essere ricostruito. "Chi di voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo Dio, torni a Gerusalemme e ricostruisca il tempio del Signore Dio d'Israele". E una chiamata di Dio, che giunge in modo stupefacente, è un grido di trionfo che risuona nella storia sacra. Anche il Salmo parla di questa meraviglia: "Il Signore ha fatto grandi cose per noi, ci ha colmati di gioia", ci ha riempiti di stupore, come quando nel deserto incomincia a scorrere un fiume.
    In questa ricostruzione del tempio leggiamo la profezia della morte e della risurrezione di Cristo: il tempio era stato distrutto, il tempio risorge. Nei prossimi giorni, riflettendo sulle letture liturgiche, non perdiamo di vista il mistero centrale della risurrezione di Cristo: la risurrezione è la vera ricostruzione del Tempio del quale noi pure facciamo parte.
    Nell'editto di Ciro c'è un dettaglio che ci tocca più da vicino. È vero che il nuovo tempio di Gerusalemme sarà ricostruito dai Giudei, però anche i pagani sono invitati a partecipare a questa ricostruzione: "Ogni superstite in qualsiasi luogo sia immigrato, riceverà dalla gente di quel luogo oro e argento, beni e bestiame con offerte generose per il tempio di Dio che è in Gerusalemme". Questo viene ripreso da san Paolo quando parla dell'offerta delle genti. Ma quando la parola di Dio si adempie, l'adempimento sorpassa sempre ciò che al primo momento si era capito: l'offerta delle genti è in realtà l'offerta di se stessi, come pietre per la costruzione del nuovo tempio. Noi, che non eravamo popolo di Dio, siamo stati accettati per formare il tempio di Dio, insieme con gli Apostoli e i profeti (cfr. i Pt 2,5.10).
    Riconosciamo in questa pagina la nostra storia presente, il privilegio che abbiamo di partecipare alla costruzione del tempio di Dio non solo con offerte materiali, ma con l'offerta della nostra persona, unita all'offerta del Signore Gesù.
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    Coordin.
    00 26/09/2017 10:04
    La prima lettura parla della "casa di Dio", il Vangelo della famiglia di Gesù, ed è facile vedere il rapporto, poiché nella Sacra Scrittura la parola "casa" può significare sia un edificio sia una famiglia. Per esempio, quando la Bibbia parla della "casa di Davide" può essere la sua abitazione, ma più spesso si tratta della famiglia, della stirpe di Davide.
    Secondo le parole di Gesù, se noi ascoltiamo la parola di Dio e la mettiamo in pratica, diventiamo suoi fratelli, anzi sua madre, formiamo cioè la sua famiglia: siamo la "casa di Dio", cioè nello stesso tempo la sua famiglia e il suo tempio. Si realizza così il progetto di Dio di abitare con gli uomini, non soltanto in mezzo a loro, ma in loro e di unirli tutti in un'alleanza che fa di essi un unico edificio, un'unica famiglia e addirittura un unico corpo, il corpo di Cristo.
    Sentiamo risuonare le parole della Sacra Scrittura: "Mia delizia è stare coi figli degli uomini"; "Ecco verranno giorni nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un'alleanza nuova. Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo" (Ger 31,31.32); "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare m mezzo a noi" (Gv 1, 14). E ancora: "Stringendovi a lui, pietra viva,... anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale" (1 Pt 2,45); "Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio... Voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio" (Ef 2, 19.22); "Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte" (1 Cor 12,27). Dalla profezia alla realizzazione: attraverso i secoli Dio ha fatto intravedere il suo meraviglioso disegno fino alla sua realizzazione nella pienezza dei tempi.
    Tutte le nostre azioni devono tendere a questo scopo: formare il tempio di Dio, la famiglia di Dio, il corpo di Cristo. Per giungere a questa meta il mezzo essenziale è ascoltare la parola di Dio, accogliere la parola di Dio che ci trasforma, facendo di noi pietre vive che possono entrare nella costruzione della casa di Dio. La parola di Dio è potenza di Dio ed è capace di assimilarci al suo progetto perché davvero possiamo "santificare il suo nome" essendo famiglia del Signore, corpo di Cristo.
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    Coordin.
    00 27/09/2017 08:35
    Paolo Curtaz
    Commento su Lc 9,1-6

    Ci dà forza, il Signore. E potere. Ma non il potere dei veleni di curia che tanto danno hanno fatto e stanno facendo alla sua Chiesa. Il potere di cacciare la parte oscura dentro di noi, la parte malvagia che abita in ciascuno di noi. E siamo inviati ad annunciare il Vangelo e a guarire le malattie, le profonde ferite che portiamo in noi stessi. A questo "serve" la Chiesa: ad annunciare il Cristo, a guarire, a liberare dalla parte oscura. Tutto il resto è coreografia e va sopportato solo e quando realizza il mandato del Signore. Il grande peso che la storia ci consegna, organizzazioni, strutture, nate per servire meglio il vangelo, oggi rischiano di far affondare drammaticamente il cristianesimo, almeno in Europa. Forse occorre avere il coraggio di compiere delle scelte audaci e traumatiche per tornare a vivere alla lettera ciò che il Signore chiede. Tornare ad annunciare davvero a due a due, senza altri mezzi, ma con la sola forza del vangelo che rende credibili le nostre parole, eco della Parola. Torniamo a dare buone notizie all'uomo di oggi, smarrito e rabbioso, incapace di voltarsi verso Dio. Che non sa più dove guardare per trovare Dio! Torniamo all'essenziale per essere obbedienti a quanto ci chiede il Maestro.
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    Coordin.
    00 28/09/2017 09:13
    All'inizio della settimana abbiamo ascoltato il racconto del ritorno dall'esilio nel libro di Esdra, al tempo di Ciro. Con il profeta Aggeo siamo al tempo di Dario, successore di Ciro, molti anni dopo. Ritornati in patria, gli Israeliti avevano subito innalzato un altare, ma non ricostruito il tempio. Passarono gli anni, ed essi si costruirono le proprie comode case, ma non trovarono mai né il tempo nè i mezzi per ricostruire la casa di Dio. E il Signore, per bocca del profeta Aggeo, se ne lamenta: "Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre la mia casa è ancora in rovina?".
    Questo è occasione di un esame di coscienza, perché spesso abbiamo noi pure la tentazione di interessarci prima della nostra "casa" e di lasciare in abbandono la casa del Signore. Quando si tratta dei nostri interessi siamo impazienti, le cose non ci sembrano mai fatte in tempo; gli interessi di Dio invece possono sempre aspettare. Per la televisione, ad esempio, il tempo c'è sempre, ma ce n'è altrettanto per cercare di approfondire un po' le nostre conoscenze in fatto di religione? Diciamo che abbiamo anche bisogno di distrarci un po', di riposarci, ed è vero. Ma se guardiamo dentro noi stessi con sincerità, davanti al Signore, dobbiamo ammettere che sovente non è il bisogno di riposo a guidarci nelle scelte, ma l'amor proprio, l'egoismo, l'indolenza.
    Dopo il rimprovero, il Signore fa una constatazione: "Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame... Riflettete bene sul vostro comportamento!". La vita non dà vere soddisfazioni. Gli Israeliti che antepongono i loro interessi a quelli di Dio non gustano nè successo né gioia, perché manca loro la cosa più importante, che sarebbe cercare veramente il servizio e la gloria del Signore. Perfino nelle privazioni allora c'è gioia piena, perché c'è quello che più conta. Chi invece cerca solo il proprio interesse giunge a una specie di disgusto, di insoddisfazione profonda di tutto, perché vien meno alla vera vocazione dell'uomo, che è la generosità, la fedeltà al Signore.
    Chiediamo a lui di darci la premura di servirlo, di non cercare i nostri ma i suoi interessi prima di tutto, di aumentare la nostra vigilanza perché facciamo davvero le cose importanti, per avere la consolazione di sentirci dire: "Ecco, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria".
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    Coordin.
    00 29/09/2017 08:32
    Gli Angeli sono esseri misteriosi, e in forma misteriosa ne parla il profeta Daniele nella celebre profezia sul Figlio dell'uomo che la liturgia ci fa leggere oggi:
    "Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui; mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano". Daniele non nomina gli Angeli: parla di fuoco, di migliaia, di miriadi di miriadi... Sono veramente esseri misteriosi. Noi li rappresentiamo come uomini dal viso soave e dolce, nella Scrittura invece appaiono come esseri terribili, che incutono timore, perché sono la manifestazione della potenza e della santità di Dio, che ci aiutano ad adorare degnamente: "A te voglio cantare davanti ai tuoi angeli, mi prostro verso il tuo tempio santo". Come preghiamo nel prefazio di oggi: "Signore, Padre santo, negli spiriti beati tu ci riveli quanto sei grande e amabile al di sopra di ogni creatura". Nella visione di Daniele non sono gli Angeli gli esseri più importanti: vediamo più avanti "uno, simile ad un figlio d'uomo" ed è lui, non gli Angeli, ad essere introdotto fino al trono di Dio, è a lui che egli "diede potere, gloria e regno", è a lui che "tutti i popoli serviranno". La stessa cosa vediamo nel Vangelo: gli Angeli sono al servizio del Figlio dell'uomo. "Vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo" dirà Gesù, facendo allusione sia a questa visione di Daniele sia alla visione di Giacobbe, che nel sonno vede gli Angeli salire e scendere sul luogo dove è coricato e che dà il senso della presenza di Dio in tutti i luoghi della terra.
    Gli Angeli di Dio sono dunque al servizio del Figlio dell'uomo, cioè di Gesù di Nazaret; la nostra adorazione non è rivolta agli Angeli, ma a Dio e al Figlio di Dio. Gli Angeli sono servitori di Dio che egli, nella sua immensa bontà, mette al nostro servizio e che ci aiutano ad avere un senso più profondo della sua santità e maestà e contemporaneamente un senso di grande fiducia, perché questi esseri terribili sono al nostro servizio, sono nostri amici.
    Domandiamo al Signore che ci faccia comprendere davvero la sua santità e maestà infinite, perché ci prostriamo con sempre maggiore reverenza alla sua presenza, davanti ai suoi Angeli.
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    Coordin.
    00 30/09/2017 08:16
    Ringraziamo Dio per il grande dono della Scrittura: è un dono del suo amore, un dono antico e sempre nuovo che dobbiamo sfruttare nella fede.
    Nel Vangelo Gesù ci dice appunto che il nostro tesoro è contemporaneamente antico e nuovo. E ogni epoca è invitata a discendere in questa miniera inesauribile per trovare nuove ricchezze, e le trova davvero.
    Il modo attuale di studiare la Scrittura non assomiglia a quello dei secoli passati: vi scopriamo aspetti nuovi, che ci aiutano ad apprezzarne meglio la varietà e la ricchezza. Così si rinnova continuamente il gusto e l'interesse per lo studio della Bibbia.
    Sappiamo che la Scrittura si studia bene soltanto nella fede. "Le Sacre Scritture scrive Paolo a Timoteo possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù". Lo studio della Scrittura è fatto per mezzo della fede, che lo guida. Per aver fede bisogna prima capire un po' la Scrittura, perché se non si capisce niente dell'annuncio di salvezza non è possibile aderirvi, quindi per arrivare a credere è necessario fare un certo lavoro di intelligenza, un certo studio. Ma d'altra parte per approfondire la Scrittura è necessaria la fede: credere per, comprendere.
    Se qualcuno ha il senso delle cose spirituali capisce profondamente la Bibbia anche se non ha cultura, perché la fede illumina gli occhi del suo cuore e questa illuminazione è più preziosa di tutti i mezzi della scienza, che possono far luce su aspetti secondari, ma non raggiungono il centro, che è il "proprio" della fede.
    Non bisogna disprezzare lo studio faticoso degli scienziati, perché i loro sforzi sono necessari per far penetrare la fede in tutti i settori della vita e di ogni epoca. Ma Dio ha rivelato i tesori della Scrittura non soltanto agli intelligenti, ma anche a chi è meno dotato, mediante la fede, luce divina.
    Siamo dunque riconoscenti al Signore per questo tesoro che tutti noi utilizziamo e aiutiamo ad approfondirlo insieme agli studiosi, perché la scienza aiuta a comprendere le Scritture, ma ancor più aiuta la santità.
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    Coordin.
    00 01/10/2017 07:57
    don Giacomo Falco Brini
    Che ve ne pare?

    Siamo ancora nella vigna del Signore. Domenica scorsa abbiamo visto che la parabola raccontata da Gesù era indirizzata soprattutto a coloro che sono chiamati per primi a lavorarci dentro. Il suo inequivocabile finale getta una luce profonda sul mistero del regno di Dio e della sua accoglienza: così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi (Mt 20,16). La piccola parabola di oggi continua a illuminare questo mistero, ovvero continua a far emergere la mormorante resistenza dei primi chiamati che, allora come oggi, contestano segretamente il Signore per la sua bontà verso tutti. Il suo infatti sarebbe un comportamento ingiusto (Mt 20,11-12). A chi oggi continua, consciamente o inconsciamente, a discutere sulla sua giustizia così ?strana?, Dio risponde nella prima lettura: voi dite ?non è retto il modo di agire del Signore?. Ascolta dunque casa d'Israele: non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?... (cfr. Ez 18,25-28)

    Gesù tiene moltissimo anche ai primi chiamati. Per questo vediamo come anche il vangelo di oggi si dirige a una delle categorie più difficili a convertirsi, ai capi e agli anziani del popolo: l'intento del Signore non è infatti quello di abbandonarli nel loro rifiuto, ma di far rispecchiare i suoi uditori nel personaggio che li riguarda. E' così anche oggi nel popolo di Dio. Quanto sta accadendo a Francesco non fa' che rendere un gran servizio alla verità del vangelo, nonché confermare ancor di più questo papa nella sua chiamata. Perché in fin dei conti, con l'ultima lettera ?correctio filialis de haeresibus propagatis? di alcuni autorevoli fratelli sacerdoti e non, che cosa c'è dietro il sospetto (se non l'accusa) delle eresie indicate? Lo stesso sospetto che circondò Gesù da parte delle autorità religiose per il suo misericordioso abbassarsi su tutti coloro che, per il loro peccato o la loro reputazione non proprio immacolata, venivano accolti e chiamati dal Signore. In Amoris Laetitia il papa conclude un cammino sinodale di due anni dove tutte le voci ecclesiali sono state ascoltate e confrontate in materia per poi convergere nel documento; il quale, non è mera espressione di una sua visione personale sull'amore nella famiglia, ma della chiesa intera nel suo insieme. Si è liberi di pensare quello che si vuole, ma dietro il sospetto che Francesco con questa esortazione apostolica stia minando alcuni fondamenti dottrinali della fede, in realtà mal si cela, ancora una volta, il ?problema? della bontà di Dio che si apre verso gli ultimi e chiede alla sua chiesa di fare altrettanto. E di ?ultimi?, ve l'assicuro, ce ne sono anche tra coppie ferite nelle proprie vicende personali che stanno cercando di vivere come famiglia nella fede con sincera intenzione.


    Gesù racconta di un uomo che comanda ai suoi due figli di andare a lavorare nella vigna. Il primo disobbedisce inizialmente con la parola, ma ci ripensa e si pente, alla fine obbedisce e ci va a lavorare. Il secondo obbedisce subito con la parola, ma in realtà poi disobbedisce perché non ci va (Mt 21,28-30). Il Signore fa trarre le conclusioni ai suoi stessi uditori, i quali, senza accorgersene, confermano il suo insegnamento. Significato inequivocabile: c'è chi arriva nella vigna a lavorare dopo esserne stato a lungo lontano e tuttavia entra per primo nel regno; e c'è chi solo apparentemente vi è già dentro per lavorarci, ma in realtà è fuori, e vi accederà se e soltanto dopo che avrà aperto il cuore a Chi il cuore ce l'ha sempre aperto a tutti: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio (Mt 21,31). Infatti, a dimostrazione delle sue parole, Gesù osserva come gli stessi pubblicani e prostitute si pentirono e si convertirono al messaggio di un appartenente al popolo dei primi chiamati come Giovanni il Battista, che certo non sottolineava tanto la via della misericordia (Mt 21,32); ma anche questo messaggio fu del tutto inascoltato dalle autorità religiose.


    Il brano del vangelo di oggi ci aiuta a penetrare maggiormente nel segreto del nostro rapporto con Dio. Se lo si vuole verificare seriamente, non può essere mai sganciato dal rapporto con i fratelli e dalla immagine che noi abbiamo di Lui. Prima di tutto, quello che sicuramente emerge dalle parole di Gesù è che Egli ama molto la sincerità. Come dire: meglio un ?no? sincero alla sua chiamata che un ?sì? ad essa falso, calcolatore e mormorante. Al lettore attento non sarà sfuggita la somiglianza di questi due figli a quelli della ben più celebre parabola di Luca (Lc 15,1ss.): il primo al fratello minore allontanatosi dalla casa paterna, il secondo al fratello maggiore che, pur restando nella casa del padre, non vive in comunione di cuore con il padre della casa. Alla fine del racconto, quel padre che ha tanto atteso pazientemente il ritorno del figlio minore esce di casa a pregare il maggiore perché vi rientri a celebrare con lui la salvezza donata al fratello. Ma l'inghippo che gli impedisce di rientrare è la sua ?giustizia? messa a confronto con l'inspiegabile condotta misericordiosa del padre, segno inconfondibile di una immagine sbagliata che ha di lui. Stiamo pian piano scoprendo qualcosa di importante nella vita spirituale: il Signore Gesù si rivela solo a chi lo ama, a chi gli dice un sì sincero, fiducioso, senza pretendere di capire tutto. A chi invece dice di capirlo/conoscerlo, ma non lo ama per quello che è, Gesù parla con il suo silenzio (come sta facendo papa Francesco con coloro che lo sospettano o lo accusano in via epistolare). Poi, per recuperarlo, gli parla in parabole affinché rifletta e capisca quello che non vuol capire. Difatti il vangelo di oggi è come uno ?screening? che svela a se stesso l'ascoltatore/lettore che non vuole convertirsi, perché si riconosca nel secondo figlio e così passi al movimento interiore e al comportamento del primo.


    Kierkeegärd diceva che la verità è paradossale. Quando meditiamo il vangelo ce ne accorgiamo. Gesù afferma che persone che vivono in modo palesemente ingiusto (pubblicani e prostitute) sono preferibili a quelle che vivono in modo ?giusto?. Come è possibile? Non è forse una contraddizione? Può il Signore contraddirsi? No. Ancora una volta è il paradosso del vangelo a rispondere. In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Trovo queste parole di Gesù tra le più dure e nello stesso tempo più belle e consolanti che abbia mai detto ai suoi uditori. Perché pubblicani e prostitute sono peccatori d.o.c. che non potranno mai fingersi giusti e pertanto sono più aperti e pronti ad accogliere la salvezza che il Signore offre loro (cfr.Lc 7,36 ss., 18,9-14 e 19,1-10!!!...). Solo quando accetteremo di essere come loro (o peggio!) potremo entrare nel regno di Dio. La proposta del padre ai due figli è identica: è il comando dell'amore che se messo in pratica li rende simili a Lui. Ma il secondo figlio guarda il padre come a un padrone al quale non si può dire di no. E' come la persona religiosa che si sente in obbligo di compiacere Dio. Ma per dovere nessuno saprà mai amare! In realtà anche questo figlio, come l'altro, non vuole ascoltare il padre. Tuttavia mentre il primo dice apertamente di no e ci ripensa, questo invece non se lo permette perché vive nella paura di mettersi contro il padre-padrone. Dunque esprimere apertamente il proprio rifiuto è già segno positivo: suppone che il padre che ci sta di fronte rispetti la libertà del figlio, mentre dire di sì per paura suppone che il padre non tolleri la libertà e schiacci chi a Lui si ribella (P.Silvano Fausti S.I.). Ancora una volta, il vero peccato più nascosto nel cuore dell'uomo ma evidenziato dal vangelo, è quello di chi si crede nel giusto e non può ottenere il perdono, semplicemente perché non ne sente nemmeno il bisogno. Rischio alto di resistenza allo Spirito cui si avvicinano tutti coloro che non riconoscono in sé il peccato che rimproverano agli altri. Che ve ne pare? Vi piace questo Gesù che porta sempre ciascuno a guardare dentro di sé?

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    Coordin.
    00 02/10/2017 07:53
    I testi liturgici ci invitano a riflettere sulla nostra relazione con Dio e a prendere coscienza che su di essa è fondata la vera fraternità.
    La prima lettura, un passo dell'Esodo, parla dell'Angelo che il Signore manda davanti al suo popolo come protettore e come guida. "Dice il Signore: "Abbi rispetto della sua presenza, ascolta la sua voce ".
    Subito queste parole suscitano il sentimento della presenza di Dio. Ma il contesto biblico chiarisce che la presenza dell'Angelo indica che la relazione del popolo con Dio è ancora imperfetta, deve progredire. Dio non può rivelarsi pienamente, non può mettere il popolo in relazione immediata con se stesso perché è un popolo peccatore, ribelle, che si trova soltanto all'inizio del lungo cammino che lo condurrà alla Terra promessa, alla diretta presenza di Dio. L'Angelo è come un intermediario, colui che fa camminare verso Dio e che contemporaneamente, in un certo senso, protegge dalla sua terribile presenza, fino a quando il popolo sarà in grado di reggere di fronte alla sua maestà.
    L'Angelo ci fa ascoltare la voce di Dio; secondo la Bibbia la sua presenza accanto a noi non ha altro scopo che di metterci in relazione con lui. E Dio dice: "Ascolta la sua voce, non ribellarti a lui; egli non ti perdonerebbe, perché il mio nome è in lui".
    Se siamo docili a questa voce interiore, che è la voce stessa di Dio, siamo condotti progressivamente a una unione profonda con il Signore, simboleggiata nella Bibbia dalla entrata nella Terra promessa, il paese dove scorrono latte e miele, dove Dio prepara tutti i beni della salvezza.
    Anche il Vangelo di oggi parla del rapporto con Dio: "Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli".
    Gesù stesso ci dice come dobbiamo rapportarci gli uni agli altri e che, per rispettare veramente le persone, per avere rapporti cristiani, dobbiamo anzitutto pensare al loro rapporto con Dio. Avvicinando qualsiasi persona dobbiamo pensare che Dio l'ama, che ha dei progetti su di lei, che l'aiuta a corrispondere a questi progetti. Se ci pensiamo seriamente, il nostro atteggiamento sarà molto più positivo: avremo più pazienza, più comprensione e soprattutto più amore.
    Uno dei primi Gesuiti, il beato Pietro Fabre, che viaggiava molto e doveva incontrare tante persone, avvicinare tante autorità nella sua lotta contro l'eresia protestante, aveva molta devozione agli Angeli. Quando passava nelle città, quando si preparava ad incontrare qualcuno, pregava l'Angelo custode di queste città, di queste persone e otteneva grazie mirabili. Si era messo alla presenza di Dio e questa presenza irraggiava da lui sugli altri. Se ci ispiriamo a questo esempio, ogni nostro rapporto splenderà davvero della luce del Signore, nonostante noi siamo cosi deboli e imperfetti, e camminererno sempre più, con la sua grazia, verso la sua presenza.
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    Coordin.
    00 03/10/2017 08:15
    Sono molto belle le parole del profeta Zaccaria che leggiamo oggi: "In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi". Questa è proprio l'immagine della Chiesa. Nella Chiesa tutti i cristiani devono essere persone capaci di far sentire alla gente che in loro c'è qualcosa di straordinario: la presenza divina, che trasforma tutta la vita. Chi ci vede deve sentire il desiderio di essere con not, deve essere attirato, anche a nostra insaputa, dal nostro modo di vivere nella carità, nella gioia, in una parola: nel Signore.
    Perché questo si realizzi bisogna che i cristiani vivano veramente lo spirito del Vangelo. E qui possiamo accogliere la lezione del brano evangelico odierno. I discepoli sono indignati perché la gente di un villaggio della Samaria non ha voluto accogliere il loro Maestro, diretto a Gerusalemme, e vorrebbero per loro una Immediata punizione: "Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?". E una questione di giustizia: chi non vuoi ricevere Gesù non è degno dei benefici divini e deve essere punito. Probabilmente gli Apostoli avevano in mente un episodio della vita del profeta Elia, tanto più che di Gesù molti credevano che fosse Elia tornato sulla Terra. Quando il re Ocozia aveva mandato un drappello di soldati ad arrestare il profeta, egli aveva invocato il fuoco dal cielo, e il fuoco era sceso e aveva consumato quella gente ostile. Quindi non sembra sbagliato supporre che Dio voglia manifestare la sua giustizia con castighi spaventosi: gli Apostoli potevano pensare di parlare secondo lo Spirito di Dio. Ma Gesù non è dello stesso parere, anzi li rimprovera. Egli sa che sugli uomini pende la minaccia del castigo se noti accolgono la fede, ma sa che c'è il tempo della conversione e il tempo del giudizio, alla fine dei tempi. Nel tempo della conversione regnano la bontà, la misericordia, la pazienza divina. Noi siamo nel tempo della pazienza di Dio (cfr. 2 Pt 3,9ss) e dobbiamo aver parte a questa pazienza: andare oltre la nostra indignazione, perché i nostri sentimenti spesso sono ambigui e, mentre è vero che vogliamo la giustizia, vogliamo nello stesso tempo che gli altri vedano che la ragione è dalla nostra parte e quale fine fanno quelli che vivono male. È facile sentir dire: "Ma si faccia giustizia, e subito Ma qui ci vuole un intervento forte!". Gesù invece ci dà la lezione della pazienza divina, senza la quale non esiste carità vera. Dobbiamo impararla, questa lezione, nelle cose grandi e in quelle piccole, per essere miti e umili di cuore come il nostro Maestro. Così susciteremo negli altri il desiderio di venire con noi, perché Dio è con noi.
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    Coordin.
    00 04/10/2017 09:09
    Riccardo Ripoli
    Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli

    Ci volevano centinaia di morti perché i politici si muovessero? Ci volevano centinaia di morti per gridare contro una legge che impedisce l'accoglienza? Ci volevano centinaia di morti per far muovere i politici in segno di solidarietà? Ci volevano centinaia di morti per accorgersi del dramma in cui vivono queste persone? Ma avete mai provato a immedesimarvi in uno di loro? E se foste nati in qualche paese africano ferito dalle guerre, dalla carestia, dagli abusi e soprusi continui sotto gli occhi distratti e corrotti delle autorità, dove sareste ora? Forse sareste una delle tante mamme che vedono partire i propri figli senza sapere se mai li potranno rivedere, o forse sareste uno dei tanti obbligato a sparare contro i propri fratelli, oppure uno di quei ragazzi che si mettono in mano a questi trafficanti di vite umane, disposti a tutto pur di avere una minima speranza di vita dignitosa. Vergogna a coloro che girano la testa dall'altra parte, vergogna a chi imperterrito continua a correre schivando i cadaveri allineati lungo la strada della sua vita, vergogna a chi continua a dare più importanza alle alleanze per proteggere il potere conquistato piuttosto che rimboccarsi le maniche e salvare chi sta andando a fondo.
    Non è intelligente e sapiente chi ha la laurea o ha letto mille libri, sapiente è colui che sa discernere il bene dal male, che ha la sensibilità di mettere al primo posto la sofferenza altrui, che è pronto ad accogliere nella propria casa chiunque abbia bisogno di una mano.
    Un'altra tragedia si è consumata, l'ennesima tragedia, l'ennesimo teatrino per chi vuole approfittare della situazione per avere un po' di visibilità. L'ennesima tragedia che domani sarà già dimenticata perché le cose importanti non sono la vita e la morte delle persone, ma la nostra esistenza, il potere che possiamo esercitare, il denaro che possiamo spendere. Se riuscissimo a guardare gli altri, a immedesimarci in loro, ad amarli ed accudirli come fossero nostri figli, il mondo sarebbe migliore. Se gli altri sono indifferenti, cominciamo noi a non esserlo ed il mondo pian piano cambierà davvero.
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    Coordin.
    00 05/10/2017 07:07
    La messe è molta, ma gli operai sono pochi". Gli uomini sulla Terra sono circa quattro miliardi. Per una messe così grande gli operai sono davvero pochi, specialmente se pensiamo ai sacerdoti. Dobbiamo dunque pregare il Signore di mandare operai nella sua messe, pregarlo perché illumini la strada a coloro che egli chiama e dia loro la forza di rispondere.
    La prima lettura parla, almeno indirettamente degli studiosi della Sacra Scrittura, che tentano di rendere più accessibile il messaggio di Dio.
    Al ritorno dall'esilio, nel corso di una grandiosa cerimonia, si porta a conoscenza di questo popolo, che non vi era stato educato, la legge del Signore. Le difficoltà non erano poche e c'era anche quella della lingua, perché negli anni di esilio essi avevano parlato aramaico e la legge di Mosè è scritta in ebraico. Era quindi necessario non solo leggere, ma tradurre e trovare un sistema per rendere la legge intelligibile al popolo. Ed ecco: "I leviti spiegavano la legge al popolo... Essi leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura". Questo riempie la gente di commozione e di gioia: "Tutto il popolo partì per far festa, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate". E proprio così:
    quando c'è un contatto diretto con la parola del Signore, essa diventa motivo di festa e di vita per tutto il popolo. Gli studiosi della Bibbia hanno il dovere di rendere possibile questa festa, questa vita, questa gioia. Il loro compito è diverso da quello dei predicatori, che parlano direttamente al popolo. Essi preparano la predicazione, spiegando bene la parola di Dio, affinché la predicazione possa essere più fedele a questa divina parola e perciò più fruttuosa. In questo modo contribuiscono all'istruzione del popolo, alla sua gioia, al suo carattere veramente cristiano.
    "La gioia del Signore è la vostra forza" dice Neemia popolo. La forza e la gioia vengono dalla parola di Dio che è nutrimento e luce, la più preziosa, la più grande consolazione che abbiamo sulla Terra.
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    Coordin.
    00 07/10/2017 08:08

    La memoria del Rosario conduce il pensiero alle prime parole dell'Ave Maria: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te", che ripetiamo tante volte quando preghiamo il Rosario. E un modo di metterci alla presenza di Maria e nello stesso tempo alla presenza del Signore, perché "il Signore è con lei", di rimanere in maniera semplice con la Madonna, rivivendo con lei tutti i misteri della vita di Gesù, tutti i misteri della nostra salvezza.
    Il racconto dell'annunciazione a prima vista ci presenta un solo mistero, ma se guardiamo bene vi si trovano tutti i misteri del Rosario: l'annunciazione, ma anche la visitazione, perché vi si nomina Elisabetta, e il Natale di Gesù: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù". Anche i misteri gloriosi sono annunciati: "Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore gli darà il trono di Davide suo padre... e il suo regno non avrà fine". E nella risurrezione e ascensione che Gesù riceve la dignità di re messianico, la gloria eterna nel regno del Padre. Dunque, misteri gaudiosi e misteri gloriosi. Sembra che manchino quelli dolorosi, ma troviamo anche quelli, non descritti, ma nel loro principio. Pensiamo alla risposta di Maria all'annuncio dell'Angelo: non è un grido di trionfo, ma una parola di umiltà: "Eccomi, sono la serva del Signore", che la mette in profonda consonanza con il Servo del Signore annunciato da Isaia, il Servo che sarà glorificato, ma prima umiliato, condannato, ucciso, "trafitto per i nostri delitti".
    Maria sa, per ispirazione dello Spirito Santo, che i misteri gloriosi non possono avvenire senza passaggio attraverso l'obbedienza fiduciosa e dolorosa al disegno divino.
    I misteri del Rosario sono una sola unità, ed è importante sapere che in ogni mistero gaudioso ci sono in radice tutti i misteri gloriosi e anche i dolorosi, come via per giungere alla gloria.
    Chiediamo alla Madonna di aiutarci a capire profondamente l'unità del mistero di Cristo, perché esso si possa attuare nei suoi diversi aspetti in tutti gli eventi della nostra vita.
    Mi piace riportare, a proposito della preghiera del Rosario, un piccolo testo che trovai anni fa in una rivista benedettina: "Dì il tuo Rosario dice Dio e non fermarti ad ascoltare gli sciocchi che dicono che è una devozione sorpassata e destinata a morire. Io so che cos'è la pietà, nessuno può dire che non me ne intendo, e ti dico che il Rosario mi piace, quando è recitato bene. I Padre Nostro, le Avemarie, i misteri di mio Figlio che meditate, sono Io che ve li ho dati. Questa preghiera te lo dico io è come un raggio di Vangelo, nessuno me la cambierà. Il Rosario mi piace dice Dio semplice e umile, come furono mio Figlio e sua Madre...".
    Rinnoviamo, se è necessario, la nostra stima per il Rosario. Certo, bisogna pregarlo con rispetto, ed è meglio dirne due decine senza fretta che cinque di corsa. Ma detto con tranquillità è un modo di essere in compagnia di Maria alla presenza di Gesù.



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    Coordin.
    00 08/10/2017 08:49
    Agenzia SIR
    Commento su Matteo 21,33-43

    Ancora - come domenica scorsa - il tema della vigna e di chi è chiamato a curarla, è al centro della Parola di Dio di questa domenica. Anzitutto è Isaia che, nell'ottavo secolo avanti Cristo paragona il progetto di salvezza di Dio a una vigna; con una sottolineatura importante: la vigna del Signore è il suo popolo ?diletto?, il popolo ebraico al quale egli dedica il suo ?cantico d'amore?. Dio lo ha amato questo popolo, continua ad amarlo, ma il suo amore non è corrisposto: anziché uva, la vigna produce ?acini acerbi?. Dio perciò dovrà rinunciare a coltivarla. Ma in che consistono questi ?acini acerbi?? Anziché giustizia ha prodotto ?spargimento di sangue?, anziché rettitudine, ecco ?grida di oppressi?. L'amore di Dio per il suo antico popolo è stato tradito dall'ingiustizia e dall'oppressione dei poveri.

    Anche il salmo parla della vigna, popolo di Dio, piantato dal Signore, ma devastato; e invoca il Signore perché torni a visitarla e a proteggerla.

    La risposta a questo appello sta nel brano di Matteo, nella parabola dei vignaioli omicidi che fa una sintesi della storia passata del popolo di Israele, annunciando poi profeticamente quanto sta per accadere.

    La storia precedente racconta della vigna che è il progetto di salvezza affidato al popolo d'Israele: Dio aspettava come pagamento di ?affitto? frutti di bene e di giustizia; per questo aveva mandato i profeti; ma questi erano stati bastonati, uccisi, lapidati.

    La parabola passa poi a parlare del presente e del futuro: Dio ha mandato il suo figlio, Gesù, ma - ecco l'annuncio profetico che si compirà pochi giorni dopo - il popolo d'Israele lo getta fuori dalla vigna e lo uccide. Per questo Dio toglierà la sua vigna, ?il regno di Dio?, a quel popolo che non ha dato i frutti sperati, e l'affiderà a un popolo nuovo, la Chiesa, che ?ne produca i frutti?.

    A questo punto, all'immagine della vigna Gesù sostituisce quella della ?pietra? sulla quale si deve fondare il regno di Dio: una pietra scartata dal popolo antico, ma che ora è diventata ?pietra d'angolo?, fondamento del regno di Dio: questa pietra è lui stesso, Gesù.

    L'insegnamento è molto importante. Anzitutto: la storia della salvezza è storia dell'amore di Dio per il suo popolo, amore di Dio che vuole il bene dei suoi figli, che sono la sua vigna, che lui coltiva con amore, attendendo una risposta di amore a Dio che dia frutti di giustizia anche per i figli di Dio, specialmente per i poveri. Questo popolo di Dio è la Chiesa, il popolo dei cristiani, chiamati a realizzare il progetto di salvezza di Dio con amore e fedeltà.

    Tutto questo ha il suo fondamento, la sua ?pietra d'angolo?, in Gesù. Lui è la pietra scartata dagli antichi costruttori, sulla quale unicamente si fonda il regno di Dio. La salvezza per il mondo, per ogni uomo, per l'intera umanità sta nel fondarsi su di Lui.

    Commento a cura di Vincenzo Rini
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