CREDENTI

RIFLESSIONI BIBLICHE

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    00 09/10/2017 09:01
    Le due letture di oggi parlano di lontananza e di vicinanza. Giona fugge per non andare a Ninive come Dio gli ha comandato, ma allontanandosi dai Niniviti si allontana anche dal Signore. Il Samaritano invece si avvicina all'uomo malmenato dai ladroni, se ne prende cura, si rende disponibile.
    È questa la dinamica di Dio, che si fa prossimo a noi pieno di amore e di misericordia. Dio è il pastore che cerca la pecorella smarrita per riportarla salva all'ovile, è il padre che corre incontro al figlio perduto che ritorna, è il Samaritano che si china premuroso sul ferito. È Gesù, che muore sulla croce per noi. Dio è così e non vuole una religione che metta al riparo, che separi dagli altri nel timore di contaminarsi, che non dia il primato alla carità.
    Ascoltiamo dunque sempre come rivolto a noi l'invito di Gesù: "Va' e fa' anche tu lo stesso". Non è facile essere costantemente a disposizione degli altri e quindi di Dio; per questo è necessaria molta preghiera, che apra il nostro cuore alla carità paziente, longanime, generosa.
    Questo mi porta ad un'altra osservazione. Giona, gettato in mare, è inghiottito da un pesce e portato all'asciutto. Ma tra il primo evento e la liberazione c'è una lunga fiduciosa preghiera del profeta, che la liturgia ha omesso per farne il Salmo responsoriale: "Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce...". E un elemento importantissimo, perché senza preghiera non è possibile aprirsi alla grazia, passare dall'egoismo preoccupato di sé, della propria vita, della propria reputazione, all'amore che si fa prossimo a chi è nella necessità, sull'esempio del Signore Gesù.
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    00 10/10/2017 08:56
    Forse il Vangelo di oggi suscita in noi un po' di nostalgia, se preferiamo essere Maria, seduta ai piedi di Gesù ad ascoltare la sua parola, e invece dobbiamo necessariamente essere l'indaffarata Marta. Ma con molta probabilità non è una nostalgia totalmente pura. Se riflettiamo un po' ci rendiamo conto che quando avremmo tutto il tempo per assumere il ruolo di Maria preferiamo prendere quello di Marta e viceversa. Vuol dire che in realtà cerchiamo sempre di accontentare Il nostro egoismo, e il ruolo di Maria in fondo ci piace non per ascoltare la parola di Gesù, ma per starcene tranquilli, che è un'altra cosa.
    Chi è veramente fedele al Signore approfitta di tutti i momenti per tentare di essere Maria, ascoltando davvero la parola del Signore, cercando la gioia vicino a lui. Allora, anche in mezzo a molte occupazioni, si riesce a continuare ad essere Maria. Ci sono persone attivissime, che devono continuamente passare da un 'occupazione all'altra, e internamente sono in profonda pace, in una segreta contemplazione, perché davvero rimangono con il cuore vicino a lui. Fanno tutto quello che devono fare, non in un artificioso distacco dalle cose, ma con piena tranquillità, perché così servono il Signore e l'amore per lui e per il prossimo mette nel loro cuore una tranquillità straordinaria.
    Domandiamo al Signore che ci aiuti ad essere fedeli alla sua voce e a non cercare noi stessi, sia nel riposo che nell'attività, perché possiamo avere la vera tranquillità nell'unione con lui, in ogni azione e in tutte le nazioni
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    00 11/10/2017 08:28
    Signore, insegnaci a pregare! " è la richiesta dei discepoli rivolta a Gesù, e la leggiamo nel Vangelo di oggi. Oggi dunque cercheremo di capire un po' meglio quanto grande è il nostro bisogno di imparare a pregare; soprattutto con l'aiuto della prima lettura.
    L'attitudine di Giona è esattamente il contrario della prima domanda del Padre Nostro: "Padre, sia santificato il tuo nome". Giona si oppose a questa richiesta, non vuole che il nome di Dio sia manifestato. Egli lo conosce, il nome di Dio, e gli rincresce che Dio si manifesti come egli è. Infatti dice a Dio: "Io sapevo che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato!". Ecco qual è il "nome" di Dio, che vuol manifestarsi, e che Giona conosce da tutta la rivelazione biblica. Eppure non vuole che esso si manifesti nella sua vita: è una cosa che va contro i suoi gusti, contro la sua volontà di vivere. Egli è stato mandato a Ninive per profetizzare: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta! " e adesso pretende che questa profezia si realizzi, perché ne va della sua reputazione di profeta. Ma la misericordia di Dio non può mettere in atto comunque questa predizione. Dio ha inviato il suo profeta per chiamare a conversione e la sua minaccia era condizionata: "Se non vi convertite, perirete", ed ora Dio è contento che la gente di Ninive si sia convertita e di poter manifestare "il suo nome": il suo amore, la sua tenerezza, la sua misericordia. Giona invece è in collera, non vuole che il nome di Dio si manifesti. E Dio allora gli dà una lezione, perché capisca quanto profondamente egli abbia ragione di aver compassione di coloro che ha creato, come sia logico per lui perdonare, chiamare alla vita e non alla morte.
    Forse non ce ne accorgiamo, ma tante volte succede anche a noi di desiderare che il nome di Dio non si manifesti come è: un Dio pieno di mitezza e di pazienza, un Dio che non interviene con violenza ma aspetta che gli uomini si convertano, un Dio che lascia sussistere il male per trarne il bene. Quante volte ci lamentiamo di Dio perché le cose non vanno come a noi sembrerebbe giusto! Noi vogliamo riuscire in quel che facciamo; noi vogliamo aver rapporti facili e tranquilli con tutti; noi vogliamo che il nostro punto di vista prevalga; noi vogliamo che i criminali siano eliminati... E Dio ci lascia sbagliare, ci lascia nelle difficoltà di rapporti, lascia che gli altri non tengano conto delle nostre opinioni, fa splendere il suo sole sui buoni e sui malvagi. Le nostre reazioni spontanee sono in contraddizione con la prima domanda del Padre Nostro:
    "Sia santificato il tuo nome", perché invece diciamo: "Si realizzino le mie idee, si compiano i miei desideri, trionfi il mio modo di vedere...". E le nostre idee, i nostri desideri, le nostre prospettive sono diverse da quelle di Dio. Abbiamo dunque bisogno che il Signore ci insegni a pregare, che metta in noi un desiderio profondo della sua manifestazione.
    E in primo luogo nella celebrazione eucaristica che il Signore compie la nostra educazione. Inizia con la celebrazione della sua parola, mediante la quale egli ci illumina, ci comunica il suo punto di vista, perché noi lo sostituiamo ai nostri. Ma non soltanto con la sua parola Dio ci coinvolge, ma in tutta la dinamica della sua vita, del suo sacrificio, perché impariamo davvero a pregare. "Padre, sia santificato il tuo nome", è una preghiera che possiamo capire soltanto se siamo coinvolti nel sacrificio di Cristo. Come deve essere santificato il nome di Dio? Che cosa significa per Dio "santificare il suo nome"? Lo impariamo partecipando al sacrificio di Gesù. "Padre, glorifica il tuo nome!". E dalla croce di Cristo, dalla sua vittoria nella passione che il nome di Dio è stato veramente manifestato, glorificato, santificato. E Gesù nell'Eucaristia ci coinvolge nel movimento della sua passione, tanto che possiamo pregare il Padre Nostro molto più profondamente alla fine che all'inizio della Messa. "Sia santificato il tuo nome!". Lo diciamo dopo che Gesù ha ripetuto davanti a noi il dono di se stesso: "Ecco, questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza". Così il nome di Dio è santificato.
    Allora impariamo come esso possa essere santificato anche nella nostra vita. Quello che ci sembrava un ostacolo diventa un mezzo, se lo portiamo, per dire così, all'Eucaristia, per capire come possiamo, in ogni situazione, santificare il nome di Dio. Invece di inquietarci nelle piccole difficoltà, di disperarci in quelle grandi, impariamo poco a poco a vederle come una possibilità che l'amore del Signore ci offre per santificare il suo nome.
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    00 12/10/2017 09:24
    Ecco un Vangelo confortante e illuminante. Gli Ebrei andavano dicendo: "E inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto? Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti". La risposta, più che nell'Antico Testamento, la troviamo nel Nuovo. I musulmani danno a Dio novantanove bellissimi nomi, ma tra questi non c'è l'appellativo "padre". Essi insistono sulla trascendenza di Dio e la loro è soltanto preghiera di sottomissione; noi invece crediamo alla rivelazione della sua paternità e la nostra preghiera è sì di sottomissione alla sua volontà, ma anche di fiducia filiale.
    Gesù nel Vangelo di oggi porta l'esempio di un padre che dà al figlio da mangiare, e gli dà cose buone. Dobbiamo andare al nostro Padre celeste con la semplicità e l'insistenza dei bambini e otterremo tutto da ~ui. L'ultima frase sorprende, perché Gesù in modo inaspettato conclude parlando dello Spirito Santo, dono di Dio, condizione di ogni richiesta: "... quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!".
    Così la nostra preghiera viene orientata verso i beni ultimi. Con lo Spirito Santo abbiamo tutto: la gioia vissuta nell'azione di grazie, la pace, un atteggiamento particolare di serenità anche nella sofferenza... Sono tutti frutti dello Spirito Santo, che danno una felicità intima, profonda.
    Ci rivolgiamo allora a Gesù perché ci ottenga dal Padre il dono dello Spirito Santo e lo ringraziamo per averci aperto un orizzonte sempre luminoso, per averci dato la possibilità di andare a Dio come a un Padre che ci ama e vuol donarci tutto.
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    00 13/10/2017 08:42
    Il Vangelo odierno parla della lotta tra Gesù e il demonio, una lotta che avviene nell'anima dell'uomo. Noi sappiamo di essere stati liberati dal peccato e dal demonio per la grazia di Dio e il Battesimo e poi, nel corso della vita, attraverso il sacramento della Riconciliazione. In questo brano evangelico, che contiene alcuni passaggi un po' difficili, ci fermiamo a riflettere su quello che il Signore dice alla fine: "Quando lo spirito immondo esce dall'uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell'uomo diventa peggiore della prima".
    Quando il demonio è stato scacciato "da uno più forte di lui", cioè dal Signore Gesù, la "casa" è spazzata e adorna, ma c'è il pericolo che rimanga vuota. Se questo succede, il demonio può tornare e la condizione finale può diventare peggiore della prima. Che cosa vuol dire questa casa vuota? Spontaneamente noi desideriamo di essere liberati dal male e specialmente dal peccato che pesa sulla nostra coscienza; lo desideriamo e siamo contenti e riconoscenti al Signore quando egli ci libera: allora la nostra casa è pulita e ben arredata. Ma nella vita spirituale c'è un'altra tappa necessaria, che spontaneamente ci piace meno, perché in questa bella casa noi vogliamo starcene tranquilli, da padroni, senza nessuno che ci comandi. Eppure bisogna che il padrone sia un altro, sia il Signore, e questo non sempre ci piace. Quando egli ci disturba, preferiamo rimanere soli nella nostra casa, e lui ci disturba in molte maniere: con le circostanze, servendosi degli altri, con le sue richieste, mentre per noi non è spontaneo fare quello che egli vuole. Eppure, se vogliamo essere noi padroni della nostra vita, ci mettiamo in una condizione molto pericolosa: l'egoismo che si manifesta così è peggiore del peccato che prima sporcava la nostra casa, perché ci fa vivere in modo contrario all0 spirito di Dio. Si vive senza voler essere disturbati, né da Dio né dal prossimo, facendo le cose come ci pare e a comodo nostro, e può venirne una specie di sottile, profonda perversione, che fa il gioco del demonio.
    Rinnoviamo oggi il proposito di lasciare che il Signore diventi il padrone della nostra casa, di lasciar cadere i nostri pensieri, le nostre preferenze, i nostri capricci, per accogliere in ogni momento i desideri suoi
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    Coordin.
    00 14/10/2017 08:15
    Il Vangelo odierno parla della lotta tra Gesù e il demonio, una lotta che avviene nell'anima dell'uomo. Noi sappiamo di essere stati liberati dal peccato e dal demonio per la grazia di Dio e il Battesimo e poi, nel corso della vita, attraverso il sacramento della Riconciliazione. In questo brano evangelico, che contiene alcuni passaggi un po' difficili, ci fermiamo a riflettere su quello che il Signore dice alla fine: "Quando lo spirito immondo esce dall'uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell'uomo diventa peggiore della prima".
    Quando il demonio è stato scacciato "da uno più forte di lui", cioè dal Signore Gesù, la "casa" è spazzata e adorna, ma c'è il pericolo che rimanga vuota. Se questo succede, il demonio può tornare e la condizione finale può diventare peggiore della prima. Che cosa vuol dire questa casa vuota? Spontaneamente noi desideriamo di essere liberati dal male e specialmente dal peccato che pesa sulla nostra coscienza; lo desideriamo e siamo contenti e riconoscenti al Signore quando egli ci libera: allora la nostra casa è pulita e ben arredata. Ma nella vita spirituale c'è un'altra tappa necessaria, che spontaneamente ci piace meno, perché in questa bella casa noi vogliamo starcene tranquilli, da padroni, senza nessuno che ci comandi. Eppure bisogna che il padrone sia un altro, sia il Signore, e questo non sempre ci piace. Quando egli ci disturba, preferiamo rimanere soli nella nostra casa, e lui ci disturba in molte maniere: con le circostanze, servendosi degli altri, con le sue richieste, mentre per noi non è spontaneo fare quello che egli vuole. Eppure, se vogliamo essere noi padroni della nostra vita, ci mettiamo in una condizione molto pericolosa: l'egoismo che si manifesta così è peggiore del peccato che prima sporcava la nostra casa, perché ci fa vivere in modo contrario all0 spirito di Dio. Si vive senza voler essere disturbati, né da Dio né dal prossimo, facendo le cose come ci pare e a comodo nostro, e può venirne una specie di sottile, profonda perversione, che fa il gioco del demonio.
    Rinnoviamo oggi il proposito di lasciare che il Signore diventi il padrone della nostra casa, di lasciar cadere i nostri pensieri, le nostre preferenze, i nostri capricci, per accogliere in ogni momento i desideri suoi.


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    Coordin.
    00 15/10/2017 08:55
    dom Luigi Gioia
    Ancora bisognosi di sperare

    Il re di cui parla il vangelo di oggi è il Signore. I servi che egli invia, sono in modo particolare gli apostoli e i loro successori, i ministri della Chiesa, coloro ai quali il Signore, alla fine del Vangelo di Matteo dice: Andate, e di tutte le nazioni fate i miei discepoli. Questo è l'invito alle nozze. Questi inviati però sono anche i tutti i cristiani che il battesimo ha reso ?profeti', coloro che ?parlano per (Dio)', annunciatori della Parola. Gli invitati a nozze sono tutte le genti, tutta l'umanità, poiché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati .
    Il vangelo di oggi predice che questo invito a nozze, questo annuncio della Buona Novella incontrerà grandi ostacoli e anzi spesso il rifiuto. Ma insiste sulla assoluta determinazione del Signore a non arrendersi di fronte a questa opposizione. Lo vediamo così inviare i suoi servi una prima, una seconda e una terza volta. Ogni volta si ripropone però lo stesso scenario: l'ostilità, a volte anche estrema, o una accoglienza solo superficiale significata dall'invitato che raggiunge il banchetto ma non indossa l'abito nuziale, simbolo dei tanti battezzati detti ?sociologici' o ?nominalì la cui pratica resta esteriore, senza una fede viva in Cristo.
    Non è difficile applicare questa pagina del Vangelo alla crisi dell'evangelizzazione odierna che ci invita a porci tre domande. La prima è se la situazione di crisi dell'evangelizzazione sia veramente anomala; la seconda è se rispetto ad un passato recente, nel quale la pratica religiosa era a livelli altissimi, vi sia stata una decadenza; infine dobbiamo chiederci quali siano le cause di un impatto così ridotto dell'annuncio cristiano.
    Riguardo alla prima domanda, sull'anomalia della crisi attuale, il Vangelo ci consola. Che l'annuncio sia rifiutato dal più gran numero di persone, che solo un piccolo gregge creda e si converta, era previsto. Gesù lo afferma chiaramente: tanti saranno quelli che rifiuteranno, che addirittura vorranno eliminare chi annuncia il messaggio cristiano, discreditarli, marginalizzarli, calunniarli.
    Quale è allora - seconda domanda- la causa della diminuzione esponenziale della pratica religiosa negli ultimi decenni? La risposta è che praticare, essere fisicamente presenti al banchetto è una cosa e un'altra è indossare l'abito di nozze. Si può considerare l'abbassamento della pratica religiosa come un indice della perdita di fede. Ma è altrettanto vero che tanta della pratica religiosa dei tempi passati era puramente nominale, sociologica, esteriore, e che proprio l'improvviso crollo degli anni settanta lo dimostra. Appena la pratica religiosa cessò di essere socialmente obbligatoria, abbandonarono il banchetto tutti coloro che non avevano l'abito di nozze, tutti coloro che vi andavano solo per conformità, per abitudine, senza una fede viva, senza una vera adesione del cuore. In questo senso dunque, lungi dal dover essere interpretata negativamente, la situazione attuale è sicuramente un segno di più grande autenticità: è molto più probabile che chi va in chiesa oggi lo faccia perché davvero crede.
    Ma queste costatazioni non ci dispensano da una terza domanda, la più grave, la più difficile, riguardo a quali siano le cause di un impatto così esiguo dell'annuncio cristiano. Se il cristianesimo oggi, soprattutto nei nostri paesi occidentali, non cresce più, è prima di tutto perché i ministri del Vangelo, cioè coloro che Gesù invia, hanno perso la loro credibilità. Sono diventati i garanti di una istituzione, dei funzionari. Sono sempre meno dei servitori della Parola, dei servitori che ne vivono e che la meditano giorno e notte, e per questo diventano incapaci di annunciarla efficacemente. L'annuncio è stanco e insipido. La predicazione della Parola è l'ultima delle preoccupazioni di ministri troppo accaparrati da una struttura che gira sempre più vorticosamente intorno a sé stessa, forse proprio in cerca di un alibi che giustifichi la sua inefficacia. Tante sono le applicazioni possibili di questo dato, ma ad una in particolare ci invita la prima lettura di oggi, che mette sulla bocca di coloro che credono questa frase: Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato, perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato .
    Il male del nostro tempo è la crisi della speranza. Non abbiamo più bisogno del Signore. Non abbiamo più bisogno di sperare in lui, o piuttosto crediamo di non aver più bisogno di sperare in lui. E questo non perché non soffriamo, non perché la vita non sia dura oggi come lo era in passato, non perché manchino i problemi, ma perché la nostra società si è specializzata nell'offerta di anestetici che ci fanno dimenticare la nostra sofferenza, i nostri problemi, le nostre paure, grazie al benessere spesso illusorio che ci circonda.
    Il vangelo di oggi non termina su una nota positiva, ma sul pianto e sullo stridore di denti, nelle tenebre. Queste tenebre, questo pianto, non vanno visti come quelli della punizione, ma sono già quelli di una vita senza il Signore, senza la sua luce, senza la sua consolazione. Solo lui infatti asciuga le lacrime dai nostri volti e ci nutre di un cibo che davvero sfama la nostra sete inestinguibile di vita e di senso.
    E' dunque urgente continuare a farci gli strumenti di questo invito che il Signore mai si stanca di rivolgerci, anche quando siamo distratti, anche quando lo rifiutiamo. Permettiamogli così di condurre noi e i nostri contemporanei con noi alle acque tranquille della pace che lui solo può dare perché ognuno possa proclamare: Ecco il nostro Dio. In lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato. Rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza .
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    Coordin.
    00 16/10/2017 08:47
    Iniziamo oggi la lettera di san Paolo ai Romani. Sappiamo, dalla lettera stessa, che Paolo scrive da Corinto, nell'inverno del 57/58, mentre sta per partire per Gerusalemme, dove porterà le offerte raccolte per i poveri. Nello stesso tempo egli sta pensando a viaggi ulteriori e ha intenzione di andare a Roma e di giungere poi fino in Spagna. A Roma, prima che vi venissero Paolo e Pietro, c'erà già una comunità cristiana, della quale non sappiamo come si sia formata e Paolo desiderava molto mettersi in contatto con questi cristiani che non conosceva. La solennità dell'inizio della lettera rivela quale importanza l'Apostolo attribuiva a questa Chiesa. Paolo non si preoccupa di curare il suo stile, e questo inizio è un po' irregolare e di difficile lettura, perché egli vuol dire tante cose importanti e non le dice con ordine, ma vediamo immediatamente come egli sia fiero di essere apostolo: "Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il Vangelo di Dio". Anche noi Dio ha scelto; noi pure, come cristiani, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo di Dio, certo in modo molto più modesto di lui, Apostolo delle genti. E dobbiamo sentire un santo orgoglio per questa chiamata che Dio ci ha rivolto.
    Paolo sviluppa il suo pensiero. Centro di questa vocazione non è lui stesso, ma Cristo, che egli mostra nel duplice aspetto: Cristo uomo e Cristo Dio:
    "(Cristo) figlio di Dio, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne". E noi vediamo già tutto il mistero di Cristo e della sua croce; tuttavia: "Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore".
    Gesù Cristo, il centro di tutto il pensiero di Paolo. E la lettera rivela chiaramente come la fede sia fondamento di tutta la vita di Paolo, di tutto il suo apostolato.
    Egli gli chiama tutti all'obbedienza della fede, fondandosi su Cristo, unicamente su Cristo e non su se stessi, sulla propria forza, sui propri meriti, ma sull'amore di Cristo, sull'amore di Dio che ci viene da Cristo.
    Con questi sentimenti egli si rivolge "a quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione". Sono espressioni che ci danno un senso di gioia, sia che abitiamo a Roma, sia che abitiamo altrove, perché Roma è per tutti i cristiani "la loro città", la città dello spirito.
    Spesso all'inizio della Messa la liturgia ci fa ripetere il saluto di Paolo: "Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo". È il saluto cristiano, che assume e trasforma il saluto greco e quello dei Giudei.
    I Giudei dicevano: "Pace!", e Paolo dice "Pace", pace che viene da Dio Padre e insieme da Gesù Cristo. I Greci si auguravano la gioia, e Paolo augura la grazia. È quasi la stessa cosa, ma più profonda.
    Riceviamo questo augurio splendido di Paolo e rallegriamoci più che mai della nostra splendida vocazione.
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    Coordin.
    00 17/10/2017 08:41
    Nelle tre virtù teologali la speranza si trova tra la fede e la carità: si appoggia alla fede e dà slancio alla carità. Avere molta speranza è come orientarsi verso la cima di una montagna: chi vuoi raggiungerla desidera superare tutti gli ostacoli per poter contemplare il meraviglioso panorama che si gode dall'alto.
    Sant'Ignazio d'Antiochia era colmo di un'immensa speranza; non assomigliava a quelli che san Paolo descrive nella lettera ai Filippesi, privi di speranza perché sono "tutti intenti alle cose della terra". Nella lettera agli Efesini san Paolo attribuisce alla mancanza di speranza tutta l'immoralità del mondo pagano: non avendo speranza, si sono abbandonati ai loro desideri impuri, che li trascinano in basso. I cristiani invece sono uomini e donne ricchi di una grande speranza, sanno di essere cittadini del cielo "e di là aspettano come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso".
    Anche il Signore, nel Vangelo di oggi, ci anima a una grande speranza: la speranza di conservare la nostra vita per la vita eterna, di essere con lui dove egli e, cioè nella gloria del Padre, di essere onorati dal Padre: "Se uno mi serve, il Padre lo onorerà". "Chi ha questa speranza dice san Giovanni si conserva puro". E la speranza a dare la forza di resistere alle tentazioni, a dare il coraggio di resistere nelle difficoltà. Nella Colletta della messa di oggi chiediamo a Dio che la passione di sant'Ignazio di Antiochia sia per noi fonte di fortezza nella fede. Perché possiamo pregare cosi? Perché essa è una manifestazione di grande speranza. Sant'Ignazio ha avuto il coraggio di perdere la vita per guadagnarla. Scrivendo ai Romani egli dice:
    "C'è in me un'acqua viva che mi sussurra: Vieni al Padre!". E l'espressione della sua speranza: la parola di Cristo è diventata in lui come una sorgente che vuol zampillare fino al Padre. Egli ardeva dal desiderio di guadagnare Cristo e per questo vedeva la necessità di essere simile a lui nella passione, di essere macinato dai denti delle belve per diventare frumento di Cristo. "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto", leggiamo nel Vangelo. Nella sua grande speranza egli corre incontro al martirio, con un coraggio intrepido; scrive ai Romani di non intervenire per allontanare da lui quelle sofferenze che sono la ragione della sua speranza, perché grazie ad esse potrà ricevere la più grande grazia di Dio, la vittoria del martirio e infine la gloria di essere accanto a Cristo.
    Ed ora Ignazio splende ai nostri occhi come un santo ardente di fervore e di amore, che ci fa vergognare dei nostri atteggiamenti di fronte alle piccole difficoltà della nostra vita. Il Signore vuol darci molto; per questo ci manda qualche sofferenza, che dovrebbe non diminuire ma far crescere la nostra speranza. Come san Paolo scrive ripetutamente, dovremmo poter dire: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza". Ed è una speranza che non delude.
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    00 18/10/2017 07:56
    L'evangelista Luca può esserci particolarmente caro perché è l'evangelista della Madonna. Solo da lui ci sono state tramandate l'annunciazione, la visitazione, le scene del Natale, della presentazione al tempio di Gesù. E si può anche dire l'evangelista del cuore di Gesù, perché è Luca che ci rivela meglio la sua misericordia: è l'evangelista della parabola del figlio prodigo un tesoro che troviamo soltanto nel suo Vangelo, della dramma perduta e ritrovata. E' l'evangelista della carità: lui solo ci racconta la parabola del buon samaritano, e parla dell'amore di Gesù per i poveri con accenti più teneri degli altri: ci presenta il Signore che si commuove davanti al dolore della vedova di Nain; che accoglie la peccatrice in casa di Simone il fariseo con tanta delicatezza e le assicura il perdono di Dio; che accoglie Zaccheo con tanta bontà da cambiare il suo esoso cuore di pubblicano in un cuore pentito e generoso.
    San Luca è dunque l'evangelista della fiducia, della pace, della gioia; in una parola possiamo dire che è l'evangelista dello Spirito Santo. Negli Atti degli Apostoli è lui che ha trovato la formula tanto cara alle comunità cristiane: "formare un cuor solo e un'anima sola", che è ripresa anche dall'orazione della Colletta di oggi:
    "Signore Dio nostro, che hai scelto san Luca per rivelare al mondo il mistero della tua predilezione per i poveri, fa' che i cristiani formino un cuor solo e un'anima sola, e tutti i popoli vedano la tua salvezza". E la comunità cristiana, fondata sull'amore di Gesù e anche sull'amore alla povertà: solo persone non attaccate ai beni terreni per amore del Signore possono formare un cuor solo e un'anima sola.
    Il Vangelo di san Luca lo rivela pieno di zelo. Soltanto lui riporta l'invio in missione dei settantadue discepoli (gli esegeti pensano che questo sia un numero simbolico e rappresenti le settantadue nazioni dell'universo) e alcuni particolari di questa missione: "Il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi". San Gregorio Spiega: "Bisogna che i discepoli siano messaggeri della carità di Cristo. Se non sono almeno due la carità non è possibile, perché essa non si esercita verso se stessi, ma è amore per l'altro".
    Ci sono dunque molti tesori nell'opera di san Luca e noi possiamo attingervi con riconoscenza, non dimenticando l'aspetto che l'evangelista sottolinea maggiormente: darci tutti al Signore, essere suoi discepoli pronti a portare la croce ogni giorno con lui. Allora il nostro amore è autentico e porta veramente i frutti dello Spirito: la pace, la gioia, la benevolenza.
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    Coordin.
    00 19/10/2017 08:47
    Scribi e Farisei si reputavano giusti e Gesù fa loro toccar con mano che non lo sono: Dio solo è giusto. San Paolo, nel passo della lettera ai Romani che leggiamo oggi, proclama appunto la manifestazione della giustizia divina: "Ora si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti". Oggi noi non comprendiamo la parola "giustizia" come la intendeva san Paolo; quando sentiamo parlare di giustizia di Dio pensiamo subito alla punizione che Dio giustamente darà ai peccatori; Paolo invece pensa alla grazia di Dio. Dirà infatti che la giustizia di Dio si manifesta mediante la giustificazione gratuita, "per la sua grazia".
    Effettivamente quando la Bibbia parla di giustizia di Dio, di Dio giusto, si riferisce di solito alla schiavitù degli oppressi in Egitto: gli Israeliti oppressi attendono la giustizia di Dio, l'intervento di Dio contro gli oppressori. E in seguito, nel corso della sua storia, il popolo di Israele ha spesso invocato la giustizia di Dio per essere liberato, la giustizia divina che si manifesta contro gli oppressori e dona libertà al suo popolo. Anche san Paolo ha lo stesso pensiero: la giustizia di Dio che ci libera dalla schiavitù.
    Ma in questo caso egli parla della schiavitù del peccato: noi siamo oppressi dal peccato, schiacciati sotto il peso del peccato e la giustizia di Dio ci libera gratuitamente. Ecco il pensiero di Paolo quando parla con gioia ed entusiasmo della manifestazione della giustizia di Dio. Dio è giusto e datore di giustizia. La sua è una giustizia che si comunica, che rende giusti gli altri, che mette ogni cosa al suo posto, che mette in noi la pace: pace della coscienza, pace tra noi, pace tra noi e Dio. E tutta la vita cristiana è fondata su questa giustizia di Dio che ci ha "giustificati", resi giusti. Però per agire la giustizia di Dio domanda una cosa sola: la fede. L'uomo non può liberarsi dal peccato con le sue forze, deve confessare che soltanto Dio lo può liberare. Altrimenti si ricade nella situazione farisaica: credersi giusti, pensare che sono le nostre opere a meritarci la riconciliazione con Dio.
    Fondamento di tutto è la fede, l'accettazione dell'intervento di Dio giusto e buono, della giustizia liberante di Dio. Su questo fondamento noi possiamo compiere opere buone, dobbiamo anzi compierne molte, ma senza credere che siano esse a meritarci la giustificazione. Paolo ha lottato con tutte le sue forze contro questa illusione. Solo perché tutti "sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù" noi possiamo compiere opere buone e Dio può darcene la ricompensa, dopo averle prestabilite perché le compissimo. Se mettiamo le nostre opere quelle che Paolo chiama "'e opere della legge" a fondamento, capovolgiamo tutto. La fede ci fa confessare che abbiamo ricevuto tutto da Dio, che eravamo incapaci di qualsiasi giustificazione con Dio e tra di noi, che Dio è intervenuto a renderci giusti gratuitamente, senza alcun nostro merito. Su questo saldo fondamento tutto si può poi costruire, per la gloria di Dio.
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    Coordin.
    00 20/10/2017 07:55
    Nella tradizione ebraica Abramo era giustamente considerato campione dell'obbedienza nella fede, l'uomo giusto per eccellenza, poiché non aveva esitato ad offrire a Dio il sacrificio dell'unico figlio. Paolo non ha dubbi: Abramo fu giustificato prima di offrire Isacco in sacrificio, perché fu giustificato dalla sua fede nella promessa di Dio, sperò infatti "contro ogni speranza". Solo la fede giustifica, rende cioè santi davanti a Dio, sorgente di ogni santità e giustizia.
    Scrive san Paolo: "Che cosa dice la Scrittura? "Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia"".
    Paolo continua la sua argomentazione. La gratuità della giustizia che Dio dona a chi ha fede in lui è ancora più evidente quando si tratta di un peccatore. Eppure la Bibbia dice: "Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate".
    Si tratta quindi, per essere salvati, di aderire con un atto di fede a Dio, al suo dono gratuito, alla divina giustizia che purifica e ci rende peccatori perdonati. E' un atteggiamento fondamentale nella vita spirituale: dobbiamo essere concretamente convinti che non le nostre opere valgono, ma la sua santità, accolta in noi con la fede. Il rapporto con Dio sta proprio in questa continua accoglienza del suo dono di "giustizia", che egli ci elargisce per la nostra fede.
    Di conseguenza verranno anche le opere, ma saranno allora "opere della fede", opere che per la sua grazia noi possiamo compiere, perché egli le ha preparate per noi.
    Rendiamo grazie all'amore del Signore, che ci domanda soltanto di lasciarci salvare, di lasciare che egli abbia cura di noi e chiediamogli che aumenti la nostra fede.


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    Coordin.
    00 21/10/2017 08:49
    Di nuovo san Paolo insiste sul giusto ordine delle cose: non le nostre opere vengono prima, ma l'azione di Dio, la generosità di Dio. Tutto incomincia da una promessa di Dio. Nella storia di Abramo all'inizio c'è una promessa divina, prima che Abramo abbia fatto qualcosa. "Non in virtù della legge fu data ad Abramo la promessa", perché la legge non esisteva ancora, e san Paolo lo scrive chiaramente nella lettera ai Galati: la legge fu data più di quattrocento anni dopo. La prima cosa non è dunque l'osservanza della legge, ma accogliere la promessa con piena fede: così lasciamo libertà a Dio e mettiamo la nostra vita a sua disposizione nel modo migliore. E una condizione facile aprirsi a Dio, aver fede in lui e non in noi stessi, ed è indispensabile.
    Gesù lo dice nel Vangelo: bisogna confessare la fede, anche davanti agli uomini, per essere ricevuti da Dio in cielo: "Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli Angeli di Dio". Tutta la nostra vita deve essere non uno sforzo per farsi dei meriti, ma una testimonianza di fede in Gesù e in Dio per Gesù Cristo.
    Però il Vangelo ci avverte di non giudicare troppo in fretta quelli che non mostrano la loro fede, quando ci dice: "Chiunque parlerà contro il Figlio dell'uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmierà lo Spirito Santo non gli sarà perdonato". Sono i due aspetti della fede. C'è una manifestazione esteriore, ma la fede è fondata su una manifestazione interna dello Spirito Santo. Qualche volta può succedere che una persona trovi delle difficoltà a professare la fede, ad accettare le manifestazioni esteriori della fede nel Figlio dell'uomo, vale a dire la fede cristiana. Ebbene, non si può dire che è imperdonabile; imperdonabile è resistere allo Spirito Santo, cioè non accettare dentro di noi la testimonianza di Dio, che ci spinge verso il suo Figlio. La docilità a Dio prepara e sviluppa in noi la fede: quando c e questo intimo rapporto con lo Spirito Santo si viene alla fede ("Chi è docile a Dio viene alla Luce" dice il Vangelo giovanneo> e allora nella vita, ormai fondata sulla fede, si sviluppa pienamente il frutto dello Spirito, e la fede può giungere alla eroica testimonianza che ammiriamo nei martiri, testimonianza che non è opera umana, ma proprio frutto dello Spirito, dono di Dio in chi si apre docilmente a lui.
    Domandiamo al Signore una stima sempre più profonda della fede e una crescente docilità al suo Spirito, che sviluppa in noi lo spirito di fede.
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    Coordin.
    00 22/10/2017 14:09
    Missionari della Via
    Commento su Matteo 22,15-21

    Il tributo era uno dei segni più odiosi per far sentire al popolo d'Israele la sua condizione di schiavitù: si trattava di un denaro a testa (census) che tutti dovevano versare all'Impero romano, tranne bambini e anziani.

    La domanda posta a Gesù non era mossa da sincera ricerca della verità, ma solo per farlo cadere: se Gesù avesse detto di non pagare, era denunciabile ai romani come ribelle; se avesse detto di pagare, allora sarebbe stato dichiarato come un servo dei romani, perdendo la stima del popolo. Ma la sapienza sconfigge la furbizia: Gesù non risponde direttamente e anzitutto chiede una moneta. Lui così dimostra di non avere quel denaro del nemico oppressore, che invece i suoi accusatori hanno avidamente in tasca. E andando avanti, dice la famosa frase: date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio.

    Che cosa intende principalmente Gesù? Se andiamo a vedere la storia, i cristiani nel I secolo furono molto perseguitati dai romani, non perché fossero contro l'impero o perché mancassero ai propri doveri civili, ma perché non veniva accettata la priorità che i cristiani non davano all'imperatore, ma a Dio: davano a Cesare quello che è suo, ossia le tasse, ma non quello che è di Dio, cioè l'adorazione, il proprio cuore! I cristiani avevano un solo Signore, Gesù, e solo davanti a Lui si inginocchiavano.

    Per noi cristiani dunque il problema non è che dobbiamo stare fuori dal mondo, ma dobbiamo fare la cosa più difficile: essere nel mondo ma non essere del mondo, stare nel mondo ma essere di Dio, appartenendo a Lui, obbedendo a Lui. È un problema di possesso: io di chi sono? A chi appartengo? A chi o a che cosa ho dato il mio cuore? Il punto non è stare fuori dal contesto di Cesare, fuori dal mondo, ma è continuare ad essere di Dio nel mondo!

    Da qui, possiamo anche trarre un'altra famosa interpretazione: date allo Stato ciò che è giusto, siate cioè onesti cittadini, ricordando che siete tutti responsabili del bene della comunità. Gesù ovviamente non pone Dio e lo Stato sullo stesso piano, perché anche lo Stato (Cesare) dipende da Dio e a Lui deve rendere conto. Anche attraverso ?Cesare?, Dio interviene indirettamente nella storia, conducendola secondo i suoi progetti.

    Il cristiano è dunque chiamato ad obbedire allo Stato, ma anche a resistere quando questi si mette contro Dio e la sua legge. Prima che agli uomini, bisogna infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza; non si può dare a Cesare l'anima che è di Dio! Ad esempio, nessuna legge delle Stato che mina la vita, il bene, il bello può essere accettata da un cristiano! Poi, per quanto riguarda chi ruba allo Stato (ad esempio con l'evasione fiscale), sappia che fa un grave peccato e non danneggia solo una singola persona, ma l'intera comunità. È chiaro che anche lo Stato dev'essere giusto ed equo nell'imporre le tasse. E si ruba non solo sottraendo dei beni, ma anche rifiutando di collaborare o di rispettare i beni comuni. Ecco alcuni esempi: un ragazzo che devasta un giardino pubblico o sfregia un'opera (dai banchi di scuola al muro di un edificio), ruba alla comunità; un adulto che bleffa sulle tasse, ruba alla comunità; un lavoratore che non lavora pur prendendo regolarmente il suo stipendio, ruba alla comunità; un dirigente che attraverso vie non proprio legali arriva ad accaparrare compensi smodati, ruba alla comunità (card. A. Comastri).

    Per non parlare poi di chi, peccando gravemente, omette di pagare gli operai o di versarne i contributi; o di chi crea pericolosi mercati paralleli in nero; o di chi, instaurando la mentalità del ?favore?, arriva a gestire illegalmente assunzioni, visite mediche, graduatorie, favorendo chi avrebbe meno bisogno o chi è meno capace, ostacolando così il progetto di Dio; o di chi, cadendo persino in forme di malavita organizzata, ruba soldi e libertà alle persone imponendo pagamenti ai negozianti in cambio di una ?protezione?, attirandosi lo sdegno di Dio... Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma lo fanno tutti! Può essere che molti lo facciano, ma è proprio per questo che il mondo va male!

    Solo l'amore cambia il mondo, solo il bene ci rende liberi! Date dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.
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    Coordin.
    00 23/10/2017 08:09
    Nella lettera ai Romani Paolo ritorna alla figura di Abramo che "non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio". Quale contrasto con l'uomo ricco di cui parla oggi il Vangelo! Questi cerca il fondamento della vita nei beni terreni: "Dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: riposati, mangia, bevi e datti alla gioia". Abramo fonda la sua vita in una realtà che sembra inconsistente: una parola, e neppure detta da un uomo, che si vede, si può conoscere e valutare per decidere poi di fidarsi di lui, ma una parola sentita da Dio. Eppure proprio nel rapporto con Dio ha raggiunto la massima sicurezza. Anche Abramo era ricco, aveva la sicurezza materiale e poteva pensare di trascorrere tranquillo il resto della sua vita nel suo paese di Carran. Ma egli sapeva che la vera sicurezza si trova nel fare quello che Dio vuole.
    Chi dei due ha avuto ragione? La parabola narrata da Gesù lo dice chiaramente: "Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita". E Gesù conclude: "Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio". Vano è appoggiarsi ai beni terreni: il vero tesoro è il rapporto con Dio, nell'ascolto fiducioso e obbediente della sua parola.
    Cerchiamo dunque in Dio il solido fondamento della nostra esistenza, che non viene mai meno e che ci permette di pensare alla morte con tanta pace, nella certezza che attraverso di essa giungeremo al possesso dell'unico, sommo bene.
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    Coordin.
    00 24/10/2017 07:27
    La prima lettura di oggi afferma il principio della solidarietà di tutti gli uomini, duplice solidarietà: nel male e nel bene: "Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... La grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini".
    E un principio che abbiamo difficoltà ad ammettere, soprattutto nell'aspetto negativo: "Per colpa di uno solo si è riversata su tutti la condanna...". Sembra duro e ingiusto e siamo continuamente tentati di sottrarci a questa solidarietà. Non vogliamo essere confusi con i peccatori: possiamo pregare per loro e lo facciamo, ma come separandoci dalla loro condizione. Eppure, se non accettiamo questa solidarietà nel peccato e nella condanna, non riceveremo "l'abbondanza della grazia". Cristo l'ha accettata e si è presentato al Padre carico dei peccati di tutta l'umanità, lui, "santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori" (Eb 7,26). È un mistero profondo, rivelazione di un amore che la mente umana non può neppure concepire.
    La devozione al cuore di Gesù, introducendoci nel mistero della sua offerta solidale con i peccati del mondo affinché dove è abbondato il peccato, sovrabbondasse la grazia "con la giustizia per la vita eterna", ci incoraggia a vivere con lui questa solidarietà e ad offrire con amore le piccole o grandi sofferenze della nostra vita affinché si riversi su tutti gli uomini "la giustificazione che dà vita".
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    Coordin.
    00 25/10/2017 10:12
    Noi siamo sempre avidi di gioia e di privilegi, ma il Signore ci mette in guardia affinché non sbagliamo strada. Certo, Gesù ci promette la gioia, e ci dà molta gioia anche in questa vita, dimostrandoci il suo amore; ma il suo è un amore vero e perciò esigente. Nel Vangelo la domanda di Pietro rivela la tentazione, possiamo dire normale, di ogni cuore umano che si sente privilegiato dal Signore e che, proprio per questo, ritiene che a lui sia lecito lasciarsi andare un po'. Infatti, dopo aver ascoltato questa parabola sulla necessità di essere pronti, sempre vigilanti, Pietro domanda al Signore: "Questa parabola la dici per noi o per tutti?". Noi siamo privilegiati, possiamo stare tranquilli è questo, in fondo il senso della sua domanda siamo i tuoi discepoli, ci hai detto che abbiamo autorità sugli altri, il nostro posto è migliore di quello di chiunque! E questo è vero, ma nel senso che il posto di Pietro e degli Apostoli è un posto che esige di più, perché la loro è un'autorità di servizio e non un privilegio da cui far derivare vantaggi personali, a soddisfazione del proprio egoismo.
    Sempre l'egoismo tenta di infiltrarsi nei nostri pensieri e sempre è necessaria la lotta per respingerlo, sempre dobbiamo, come scrive san Paolo, liberarci dalla schiavitù del peccato per metterci al servizio di Dio, diventare "servi della giustizia". E un servizio libero, ma esigente, dell'esigenza del vero amore.
    L'evangelista descrive la festa dell'egoismo. Il padrone tarda a venire e il capo dei servi comincia "a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi": è il festino sognato dall'egoista. La festa della carità è tutto il contrario e riempie il cuore di una pura gioia, perché ognuno non pensa a gioire ma a dare gioia agli altri, a darsi da fare in ogni modo per rendere più facile la gioia di tutti. Così chi è posto in autorità adempie la volontà del Signore.
    "A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più". Sono parole che fanno capire il desiderio di Dio: egli ci dà molto per ricevere molto. Questo non vuol certamente dire che Dio cerca il proprio interesse, ma che vuole che portiamo frutto e che il nostro frutto rimanga.
    Ringraziamo il Signore e siamogli riconoscenti per i suoi doni e chiediamogli che approfondisca in noi il senso del servizio, nella reciproca carità.
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    Coordin.
    00 26/10/2017 08:15
    I nostri difetti sono bravissimi nel trovare occasioni di crescita: anche le parole della Scrittura sono state usate nel corso dei secoli in modo da favorirli o giustificarli. San Paolo nella lettera ai Romani cerca di togliere qualche illusione nociva. Ha affermato che la salvezza ci è data per grazia e non per le nostre opere; ora però esorta i cristiani: come nella schiavitù della carne si producevano iniquità e impurità, così ora, liberati dal peccato e servi di Dio, bisogna produrre frutti di santità, per la vita eterna. E l'assoluta novità delle opere della fede, che trovano la loro sorgente in Gesù Cristo. Così è evitato, da Paolo, il pericolo che la verità della salvezza per grazia venga deformata per giustificare una condotta cattiva.
    Purtroppo questa verità non è sempre stata ricevuta rettamente, così ad esempio Lutero ha affermato che, rivestiti dalla grazia di Cristo come da un manto, possiamo ancora essere in peccato, perché i meriti di Cristo coprono i nostri peccati davanti al Padre. Non è vero. I cristiani non possono essere in peccato e avere la grazia: c'è una scelta da fare.
    Nel Vangelo odierno anche Gesù toglie qualche illusione ai suoi discepoli. Egli è venuto a portare la pace, anzi "è lui la nostra pace", come scrive Paolo agli Efesini, ma la pace che egli porta non è come quella del mondo. Il suo messaggio di pace è contro una certa pigra tranquillità che sfugge gli sforzi, che evita da vile ogni conflitto. Ecco perché dice: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". Davanti a lui non si può rimanere neutrali: bisogna prendere posizione e allora si creano conflitti in noi e attorno a noi, ci si trova di fronte a degli avversari: "Si divideranno tre contro due e due contro tre...".
    Un cristiano deve saper guardare le cose in faccia, e combattere coraggiosamente per la verità, per il regno dell'amore, contro i vizi che lo ostacolano. Quello del Vangelo oggi è un messaggio di coraggio.
    Chiediamo al Signore la chiarezza di vedute che ci faccia distinguere la vera dalla falsa pace, che ci dia il coraggio di servire la verità, a qualunque prezzo. Nella lettera agli Ebrei l'autore invita i cristiani a correre con perseveranza "tenendo fisso lo sguardo su Gesù e li esorta: "Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate... Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato!". Gesù ci mette nella verità, perché resistiamo fino al sangue.

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    Coordin.
    00 27/10/2017 09:07
    La presenza del male nel cuore dell'uomo è una cosa terribile, che san Paolo ci descrive e che il Signore ci mostra chiamandoci ipocriti. L'uomo da solo è incapace di fare il bene, anche se lo ama e lo desidera: "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo". Da solo, l'uomo tende al male. Molto spesso le buone intenzioni conducono soltanto ad azioni malvage. L'uomo ha il desiderio dell'amore, che è la cosa migliore del mondo, ma in nome dell'amore noi vediamo ogni giorno famiglie distrutte, bambini abbandonati... Il desiderio di giustizia è cosa splendida nel cuore dell'uomo, ma in nome della giustizia quante volte si commettono violenze che conducono ad ingiustizie peggiori di quella a cui si voleva riparare! Anche il desiderio di perfezione è una cosa bella nel cuore dell'uomo, ma se egli pretende di realizzarlo da solo, commette il peccato del fariseo: "Io sono buono, io non sono come...". Tutto questo desiderio di bene che riempie il cuore dell'uomo è reso vano dall'orgoglio, dall'ambizione, dall'egoismo; ogni buona azione finisce per nutrire la compiacenza di sé.
    L'uomo non può da solo compiere il bene che desidera. Abbiamo bisogno di un salvatore, di qualcuno che ci salvi non una volta, ma che sia sempre con noi, che sia sempre presente in noi, per salvarci in ogni nostra azione. Nessuna azione possiamo compiere da soli, perché sarebbe inevitabilmente viziata dal male. Se invece la facciamo con il nostro salvatore, aiutati da lui, con la sua ispirazione, diventa veramente una buona azione, che non ci rende orgogliosi ma ci stabilisce nell'umiltà, perché sappiamo di non poterla attribuire a noi stessi, ma solamente alla sua grazia.
    Domandiamo a Gesù che ci faccia il grande dono di essere contenti della nostra incapacità a compiere il bene, perché questa consapevolezza ci spinge ad unirci sempre più a lui, nostro salvatore e nostra forza.
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    Coordin.
    00 30/10/2017 08:25
    I testi della liturgia odierna insistono sulla libertà. "Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi" scrive san Paolo e altrove scriverà: "Dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà". Nel Vangelo vediamo Gesù liberare una donna "che satana ha tenuto legata per diciotto anni": "Donna, sei libera dalla tua infermità" e indignarsi di fronte alle rimostranze del capo della sinagoga, preoccupato per l'inosservanza del sabato.
    Dio dunque vuole per noi la vera libertà, la libertà di cui Paolo ci indica la condizione, che sembra un po contraddittoria: "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio". La vera libertà non è libertinaggio, non è spirito di indipendenza, ma docilità allo Spirito di Dio, nella fiducia e nella semplicità: obbedendo all0 Spirito di Dio si è liberati dalla schiavitù del mondo e del peccato.
    Si può essere schiavi del mondo in molte cose: schiavi della moda, del conformismo, non soltanto nel modo di vestire, ma nel modo di vivere. Tante persone non hanno il coraggio di vivere come vorrebbero, perché "non usa", e si conformano allo spirito del mondo, dell'"uomo vecchio", come scrive san Paolo. I cristiani invece sono chiamati a inventare un modo nuovo di vivere, a non essere schiavi di quello che si fa o non si fa, a trovare le vie e i mezzi anche inediti per fare il bene, per essere figli di Dio nella libertà, con un’immensa fiducia nel Padre. Ci si può anche sbagliare nei propri tentativi, ma se si agisce con lo Spirito di Dio, lo sbaglio non andrà lontano, sarà corretto e diventerà fecondo di bene secondo il disegno di Dio.
    Un cristiano deve essere libero non soltanto rispetto alle consuetudini del mondo, ma nel modo di vivere da figlio di Dio. Ogni vocazione è irripetibile, non ci sono due vocazioni identiche. Una volta si leggeva che una persona spirituale faceva bene ad imitare in tutto uno o l'altro santo, ma è falso, questa non è la libertà cristiana. Ogni santo ha la propria vocazione e le loro vite ci possono ispirare cose eccellenti, ma non dobbiamo imitare supinamente nessun santo. Dobbiamo piuttosto trovare la nostra via, secondo quanto lo Spirito dice in noi: è questo il pluralismo cristiano.
    Gesù nel Vangelo di oggi non soltanto si preoccupa di liberare questa donna, ma agisce da uomo perfettamente libero, operando la guarigione in giorno di sabato, pur sapendo che il suo gesto di bontà sarà criticato e disapprovato aspramente. La sua missione di salvezza lo porta a compiere questo atto di sanazione, ed egli lo fa con libertà sovrana. Domandiamogli di farci trovare la strada di santità che egli ha disposto per noi, nell'intima docilità al suo Santo Spirito.
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    Coordin.
    00 31/10/2017 08:06
    Oggi ascoltiamo due parabole, una per l'uomo e una per la donna: è una delicatezza del Signore che in Luca troviamo altre volte, per esempio nella parabola della pecora smarrita che il pastore ricerca e della dramma che una donna cerca con diligenza. Vuol dire che il Signore invita tutti, uomini e donne, alla pazienza e alla vera speranza. Le due parabole odierne parlano infatti del dinamismo del regno di Dio, che sembra niente ed è una forza potente. Un granellino di senapa si vede appena, ma ha in sé una forza vitale che lo fa crescere fino a diventare un grande arbusto, sul quale gli uccelli del cielo possono posarsi. ~ lievito nascosto nella farina sembra una cosa da niente, ma la fa tutta fermentare e le dà la possibilità di diventare pane. La stessa cosa è per la nostra vita: dobbiamo accogliere in noi il regno di Dio, la parola di Dio, che è poca cosa, come parola: un po' d'aria in movimento. Ma la sua forza in noi può trasformare, deve trasformare tutta la nostra vita. Noi però dobbiamo avere insieme pazienza e fiducia. Pazienza perché il miracolo non avviene in un attimo. Una volta gettato il seme bisogna aspettare, perché per un certo tempo sembra persino che non esista più; una volta impastato il lievito con la farina, se non gli si dà il tempo di lievitare la pasta, non succede niente. Ricordo che quando ero piccolo mia madre ci faceva un po' di dolci e, messo il lievito, ci raccomandava di non avvicinarci al recipiente che conteneva l'impasto, perché se lo toccavamo si interrompeva la lievitazione, e addio al dolce che aspettavamo con tanto ardore! E un esempio di pazienza: è inutile voler affrettare i tempi. La stessa cosa avviene nella vita spirituale. Noi vogliamo veder subito il cambiamento e se questo non avviene ci sforziamo di affrettare i tempi, invece di fidarci del Signore e di aspettare con tranquillità. Sappiamo che la forza, il lievito, egli lo ha messo nella nostra vita e che quindi la difficoltà sarà superata, la cosa avverrà. Soltanto dobbiamo fidarci, invece di pensare che se facciamo più sforzi, se ce la mettiamo tutta, vedremo il risultato: questa in fondo è mancanza di fiducia. Pazienza e fiducia: il Signore vuole soltanto questo.
    San Paolo nella lettera ai Romani dice la stessa cosa, in modo più tormentato, secondo il suo temperamento:
    "Tutta la creazione geme e soffre... attendendo", ma sono i gemiti del parto, quindi pieni di speranza. Devono essere gemiti di speranza, perché se non trova fede e speranza Dio non può operare ciò che vuole nella vita di ogni uomo e in tutta la creazione. Se invece ci fondiamo sulla sua parola e l'accogliamo nel silenzio e nella pazienza, possiamo dire con san Paolo: "Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi".
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    Coordin.
    00 01/11/2017 07:01
    padre Gian Franco Scarpitta
    Martiri e testimoni di ogni epoca. Impariamo da loro

    Il libro dell'Apocalisse, di cui alla Prima Lettura di oggi, adopera un linguaggio allegorico o simbolico che a detta di tutti gli esegeti si riferisce ai fenomeni avvenuti durante i primi anni di cristianesimo, in tempi di persecuzione romana. Si parla nel testo di due visioni: la prima riguarda un numero ben preciso di persone, 144000, "delle varie tribù d'Israele" che vengono "segnate" con il sigillo. Si tratta di Giudei convertiti al cristianesimo che, sotto la persecuzione dei Romani, hanno perseverato nella fedeltà a Dio e nella loro condotta irreprensibile di buona testimonianza. Il numero non è letteralmente attendibile, ma rappresenta nel simbolo una moltitudine indefinita di persone (12 al quadrato = 144000). La seconda visione riguarda invece una grande moltitudine di cristiani di varie provenienza etniche e culturali (di tante nazioni) che sempre in epoca imperiale romana sono passati attraverso il martirio e la sofferenza e sono destinati a vestire di bianco: indosseranno la veste candida, simbolo di purezza e di incontaminatezza e di predilezione da parte dell'altissimo. Gli uni e gli altri riconoscono che la salvezza, fino ad allora attribuibile solo all'imperatore di Roma, appartiene all'Altissimo e a Cristo Figlio di Dio, il cui sangue sparso ci ha redenti e riscattati. Si tratta quindi di martiri e di "santi", cioè puri e integerrimi nella condotta, illibati e privi di ogni macchia, peraltro non contaminati da impudicizia e da sordidezza pagana e immonda (Ap 14, 4 - 5).
    Gli uomini "candidi" poseranno davanti al Dio Altissimo al quale parleranno della loro costanza nella prova e della loro testimonianza. La tradizione della Chiesa, particolarmente in Sant'Agostino, ha visto in questi personaggi i cosiddetti "santi", per come noi li intendiamo oggi. A dire il vero il termine "santo" era originariamente attribuito a tutti i membri della comunità cristiana: quando Paolo parla di "santi" intende in effetti tutti coloro che hanno preso l'impegno solenne della testimonianza del Signore e che fanno parte di una comunità nella quale conducono la loro perseveranza di vita virtuosa e irreprensibile. E del resto nei primi anni dell'era cristiana vi era maggiore consapevolezza della radicalità della scelta evangelica e che il battesimo comportasse una convinta predisposizione alla testimonianza di fede anche fino all'effusione del sangue. Anche ai nostri giorni si richiede il medesimo spessore di coerenza dei primi secoli, poiché a tutti i credenti in Cristo sarebbe richiesto effettivamente il medesimo eroismo di conformità al Signore, come del resto esorta la Scrittura: "Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono Santo" (Lv 19). Ma senza nulla togliere a codesta vocazione universale alla santità, sulla succitata linea dell'Apocalisse, oggigiorno si è soliti attribuire il concetto di "santi" a tutti coloro che hanno dato particolare prova di eroismo e di provata virtù nella perfetta imitazione del nostro Redentore, che si sono distinti nella radicalità di testimonianza evangelica ciascuno secondo un particolare carisma o monito evangelico, conformandosi totalmente allo stesso Cristo Signore. In sintesi, la santità è prerogativa universale poiché la si chiede indistintamente a tutti i credenti, ma vi sono coloro che di essa hanno dato un saggio ineludibile e questi sono gli eroici uomini virtuosi che noi esaltiamo sugli altari. Conformemente ai martiri e ai membri della "grande moltitudine di cui all'Apocalisse, essi hanno vissuto in pienezza la loro appartenenza a Cristo, ci hanno edificato con la loro vita esemplare e con il loro eroico coraggio, ci sono stati di orientamento nelle virtù e nella perfezione, ci hanno spronati e condotti sulle orme del vangelo, tuttora ci convincono intorno alla bellezza della prospettiva cristiana e adesso vivono la meritata ricompensa di gloria riservata agli eletti. Essi possono a pieno diritto intercedere per noi presso Dio senza che questo nulla ometta alla divina onnipotenza: alla pari di Abramo che intercedeva per Sodoma o di Mosè la cui intercessione salvò il popolo idolatra dallo sterminio, essi possono per noi impetrare dal Signore tutte le grazie delle quali abbiamo bisogno e tutte le preghiere e le devozioni a loro rivolte da parte nostra saranno sempre legittime, a condizione che non ci inducano a sminuire il primato assoluto di Dio. Il novero di questi personaggi illustri è immenso e vario perché differente è stata la vita di ciascuno di essi e diversi gli insegnamenti e i tratti evangelici di cui sono stati testimoni esemplari. Da parte di tutti si riscontra la linearità cristiana di umiltà e di carità, in tutti si evince l'illuminata fede e la massima dedizione al Signore nella preghiera e nella meditazione, ma in modo peculiare in ciascuno si evince la ricchezza di uno specifico evangelico di cui sono stati propugnatori. La Chiesa infatti può disporre dei meriti di un San Tommaso D'Aquino che ha vissuto il particolare dono dello studio e della difesa della dottrina, di un Sant'Antonio Abate che ha sacrificato se stesso nella solitudine e nella penitenza, di un San Giovanni Bosco e Don Puglisi che hanno edificato la Chiesa donandosi alla gioventù abbandonata; di una Madre Teresa di Calcutta che ha mostrato particolare zelo per i poveri e per gli indigenti. In ciascuno di questi personaggi si riscontra uno specifico di testimonianza evangelica e in tutti quanti insieme la costruzione di una Chiesa che ripropone il volto incontaminato di Cristo sotto molteplici aspetti di dono e di carisma. La presenza di tanti uomini e donne che hanno segnato varie epoche di vita cristiana con la loro zelante conformità a Cristo costituisce la certezza che Dio suscita in ogni tempo molteplicità variegate di doni e di ricchezze che proliferano nel mondo in modo da far emergere la ricchezza e la grande attualità del vangelo; al contempo ci offre anche orientamento e incentivo affinché anche noi comprendiamo che la santità è una prospettiva possibile e che la perfetta imitazione del Cristo non è affatto avulsa e utopica, ma in ogni epoca si rende al contrario indispensabile per il progresso della vita e della società. La coerenza e l'esemplarità di vita di tante persone di spiccato eroismo nella virtù ci orienta a cercare solo in Gesù Cristo il criterio di vita più adeguato.
    La liturgia di oggi ci ragguaglia però del fatto che non possiamo escludere dal numero dei "santi" tutti coloro che sono passati inosservati e dei quali non si è svolto alcun processo di canonizzazione: accanto ai numerosi santi il cui culto ha ormai assunto dimensioni ultrapopolari (Sant'Antonio, Padre Pio, Madre Teresa ecc) vi sono tantissimi altri uomini esemplari di cui l'agiografia fa un cenno minimo nel calendario e altri di cui nulla si conosce se non consultando apposite enciclopedie voluminose. Di tantissimi altri non si fa menzione e sono passati inosservati. Ma indipendentemente dall'importanza che noi possiamo attribuire a ciascuno di essi nelle nostre preghiere e nelle nostre devozioni, la Chiesa non dimentica che essi vivono davanti al Dio Altissimo la medesima dimensione di gloria a pari dignità e senza differenziazioni, poiché Dio li ha saggiati e li ha trovati tutti degni di sé (Sap 3, 5) arricchendoli tutti quanti degli stessi grandi benefici. E di conseguenza, ignoti o conosciuti essi vengono oggi tutti esaltati in ugual misura.



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    00 02/11/2017 07:31
    padre Gian Franco Scarpitta
    Proiettati verso la gloria

    Si parlava ieri di coloro che vivono la pienezza del paradiso, che hanno meritato dopo un costante esercizio terreno di virtù e di perfezione nella conformità a Cristo, i cosiddetti Santi. Oggi ci si sofferma invece su tutti gli altri defunti che non hanno ancora raggiunto la gloria piena paradisiaca, ma che vi sono tuttavia orientati e che si avvalgono del nostro sostegno orante e dei nostri suffragi. Si tratta di coloro che stanno vivendo la dimensione della "purificazione", meglio conosciuta come "purgatorio". Il teologo Kehl rifiuta di interpretare questa condizione come una sorta di "inferno temporaneo" o come luogo di sospensione fra paradiso e inferno, quasi come se il defunto si trovasse sospeso in abisso vuoto dal quale vede ambedue le realtà da molto lontano: il purgatorio dev'essere visto piuttosto come un "atrio del paradiso", nel quale i nostri defunti possono già essere considerati salvi, perché già avviati verso la gloria definitiva. Essi tuttavia sono invitati a percorrere un itinerario di purificazione già cominciato nella vita terrena, che consenta loro di essere mondi, liberi e purificati da ogni imperfezione e guadagnare così il paradiso in pienezza. Certamente Dio, Padre di infinita misericordia può accordare il perdono a tutti gli uomini senza necessità di ulteriore purificazione, ma la cooperazione umana alla volontà con cui Dio vuole rinnovarci fino in fondo è necessaria: è insomma necessario che l'uomo dal suo canto venga messo in condizioni di accogliere e meritare in pienezza il perdono e la riconciliazione. Qualsiasi perdono ottenuto dal Signore nel sacramento della Riconciliazione è certamente efficace e rende liberi e risollevati, rigenera a nuova vita e ottiene la riconciliazione con Dio, tuttavia esso lascia sempre una qualche conseguenza di lacuna o di imperfezione che va purificata. Seppure la misericordia di Dio è infinita e incalcolabile, il perdono dei peccati non dev'essere inteso come una realtà ottenibile a qualsiasi condizione e in modo assolutamente gratuito, quasi come se da parte dell'uomo non debbano esservi debiti di riconoscenza o obblighi da soddisfare. Va da sé che occorre una condizione ulteriore di liberazione da qualsiasi pecchia o rimasuglio di peccato e di imperfezione sia prima che dono la morte. Di conseguenza tutti coloro che si trovino in stato di grazia ma ancora non del tutto purificati, sono destinati a questa speciale dimensione di purificazione ultraterrena che Dio ha disposto e che sottolinea ancora una volta in modo speciale la grandezza dell'amore e della misericordia divina. Che esista un purgatorio è infatti indice di amore di Dio, la cui pazienza e benevolenza verso l'uomo si protrae anche oltre la vita terrena e che rende possibile fino all'ultimo che l'uomo si renda meritorio della gloria definitiva. Come del resto si evinceva in apertura, il purgatorio non va considerato una sorta di privazione o di pena paragonabile all'inferno (seppure una certa tradizione abbia rilevato che le anime purganti soffrano come le anime dannate), ma una sorta di predisposizione al paradiso, un'introduzione alla beatitudine effettiva alla quale certamente i nostri cari defunti giungeranno.
    Pregare per i nostri defunti, specialmente durante la celebrazione eucaristica, è un uso invalso da tantissimi secoli nella chiesa che sottolinea come i cristiani siano sempre stati solerti a vivere una comunione intensa con i defunti, senza che questa si identificasse necessariamente con una sorta di magismo o di spiritismo. Nella preghiera infatti mentre si instaura un'intima relazione con Dio e ci si immedesima in un dialogo profondo che edifica e rasserena, si ha la possibilità di percepire la presenza certa di tutti coloro che il Signore in ogni caso sostiene e accompagna e dei quali non si è mai dimenticato, appunto le anime dei nostri cari defunti. Pregare il Signore per i nostri defunti, impetrare a lui la grazia della purificazione e la misericordia per loro, chiedergli che ci faccia avvertire la loro presenza e che essi non ci abbandonino, equivale a instaurare una relazione intima e familiare con i nostri stessi cari e vivere già nell'orazione stessa un rapporto di mutua comunione con loro. Vivere l'Eucarestia come partecipazione alle sofferenze di Cristo il cui sacrificio ci viene ripresentato all'atto della consacrazione, entrare in comunione con il Corpo e il Sangue di Cristo applicando questo stesso sacrificio ai nostri cari defunti equivale a consentire loro che la predetta purificazione avvenga assai più speditamente. In altri termini, la consacrazione eucaristica, quando applicata con fede e devozione ai nostri defunti, ottiene per essi un aiuto non indifferente nell'ordine della penitenza del purgatorio e fa in modo che la salvezza venga raggiunta con più sollecitudine. Poche volte noi ci concentriamo sui benefici che apportiamo ai nostri defunti ogni qual volta che chiediamo in sacrestia per loro l'applicazione di una sola Messa. La preghiera per i nostri defunti e soprattutto l'applicazione del sacrificio eucaristico, a condizione che vengano coltivate nella profondità della fede e non dandola vinta al senso di smarrimento e di perdizione che nel dolore possono sempre prendere il sopravvento, realizzano la comunione con i nostri defunti e ci permettono di esperirne la presenza certa e misteriosa e consolante sia che essi abbiano già raggiunto la gloria indefinita sia che ad essa debbano ancora accedere. Anche la preghiera rivolta ai nostri stessi defunti affinché presentino a Dio le nostre necessità e le grazie di cui abbiamo bisogno costituiscono per noi il vantaggio della loro compagnia; così pure la visita al cimitero e la sosta davanti alle lapidi che racchiudono i loro sarcofagi può recare il suo frutto, purché non si traduca in mera consuetudine vacua e insignificante.
    Dal culto dei nostri cari apprendiamo fondamentalmente alcune lezioni quanto al corso della nostra vita terrena, che ci vengono ribadite ogni volta proprio dalla venerazione dei nostri cari: 1) la certezza di essere tutti quanti provvisori e precari finché persistiamo nella vita presente e la consapevolezza che la vita terrena vada vissuta in pienezza lontano dalle frivolezze. L'importanza quindi di dover vivere appieno il nostro tempo nell'amore e nella carità vicendevole, nella reciproca solidarietà e nella comunione per approfittare al meglio gli uni della compagnia degli altri.; 2) la necessità di dover ricorrere alla fede in un Dio misericordioso che nel suo Figlio ha vinto la morte onde evitare che il dolore del trapasso o la prova stridente del lutto possa deprimerci: di fronte alla prospettiva del dolore per la morte di un congiunto solo la fede nel Risorto può darci consolazione nella certezza che anche i nostri cari vivono per sempre; 3) la speranza in una vita futura di gloria e di pace (il paradiso) alla quale tutti siamo destinati e la consapevolezza di dover guadagnare questa dimensione di gloria già nel corso della vita presente. Non rifletteremo mai abbastanza che "la nostra patria è nei cieli"(Fil 3, 20) e che siamo orientati a cercare le cose di lassù (Col 3, 1) senza lasciarci avvincere dalle banalità del presente. Ci attende infatti un destino di gloria e di vita eterna, un definitivo incontro con il Signore della vita che realizzerà tutte le nostre attese e le nostre speranze, per la qual cosa occorre vivere il presente orientati verso l'avvenire in Dio. Nella nuova patria incontreremo tutti i nostri cari defunti e non soltanto essi, poiché nel Risorto ci riconosceremo a vicenda anche laddove eravamo sconosciuti in questo mondo.
    La sintonia con i nostri defunti, avvalorata dalla preghiera e dall'Eucarestia che spronano alla carità, ci rammenta queste tre certezze e ci aiuta a perseguire gli obiettivi che esse contengono, dandoci nell'oggi la caparra dei loro benefici.
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    Coordin.
    00 03/11/2017 09:45
    La liturgia della parola ci propone oggi due esempi della carità divina. Gesù, diremmo, ha fretta di guarire quest'uomo, la sua carità lo spinge e non può aspettare il primo giorno della settimana per fare del bene. Così lo guarisce in giorno di sabato, sapendo benissimo che per questo sarà criticato, combattuto e alla fine condannato. Proprio questi saranno i motivi che le autorità del suo popolo metteranno avanti per condannano: atti di bontà e di misericordia compiuti subito, senza rispettare la tradizione. Ma per lui è come se nel pozzo fosse caduto non un asino o un bue, ma un figlio, e bisogna tirarlo fuori immediatamente. Il suo cuore è ricolmo della carità che viene dal Padre e Gesù non fa che obbedire a questa volontà di amore.
    Un altro meraviglioso esempio di carità ce lo dà Paolo nella lettera ai Romani. Dai suoi compatrioti egli non ha ricevuto che opposizioni fortissime, vere e proprie persecuzioni, e lo vediamo molto bene negli Atti degli Apostoli e nelle sue stesse lettere. Eppure non nutre sentimenti di rancore o di odio, ma soltanto il desiderio di condurre a salvezza questi suoi fratelli. "Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua" scrive, perché essi non credono in Cristo, sono separati da lui. E giunge veramente all'estremo: se queste parole non fossero scritte nel Nuovo Testamento il sentimento che esse esprimono assomiglierebbe a un grave peccato. "Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli". Anatema, maledetto. Paolo non dice Sono due lezioni profondissime: ecco dove giunge l'amore del cuore di Cristo, dove giunge la carità che lo Spirito Santo ha effuso nel cuore di Paolo.
    Apriamo il nostro cuore, noi che così sovente siamo piccini ed egoisti, spalanchiamolo, in modo che il Signore possa mettervi, se vuole, una continua sofferenza per la sorte di tanti uomini, vicini o lontani da noi, che non credono in lui, che non camminano sulla via della salvezza.

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    Coordin.
    00 04/11/2017 07:33
    Un pastore buono è un dono eccellente per la Chiesa, come san Carlo è stato per la Chiesa di Milano e per tutta la Chiesa. Consacrato vescovo a soli 25 anni, questo giovane, vissuto negli agi e negli onori del suo rango, si diede tutto al servizio del suo popolo, profondendo ricchezze e salute, sostenendo fatiche e penitenze estreme, che certamente gli abbreviarono la vita. Propugnò con energia e pazienza l'applicazione del Concilio di Trento, con la costante preoccupazione di formare sacerdoti santi e pieni di zelo.
    L'amore di Gesù crocifisso era per lui modello e continuo sprone. "San Carlo è stato detto fu l'uomo della preghiera, delle lacrime, della penitenza intesa non come opera eroica ma come partecipazione misteriosa, appassionata alle sofferenze di Cristo, al suo entrare nel peccato del mondo, fin quasi allo scoppio del cuore e alla divisione dell'animo".
    Oggi preghiamo in modo speciale per il nostro papa, vero buon pastore intrepido e noncurante di sé, che moltiplica i viaggi, i discorsi, che accoglie tutti, che annuncia con coraggio e franchezza la verità del Vangelo in ogni circostanza e in ogni punto del mondo.
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    Coordin.
    00 05/11/2017 08:40
    don Giacomo Falco Brini
    Chi si è seduto sulla cattedra di Gesù?

    Carissimo lettore,

    oggi, per il consueto commento al vangelo domenicale, come puoi constatare, ho cambiato genere letterario. Ho sentito il bisogno di scriverlo in forma epistolare, dopo aver meditato attentamente le letture di questa domenica. Il perché è presto detto. Se, come credo, il vangelo va sempre attualizzato perché è una parola che ci parla oggi, che parla della realtà presente, allora, dopo un po' di salutare silenzio, ti confesso che ho sentito nel cuore nascere una domanda, mentre mi riecheggiavano dentro queste parole del Signore: sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei (Mt 23,2). E' una domanda rivolta a Lui che mi chiama in causa personalmente: ?e sulla tua cattedra Signore Gesù? Chi si è seduto?? Naturalmente, la tentazione (smascherata abbastanza presto) è stata di guardare fuori di me, tra fratelli nel sacerdozio che hanno incarichi importanti, oppure tra quelli che occupano gerarchicamente una posizione più ?rilevante?. E forse ci avrei anche preso. Ecco perché oggi trovi il commento al vangelo scritto in questa forma. Devo dirti francamente che il monito delle letture odierne mi ha toccato, perché esso è indubbiamente diretto a tutti i sacerdoti con coloro che sono incaricati di un ruolo di guida in mezzo al suo popolo.

    Quanto è facile sedersi sulla cattedra al posto di Gesù, il posto che solo Lui può occupare! Come è facile insegnare agli altri con la parola e smentire la parola con la condotta! (Mt 23,3) Quanto è facile sedersi su quella cattedra, scambiando il posto dal quale Gesù insegna con un posto d'onore, di vantaggi e di potere! Come è faticosa invece la coerenza del vangelo! Anche chi scrive su questo blog non è indenne dal lievito dei farisei e dei sadducei (Mt 16,6). Perciò, in primo luogo, mi viene da chiederti perdono. Perdona questo povero sacerdote peccatore che ti parla, perché annaspa nel cercare di vivere la coerenza del vangelo e si trova molto lontano dal servire il Signore nei fratelli in spirito di umiltà e mitezza! Perché se annaspa, se fatica così tanto, vuol dire che ancora troppe volte si siede sulla cattedra di Gesù usurpando il suo posto! Insieme al Signore perdonalo, e perdona con lui tutti quei confratelli quando smentiscono con i fatti gli insegnamenti che ricevi. Ho/abbiamo bisogno del tuo perdono. Aiutami anche con la tua preghiera, perché il ministero che il Signore ci ha condiviso non può restare in piedi senza la tua preghiera. Sono sicuro che la mia povera preghiera, aiutata dalla tua, può permettere al Signore Gesù di compiere un altro grande miracolo: convertire la durezza del mio cuore per formarlo nuovo sullo stampo del suo meraviglioso Cuore.
    Devi sapere che la mia vita sacerdotale è un paradosso crescente. Stupenda e tremenda, piena di belle e inattese sorprese nonché di inedite insidie, ti fa sentire a volte così vicino al Signore e a volte così lontano da Lui (come oggi); così irresistibilmente attratta dal fascino di Gesù e così terribilmente umana quando spuntano le proprie miserie. Dopo quasi venti anni non so dirti se sto seguendo veramente il Signore, e nello stesso tempo posso solo dire che mi ritrovo a spingere me e gli altri a seguirlo con più grande passione e a scommettere la nostra stessa vita sulle sue promesse. Alla luce delle sue parole, non posso che chiederti un ultimo favore: semmai ti capitasse di scoprirmi, quando mi incontri o quando mi leggi, a legare pesanti e difficili fardelli sulle spalle della gente, oppure di cercare compiaciuto posti d'onore nei banchetti, primi seggi nelle sinagoghe (chiese) o saluti nelle piazze, o ancora di essere chiamato ?rabbi? (don, padre, reverendo) dalla gente, allora ti prego di rimproverarmi apertamente, senza paura (Mt 23,4-6). Perché al tempo di Gesù come oggi, prima o poi, viene a galla dove stai vivendo e cosa stai amando: se sotto lo sguardo di Dio o sotto lo sguardo degli altri, se amando Dio o amando l'ammirazione degli altri. E io voglio vivere solo sotto lo sguardo del Signore Gesù, con la sola premura di dar gloria al suo Nome (Mal 2,1-2), anche se mi costasse più fatica di quella che mi tocca oggi. Grazie.

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    Coordin.
    00 06/11/2017 16:02
    Possiamo apprezzare quanto è spontaneo Gesù in questo Vangelo; lo è in modo paradossale, per pungerci, per farci intravedere quanto la sua mentalità sia diversa dalla nostra. il consiglio che ci dà è a dir poco inaspettato: "Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio". Strano! E naturale invitare a pranzo parenti e amici, dai quali si avrà il contraccambio. E altrettanto strana è la seconda parte: "Al contrario invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti". Di solito la beatitudine viene dal ricevere, ma Gesù dice il contrario, mettendoci sulla via della gratuità, dell'amore disinteressato: la vera gioia sta proprio in questo. Se la cerchiamo nel contraccambio siamo sulla strada sbagliata; se invece diamo a chi è nell'incapacità di ricambiare siamo nella logica divina dell'amore che non si compra né si vende.
    La prima lettura ci fa riflettere sulla gratuità della misericordia divina. Nessuno "ha dato qualcosa per primo a Dio, si che abbia a riceverne il contraccambio". Tutti, Ebrei e non Ebrei, siamo stati disobbedienti, ma "Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia". Siamo totalmente nella logica dell'amore misericordioso, disinteressato, gratuito. È la logica in cui dobbiamo metterci tutti e, poiché ci è tutt'altro che spontanea, dobbiamo anche oggi chiedere al Signore che trasformi la nostra mente e il nostro cuore, perché possiamo avere i suoi pensieri e il suo amore.
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    Coordin.
    00 07/11/2017 09:15
    Gesù ci fa capire la nostra insipienza, la strettezza del nostro cuore che non è disponibile ai suoi doni. Quella del padrone nel Vangelo odierno non è esigenza vera e propria, ma generosità: egli vuoi colmarci dei doni della sua munificenza e noi preferiamo le nostre meschine cose.
    La "grande cena" è la cena della carità divina per chi ha il cuore largo, non per chi lo abbarbica ai beni della Terra con un amore possessivo, soffocante.
    "Ho comprato un campo... Ho comprato cinque paia di buoi... Ho preso moglie...". Sono i nostri affetti limitati, vissuti in modo possessivo, con tutte le preoccupazioni che ne derivano.
    Dio invece ci invita al banchetto della carità universale. È il banchetto che viviamo ad ogni Eucaristia, se vi partecipiamo con cuore aperto, preoccupato solo delle preoccupazioni divine e pronto a ricevere con gioia e riconoscenza i suoi doni.
    Allora sentiremo non come un dovere pesante, ma come una necessità di amore mettere al servizio degli altri le grazie diverse che abbiamo ricevuto, secondo l'esortazione di san Paolo: "Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento, chi l'esortazione, all'esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità, chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia".
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    Coordin.
    00 08/11/2017 08:33
    Così inizia il passo evangelico odierno: "Siccome molta gente andava con lui, Gesù si voltò e disse: "Se qualcuno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo"". E Luca, l'evangelista della mitezza che esprime con queste parole l'esigenza di Gesù. Dobbiamo "odiare", ed è un comando di Gesù... Sono parole che ci sconcertano. Gesù infatti vuoi togliere ogni illusione alla molta gente che gli va dietro. E facilmente comprensibile che quando uno dice: Non c'è altra legge che l'amore, l'amore riassume tutti i comandamenti, suscita entusiasmo, soddisfazione e anche molte illusioni, perché tutti ci riteniamo capaci di amare: se basta amare, siamo a posto! Gesù ci indica una via che non presenta nessuna difficoltà.
    Ma "Gesù si voltò e disse: "Se uno viene a me... Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo"". E una esigenza fortissima, e Gesù la fa seguire da due esempi di persone che devono ben riflettere prima di impegnarsi. Se uno vuol costruire qualcosa, deve prima fare i conti e vedere se il capitale che possiede basta per arrivare a finire la costruzione; se si vuoi fare guerra, bisogna avere truppe ed armamenti sufficienti per combattere fino alla vittoria.
    E qual è il capitale necessario per costruire la torre, qual è l'equipaggiamento sufficiente per vincere la guerra? Gesù dice: la condizione è questa: rinunciare a tutto quello che si ha. "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i sudi averi, non può essere mio discepolo".
    Eccoci dunque presi in una specie di contraddizione fra l'amore e il distacco. Se ci pensiamo bene, Gesù non fa altro che indicarci le condizioni del vero amore. Non dobbiamo illuderci: da soli non saremo mai capaci di amare, perché l'amore è disciplina, l'amore esige un profondo distacco, un distacco completo. Spesso, quando noi crediamo di amare, amiamo il nostro interesse, non amiamo veramente né gli altri né Dio. Cerchiamo la nostra soddisfazione, la nostra gioia, invece di cercare la felicità degli altri nell'adesione alla volontà divina.
    San Luca è l'evangelista della misericordia, e tuttavia è proprio lui che dice: "Se qualcuno viene a me senza odiare, non può essere mio discepolo". Perché? Perché Luca è anche l'evangelista che insiste di più sull'impegno del discepolo nei confronti del Maestro.
    San Matteo ha espresso diversamente questa parola di Gesù. Egli dice: "Se qualcuno viene a me e ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me". Da un lato si capisce che è la stessa cosa che vuoi dire san Luca, però la formulazione lucana ha il vantaggio di presentare la questione molto nettamente.
    Non si tratta di rinunciare ad ogni amore, è chiaro; si tratta di rinunciare all'amore possessivo. Gesù infatti non domanda solo di odiare il padre, la madre, i figli, ma anche di odiare la propria vita. Ora, questa aggiunta ci fa capire in che direzione vada la sua esigenza: egli impone il distacco da ogni possesso.
    "Chi non rinunzia a tutti i Suoi averi, non può essere mio discepolo".
    C'è un modo di amare che in realtà è una ricerca di comfort nella vita: il comfort affettivo, l'appoggio, la soddisfazione del cuore. E a questo modo di amare che Gesù chiede di rinunciare.
    Egli stesso ha rinunciato, egli stesso, si può dire, "ha odiato", nel significato evangelico, sua madre, i suoi fratelli. Ci colpisce vedere che nel Vangelo, tutte le volte che si parla di sua madre o dei suoi fratelli, è sempre per sfociare ad una parola che sembra dura, di rifiuto. "Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e chiedono di te...". "Mia madre e i miei fratelli sono quelli che fanno la volontà di Dio". "Felice la donna che ti ha portato!". "Molto più felice chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica".
    Gesù è andato davvero molto lontano in questo atteggiamento. Guardando le cose umanamente si può dire che ha "disonorato" sua madre. Si disonora la madre, quando non le si dimostra amore; si disonora la madre, quando si accetta di morire come un criminale... Gesù è veramente giunto al totale distacco dall'amore possessivo, insegnandoci così la strada del vero amore, dell'amore generoso, l'amore capace di tutti i sacrifici, l'amore che dona la vita e che accetta l'umiliazione quando è il mezzo per compiere il piano di Dio. Questo è l'amore vero. Non è più un'illusione di amore, è l'amore al quale possiamo spalancare il cuore e che riempie di gioia, perché è amore che viene da Dio.
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    Coordin.
    00 09/11/2017 08:40
    Monastero Domenicano Matris Domini
    Commento su 1Cor 3,9c-11.16-17

    Collocazione del brano

    Nel ricordo della dedicazione della Basilica Lateranense ci viene proposta una pagina della lettera ai Corinti. Nel rispondere a quanti dicevano "Io sono di Paolo" "Io invece sono di Apollo", dividendo la comunità in tante conventicole, Paolo ricorda che i vari predicatori del Vangelo sono come i diversi operai che collaborano alla costruzione di una casa. Ognuno fa la sua parte, ma tutti devono costruire sull'unico fondamento che è Cristo.
    Lectio

    9c Fratelli, voi siete edificio di Dio.

    Il versetto 9 viene preso qui solo nella sua parte finale. La comunità è un edificio, una costruzione che appartiene a Dio. La parte iniziale del versetto invece ricorda che i predicatori (Paolo, Apollo, Cefa) sono i collaboratori di Dio e che la comunità di Corinto è il campo di Dio (un'altra immagine per comprendere la comunità in senso dinamico: il campo produce frutti, l'edificio prende forma).
    10Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce.

    Paolo rivendica a sé un ruolo fondamentale. Egli è l'architetto che ha posto le fondamenta. E' lui che ha fondato la comunità di Corinto. Questa fondazione si poggia sulla predicazione di Cristo crocifisso. Altri poi sono stati chiamati a continuare questa costruzione, ad accompagnare il cammino di crescita della comunità. Ma non è possibile che continuino la costruzione in modo diverso.
    11Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo.

    Quindi le fondamenta non possono essere cambiate. Alla base c'è Gesù Cristo e la sua morte e risurrezione, ciò che Paolo ha predicato sin dal principio della sua attività. Nei versetti 12-15, che la liturgia ci fa saltare, Paolo ricorda che è importante anche il materiale con cui una casa viene edificata. Egli elenca diversi materiali, dal più nobile (oro) al più effimero (fieno e paglia) e ricorda che la casa compiuta sarà ben visibile a tutti e verrà provata col fuoco nel giorno del giudizio. Solo chi avrà costruito con materiale resistente potrà superare questa prova. I predicatori che a Corinto stanno continuando la missione di Paolo hanno dunque un compito molto delicato.
    16Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?

    Paolo ritorna alla comunità di Corinto ricordandole che essi sono tempio di Dio, dimora dello Spirito Santo. E' questo un passo molto importante nella concezione religiosa, dove la presenza degli dei era concepita soltanto in certi templi e in certi luoghi particolari e non nei credenti.
    17Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.

    Quindi il predicatore che si permette di distruggere questo tempio, costruendolo male in nome del proprio prestigio, riceverà la giusta ricompensa, poiché Dio è molto geloso della sua opera ed è sua sollecitudine avere cura della comunità che ha aderito a Lui nella fede.
    Meditiamo

    - Cosa significa per me essere edificio di Dio?

    - Su quali fondamenta poggia la mia casa?

    - Quando mi sono sentito dimora dello Spirito Santo?
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