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MEDITIAMO LE SCRITTURE (anno A)

Ultimo Aggiornamento: 04/12/2014 07:14
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06/07/2014 09:13
 
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dom Luigi Gioia
O sono mite e umile di cuore

Nella seconda lettura della liturgia di questa XIV domenica del tempo ordinario troviamo questa frase di Paolo nella lettera ai Romani: Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.
"Carne" nel linguaggio paolino indica non solo ne? prima di tutto la sessualita?, ma tutto quello che e? disordinato nei nostri sentimenti, tutta la negativita? che abbiamo in noi: l'invidia, la gelosia, la tristezza, la depressione, i risentimenti, cioe? tutto quello che c'e? in noi quando siamo lasciati a noi stessi e sperimentiamo quanto siamo in balia di forze interiori che non controlliamo e vittime di circostanze esteriori che ci soffocano e a volte ci stritolano.
Secondo Paolo i cristiani non sono sotto il dominio di questa negativita? interiore ed esteriore, ma sono sotto l'influenza dello Spirito - e i frutti dello Spirito, i segni della presenza dello Spirito, sono l'amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bonta?, la fedelta?, la mitezza, il dominio di se? - come si legge nella lettera ai Galati.
Perche? allora, invece di questi sentimenti di amore, gioia, pace, dominio di se?, continuano a perdurare in noi sentimenti negativi, continua a prevalere il dominio della carne? Perche? continuiamo a fare la dolorosa esperienza della nostra vulnerabilita? nei confronti della negativita? che e? in noi e di quella che ci condiziona dall'esterno? Vuol forse dire che non siamo dei buoni cristiani? Vuol forse dire che non corrispondiamo veramente alla grazia, alla vita dello Spirito in noi? Se questa fosse la verita?, ci sarebbe di che scoraggiarsi.
Il peggior modo di interpretare questa frase di Paolo sarebbe quello che possiamo chiamare "angelismo", cioe? credere di poter diventare ?spirituali' al punto da riuscire a soggiogare completamente questa negativita? che c'e? in noi. C'e? un proverbio in francese che dice: Qui fait l'ange, fait la be?te ("Chi fa l'angelo diventa una belva"). Sembra che a livello psicologico gravissime patologie come ad esempio l'anoressia siano delle forme di angelismo, vale a dire l'espressione di una volonta? di controllare completamente il proprio corpo, di soggiogare completamente una parte di se stessi.
Il senso della frase di Paolo e? un altro. Il dramma della condizione umana non e? tanto ne? prima di tutto quello di fare cose sbagliate, di peccare, ma la divisione interiore, la presenza in noi di una parte di tenebra che ci sfuggira? sempre, fino alla fine, e contro la quale non possiamo nulla.
Nella stessa lettera ai Romani Paolo parla della drammatica esperienza di questa divisione interiore quando afferma Non riesco a capire cio? che faccio, infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me, cioe? nella mia carne, non abita il bene. Poi aggiunge: In me c'e? il desiderio del bene, ma non la capacita? di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra (nella mia carne) vedo un'altra legge che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo. E conclude questa costatazione con la frase: Me infelice, chi mi liberera? da questo corpo di morte?
Dobbiamo lasciarci ricordare queste cose da Paolo non per autogiustificarci, non per compiacerci nel peccato, ma semplicemente perche? si tratta di una verita? di cui non cessiamo di fare l'esperienza. Chi di noi non ha desiderato e non desidera diventare migliore? Chi di noi non ha cercato di lottare contro aspetti della propria negativita? interiore per superarla sperimentando la propria impotenza? Si tratta di una verita? di cui non cessiamo di fare l'esperienza. Questo non vuol dire che la santita? sia impossibile, ma che e? necessario farsi la giusta idea della santita?.
Infatti santita? non vuol dire perfezione, cioe? totale eliminazione della parte di ombra che c'e? in noi. Questa non solo non sarebbe santita?, ma potrebbe diventare una forma di orgoglio che pretende di renderci migliori, ma che in realta? ci rende semplicemente piu? ipocriti, oppure vuole condurci ad essere autosufficienti ed in un certo senso superiori agli altri, a non avere piu? bisogno di nessuno, nemmeno del Signore.
Questa e? una caricatura della santita? che ci rende come i sapienti e i dotti di cui parla Gesu? nel vangelo di oggi quando dice: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perche? hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti. I "sapienti" e i "dotti" sono coloro i quali, per la loro scienza o la loro presunta perfezione morale, raggiungono uno stato che li fa sentire al di sopra degli altri, li fa sentire autosufficienti. Ma riguardo a costoro Gesu? dice che le cose del regno dei cieli sono loro nascoste. La loro perfezione li fa infatti diventare come impermeabili.
Invece, paradossalmente, a chi e? promessa questa conoscenza? Chi e? che Gesu? chiama a se?? Chi e? che Gesu? vuole consolare? A chi vuole dare ristoro? Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perche? hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. E' ai piccoli, e? a coloro che sono affaticati e oppressi che Gesu? promette questa conoscenza. Sono questi che Gesu? chiama a se?, cioe? coloro i quali con Paolo, nella quotidiana esperienza della loro poverta?, della loro miseria, della loro incapacita?, della loro tristezza, gridano: me infelice, chi mi liberera? da questo corpo di morte.
Qui risiede il segreto della vita cristiana che ci rivela il vangelo di oggi. Questa divisione interiore, questa parte di tenebra che e? in noi, questa quotidiana esperienza della nostra debolezza non solo non ci allontana dal Signore, non solo non e? un ostacolo per la vita dello Spirito in noi, ma anzi, in un certo senso, e? la condizione per una vita spirituale autentica, per accedere ad una santita? autentica.
Nessuno meglio di Paolo ha espresso questa verita? che nella seconda lettera ai Corinzi afferma: Affinche? io non monti in superbia, e? stata data alla mia carne una spina. A causa di questo tre volte ho pregato il Signore che la allontanasse da me, ma egli mi ha risposto: «Ti basta la mia grazia. La mia forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza».
Paolo capisce questa lezione e a partire da questo momento non vuole cerca piu? la perfezione, non aspira piu? a vedere scomparire tutte le spine che ha nella sua carne, ma comincia a dire, a predicare, a ripetere costantemente: Mi vantero? delle mie debolezze.
Paolo arriva a vantarsi della sua debolezza, della sua poverta?, dell'esperienza quotidiana della negativita? che e? in lui, perche? dimori in me la potenza di Cristo.
Arriva anzi a dire: io mi compiaccio nelle mie debolezze, infatti e? quando sono debole che sono forte. Solo se siamo deboli, o piuttosto, solo se siamo coscienti della nostra debolezza, della nostra poverta?, della nostra miseria, possiamo lasciarci raggiungere dall'appello, dalla chiamata di Gesu? nel vangelo di oggi: Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi daro? ristoro.
Chi non e? stanco, non e? oppresso, non percepisce questa chiamata di Gesu?, non ha bisogno di Gesu?, va per la propria strada. E questo non perche? sia realmente buono, realmente perfetto, ma perche? in fondo e? ipocrita, non conosce se stesso, non ha consapevolezza della negativita?, della poverta?, della debolezza, della tristezza che ha dentro di se.
Gesu? non ci promette la perfezione in questa vita, non ci promette che non ci saranno piu? sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a se?: Venite a me!
Rispetto alla nostra fatica e oppressione quello che ci offre e? la condivisione, e? il prendere il nostro peso su di se?, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi.
Il vero peccato, infatti, non e? in questa miseria che ci portiamo dentro, anche quando ci conduce a fare dei gesti di cui poi ci pentiamo. Il vero peccato e? nell'orgoglio, nel credere di non aver bisogno del Signore. Per questo, ben venga l'esperienza della nostra debolezza e della nostra miseria, se con essa viene anche la capacita? di sentire il Signore che ci chiama e se con essa viene il ristoro che Gesu? vuole darci con la sua misericordia, con il suo amore e con il suo perdono.
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