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QUANTO E' PROBABILE CHE LA SINDONE SIA AUTENTICA ?

Ultimo Aggiornamento: 29/05/2017 10:35
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27/02/2010 00:02
 
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Ecco l´uomo che firmò la Sindone

di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 20 novembre 2009
Nessun Vangelo, neppure gli apocrifi, parla di lui, lo scriba dell´atto di sepoltura di Gesù. I grandi
libri della fede preferiscono i personaggi grandiosi agli sbiaditi comprimari rimasti al di qua del
bene e del male. Eppure eccolo riemergere da duemila anni di oblio, così stagliato che par di
vederlo. Un funzionario dell´Impero romano, un anziano impiegato ebreo della morgue di
Gerusalemme, mano tremolante, parsimonioso, sbrigativo ma accurato. In una Deposizione barocca
potremmo immaginarlo un po´ in disparte, intento a stilare i documenti richiesti dalla minuziosa
burocrazia imperiale per il rilascio del cadavere di un giustiziato. Non sappiamo il suo nome. Ma
quello scritto, che per lui era solo l´incombenza quotidiana di un poco gratificante mestiere, ora lo
possediamo. Forse per gli anni passati a inseguirlo, forse per la familiarità coi misteri che deve
avere una Ufficiale degli Archivi segreti del Vaticano, Barbara Frale non sembra emozionata nel
confermarci quello che potrebbe essere uno dei ritrovamenti più sorprendenti dell´era cristiana: «Sì,
penso di essere riuscita a leggere il certificato di sepoltura di Gesù il Nazareno». E quel che pare
esservi scritto non solo accredita, ma arricchisce il racconto degli evangelisti.
È stato, per la verità, sotto i nostri occhi per secoli, impresso come una fotocopia sul telo più
venerato della storia, la Sindone di Torino; ma per estrarlo di lì occorreva frugare il lino fibra per
fibra, con sapere archeologico, storico, paleografico. Ciò che la dottoressa Frale assicura di aver
decifrato, e come lo ha fatto, ce lo racconta lei stessa nel volume La sindone di Gesù Nazareno (Il
Mulino, 375 pagine, 28 euro), sul quale prevedibilmente si scateneranno le controdeduzioni degli
specialisti. Ma questo è il meno: se Frale vede giusto, allora si riapre clamorosamente, proprio alla
vigilia della nuova ostensione torinese prevista in primavera, non solo la questione della datazione
della Sindone, ma quella ben più scottante della sua autenticità come «la reliquia più splendida della
Passione» (Giovanni Paolo II) e non più come semplice «icona veneranda» (cardinal Ballestrero).
La presenza di scritture sulla Sindone è nota da oltre trent´anni. Stringhe di caratteri latini greci e
ebraici circondano il volto dell´Uomo, impresse in negativo: macchie chiare visibili solo dove si
sovrappongono al colore rossastro che disegna l´immagine più controversa del mondo. Se ne
accorse per primo nel 1978 il chimico Piero Ugolotti esaminando alcuni negativi fotografici del
Telo, e sentendosi incompetente a decifrarle chiamò in aiuto il classicista Aldo Marastoni. Altri
studiosi, francesi e italiani, recuperarono poi nuovi frammenti di vocaboli. L´insieme sembrava
promettente: iber poteva essere un moncone di Tiberios, nome dell´imperatore regnante al tempo
della Passione; l´apparente neazare suggeriva ovviamente un nazarenos, e quell´innece(m) poteva
alludere alle circostanze di una morte. Il senso, però, restava un puzzle insolubile. A che genere di
testo appartenevano quelle parole, ma prima ancora: come si stamparono sul lino?
Reperti che presentano ricalchi e impressioni delle scritture con cui vennero casualmente a contatto
non sono rari in archeologia: tavolette d´argilla, persino strati di fango ci hanno trasmesso testi il cui
supporto originario è andato perduto. Il metallo contenuto nell´inchiostro di un foglio venuto a
contatto con la Sindone può aver rilasciato sul telo particelle poi "rivelate" dalla misteriosa reazione
chimica che ha impresso l´immagine dei misteri. Ma di che foglio si trattava? Forse l´etichetta, la
cedola, di uno dei reliquiari che custodirono la Sindone quando era già oggetto di culto? Ad ogni
modo, quando nel 1988 la famosa e clamorosa prova del radiocarbonio stabilì per il Lenzuolo una
data di nascita tardomedievale, l´interesse per la questione delle scritte crollò a zero: a chi poteva
ormai interessare la presenza di complicati graffiti su una falsa reliquia?
Barbara Frale però è tra quanti non hanno mai creduto a quella datazione scientifica. Per lei, che ne
ha tracciato la storia nel suo recente I Templari e la Sindone, il telo di Torino è il bizantino
Mandylion di Edessa, trafugato durante il sacco di Costantinopoli del 1204, poi clandestinamente
adorato dai monaci guerrieri. Dunque le scritte possono risalire ai primi secoli dell´era cristiana.
Devono, anche? Non mancherà chi accusi la ricercatrice di aver forzato le sue ipotesi per arrivare
alla spiegazione più clamorosa. Lei lo mette in conto, e replica: «Non ho voluto dimostrare verità di
fede. Io sono cattolica, ma tutti i miei maestri sono stati atei o agnostici, l´unico credente era ebreo.
Il mio libro non si esprime sull´origine miracolosa o meno dell´immagine della Sindone. Fin dall
´inizio mi sono imposta, anche per disinnescare l´emozione che avrebbe potuto travolgermi, di
lavorare come avrei fatto su qualsiasi reperto archeologico».
Frale procede per deduzione, confronto ed esclusione, come un detective. Impossibile, è la sua
prima conclusione, che quelle scritte provengano da un testo scritto da cristiani; infatti, osserva, se
oggi è abituale chiamare Gesù "il Nazareno", quell´appellativo diventò pressoché eretico per i fedeli
dei primi secoli: troppo legato alla sola dimensione umana, terrena del Salvatore. «Sarebbe stata un
´offesa suprema scrivere Nazareno in un testo destinato al culto. Avremmo dovuto trovare invece
Cristo: ma di quella parola sulla Sindone non c´è traccia». Quelle parole straordinariamente salvate
dal ricalco, ne deduce, provengono da un documento pre-cristiano. E del tutto "laico". Parlano di
Gesù dal punto di vista di chi lo considera solo un uomo. Un documento "gesuano", dunque, non
"cristologico". Ma a che scopo ne parlano? Il confronto con le sepolture coeve, lo studio delle
procedure giudiziarie romane e dei regolamenti necrofori giudaici suggerisce alla fine questa
ipotesi: un povero corpo crocifisso dopo una condanna poteva essere riconsegnato ai parenti solo
dopo un anno di "purificazione" nella fossa comune; per identificarlo, evitando che si perdesse nel
caos del sepolcreto di Gerusalemme, i necrofori utilizzavano cartigli incollati con colla di farina all
´esterno del sudario già avvolto attorno al cadavere, a incorniciarne il volto nascosto dalla tela.
Corriamo avanti, alla ricostruzione finale proposta da Frale: un funzionario al servizio dell
´amministrazione romana, attingendo ai documenti del processo e nel rispetto delle leggi sulle
inumazioni, redige con la mano un po´ tremolante (per l´età?) e con calligrafia un po´ demodé ma
ancora in uso nel primo secolo una sorta di "bolla di accompagnamento necroforo", come i cartellini
appesi ancor oggi all´alluce dei cadaveri negli obitori; un informale certificato di sepoltura che,
visto lo scopo pratico, può essere steso su sparsi scampoli di papiro e vergato in fretta, con errori e
incertezze ortografiche. Frale riprende là dove la decifrazione si era arenata, lancia nuove ipotesi,
corregge quelle vecchie, completa le lacune, ricorre ai vocabolari greco, latino ed ebraico e alla fine
propone la sua lettura. Eccola: quel testo riferisce di un certo (I)esou(s) Nnazarennos che nell´anno
16 dell´impero di (T)iber(iou), una volta "deposto sul far della sera", (o)psé kia(tho), dopo essere
stato condannato "a morte", in nece(m), da un giudice romano "perché trovato", mw ms´, secondo la
denuncia di un´autorità che parlava ebraico (il Sinedrio?), colpevole di qualcosa, viene avviato a
sepoltura con l´obbligo di essere consegnato ai parenti solo dopo un anno esatto, ossia nel mese di
ada(r); c´è infine l´"io sottoscritto", o meglio "io eseguo", pez(o), del nostro umile burocrate.
Tutto torna, il puzzle va miracolosamente a posto. L´anno 16 di Tiberio è l´anno 30 dopo Cristo, il
periodo è la primavera, l´ora è la nona, quella del Golgota, le parole superstiti di quella che potrebbe
essere una copia del verbale del processo (un testo greco lungo ma illeggibile appare sotto il mento)
coincidono con le espressioni che i Vangeli attribuiscono al Sinedrio di Caifa, quell´in necem
sarebbe dunque una citazione delle parole della sentenza del romano Pilato; la mescolanza di
citazioni in tre lingue non farebbe problema visto l´ambiente poliglotta in cui si muovono gli attori
della Passione. Questo complicato puzzle di parole, conclude Frale, è «l´anello mancante» tra dati
della storia e racconto del Vangelo. Tutto torna perfettamente. Magari un po´ troppo, dottoressa? «Io
ho incontrato un documento archeologico che parla della condanna e della sepoltura di un uomo di
nome Yeshua Nazarani: a lui ho intitolato il mio lavoro. Se quell´uomo fosse anche il Cristo, il
Figlio di Dio, non è compito mio stabilirlo»
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