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QUANTO E' PROBABILE CHE LA SINDONE SIA AUTENTICA ?

Ultimo Aggiornamento: 29/05/2017 10:35
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10/01/2015 19:43
 
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Da una analisi del testo di Giovanni 20 si possono rilevare importanti sfumature che portano a riconsiderare quanto il testo sacro ci dice riguardo alla Sindone.

La prima considerazione da farsi è relativa ai tre verbi che descrivono il vedere dei tre protagonisti del racconto giovanneo: Maria di Magdala, Giovanni e Pietro; essi sono tradotti in italiano, seguendo la traduzione latina, con il generico "vide", mentre, dall’analisi filologica, sono lemmi che descrivono verbi diversissimi tra loro; intendono cioè esprimere le differenti sfumature del vedere, dando origine così alle relative implicanze sulla descrizione degli oggetti visti da loro.

Nel versetto 1 il verbo greco (blépei), traduce il termine scorge e non un semplice vide: Maria di Magdala si recò al sepolcro quando "era ancora buio" per visitare il corpo di Gesù e rendergli omaggio, come il rito funerario giudaico prevedeva: bruciare gli aromi nel sepolcro e ungere la salma - esternamente, cioè sopra ai lini -, e la pietra sepolcrale.
La donna, recandosi verso la tomba, scorge da lontano che la pietra è stata ribaltata e, impaurita, corre a chiamare Pietro, temendo per la cattiva sorte toccata al corpo del Signore: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto", (v 2).

Il verbo scorgere riferisce perfettamente l’impossibilità, da parte di Maria, di raggiungere particolari circa la descrizione del sepolcro e di quanto era accaduto nei suoi pressi, perché ancora buio, e rende l’idea del suo stato d’animo agitato, perché presa da timore per eventuali manomissioni avvenute nella tomba a discapito del corpo del Signore; le è mancata la calma per osservare cosa fosse veramente accaduto.

Nel versetto 5 il verbo greco usato è parakýpsas blépei, dal verbo parakýpto, che vuol significare un gesto simile a quello di chi si affaccia da un finestrino di un treno in corsa e protende il capo a guardare in avanti: dunque è da rendersi meglio con "data una sbirciata / un’occhiata, scorge"; le traduzioni invece portano un semplice e solo "chinatosi, vide", senza aggiungere la qualità del vedere, e cioè per dare una sbirciata, uno sguardo fugace, impreciso148.

Giovanni quindi, dopo aver sbirciato, non entra nel sepolcro, aspetta il capo degli Apostoli, Pietro, arrivato successivamente presso la tomba perché più lento, nella corsa, del giovane discepolo.

Cosa scorge Giovanni senza però entrare nel sepolcro, quindi dall’esterno? Questa pericope è molto importante e risolutrice di alcuni problemi posti sul percorso della nostra indagine; viene descritta cioè la posizione delle fasce, tà othónia, viste all’interno del sepolcro: mentre nel versetto 6 il participio predicativo segue il sostantivo qui il participio precede il nome: scorge distendersi i teli.

È evidente l’intento dell’autore, ossia il voler sottolineare il verbo rispetto agli oggetti e cioè che i teli si stanno distendendo: blépei keímena tà othónia (v 5); l’azione dello stendersi, dell’afflosciarsi dei teli è vista quindi dall’apostolo Giovanni, privilegio che il Signore ha concesso soltanto a lui, forse come premio per la fedeltà a chi non l’ha abbandonato neanche nel momento più grave: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, Maria di Magdala e il discepolo che egli amava (Gv 19,25).

Il versetto 8 infatti così termina: il discepolo che era giunto per primo al sepolcro vi entra solo dopo che lo ha fatto Pietro, e facendo memoria di ciò che aveva sbirciato dall’esterno appena arrivato sul luogo - cioè lo stendersi dei teli - e la condizione dei teli visti nello stato successivo, dall’interno della tomba - i teli completamente distesi su se stessi - dice, nel raccontare l’esperienza che aveva egli stesso fatto: "vide e credette" (Gv 20,8); Giovanni infatti fa di questo vedere un vedere con i propri occhi, utilizzando per questa ulteriore sfumatura il verbo greco (oráo).

L’altro verbo da prendere in esame è teoréi, teoréi tà otónia, presente al sesto versetto della pericope. Il vedere di Pietro è in verità un osservare, un guardare con molta attenzione, più che un vedere generico, superficiale, leggero - così infatti è tradotto dai dizionari di lingua greca.

Il principe degli Apostoli dopo quell’osservazione, attenta e scrupolosa della condizione dei teli, cerca di capire quello che invece Giovanni aveva già compreso: Pietro non era stato presente durante lo svolgimento della sepoltura di Gesù, ma quello che ha osservato gli è sufficiente a destargli meraviglia, stupore.

L’evangelista Luca disegna molto bene lo stato d’animo con il quale Pietro esce dal sepolcro dopo l’esperienza dell’osservare: "E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto" (24,12).

I tre verbi sono quindi paradigmatici di un cammino di fede, cominciato dagli Apostoli e poi comunicato a noi, in quell’esperienza che l’umanità imparerà a chiamare Chiesa; prima l’autore descrive il vedere di Giovanni con il verbo blépei, cioè un vedere appena accennato, frettoloso, incerto: comincia cioè il cammino di fede del singolo fedele.

Poi il verbo teoréi, cioè l’osservare, il meditare, il soffermarsi e se vogliamo, anche il meravigliarsi di ciò che è accaduto; è lo stadio successivo ma non ancora definitivo.

Il terzo verbo, eiden, è il vedere che porta alla fede certa, il vedere con i propri occhi, l’esperienza che porta alla certezza di ciò che si credeva precedentemente e che ora è invece evidente; in greco è espresso con il verbo epìsteusen, cioè ciò che è scientifico, certo, manifesto.

Ecco dunque come i termini greci, correttamente tradotti, possono restituire al sacro testo, uno spessore e un significato molto più coinvolgenti.

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Passiamo ad analizzare un altro termine: il verbo keímena, il participio di keímai. In latino corrisponde al verbo jaceo, cioè giacere, essere disteso. La Volgata traduce con il termine posita, dal verbo ponere cioè mettere giù.

Come è facilmente intuibile le fasce non sono per terra così come è tradotto in lingua italiana, ma distese, cioè non cambiano luogo dalla posizione iniziale, si afflosciano soltanto su se stesse, senza manomissioni, senza che siano svolte.

Ciò che aveva scorto Giovanni diviene per Pietro e lo stesso Giovanni, certezza: le fasce si sono adagiate su se stesse, determinando l’osservazione e la contemplazione del principe degli Apostoli.

E siamo giunti finalmente al sudario, altro oggetto importante per la nostra ricerca e ricostruzione del testo.

Il versetto 7 così comincia: kaì tò sudárion, "e il sudario". Il sudario, come si vede nel racconto di Lazzaro, veniva usato per asciugare il viso appunto dal sudore, poco usato però, quanto ad impiego, nel rito funerario ebraico.

Nel Nuovo Testamento il termine greco soudárion è usato quattro volte: due nel vangelo di Giovanni, Gv 11,44, la risurrezione di Lazzaro, e in Gv 20,2, la risurrezione di Gesù; una sola volta nel vangelo di Luca, 19,20, nota come la parabola delle mine o dei talenti, e negli Atti degli Apostoli, 19,12.

La Bibbia di Gerusalemme riporta per la risurrezione di Gesù la traduzione di soudárion in sudario, nei tre passi citati, con il termine fazzoletto. Perché? Il sudario infatti era un fazzoletto, non un telo per l’uso funerario.

Non si deve fare confusione tra sudario e sindone, cioè tra fazzoletto e panno mortuario, equivoco non del tutto sventato soprattutto tra molti esegeti e storici, i quali hanno anche immaginato una similitudine tra i due termini.

Il sudario è un fazzolettone di tela di forma quadrata o rettangolare, più o meno di 60-80 centimetri per lato; la Sindone è un lenzuolo funerario di dimensioni molto più ampie, tali da contenere frontalmente e dorsalmente un corpo umano. Se Giovanni non parla della sindone è perché non la vede in quanto è completamente avvolta dalle fasce, forse tre, e dal sudario posto esternamente sul capo.

Il versetto infatti prosegue: "che gli era stato posto sul capo". Giuseppe di Arimatea ha fasciato il corpo di Cristo fino al collo, sul capo poi ha messo il sudario, forse per non lasciare gli unguenti esposti all’aria senza protezione; naturalmente il sudario aveva la stessa funzione delle fasce e cioè quella di avvolgere il capo di Cristo già avvolto dalla Sindone così come tutto il corpo159.

I sinottici parlano di un totale avvolgimento, corpo e capo, Giovanni invece dice che al di sopra della Sindone c’era il sudario che avvolgeva il capo.

Infatti egli utilizza il verbo avvolgere, entylísso, usato anche da Matteo e Luca per indicare l’atto dell’avvolgere la Sindone intorno al corpo di Cristo; l’Apostolo infatti esprime letteralmente "che era sul capo di lui", rafforzando il luogo e la posizione del sudario.

Alcuni esegeti ritengono che il sudario in oggetto menzionato da Giovanni fosse quello interno, la mentoniera; questa dall’interno, a risurrezione avvenuta, avrebbe contribuito alla sollevazione di quella parte del lino che avvolgeva il capo, mentre tutto il resto era afflosciato; ma Giovanni a nostro parere non poteva descrivere un oggetto che non vedeva, quindi siamo certi che il sudario era posto esternamente alla Sindone stessa.

Come era posizionato il sudario? La CEI traduce "non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte". Il testo greco non dice che le fasce si trovavano per terra, ma soltanto che il sudario non era disteso con le fasce: il participio è stato erroneamente tradotto con piegato invece che con avvolto, facendolo derivare dal sostantivo entyle; questo termine corrisponde alla parola coperta, e questa, è noto, serve per avvolgere; il Rocci traduce il termine con avvolgere, involgere, ravvolgere.

Per quanto riguarda l’avverbio korìs, questo è tradotto separatamente, in disparte: infatti in latino è detto sed separatim involutum, cioè "ma separatamente avvolto", oltre che differentemente, al contrario. Poiché Giovanni vuole descrivere l’opposizione, è bene tradurre con al contrario, rafforzato dal fatto che l’avverbio è posto tra l’avversativo e il verbo: non disteso ma al contrario avvolto. È messa in evidenza la differente posizione delle tele, ma non il luogo differente.

Infatti rispetto al luogo così la pericope prosegue: eis héna tópon, in un luogo; anche qui si sono formate due scuole: quelli che traducono nello stesso luogo, esattamente al suo posto, nella medesima posizione, e quelli che traducono invece, a nostro parere forzando il testo originale, in un luogo a parte, in un altro posto.

Quando Pietro negli Atti 12,17 dice che "uscì e si incamminò verso un altro luogo", l’autore utilizza il termine héteron per indicare il lemma altro; perché dunque qui non ha usato lo stesso termine: eis héteron tópon? La Volgata infatti traduce il passo degli Atti: In alium locum.

L’aggettivo numerale heîs, sorretto dalla preposizione eis, prende il significato di stesso, medesimo. Infatti sempre la Volgata traduce con in unum locum, cioè nella stessa posizione, nello stesso luogo160.

Il sudario dunque sarebbe rimasto nella medesima posizione, o nello stesso luogo, mentre le fasce avevano cambiato posizione perché distese.

Giovanni infatti non nomina nessun altro luogo certo, non dicendo chiaramente dove fosse posizionato il sudario; ciò significa che rimane nello stesso posto di quello iniziale e non altrove; il sostantivo topos infatti è tradotto dal Rocci con il termine luogo ma anche posizione.

Soffermandoci ancora una volta sul numerale heis, notiamo che altri numerali quali mìa e hèn sono tradotti dal Bonazzi con il termine "unico": il sudario, al contrario delle fasce, era avvolto in una posizione unica, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile; invece di essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era rialzato ed avvolto; una sfida alla legge di gravità161.

Pietro dunque vede le fasce distese sulla pietra sepolcrale senza effrazioni o manomissioni; il sudario, al contrario, come se ancora avvolgesse il capo di Cristo, probabilmente anche per l’improvviso asciugarsi degli aromi dovuto all’effetto della risurrezione; Luca infatti tratteggia lo stato d’animo dell’Apostolo dopo l’esperienza straordinaria avvenuta nel sepolcro: "e se ne tornò meravigliandosi tra sé per l’accaduto" (Lc 24,12).

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Tenere presenti le suddette annotazioni, perchè anche la traduzione interlineare non riesce sempre a far emergere il significato del testo.

GIOVANNI 20:1 Il {tÍ ho} primo giorno {mi´ heis} della {tîn ho} settimana {sabb£twn sabbaton}, la mattina presto {prw prôi}, mentre {-} era {oÜshj eimi} ancora {œti eti} buio {skot…aj skotia}, Maria {mar…a Maria} Maddalena {¹ ho magdalhn¾ Magdalênê} andò {œrcetai erchomai} al {e„j eis tÕ ho} sepolcro {mnhme‹on mnêmeion} e {kaˆ kai} vide {blšpei blepô} la {tÕn ho} pietra {l…qon lithos} tolta {ºrmšnon airô} dal {™k ek toà ho} sepolcro {mnhme…ou mnêmeion}. | {d de}
20:2 Allora {oân oun} corse {tršcei trechô œrcetai erchomai} verso {prÕj pros} Simon {s…mwna Simôn} Pietro {pštron Petros} e {kaˆ kai} l' {tÕn ho}altro {¥llon allos} discepolo {maqht¾n mathêtês} che {Ön hos} Gesù {Ð ho „hsoàj Iêsous} amava {™f…lei fileô} e {kaˆ kai} disse {lšgei legô} loro {aÙto‹j autos}: «Hanno tolto {Ãran airô} il {tÕn ho} Signore {kÚrion kurios} dal {™k ek toà ho} sepolcro {mnhme…ou mnêmeion} e {kaˆ kai} non {oÙk ou} sappiamo {o‡damen oida} dove {poà pou} l' {aÙtÒn autos}abbiano messo {œqhkan tithêmi}». | {kaˆ kai prÕj pros}
20:3 Pietro {Ð ho pštroj Petros} e {kaˆ kai} l' {Ð ho}altro {¥lloj allos} discepolo {maqht»j mathêtês} uscirono {™xÁlqen exerchomai} dunque {oân oun} e {kaˆ kai} si avviarono {½rconto archô} al {e„j eis tÕ ho} sepolcro {mnhme‹on mnêmeion}.
20:4 I {oƒ ho} due {dÚo duo} correvano {œtrecon trechô} assieme {Ðmoà homou}, ma {kaˆ kai} l' {Ð ho}altro {¥lloj allos} discepolo {maqht¾j mathêtês} corse {prošdramen protrechô} più veloce {t£cion tachion} di {toà ho} Pietro {pštrou Petros} e {kaˆ kai} giunse {Ãlqen erchomai} primo {prîtoj prôtos} al {e„j eis tÕ ho} sepolcro {mnhme‹on mnêmeion}; | {d de}
20:5 e {kaˆ kai}, chinatosi {parakÚyaj parakuptô}, vide {blšpei blepô} le {t¦ ho} fasce {ÑqÒnia othonion} per terra {ke…mena keimai}, ma {mšntoi mentoi} non {oÙ ou} entrò {e„sÁlqen eiserchomai}.
20:6 Giunse {œrcetai erchomai} intanto {oân oun} anche {kaˆ kai} Simon {s…mwn Simôn} Pietro {pštroj Petros} che {-} lo {aÙtù autos} seguiva {¢kolouqîn akoloutheô} ed {kaˆ kai} entrò {e„sÁlqen eiserchomai} nel {e„j eis tÕ ho} sepolcro {mnhme‹on mnêmeion}, e {kaˆ kai} vide {qewre‹ theôreô} le {t¦ ho} fasce {ÑqÒnia othonion} per terra {ke…mena keimai},
20:7 e {kaˆ kai} il {tÕ ho} sudario {soud£rion soudarion} che {Ö hos} era stato {Ãn eimi} sul {™pˆ epi tÁj ho} capo {kefalÁj kefalê} di Gesù {aÙtoà autos}, non {oÙ ou} per terra {ke…menon keimai} con {met¦ meta} le {tîn ho} fasce {Ñqon…wn othonion}, ma {¢ll¦ alla} piegato {™ntetuligmšnon entulissô} in {e„j eis} un {›na heis} luogo {tÒpon topos} a parte {cwrˆj chôris}.
20:8 Allora {tÒte tote} entrò {e„sÁlqen eiserchomai} anche {kaˆ kai} l' {Ð ho}altro {¥lloj allos} discepolo {maqht¾j mathêtês} che {Ð ho} era giunto {™lqën erchomai} per primo {prîtoj prôtos} al {e„j eis tÕ ho} sepolcro {mnhme‹on mnêmeion}, e {kaˆ kai} vide {eden horaô}, e {kaˆ kai} credette {™p…steusen pisteuô}. | {oân oun}
20:9 Perché {g¦r gar} non avevano ancora {oÙdšpw oudepô} capito {Édeisan oida} la {t¾n ho} Scrittura {graf¾n grafê}, secondo la quale {Óti hoti} egli {aÙtÕn autos} doveva {de‹ dei} risuscitare {¢nastÁnai anistêmi} dai {™k ek} morti {nekrîn nekros}.
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05/03/2015 17:41
 
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Sulla Sindone di Torino esistono 4 fori a forma di "L". Questi fori sono dovuti ad un incendio, non al famoso incendio di Chambery del 1532, ma ad un altro incendio precedente.
Dunque, nel corso di un incendio, precedente quello di Chambery, sulla Sindone si formano quattro fori a forma di "L", tre più grandi ed uno più piccolo.
Ora, attenti bene: Lejeune ha scoperto che a Budapest, capitale ungherese, esattamente nella Biblioteca Nazionale, esiste un documento, chiamato "manoscritto Pray". è il manoscritto più importante di tutti quelli esistenti in Ungheria, perchè è il primo documento scritto in lingua ungherese.
Ebbene, in questo documento scritto, c'è anche un disegno della Sindone. In questo disegno della Sindone si vedono benissimo i 4 fori disegnati a forma di "L", copia degli stessi che possiamo vedere ancora oggi nella Sindone di Torino. Dunque, in quel documento è stata disegnata proprio la Sindone che oggi si trova a Torino.
Questo significa che chi ha disegnato la Sindone su quel manoscritto ungherese aveva certamente davanti a se o la Sindone in originale, o almeno aveva visto la Sindone. Infatti, è impossibile che un pittore possa disegnare, senza averla mai vista, un'immagine con dei buchi della stessa grandezza e nello stesso posto di quelli che si trovano ancora oggi nella Sindone di Torino. è impossibile che un pittore si inventi a caso questo particolare. Quindi chi ha disegnato la Sindone sul manoscritto ungherese, che ora si trova a Budapest, sapeva come era fatta la Sindone.
Ma qual è il fatto veramente straordinario. Il fatto è questo: quel manoscritto ungherese è perfettamente datato, cioè sappiamo senza ombra di dubbio quando è stato redatto. E quel documento ci dicono gli studiosi è stato redatto prima dell'anno 1192. Meglio: è stato scritto prima e rilegato proprio nel 1192.
Che cosa significa tutto questo? Significa che già nell'anno 1192, cioè oltre 70 anni prima di quanto affermato dai laboratori di Tucson, di Oxford e di Zurigo, esisteva la Sindone che ora è a Torino, esistevano copie della Sindone, con i fori a forma di "L" e almeno 70 anni prima di quello che dicono i laboratori suddetti, qualcuno ha visto la Sindone e l'ha disegnata. Insomma, la Sindone di Torino esisteva prima dell'anno 1192.
A Budapest è ancora oggi conservato quel disegno. E questa è la prova che i laboratori che hanno datato la Sindone di Torino tra il 1260 e il 1390 si sono sbagliati.
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23/03/2015 19:35
 
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Sindone, le informazioni 3D contenute nell'immagine















Il volto della Sindone
Il volto della Sindone

La provenienza del telo rimane oscura. Ma nonostante tutti i tentativi di «imitazione», il professor Nello Balossino conferma: la figura si comporta in parte come un negativo fotografico con informazioni tridimensionali ed è a tutt'oggi irriproducibile
andrea tornielli
roma




In previsione della nuova ostensione della Sindone, che vedrà tra i pellegrini in visita anche Papa Francesco, si riaccendono i riflettori su quella che viene considerata una delle più importanti icone o reliquie della Passione di Gesù. Mentre rimane avvolta nell'oscurità la storia del telo e mancano testimonianze sicure che ne attestino l'esistenza prima del periodo medioevale, rimane tutt'oggi inspiegabile la formazione dell'immagine: nessuno finora è riuscito a riprodurla in modo soddisfacente. Come spiega a Vatican Insider il professor Nello Balossino, docente dell'Università di Torino ed esperto di elaborazione dell'immagine, la Sindone contiene in sé «informazioni tridimensionali».



Si ripete spesso che l'immagine sindonica si comporta come un negativo fotografico. È vero?

« Dal punto di vista della formazione, un’immagine è il frutto dell’interazione dell’energia luminosa, proveniente da una scena, con il sistema di acquisizione. È però solo registrata l’intensità luminosa e non la fase in cui è codificata la profondità: un negativo fotografico non possiede pertanto l’informazione tridimensionale. L’immagine della Sindone si comporta come un negativo fotografico per quanto riguarda i chiaroscuri invertivi e la spazialità, ma non è un negativo nel senso dell’accezione fotografica. Si tratta infatti di una rappresentazione in cui sono rilevabili evidenti sfumature cromatiche, tendenti al rosso, che modellano un corpo nel rispetto della morfometria: è il contenuto tridimensionale. L’applicazione dell’inversione di intensità e della specularità permettono di ottenere la figura come se la si osservasse nella realtà, conservando l’aspetto del rilievo».



Dunque la Sindone si comporta come un particolare negativo fotografico...

«Come già detto, il negativo fotografico tradizionale non riproduce informazioni tridimensionali. L'immagine sindonica, invece, possiede queste informazioni, codificate in una serie di sfumature. In altre parole ci troviamo di fronte a un'immagine frutto di un processo di formazione 3D, che non è ancora spiegato e simulato nella pratica per ottenere immagini simil-sindoniche. La differenza di tonalità tra i valori chiari e quelli scuri dell’immagine è talmente bassa che l'occhio riesce a percepire soltanto le fattezze di un volto umano nella sua globalità, mentre i particolari non sono facilmente individuabili. L'immagine ci presenta infatti un volto con una distribuzione di luminosità che è esattamente all'opposto di ciò che percepiamo nella realtà, con le parti più sporgenti più scure di quelle più incavate. Il processo di inversione rende visibile il volto di un uomo come in un’osservazione reale».



Per riprodurla che cosa bisognerebbe fare?

«Ho esaminato i vari tentativi di coloro che hanno cercato, con diverse tecniche, di riprodurre la Sindone di Torino. In nessun caso le immagini ottenute persistevano nel tempo, contenevano le informazioni tridimensionali sindoniche e le caratteristiche proprie dell'immagine quali la superficialità delle variazione cromatica delle fibre di lino e la loro integrità. Queste particolarità rendono certamente più ardua la spiegazione che attribuisce l'immagine sul telo sindonico ad un falsario medioevale».
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11/06/2015 14:30
 
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«Nella Sindone tutto coincide perfettamente con i Vangeli» 



 

 


Il Sacro Telo

IL SACRO TELO




Intervista con Emanuela Marinelli,
autrice insieme a Marco Fasol di un nuovo libro sul misterioso telo, intitolato «Luce dal sepolcro»

ANDREA TORNIELLI
ROMA

 

Emanuela Marinelli, insieme a Marco Fasol, ha da poco mandato in libreria un nuovo volume intitolato «Luce dal sepolcro. Indagine sull’autenticità della Sindone e dei Vangeli» (Fede & Cultura), un'inchiesta sul telo ora esposto a Torino ma anche sulla storicità dei racconti evangelici, che in quel lino si rispecchiano. Il libro ha la prefazione del cardinale Vicario di Roma, Agostino Vallini. Vatican Insider ha intervistato l'autrice.

 

Nel vostro libro fate un confronto serrato tra la Sindone di Torino e il racconto dei Vangeli della passione. Che cosa emerge?

«L’Uomo della Sindone ha subito una terribile flagellazione che non era il normale preludio alla crocifissione. Una flagellazione così abbondante, inflitta come punizione a se stante, trova spiegazione solo nella doppia condanna decisa da Pilato, che in un primo tempo sperava di salvare la vita a Gesù con un solo castigo non mortale. È seguita una dolorosa coronazione con un casco di spine, fatto unico nella storia e inventato dai soldati per dileggiare il Re dei Giudei. Poi il faticoso trasporto del patibulum (la trave orizzontale della croce), le tragiche cadute lungo la strada, lo strazio dei chiodi della crocifissione conficcati nei polsi e nei piedi senza alcun sostegno, lo sfregio del colpo di lancia post-mortale. Tutto coincide perfettamente con la narrazione evangelica, anche l’avvolgimento per poche ore in una Sindone pregiata invece della sepoltura in una fossa comune, destino di tutti i crocifissi. Ne consegue che l’Uomo della Sindone può essere identificato: è Gesù di Nazareth. 

 

Quali sono, in sintesi, le ultime acquisizioni scientifiche in merito alla Sindone di Torino e alla formazione dell'immagine impressa sul telo?

«Per verificare l'antichità della Sindone, nel 2013 presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova sono state condotte tre nuove analisi che datano la reliquia all’epoca di Cristo. La datazione tramite analisi spettroscopica vibrazionale Ft-Ir (dall’inglese Trasformata di Fourier all’InfraRosso) è risultata del 300 a.C. ±400 anni al livello di confidenza del 95%. L’analisi vibrazionale Raman ha fornito come datazione del Telo il valore di 200 a.C. ±500 anni, sempre al livello di confidenza del 95%. Il terzo metodo di datazione è meccanico e per applicarlo è stata appositamente progettata e costruita una macchina di trazione per fibre tessili vegetali. Cinque proprietà meccaniche delle fibre variano in modo biunivoco con il tempo. La datazione meccanica multiparametrica ottenuta su questi cinque parametri significativi, combinati tra loro, ha portato a un’età della Sindone del 400 d.C. ±400 anni al livello di confidenza del 95%. La media dei valori risultanti dalle due datazioni chimiche e da quella meccanica fornisce la data più probabile della Sindone del 33 a.C. ±250 anni al livello di confidenza del 95%. Il mistero più difficile da risolvere, però, è quello dell’origine dell’immagine umana. È certo che il lenzuolo ha avvolto un cadavere, ma è altrettanto certo che quel cadavere non è rimasto a putrefarsi nel lenzuolo. Inoltre – fatto unico e inspiegabile - ci ha lasciata impressa una specie di fotografia di se stesso. L’immagine è una disidratazione e ossidazione della stoffa, senza sostanze di apporto. La colorazione, estremamente superficiale, penetra solo per 200 nanometri nelle fibrille. Nel corso degli ultimi decenni si sono tentate molte strade per spiegare l’immagine sindonica con le sue particolari caratteristiche. In modo particolare, la superficialità dell’immagine e la sua assenza sotto le macchie di sangue hanno privilegiato l’ipotesi che una esplosione di luce potesse essere alla sua origine. Molte prove sperimentali sono state fatte a questo scopo con vari tipi di laser, ma solo ultimamente l’utilizzo di laser a eccimeri potenti e con impulsi di breve durata hanno dato risultati interessanti. Infatti, con laser a eccimeri che emettono nell’ultravioletto si è ottenuta una colorazione giallina, compatibile con le immagini sindoniche e le loro caratteristiche. Ma penso che non sapremo mai come un cadavere abbia potuto formare un’immagine che si può spiegare solo con un’esplosione di luce…».


Mentre è evidente l'importanza del legame tra l'immagine sindonica e il racconto evangelico, non le sembra rischioso affermare che la Sindone «conferma» i Vangeli?

«Non è rischioso, è doveroso, perché troppo spesso è stata messa in dubbio l’attendibilità dei racconti evangelici tentando di farli passare per allegorie, per narrazioni simboliche. Un esempio per tutti: il “sangue e acqua” che Giovanni vede uscire dalla ferita del costato. La Sindone conferma che da quello squarcio uscì sangue già parzialmente raggrumato e siero separato. Giovanni dunque ha davvero visto quello che descrive».


Come spiega la datazione medioevale emersa dall'esame al carbonio 14?

«In base all’analisi con il metodo del radiocarbonio, la Sindone risalirebbe al medioevo, a un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 d.C. Numerose obiezioni sono state però mosse al risultato di questo test da parte di vari scienziati, che ritengono insoddisfacenti le modalità dell'operazione di prelievo e l'attendibilità del metodo per tessuti che hanno subito vicissitudini come quelle della Sindone. In particolare, nell’angolo da cui fu fatto il prelievo è presente cotone, prova di un rammendo da parte della suore clarisse di Chambéry dopo il terribile incendio che aveva danneggiato gravemente il lenzuolo nel 1532. Su questo argomento mi permetto di suggerire la lettura di un mio specifico articolo: http://www.sindone.info/VALENC-1.PDF».

 

Perché secondo lei la Sindone continua ad affascinare e attirare milioni di persone?
«
Perché la Sindone è un Vangelo scritto con il sangue stesso di Cristo e contemplare le sue piaghe, meditare sul suo amore per noi, non può lasciare indifferenti. È l’amore più grande, lo ricorda il motto stesso dell’Ostensione di quest’anno. Tutte le nostre sofferenze, tutti i nostri dolori sono spiegati e sublimati nelle sofferenze e nei dolori di Gesù, liberamente e volontariamente accettati per la nostra salvezza. È il mistero del nostro destino, che è un destino di amore. È questo che dà senso alla nostra vita».


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22/04/2017 12:46
 
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Nuovo studio: le braccia «disarticolate» dell'Uomo della Sindone



Quattro docenti universitari firmano un articolo sulla rivista «Injury»: il crocifisso avvolto nel telo ha riportato una lussazione dell’omero e la paralisi di un braccio, subendo un violento trauma al collo e al torace. Tracce di una doppia inchiodatura dei polsi










 






ANDREA TORNIELLI



 




L’Uomo della Sindone, «ha subito una lussazione sottoglenoidea dell’omero e un abbassamento della spalla ed ha la mano piatta e un enoftalmo, condizioni che non sono state descritte finora, nonostante i numerosi studi sul soggetto. Queste lesioni indicano che l’Uomo ha sofferto un violento trauma al collo, al torace e alla spalla da dietro, causando danno neuromuscolare e lesioni all’intero plesso brachiale».

È la conclusione alla quale sono arrivati quattro docenti universitari che si sono concentrati sull'immagine sindonica, osservando anche che «l’incrocio delle mani sul pube, e non sopra il pube come avviene normalmente, sono in relazione alla trazione che le braccia hanno subito durante l’inchiodatura sul patibolo». Lo studio - una parte del quale è già stato pubblicato, mentre un'altra parte sta per esserlo - è firmato da Matteo Bevilacqua (già Direttore della S.C. di Fisiopatologia Respiratoria, Ospedale-Università di Padova); Giulio Fanti (Associato al Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Università di Padova); Michele D'Arienzo, (Direttore della Clinica Ortopedica, Università di Palermo) e Raffaele De Caro (Direttore dell'Istituto di Anatomia Normale, Università di Padova), e viene ospitato da «Injury» - International Journal of the Care of the Injured - prestigiosa rivista internazionale di ortopedia.

La prima scoperta di questi studiosi è che l'Uomo sindonico ha subito la lussazione della spalla e la paralisi del braccio destro. La persona la cui impronta è rimasta sul telo di lino sarebbe dunque caduta sotto il peso della croce, o meglio del «patibolum», la sua trave orizzontale. L'Uomo sindonico, spiegano, «è caduto in avanti battendo violentemente con il corpo a terra. La trave gli lacerò i nervi alla base del collo e gli provocò la lussazione della spalla (l’omero è risultato 3,5 cm sotto l’articolazione) cosicché il braccio rimase paralizzato e penzoloni. In queste condizioni era impossibile continuare a portare il patibolo». E qui non si può non citare la circostanza riportata nel vangelo: i soldati costrinsero Simone di Cirene a sostituire il condannato. Non dunque un gesto compassionevole, ma una necessità. «Si spiega pure - affermano gli studiosi - perché l’Uomo della Sindone presenta una spalla destra più bassa di 15° rispetto alla sinistra e perché ha l’occhio destro un po’ retratto, per la paralisi dell’intero plesso brachiale».

La seconda scoperta descritta nell'articolo per «Injury» riguarda la doppia inchiodatura alle mani subita dall'Uomo sindonico. «Finora non si riusciva a spiegare l’assenza d’impronta dei pollici con una inchiodatura eseguita lontano dal nervo mediano e dal tendine flessore lungo del pollice. L’analisi attenta delle macchie di sangue sul polso della mano sinistra e le prove sperimentali fatte su arti di cadavere, di persone che avevano fatto testamento biologico a favore dell’Istituto di Anatomia, hanno permesso di chiarire il mistero: l’Uomo della Sindone è stato inchiodato due volte. Molto probabilmente è stato inchiodato due volte anche al polso destro che sulla Sindone non si vede, coperto dalla mano sinistra». 

A che cosa è dovuta questa doppia inchiodatura? «Una motivazione convincente può essere perché non si riusciva a inchiodare le mani nei fori già preformati sul patibolo, fori che venivano praticati per evitare che i chiodi si torcessero battendoli su legno duro come il noce». Dopo aver inchiodato il primo polso e non essere riusciti a inchiodare il secondo nel foro preparato, i carnefici dell'Uomo sindonico li avrebbero dunque schiodati entrambi. E li avrebbero quindi inchiodati «più in basso, a livello della terza piega superficiale del polso, fra prima e seconda fila delle ossa del carpo dal lato ulnare della mano».

La terza scoperta presentata dall'equipe di studiosi riguarda il piede destro dell'Uomo della Sindone che «è stato inchiodato due volte. L’analisi dell’impronta della pianta del piede destro fa riconoscere che esso ha subito due inchiodature: una fra il secondo e il terzo metatarso e un’altra, che non era stata notata chiaramente da altri studiosi, anche a livello del tallone».

Per gli studiosi l'Uomo della Sindone «ha certamente sofferto di una gravissima e diffusa causalgia (dolore con calore intenso, spesso con shock, ai minimi movimenti degli arti) dovuta: alla paralisi totale del braccio destro (causalgia paradossa); all’inchiodatura del braccio sinistro per danno al nervo mediano; all’inchiodatura dei piedi per danno ai nervi tibiali». L’inchiodatura ha compromesso la respirazione in due modi: «I polmoni, con le braccia sollevate di circa 15°, e quindi con gabbia toracica più espansa erano in difficoltà a espirare e questo riduceva la capacità ventilatoria. Inoltre, ogni profonda inspirazione, per parlare o per prendere fiato, ottenuta facendo leva sugli arti inferiori, gli procurava dolori fortissimi, lancinanti».

Gli autori dei due articoli su «Injury» ritengono che le chiazze di siero separate da quelle di sangue provenienti dal torace e riscontrabili sul telo sindonico, dovute presumibilmente al colpo di lancia sferrato post-mortem, siano dovute a un sanguinamento polmonare iniziato prima ancora della crocifissione, dopo la violenta caduta con il patibolo sulle spalle. Gli studiosi non concordano con quanto finora ipotizzato circa il fatto che il sangue fuoriuscito dal costato «sia stato causato da ferita con la lancia del pericardio, perché il sacco pericardico in caso di rottura di cuore può contenere una modesta quantità di sangue, da 50 a 300 ml, che si sarebbero depositati sul diaframma senza essere drenati all’esterno».

Infine, gli autori dell'articolo avanzano delle ipotesi sulla causa immediata di morte dell'Uomo sindonico. «La limitazione respiratoria, più la presenza dell’emotorace che comprimeva il polmone destro non sono sufficienti a causare una morte per asfissia che è caratterizzata da insufficienza respiratoria caratterizzata in fase terminale da perdita di coscienza e coma». Secondo gli studiosi, la caduta con il patibolo sulle spalle, può avere causato «non solo una contusione polmonare ma anche una contusione cardiaca che insieme alle gravissime condizioni cliniche e psichiche può essere sfociato in un infarto cardiaco e nella rottura di cuore».

Secondo Bevilacqua, Fanti, D'Arienzo e De Caro, questi risultati rappresentano un ulteriore indizio della totale sovrapponibilità dell'immagine sindonica con i più minimi dettagli del racconto evangelico. 


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29/05/2017 10:35
 
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di  Emanuela  MARINELLI

 
 
Una impressionante serie di concordanze tra il racconto dei Vangeli e l’Uomo della Sindone. Una ulteriore conferma che il sacro Lenzuolo ha avvolto veramente il corpo di Cristo deposto dalla croce.
 
 
La Sindone ha avvolto il cadavere di un uomo che è stato torturato proprio come viene descritto nei Vangeli. Alcuni negatori ipotizzano che si tratti di un altro crocifisso o addirittura di uno sventurato, seviziato appositamente per realizzare una falsa reliquia.
Come l'indagine scientifica e storica, anche il confronto con i testi biblici ci fornisce elementi preziosi per confermare l'autenticità del venerato lino.
 
1. La flagellazione. Tutto il corpo è stato crudelmente colpito con un fIagrum taxillatum romano, tranne il petto, per non uccidere la vittima. Dato che le ferite indicano due diverse zone di provenienza dei colpi, si può supporre che i flagellatori fossero due. Questa flagellazione non doveva essere mortale ed è stata inflitta come pena a sé stante, più abbondante del consueto preludio alla crocifissione: infatti, furono dati circa 120 colpi anziché i normali 21. Non si tratta di una flagellazione ebraica perché gli ebrei, per legge, non superavano le 39 battute. Ogni colpo ha provocato 6 contusioni indotte da altrettanti ossicini posti alle estremità delle tre corde del fIagrum.
Doveva seguire la liberazione; invece il condannato fu poi crocifisso (Sal 129,3; 15 50,6; Mt 27,26; Mc 15,15; Lc 23,22; Gv 19,1). La flagellazione non è avvenuta durante il trasporto del patibulum perché esistono segni di fIagrum anche in corrispondenza delle spalle. Tali ferite sono diverse dalle altre presenti su tutto il corpo perché risultano compresse da un corpo pesante.
 
2. La coronazione di spine. L'Uomo della Sindone fu coronato di spine: la testa presenta, su tutta la sua superficie, una cinquantina di ferite causate da corpi appuntiti. Fu intrecciato un casco di spine conforme alle corone regali dell'Oriente. Non si trattò, quindi, del cerchio di spine tramandato dalla tradizione occidentale (Mt 27,29; Mc 15,17; Gv 19,2). Il rivolo a forma di 3 rovesciato della fronte corrisponde ad una lenta e continua discesa di sangue venoso causata da una spina conficcata nella vena frontale; il particolare aspetto del 3 rovesciato è dovuto al corrugarsi del muscolo frontale sotto lo spasmo del dolore. La macchia di sangue a destra, alla radice dei capelli, è formata da un coagulo circolare di sangue arterioso, perché fuoriesce a getto intermittente.
 
3. Le percosse. Sul volto dell'Uomo della Sindone risultano evidenti diverse tumefazioni e la rottura della cartilagine nasale, verosimilmente provocata da una bastonata che ha colpito anche la guancia destra (Mt 27,30; Mc 15,19; Gv 19,3).
 
4. Il trasporto del patibulum. L'Uomo della Sindone presenta un'ecchimosi a livello della scapola sinistra ed una ferita sulla spalla destra, correlabili al trasporto della parte orizzontale della croce, il patibulum (Mt 27,31-32; Mc 15,20-21; Lc 23,26; Gv 19,17). Nella zona delle ecchimosi, le ferite da fIagrum non sono state lacerate dallo sfregamento con il legno: infatti a Gesù fu fatta indossare la veste (Mt 27,31; Me 15,20) che ha protetto le ferite dallo sfregamento, ma ha poi causato notevoli dolori quando gli è stata strappata prima della crocifissione (Mt 27,35; Mc 15-24; Le 23,34; Gv 19,23-24). Le cadute, tramandateci dalla tradizione, sono confermate dalle particelle di terriccio misto a sangue trovate sul naso e sul ginocchio sinistro. La legatura del patibulum impediva al condannato di ripararsi con le mani. Fu rinvenuta una notevole quantità di materiale terroso anche in corrispondenza del calcagno.
 
5. La crocifissione. L'Uomo della Sindone non era cittadino romano, altrimenti non sarebbe stato crocifisso. Le ferite dei polsi e dei piedi corrispondono a quelle di un uomo fissato alla croce con chiodi. Nell'immagine sindonica non si vedono i pollici: la lesione del nervo mediano, causata dalla penetrazione del chiodo nel polso, causa la contrazione del pollice. Non c'era un poggiapiedi: da ciò si deduce che si tratta di una crocifissione romana antecedente alla metà del I sec. d.C. Infatti il poggiapiedi viene introdotto successivamente (Sal 22, 17-18; Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,33; Gv 19,18; At 2,23).
 
6. La morte. Dall'analisi medico-legale risulta che l'Uomo della Sindone, quando morì, era disidratato (Mt 27-48; Mc 15,36; Lc 23,36; Gv 19,28-29; Sal 69,4; 69,22; 22,16). Per accelerare la morte, molto spesso venivano spezzate le gambe dei crocifissi: così il condannato moriva per asfissia poiché restava appeso per le braccia. Risulta dalla Sindone che le gambe non furono spezzate (Gv 19,33; Es 12,46). L'Uomo della Sindone è stato trafitto al lato destro della cassa toracica. I margini della ferita sono allargati, precisi e lineari, tipici di un colpo dato dopo la morte. L'infarto seguito da emopericardio si ritiene la più attendibile causa di decesso. L'emopericardio è il momento terminale di un infarto miocardico ed è causato da spasmi in rami coronarici sotto la spinta di violenti stress psico-fisici. La morte per emopericardio si deduce dalla chiazza di sangue che fuori esce dalla ferita, in cui si notano grumi densi separati da un alone di siero; ciò è tipico di un uomo deceduto in seguito ad un notevole accumulo di sangue nella zona toracica. Questo accumulo può essere spiegato dalla rottura del cuore e dal conseguente versamento di sangue fra il cuore stesso ed il foglietto pericardico esterno, che causa un dolore retrosternale lancinante.
Nel Vangelo si legge che Gesù prima di spirare lancia un grido (Mt 27,50; Mc 15,37; Lc 23,46; Sal 69,21 ; 22,15). La ferita, praticata con la lancia sul cadavere dopo un certo tempo, ha quindi permesso la fuoriuscita del sangue che si era già separato dal siero (Gv 19,34; 15 53,5; Zc 12,10; 1Gv 5,6; Ez47,1)
 
7. La sepoltura. I corpi dei crocifissi finivano generalmente in fosse comuni. In questo caso invece è stato usato un lenzuolo dalla tessitura pregiata. La Sindone fu acquistata da Giuseppe d'Arimatea, un uomo ricco (Mt 27,5760; Me 15,42-46; Le 23,50-53; Gv 19,38-40). Sulla Sindone sono state trovate tracce di aloe e mirra, le sostanze profumate portate da Nicodemo (Gv 19,39-40).
L'Uomo della Sindone non fu lavato perché vittima di morte violenta. Dai decalchi ematici si deduce che il suo corpo è stato avvolto nel lenzuolo entro due ore e mezza dopo il decesso ed è rimasto nel lenzuolo meno di 40 ore. Non ci sono segni di putrefazione (Sal 16, 10).
 
8. La resurrezione. Il contatto tra corpo e lenzuolo si è interrotto senza alterare i decalchi di sangue che sono rimasti estremamente nitidi. Se il corpo fosse stato estratto dal lenzuolo, ci sarebbero sbavature che invece non si notano. Secondo una delle teorie più accreditate, durante la risurrezione Gesù emanò un lampo di energia, che sarebbe la causa della formazione dell'immagine. Nessuno è stato presente a quell'evento, la Sindone ne è l'unico testimone; ma l'episodio del Tabor, in cui Gesù anticipa la sua gloria, getta una luce significativa sul mistero dell'immagine sindonica (Mt 17,2; Mc 9,2-3; Lc 9,29).
 
Dopo aver esaminato la Sindone alla luce dei testi sacri ed avere avuto un ulteriore sostegno per la sua autenticità, non resta che concludere con le parole di San Paolo: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio [...] irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,13). La Sindone è un nuovo mezzo con cui Dio ci parla. In essa vediamo l'immagine del corpo di Gesù, irradiazione della sua gloria, e il suo sangue, impronta della sua sostanza.
Quel corpo e quel sangue che ritroviamo, misticamente, nell'Eucaristia.

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