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CONCLUSIONE E SALUTI




[21]Desidero che anche voi sappiate come sto e ciò che faccio; di tutto vi informerà Tìchico, fratello carissimo e fedele ministro nel Signore.

La comunione per Paolo non è solo nella preghiera, è anche nella conoscenza. Sapere come sta l’altro, cosa fa, come opera, quale difficoltà ha incontrato e incontra, come vive il suo ministero, quali le cose più importanti e quali meno importanti, o significative, tutto questo è cosa buona portarlo a conoscenza dei fratelli.

Nella Chiesa delle origini era stile raccontare ciò che il Signore operava attraverso il loro ministero e il loro apostolato.

Era questo sempre un motivo di lode, di preghiera intensa di ringraziamento e di benedizione, a volte si trasformava in preghiera di impetrazione. Occorreva che Dio intervenisse, per aiutare i cuori ad una conversione più forte e più duratura, fatta di costanza e di perseveranza sino alla fine.

Si scrivono, se necessario, le cose più importanti, le altre devono essere raccontate a voce.

Paolo affida questo compito a Titicho, che è anche il latore della lettera.

Sarà lui a informare gli Efesini di tutto il lavoro apostolico di Paolo e informare Paolo dei progressi spirituali fatti dagli Efesini nel mistero di Cristo Gesù.

Come definisce, Paolo, Titicho? Lo chiama fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. Dice queste cose perché sono l’evidenza della storia. Nessuno può dire una cosa di un altro, se questo non emerge con chiara evidenza, con una evidenza tale, che le nostre affermazioni devono restare sempre inappuntabili, chiare, precise, puntuali, senza alcuna esagerazione, senza sminuire o ingrandire la realtà in sé.

Titico è fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. È fratello carissimo e fedele ministro, ma nel Signore.

È fratello nel Signore, ma anche è ministro nel Signore. Come fratello gli è carissimo, come ministro è fedele.

Paolo vede ogni cosa nella sua fonte originaria, primaria, che è il Signore. È fratello e ministro perché è nel Signore. È carissimo e fedele perché agisce secondo la volontà del Signore.

Titico ha un rapporto di verità con Cristo Gesù. La verità con Cristo diviene anche verità con Paolo. Quando un uomo non ha un rapporto di verità con Cristo, non può avere un rapporto di verità con i fratelli.

Non può averlo, perché Cristo Gesù è la verità assoluta, piena, eterna, divina, umana, terrena, celeste.

Ogni relazione tra gli uomini che prescinde da Lui è una relazione non perfetta, non piena, non del tutto vera; se cerca il bene. È invece malvagia, cattiva, falsa, se cerca il male.

Titico è uomo vero con Paolo, perché è uomo vero con Cristo. Poiché è fedele ministro nel Signore è anche amico carissimo di Paolo.

D’altronde non sarebbe in alcun modo possibile che uno fosse amico vero di Paolo, che è amico vero e vero amico di Cristo Gesù, se non fosse amico vero e vero amico dello stesso Cristo Gesù.

È Cristo Gesù che esige che vi sia verità nell’amicizia e chi è amico di Cristo, deve essere vero suo amico, perché solo così potrà essere vero amico di ogni altro fratello. Questa è la legge eterna che regola l’amicizia con Cristo e di quanti sono amici di Cristo tra di loro.

Nella Chiesa non vi può essere vera amicizia tra gli uomini, se la loro amicizia con Cristo è falsa, errata, non vera, non giusta, non santa. Se è un’amicizia solo apparente, perché in verità si è suoi nemici perché non si compie e non si realizza la sua parola di salvezza.

È vero amico del cristiano chi è vero amico di Cristo Gesù; chi non è vero amico di Cristo non può essere vero amico del cristiano, anche perché il cristiano e Cristo sono un solo corpo, una sola vita, una sola realtà.

[22]Ve lo mando proprio allo scopo di farvi conoscere mie notizie e per confortare i vostri cuori.

Viene manifestata in questo versetto una delle esigenze più profonde insite nel cuore dell’uomo.

L’amore è comunione. Ora non può esserci vera comunione senza conoscenza dell’altro. La conoscenza è a fondamento della comunione e la comunione è il principio dell’amore. L’amore genera la comunione, la comunione a sua volta genera altro amore, amore e comunione necessitano di conoscenza sempre più profonda, sempre più vera, sempre più autentica, una conoscenza senza lacune, senza spazi vuoti.

Amore, comunione e conoscenza sono perfetti quando diventano una cosa sola e sono l’uno il frutto delle altre e le altre l’albero dell’uno e viceversa.

Come si fa a entrare in comunione se non si conosce neanche l’esistenza dell’altro, si ignorano le sue reali condizioni, non si sa qual è il ministero che il Signore gli ha affidato, i frutti prodotti, le difficoltà incontrate, i pericoli sostenuti?

Come si fa ad amare una persona se c’è totale disinteresse per rapporto a ciò che fa, perché lo fa?

Come ci può essere comunione, se non si condivide la fede dell’altro, la conoscenza dell’altro, l’esperienza dell’altro?

Paolo rende partecipi gli Efesini del suo ministero, del suo apostolato svolto a favore dei gentili, svela loro difficoltà, pericoli, ma anche il grande lavorio della grazia che opera conversioni e attira a Cristo quanti si lasciano conquistare dalla sua parola.

Questa conoscenza ha un duplice frutto: prima di tutto essa deve portare un poco di conforto ai cuori degli Efesini. Chi ama vuol sapere che il suo amato sta bene. Non è in pericolo. Lavora con impegno. Produce frutti di Vangelo in questo mondo.

Il secondo frutto è l’esempio che Paolo dona attraverso l’invio di notizie. Le notizie di Paolo sono tutte notizie di apostolato, di conversioni, di difficoltà, ma anche di aiuto e di sostegno da parte del Signore.

Inviando sue notizie è come se lui volesse invitare gli Efesini a fare altrettanto, a non risparmiarsi a causa del Vangelo e della buona novella, di mettere ogni impegno a che Cristo sia fatto conoscere. Se poi questo lavoro apostolico, missionario, dovesse generare sofferenze, dolori, persecuzioni, la stessa morte, che vengano tutte queste cose, ormai la vita dell’apostolo del Vangelo è tutta nella mani di Dio e saprà Lui come spenderla per la diffusione del Vangelo sulla terra.

Paolo ama quanti amano Cristo. Dare notizie di lui è come darle di Cristo Gesù, è come darle degli stessi Efesini, i quali anche loro sono in Cristo Gesù. È questa la bellezza della comunione e dell’amore tra i cristiani.

Amandosi e conoscendosi, amano e conoscono Cristo. Amando e conoscendo Cristo, si amano e si conoscono tra di loro.

La conoscenza, l’amore, la comunione nascono da una condivisione di fede, di speranza, di carità. È questo l’unico fondamento vero sul quale innalzare ogni relazione all’interno e all’esterno del Corpo del Signore Gesù.

[23]Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo.

Paolo augura, in chiusura a questa lettera, tre doni preziosi agli Efesini: la pace, la carità e la fede. Non solo le augura. Le dona con un regalo d’amore da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo.

Sappiamo cosa è la pace, cosa è la verità, cosa è la fede. Ne abbiamo già parlato a profusione e in abbondanza.

Il problema che ci interpella è questo: può l’apostolo del Signore conferire questi doni in un modo così diretto, da parte di Dio, quando abitualmente vengono date come desiderio e augurio?

Lo può sempre per via sacramentale. Nei sacramenti agisce nel nome e con l’autorità della Beata Trinità. Nei sacramenti l’apostolo si riveste di una parola efficace, creatrice, onnipotente.

Ciò che dice si compie e ciò che esprime si realizza.

Fuori del sacramento può un uomo agire in nome e con l’autorità di Cristo Gesù, o semplicemente della Beata Trinità?

La risposta è sì, quando c’è una perfetta comunione di vita tra il discepolo e il Signore; quando questa comunione è santità perfetta, carità perfetta, giustizia perfetta, amore perfetto.

Nella carità, nell’amore, nella giustizia perfetti c’è la realizzazione di una sola vita, una sola volontà, un solo corpo, un solo desiderio tra Cristo e il suo discepolo.

Paolo, questa sola vita, l’ha realizzata in modo sublime. Lui stesso dice che non è più lui a vivere, è invece Cristo che vive in lui.

Poiché tra Cristo e Paolo c’è questa sola vita, c’è anche una sola azione, una sola operazione, un solo dono. Ciò che dona Paolo, dona Cristo e ciò che dona Cristo, dona Paolo.

Fuori di questa unione mirabile, sublime, nella santità, tutto si può dare, ma come preghiera, come augurio, come desiderio, come implorazione a Dio.

Paolo qui invece dona, non augura, questi doni da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo.

Breve osservazione: Dio è il Padre, Gesù Cristo è il Signore. Padre è solo Dio, Signore è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Gesù è il Signore nella sua umanità, oltre che nella sua divinità.

Questa precisazione meritava di essere ancora una volta puntualizzata, a motivo della grande confusione che oggi viene operata a proposito di Cristo e del Padre suo che è nei cieli.

[24]La grazia sia con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo, con amore incorruttibile.

In questo versetto Paolo ritorna alla forma abituale: la preghiera. Dare ogni cosa nella forma della preghiera è cosa giusta e santa, perché è il proprio dell’uomo presentarsi ai fratelli, pregando per loro.

Sul concetto e sul significato della grazia, anche di questo si è parlato in precedenza. Non c’è bisogno che in questo contesto si specifichi e si sviluppi ulteriormente il concetto, o la nozione di grazia.

Assai necessario invece si rivelano i destinatari di questo augurio o di questa preghiera: tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore incorruttibile.

La grazia ha un destinatario. Questo destinatario deve accoglierla. L’accoglie se ama il Signore Gesù. La condizione che Paolo mette a questo dono è assai grande: per ricevere la grazia bisogna amare il Signore nostro gesù Cristo con amore incorruttibile.

È un amore che non viene mani meno, non si trasforma, non si rovina, non si perde, cresce ogni giorno di più, si affina, diventa spirituale, trova sempre una ragione d’amare l’altro, il fratello.

Cristo Gesù non sa che farsene di un amore che viene meno, che si perde per strada, che si smarrisce, non si fa opera di carità, non si alimenta e non cresce nella preghiera comunitaria e personale.

L’amore verso Cristo deve essere un amore che va oltre gli stessi confini dell’esistenza.

Non si corrompe solo quell’amore che è basato, costruito sulla Parola di Gesù. Ogni altro amore è già corrotto. È corrotto perché non è quello di Gesù, è anche corrotto perché tutto si fa, ma non per amore di Cristo Gesù, non per essere a lui di aiuto nella missione che è di salvezza per ogni uomo che vive sulla terra, nessuno escluso.

Da qui l’urgenza di fare un uso santo di ogni parola che è uscita dalla bocca dell’Altissimo. Bisogna che venga ripresa, compresa, insegnata attraverso vere e proprie scuole di conoscenza della volontà del Signore.

Ma cosa significa in verità amare Cristo Gesù con amore incorruttibile?

Significa porre la nostra vita nella sua Parola eterna. Ogni attimo che è vissuto fuori o senza la parola è un attimo morto, da non addebitare nel computo dei nostri giorni.

Ogni attimo che viene messo in movimento senza che il responsabile sacerdote venga debitamente avvisato, anche questo non è un attimo santo, vero, giusto.

È un attimo non di salvezza, ma di perdizione.

È l’osservanza della Parola del Vangelo che rende incorruttibile il nostro amore, perché è la Parola di Dio che ci introduce nell’amore eterno che Dio ha per l’uomo.

Dio manifesta tutto il suo amore attraverso una Parola creatrice che compie sempre prodigi per noi; noi manifestiamo il nostro amore per il Signore anche per mezzo della stessa Parola, ogni qualvolta che la osserviamo, ma anche l’annunziamo, la proclamiamo, la testimoniamo.

Se la Parola è il punto d’incontro tra noi e Dio; se essa la sorgente del nostro amore incorruttibile verso il Signore ed è incorruttibile perché è prima amore del Signore verso l’uomo, si dimostra necessario, anzi indispensabile partire proprio dalla Parola di Dio in seno alle nostre comunità parrocchiali e non parrocchiali.

Dove non c’è catechesi, annunzio del Vangelo, ricordo della Parola di Gesù è segno evidente che in questa comunità l’amore per il Signore non è incorruttibile e che resta molto da fare per impiantare in ogni parrocchia una catechesi diuturna, in modo che tutti possano confrontarsi con le radici del loro amore e ristabilire con la Parola di Dio il fervore, l’amore, la frequentazione: cose tutte che si addicono ai buoni cristiani, di ieri, di oggi, di sempre.



PER OPERA DI GESÙ CRISTO



Genitori e figli sono di Dio. Dio è l’unico Signore. È il Signore unico di ogni uomo, di ogni altra cosa che esiste nell’ordine del visibile ed invisibile. È l’unico Signore perché ogni cosa viene dalla sua Parola onnipotente, creatrice. Egli è il Dio onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Al di fuori di Lui non c’è altro Dio. Egli è il solo, è l’unico: “Non avrai altri dei di fronte a me”. Essendo ogni cosa dalla volontà di Dio, anche la paternità e la maternità sono da Lui, sono per sua volontà, rientrano nel suo disegno eterno sulla creazione e sull’uomo. Padre, madre, figli sono di Dio. Se sono di Dio, se Lui è il loro unico Signore, a Lui ognuno deve prestare obbedienza, ascolto; ognuno vive una giusta relazione con l’altro solo se si pone all’interno della divina volontà.

La volontà di Dio: principio unico d’azione. Il genitore ha il posto di Dio in seno alla famiglia. Se ha il posto di Dio, egli è lì per vivere la volontà di Dio, per eseguire gli ordini di Dio, per osservare i comandamenti di Dio. La sola volontà di Dio deve governare sia genitori che figli. Ma c’è una volontà di Dio universale, che è la vocazione alla santificazione, attraverso l’osservanza dei comandamenti e c’è anche una volontà di Dio particolare, ministeriale, che è la via attraverso la quale ogni uomo deve andare a Dio, deve servire Dio, deve amare Dio, deve amare i fratelli. I genitori devono essere di esempio nell’una e nell’altra volontà di Dio; perfettamente devono osservare sia la volontà universale, sia quella particolare. In questo devono essere specchio, devono vivere una esemplarità perfetta. Vivendo loro nella santità, devono aiutare i figli a crescere nella santità, ad abbondare in frutti di santità. Per questo devono sostenerli, incoraggiarli, spingerli a cercare solo la volontà di Dio; la volontà di Dio devono anche manifestare, quella universale, perché tutto compiano osservando i comandamenti, vivendo le beatitudini. Questo potranno farlo se mai dimenticano che il loro ruolo è il più grande e il primo servizio alla santità; se mai dimenticano che questo ruolo e questo servizio può essere portato a compimento solo nella santificazione. Nessuno potrà mai aiutare un altro a vivere nella santità, se lui per primo non si decide a fare della santificazione l’unico scopo della propria vita. La santificazione del mondo è un frutto della propria santità; come anche la conversione di un cuore è frutto della propria conversione e fede al Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo.

Dire il motivo ultimo. L’educazione ha bisogno, necessita delle quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Ogni altra virtù è necessaria per chi vuole educare l’altro a camminare seguendo la propria vocazione. Ci sono però due vie che i genitori mai devono trascurare se vogliono incidere santamente nella vita dei loro figli. La prima via è senz’altro la preghiera costante per i figli. I figli sono di Dio, a Dio ogni giorno bisogna affidarli, a lui consegnarli, perché su di loro faccia posare il suo Santo Spirito, perché siano resi forti, giusti, equilibrati, temperanti, prudenti, sapienti oltre misura. Chi prega per la santificazione dei propri figli, santificando se stesso, avrà ascolto dal Signore e di sicuro le sue preghiere produrranno frutti assai copiosi di santità in seno alla propria famiglia. La seconda via è quella di manifestare sempre non la loro volontà, ma la volontà di Dio. Dire ai figli che il motivo ultimo del loro comando, della loro esortazione, di ogni loro richiesta non è in loro, ma è in Dio. Loro non hanno alcuna volontà sui figli; la volontà che loro manifestano è quella di Dio. Il genitore deve sempre considerarsi strumento di Dio per manifestare la volontà di Dio, per aiutare i propri figli a vivere la volontà di Dio. Deve svolgere questo compito con le parole e con le opere. La parola poi deve essere ricca di motivazioni, di spiegazioni, di ogni altra delucidazione che aiuti il figlio a comprendere che quanto il genitore gli sta chiedendo è solo volontà di Dio, non sua volontà. Per cui se c’è disobbedienza, questa non è fatta ai genitori, è fatta a Dio.

Obbedienza e onore. Obbedienza e motivazioni. Il figlio è obbligato all’obbedienza. Ma l’obbedienza è a Dio. È obbligato all’obbedienza se quanto il genitore gli comunica è volontà di Dio. Se non è volontà di Dio, il figlio non ha alcun obbligo di obbedire; se obbedisse commetterebbe peccato, perché non c’è obbedienza se non alla verità, alla carità, al ministero che Dio comanda che noi facciamo, esercitiamo come espressione della sua Signoria sopra di noi. Nessuno potrà mai sottrarsi all’obbedienza a Dio. Per obbedire a Dio, il figlio deve essere anche disposto a perdere l’amore del genitore; non perché lui lo ha voluto, ma perché il genitore lo ha voluto. Ciò però non obbliga mai il figlio a togliere l’onore ai genitori. L’obbedienza è a Dio; l’obbedienza a Dio comanda che i genitori siamo sempre onorati. Onore e obbedienza però non sono la stessa cosa. Non sono la stessa cosa perché l’obbedienza è solo a Dio; è anche ai genitori in quanto portatori della volontà di Dio, perché la insegnano, perché educano ad osservare la legge santa di Dio, i suoi comandamenti, le sante beatitudini. Quando un figlio non obbedisce al genitore è obbligato a manifestare al genitore il motivo della non obbedienza. Le motivazioni non sono molte. Una sola deve essere la motivazione: c’è una volontà di Dio che voi non conoscete che io devo osservare. La motivazione è quella di portare i genitori nella volontà di Dio perché la scrutino e trovino in essa la via particolare che il Signore ci manifesta perché noi la eseguiamo. Così i genitori devono dare ai figli la volontà di Dio. I figli per volontà di Dio devono sempre rispettare, onorare, soccorrere, aiutare, sostenere i genitori, avere a cuore la loro gloria e il proprio onore. Sempre i figli, per volontà di Dio, devono dire ai propri genitori che il motivo della loro non obbedienza risiede solo nell’obbedienza a Dio. Il genitore avrà così modo di pensare, di riflettere, di pregare, perché Dio anche a loro manifesti la sua volontà sui loro figli. Se l’obbedienza e l’onore sono per volontà di Dio; dove non c’è Dio, non c’è né obbedienza, né onore. C’è dispotismo, anarchia, schiavitù, ogni genere di soprusi, di ambiguità, di peccato.

La gioia e la felicità dono di Dio: sappiamo dov’è la fonte: onore. Il Signore tiene a che coloro che hanno il suo posto sulla terra siano onorati. Si è già visto che onore e obbedienza non sono la stessa cosa. Mentre l’obbedienza può venir meno, l’onore mai deve venir meno. L’onore è obbligo perenne del figlio per i genitori e l’onore è rispetto, ossequio, aiuto concreto, sostentamento, comprensione, frequentazione, non abbandono, compagnia, ogni altro sevizio di carità che serve perché il genitore viva con dignità i giorni che il Signore gli ha concesso su questa terra. Perché quest’onore mai venga meno, mai venga sottratto, il Signore lo ha sancito con una promessa: tutti coloro che onoreranno i genitori saranno oggetto di una sua particolare benedizione. Saranno felici sulla terra, vivranno a lungo. La lunga vita ricolma di gioia è per coloro che onorano il padre e la madre. Ogni figlio sa ora dov’è la fonte della sua gioia, dov’è la sorgente della sua vita: è nell’onore e nel rispetto che deve ai suoi genitori. Se farà questo, Dio lo benedirà sulla terra e nel cielo; se non farà questo, la sua vita è solo nelle sue mani e si sa che quando una vita è solo nelle mani dell’uomo, questa non avrà un risultato di gioia e di felicità. Una vita senza la benedizione di Dio che vita potrà mai essere? Anche questo è giusto che si insegni ai figli, non perché i genitori vengano onorati, ma perché i figli sappiano cosa il Signore ha loro promesso congiuntamente all’onore e al rispetto verso i loro genitori.

Le strutture sociali non sono la volontà di Dio. Bisogna però che vengano inserite nella volontà di Dio. La struttura familiare della società è l’unica struttura voluta da Dio, sancita da un comandamento. Tutte le altre strutture non sono direttamente la volontà di Dio. Volontà di Dio è la comunione che deve sempre regolare le azioni degli uomini e le loro relazioni, assieme alla comunione è volontà di Dio che tutto si viva nella grande carità e nell’amore universale di tutti verso tutti. Sappiamo cosa è l’amore in Dio. È il dono di se stesso perché l’altro viva. La vita sulla terra e nel cielo è dall’amore, è nell’amore. Però la vita sulla terra e nel cielo è vita se è nella verità, se viene dalla verità di Dio e nella verità di Dio si conserva sempre. Bisogna che ogni struttura sociale sia inserita nella verità. La verità è questa: ogni struttura è per l’uomo, non l’uomo per la struttura. Quando la struttura nega, distrugge la dignità dell’uomo, questa struttura è una struttura di male, è figlia del peccato dell’uomo, è generata da un uomo che ha il cuore di pietra, cuore non ancora scalfito dalla forza della verità e della carità che abitano solo in Cristo Gesù. Portata ogni struttura nella verità, bisogna che venga costantemente alimentata dalla carità. La carità non è togliere all’altro, ma dare. Ci si serve di una struttura per dare la vita al fratello, per consentirgli di vivere con dignità, nella pienezza della sua umanità. Poiché tutto è nella verità e nella carità, nella sapienza e nell’amore, è giusto che colui che ha creato la struttura sociale e colui che ne fa parte, che la fa funzionare, siano l’uno e l’altro a servizio della verità e della carità. Per cui anche colui che fa funzionare la struttura sociale deve sapere che il suo è un servizio alla verità e alla carità. Il padrone deve essere servo di verità e di carità per i suoi schiavi; lo schiavo deve essere un signore di verità e di carità per il suo padrone. Quando si entra in questa visione di verità e di carità, la vita fiorisce sulla terra. Dal peccato, quindi dalla falsità e dall’egoismo degli uni e degli altri non nasce la vita, bensì la morte. E c’è sempre la morte sia fisica che spirituale dove non si porta ogni struttura sociale nella legge della verità e della carità.

Strutture storiche e volontà di Dio. Giustizia e modalità. Non ogni struttura storica è volontà di Dio. È volontà di Dio però che ogni struttura storica aiuti ogni uomo, sia a servizio dell’uomo secondo verità, giustizia, carità. Se una di queste virtù viene a mancare, la struttura non è nella volontà di Dio e quindi non produce bene per l’uomo, ma solo male. Il peccato infatti non può generare bene, né prosperità, né altra cosa che aiuti l’uomo a crescere in umanità. Il peccato è la realtà più antiumana che esista, poiché il peccato genera sempre morte, sia nel cuore del singolo che all’interno della società degli uomini. Ogni peccato apre una breccia in seno all’umanità attraverso la quale infiniti altri peccati vengono ad aggiungersi, conducendo gli uomini di male in male e di ingiustizia in altra ingiustizia ogni giorno più grande e più avvolgente la grande massa degli uomini. Sulle ingiustizie bisogna sempre vigilare, perché vengano estirpate dal cuore dell’uomo e della società. San Paolo detta una regola fondamentale: ognuno da parte sua è obbligato a rompere con le ingiustizie sociali. Devono farlo i servi, devono farlo anche i padroni. Ai servi però non deve interessare ciò che fanno i padroni. A loro deve interessare di interrompere il circuito di male per quanto riguarda loro. Così dicasi anche per rapporto ai padroni. Anche loro sono chiamati a interrompere ogni circuito di ingiustizia, facendo sì che ogni relazione sia vissuta secondo verità e giustizia. C’è poi una modalità che sempre deve governare i rapporti di giustizia tra i cristiani, sia servi che padroni: ognuno deve vedere l’altro in Cristo, ogni servizio e ogni comando deve essere fatto da Cristo a Cristo. Questa è l’unica modalità santa che consente non solo di vivere la giustizia secondo Dio, ma anche di progredire e di crescere verso una giustizia sempre più grande.

Santificazione come obbedienza agli uomini. C’è un principio nella visione di fede di Paolo che merita di essere preso in considerazione. La santificazione è nell’obbedienza a Dio, ma questa si costruisce giorno per giorno attraverso il servizio all’uomo. Si ama Dio servendo l’uomo, si serve Dio amando l’uomo. La santificazione è un amore e un servizio secondo verità, nella più grande carità di Cristo, che è la carità crocifissa. Nessuno pensi di farsi santo da solo, o lontano dagli uomini. Ci si fa santi in mezzo al mondo, tra gli uomini, da servire secondo il comando di Dio, portando loro la verità e la carità, aiutandoli a che entrino nella verità, vivano della carità di Cristo, che per tutti deve essere carità crocifissa. Quando questo avviene, si può dire che l’uomo entra nel vero cammino della santificazione. Si inizia il cammino, ma poi bisogna farlo progredire fino alla perfezione e la regola della perfezione è una sola: servire gli uomini nella verità e nella carità che sono in Cristo Gesù. Senza il servizio all’uomo non può esserci alcuna santità, perché Cristo è il Servo di Dio per la salvezza del mondo. Il cristiano è anche lui in Cristo servo di Dio per la redenzione dei cuori.

Libertà dalla mente e dalle opere. Nella semplicità. Ancora un altro principio merita di essere evidenziato, se si vuole entrare nel cuore di Paolo e leggervi in esso lo spirito che lo animava, la verità che lo spingeva, la carità che lo sorreggeva in ogni occasione. Chi vuole servire il Signore secondo verità, con la stessa carità di Cristo Gesù deve conquistare la virtù della più grande e assoluta libertà: libertà dalla propria mente, libertà dalle proprie opere. Il servizio, in altre parole, non deve essere l’uomo a pensarlo, non deve farlo consistere in determinate opere da ripetere con cronologica precisione. La salvezza è nell’obbedienza, la santificazione è nell’obbedienza, la redenzione è nell’obbedienza, la verità è nell’obbedienza, come nell’obbedienza è anche la carità. L’obbedienza deve essere vissuta nella più grande semplicità. Il Signore comanda e l’uomo ascolta, il Signore vuole e l’uomo eseguisce, il Signore decide e l’uomo compie, il Signore pensa e l’uomo smette di pensare. Quando si raggiunge questa perfezione si inizia a divenire servi del Signore; non lo si è perfettamente fino a quando non si è nella perfezione dell’ascolto e dell’esecuzione della volontà di Dio, senza neanche far passare per la nostra mente, o il nostro cuore, la volontà di Dio manifestata. Questa totale libertà deve possedere il vero servo del Signore e finché non si possiede questa libertà piena, totale, avvolgente tutta intera la nostra vita, non si è veri servi. Manca ancora la libertà dal proprio cuore e dalla propria mente; manca la libertà dalla propria gloria e dalle opere che noi crediamo necessarie per realizzare la salvezza sulla terra.

Con retta intenzione, come servizio a Cristo. San Paolo vuole – lo si è già visto – che ogni cosa che il cristiano intraprenda la faccia secondo verità, nella più grande carità. Per questo gli è necessaria la retta intenzione ed è retta intenzione fare ogni cosa come se fosse fatta a Cristo, perché voluta e comandata da Cristo, perché serve a Cristo per la redenzione del mondo. Senza retta intenzione ogni opera è viziata, quindi è destinata al fallimento. Fallisce ogni opera dell’uomo che non ha a suo fondamento la santità di Cristo, la verità di Cristo, la carità di Cristo, la sua croce come perfetta obbedienza al Padre.

La buona voglia. Non basta che vi sia retta intenzione perché si sia graditi al Signore. Si è graditi al Signore quando la sua volontà viene assunta da noi e fatta come propria, con tutto l’ardore, la buona volontà, la scienza e la conoscenza, la perizia e l’arte messi in opera al massimo delle nostre possibilità. Se questo non avviene, anche se si compie l’opera di Dio, questa è fatta alla meno peggio. Dio non gradisce nessuna opera che non comporti il dono di tutto noi stessi, l’immersione della nostra vita in essa con tutto quello che noi siamo e abbiamo. Tutto l’uomo deve lasciarsi coinvolgere nell’opera del Signore, allo stesso modo che fece Cristo Gesù, il quale per amore del Padre andò sulla croce, lasciandosi crocifiggere, ma offrendo ogni suo dolore e ogni goccia di sangue versato per la nostra redenzione eterna. La buona volontà è solo una parte di noi che dobbiamo mettere nell’opera di Dio; poi c’è il cuore, la mente, le forze, ogni altra capacità, ogni intelligenza e sapienza vi devono essere profusi per essere graditi al Signore. Un solo vizio nella forma rende l’opera non gradita a Dio.

L’arbitrio non è legge evangelica. Il cristiano, poiché chiamato ad agire sempre con rettitudine di coscienza, è obbligato a cercare solo la volontà di Dio nella sua vita, in ogni azione, in ogni pensiero, in ogni sentimento, in ogni moto del suo cuore. Se questo non lo fa, egli è fuori della volontà di Dio. Agisce non per comando, ma per arbitrarietà, non per obbedienza, ma per libera decisione, non compie un sacrificio gradito a Dio, fa un’opera che solo lui gradisce e solo a lui piace. Quando non si compie la volontà di Dio, ricercata con retta intenzione, vissuta di buona volontà e con tutto il cuore, non si opera né redenzione, né salvezza, né santificazione. La nostra è un’opera che muore in noi, si esaurisce in noi, in noi finisce. Non va oltre e non produce salvezza né in noi, né negli altri. Quest’opera che finisce in noi non serve per la nostra eternità. Muore ancor prima di essere concepita, realizzata, attualizzata. L’arbitrio non è, mai potrà divenire legge evangelica, legge che governa le relazioni con Dio e con gli uomini. “Non ciò che voglio io” – arbitrio – “ma ciò che il Signore vuole” – retta intenzione – di buona volontà: è questa l’unica via del sacrificio gradito al Signore. Anche di questo bisogna tener conto, specie oggi, tempo in cui tutta la pastorale è un arbitrio, una decisione dell’uomo. Dio, in Cristo, ha mandato la Chiesa a predicare il Vangelo; arbitrariamente molti uomini di Chiesa si sono dati ad altro, sostituendo il Vangelo con i loro sentimenti e pensando così di rendere gloria a Dio e peggio di portare salvezza in questo mondo. Sarebbe sufficiente osservare questa semplice regola di pastorale, perché la luce della verità e della carità ritornasse a risplendere nella Chiesa e in ogni comunità cristiana. Purtroppo l’arbitrio regna sempre sovrano, dal momento che l’uomo si è sostituito a Dio e si è proclamato signore e padrone nella sua santa Chiesa.

Alla lotta ci si presenta armati. Paolo è un lottatore. Egli è l’uomo della verità contro la falsità, della carità contro ogni egoismo; è l’uomo della speranza soprannaturale di fronte ad un mondo immerso nell’immanenza e sotterrato in essa. Lui sa che c’è il regno della luce, ma anche il regno delle tenebre; se capo del regno della luce è Cristo Signore, chi dirige il regno delle tenebre è satana, il diavolo. La lotta è dura, lunga, assai lunga; è lunga quanto tutta una vita. Satana fino all’ultimo istante è pronto per far cadere l’anima nella sua falsità e condurla nella morte eterna. Il modo per entrare nella lotta è uno solo: imitare ogni buon soldato. Nessun soldato della terra si presenta al combattimento disarmato, non bene equipaggiato, spoglio. Così nessun soldato di Cristo si deve presentare alla lotta spirituale spoglio, non armato delle armi spirituali. Solo con queste è possibile sconfiggere il nemico, altrimenti si soccombe, si cade, si muore. Oggi molti cristiani sono passati nell’altro campo, divenendo alleati di satana per la rovina dei credenti e quelli che sono rimasti nel campo di Dio sono così spogli dell’armatura spirituale che è sufficiente la più piccola delle tentazioni per abbatterli e farli cadere nella morte. Possiamo affermare che la stoltezza avvolge tanti cristiani; ma possiamo affermare anche che nessuno vede questa stoltezza e che nessuno indica ai cristiani come vestirsi, come proteggersi, quale armatura indossare affinché possano risultare vittoriosi nella lotta.