SEGUIRE DIO
Mosè, giunto nella cavità della roccia, viene ricoperto dalla mano di Dio, come afferma la Scrittura.
Mano di Dio è la Potenza che ha creato il mondo, l’Unigenito Figlio di Dio, per mezzo del quale ogni cosa fu fatta (Gv 1, 2). Egli è il luogo per coloro che corrono, la pista ove si svolge la corsa, come lui stesso ebbe a dire (Gv 14, 16).
Ma è diventato anche la roccia per quelli che si mantengono costanti nel bene e la casa per coloro che abbisognano di riposo.
Mosè sente la voce di chi lo chiama e si mette al suo seguito; si muove dietro al Signore, come comanda la legge. Anche il grande Davide udì e comprese queste cose.
Parlando a colui che gode l’aiuto dell’Altissimo dice: «Egli ti coprirà con l’ombra delle sue ali» (Sal 90, 4). Lo stesso Davide in un altro passo va gridando a se stesso: «La mia anima è legata dietro di te e la tua destra mi sorregge». Queste parole del salmo hanno il medesimo significato di quelle udite da Mosè. Vedere il dorso del Signore significa appunto seguirlo.
Nel racconto si afferma che la mano del Signore viene a posarsi su Mosè, in attesa nella cavità della pietra che lo si chiami e gli si chieda di seguirlo.
Anche il salmo citato dice che la destra di Dio sorregge colui che vi si attacca. Né il Signore, rivelatosi Mosè, osservante della legge, si esprime diversamente coi suoi discepoli, dando a essi la spiegazione delle cose che erano state dette in figura: «Se uno vuoi venire dietro di me...» (Lc 9, 23). Egli non dice: davanti a me.
Egli propose il medesimo invito a quei tale che lo interrogò intorno ai modo di possedere la vita eterna. Gli dice infatti: «Vieni, seguimi» (Lc 18, 22). Ora colui che segue va dietro le spalle.
Mosè dunque, ansioso di vedere Dio, viene a sapere che ciò gli sarà possibile a condizione di andare dietro a Dio ovunque voglia condurlo e questo è vedere Dio.
Il passaggio di Dio va inteso nel senso che Dio fa da guida a chi lo segue. Chi non conosce una strada, non può percorrerla con sicurezza, senza seguire una guida. Ogni guida, mettendosi davanti, mostra la strada a chi le vien dietro e questi, stando al seguito della guida, non sbaglierà direzione.
Ma se uno guarda a sinistra o a destra o in faccia alla guida, percorrerà un cammino sbagliato. Perciò Dio dice a Mosè: tu non vedrai la mia faccia. Non guardare in faccia chi ti guida, perché altrimenti camminerai in direzione contraria.
Il bene non si mette in opposizione con sé stesso, ma si fa compagno di un altro bene. È il vizio che corre in direzione contraria alla virtù, ma la virtù non si oppone mai a sé stessa. Per questo motivo Mosè non guarda Dio in faccia, ma sul dorso. La Scrittura attesta infatti: «Nessuno vedrà la faccia del Signore e vivrà».
Se consideri che Mosè è fatto degno della grazia di questo invito verso il termine della vita, quando era asceso tanto in alto e aveva avuto teofanie gloriose e terribili, capirai quanto sia importante andare dietro a Dio. Mosè seguendo il Signore, non incontra più davanti a sé nessun ostacolo di peccato.
AL DI LÀ DELLE PASSIONI
I danni dell’invidia
Dopo questi fatti, i suoi fratelli ebbero invidia di lui. L’invidia è una passione violenta, fonte di morte, prima apparizione del peccato, radice del male, generatrice di dolore, madre di ogni disgrazia, causa di disobbedienza, inizio di vergogna.
Fu l’invidia che ci scacciò dal paradiso, trasformandosi in serpente ai danni di Eva. Essa ci allontanò dall’albero della vita e, dopo averci spogliati delle sacre vesti, ci ridusse alla vergogna delle foglie di fico75.
L’invidia, violentando la natura, armò la mano di Caino. Fu essa a suggerire di uccidere sette persone per vendicare la morte di una sola. L’invidia fece Giuseppe schiavo. Essa è pungolo mortale, arma nascosta, malattia della natura, dardo avvelenato, distruzione volontaria, dolorosa ferita, chiodo dell’anima76, fuoco interiore, fiamma che arde nelle viscere. Per essa costituisce disgrazia non il proprio male, ma il bene altrui, costituisce successo non il proprio bene, ma il male degli altri.
È invidia rattristarci delle prosperità altrui e macchinare contro la loro fortuna. Dicono che gli avvoltoi siano uccisi dal lezzo dei cadaveri di cui si cibano e si trovino a loro agio nel marciume. Anche chi è posseduto da questa malattia si sente nauseato del benessere dei suoi vicini come per un cattivo odore e quando s’accorge che, per qualche disgrazia, essi sono nella sofferenza, si precipita a volo sopra di essa, per frugare col becco fin nel suo fondo
Molti, anche prima di Mosè, furono vittime dell’invidia, ma quando essa volle gettarsi contro questo grande, si infranse come vaso di terracotta scagliato contro una pietra.
In lui soprattutto si riconobbe quanto è grande il vantaggio di chi sta dietro al Signore, conduce la corsa nel luogo divino eppure sta fermo sulla roccia, trovandosi così difeso e protetto dalla mano di Dio.
Mosè, venendo dietro ai passi della sua guida, ne vede il dorso non la faccia. Se il dardo dell’invidia non riesce a raggiungerlo77, ciò significa che egli ha raggiunto la felicità, andando dietro al Signore.
Anche se l’invidia lancia contro di lui le sue frecce, egli si trova troppo in alto perché esse possano colpirlo. La malignità altrui fu come la corda di un arco, ma troppo sottile e debole per giungere a contaminare anche lui della medesima malattia.
Aronne e Maria subirono invece le ferite dell’invidia e si misero a scagliare contro di lui parole ostili, ma egli rimase tanto immune da quella malattia che poté curarne le vittime. Poiché non si lasciò impressionare dall’animosità dei suoi avversari, ma supplicò il Signore in loro favore, egli ci mostra che l’uomo difeso dallo scudo della virtù, non può più essere ferito da colpi di lance.
La punta della lancia finisce per piegarsi quando viene a incontrare questo scudo resistente, che è Dio stesso. Di esso si riveste il combattente della virtù e da esso è difeso contro i colpi delle lance.
Dice la Scrittura: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo» (Rm 13, 14), ossia di quella forte armatura di cui si cinse Mosè per rendere impotente l’arciere malvagio. Quelli che volevano farlo soffrire con gli assalti dell’invidia neppure riuscirono a sfiorano.
Ma egli non fu dimentico dei doveri di giustizia impostigli dai legami di natura e supplicò Dio in favore dei suoi fratelli, che già erano stati giustamente condannati.
Ciò non avrebbe potuto fare, se non si fosse messo dietro a Dio, che gli mostrava il suo dorso per guidano con sicurezza nella via della virtù.
IL SERPENTE DI BRONZO
La penitenza
Nella marcia attraverso il deserto, il popolo si trova nuovamente angustiato dalla sete e dispera di poter raggiungere i beni promessi. Ma ancora una volta Mosè procura l’acqua, facendola scaturire da una roccia del deserto.
Questo passo, interpretato in senso spirituale, può darci utili insegnamenti intorno al sacramento della penitenza78.
Coloro che hanno gustato la roccia una prima volta, ma si sono poi rivolti al ventre, alla carne e ai piaceri d’Egitto, castigano se stessi, privandosi di questi beni. Pentendosi, essi possono ancora ritrovare la Roccia da cui si sono allontanati e accorrere alla vena d’acqua scaturita a sollievo di coloro che hanno creduto più corrispondente al vero la relazione di Giosuè e non quella degli altri. Essi, fissando gli sguardi sul grappolo appeso al legno da cui gronda il sangue della nostra salvezza, hanno ottenuto che l’acqua ritornasse a zampillare dalla roccia, colpita dal legno79.
La croce rimedio contro le passioni
Il popolo, ancora non avendo appreso a stare al passo con la grandezza di Mosè, si lascia di nuovo trascinare dai desideri del tempo della schiavitù e attirare dalla nostalgia dei piaceri d’Egitto.
Pare che qui il racconto voglia insegnarci la forte propensione dell’umana natura verso la passione. Essa è una malattia che può colpirci in moltissime forme. Mosè riesce a impedire che essa, prendendo piede sempre più, diventi malattia mortale. Egli fa come il medico quando s’accorge che il male si è aggravato.
Allorché i serpenti incominciarono a mordere molti del popolo, iniettando mortali veleni a castigo dei loro desideri smoderati, il grande Legislatore riuscì a neutralizzare i funesti effetti causati dai rettili, servendosi della figura del serpente.
È bene spiegare con chiarezza il simbolismo di questa figura. L’unica forza capace di, distaccarci da passioni simili a quelle che agitarono gli Ebrei, è il mistero della religione da cui proviene la purificazione delle nostre anime.
È di fondamentale importanza, nel mistero della fede, guardare alla Passione di Colui che per noi ha accettato di soffrire. La Passione è la Croce nella quale chi fissa gli sguardi, non prova su di sé gli effetti dannosi del veleno, simbolo dei desideri passionali: così appunto ci ammaestra la Scrittura.
Guardare alla Croce significa condurre una vita morta al mondo, non prona al peccato così che la nostra carne, come dice il Profeta, sia immobilizzata dai chiodi del timore di Dio (Gal 6, 14; Sal 118, 120).
È la penitenza il chiodo che tiene ferma la carne. La legge, consapevole che i desideri smoderati fanno uscire dalla terra serpenti mortiferi (ogni effetto derivante da un desiderio cattivo è come un serpente), ci comanda di volgere gli sguardi a Colui che si mostra sul legno. È lui la figura del serpente, secondo le parole del grande Paolo: «A somiglianza della carne di peccato» (Rm 8, 3).
Il vero serpente è il peccato e chiunque si dà al peccato assume la natura di serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato per merito di Colui che ne ha assunto l’immagine. Egli si è fatto simile a noi, che ci siamo rivolti all’immagine del serpente.
È lui che arresta la morte prodotta dai morsi velenosi ma lascia in vita i rettili che l’hanno causata. Essi rappresentano i desideri delle passioni.
Chi guarda alla Croce non è più soggetto alla morte e tuttavia i desideri della carne contrari a quelli dello spirito non vengono totalmente eliminati in lui (Gal 5, 17). Tali desideri continuano a mordere i fedeli. Ognuno però, se guarda a colui che è stato innalzato sopra il legno, può tener lontana la passione e rendere innocuo il veleno, attraverso il timore del precetto che opera al pari di un farmaco. Le parole dei Signore insegnano chiaramente che il serpente innalzato nel deserto è simbolo del mistero della Croce: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così occorre che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3, 14).
L’ORGOGLIO
Il peccato, seguendo la logica del male, si moltiplica in un concatenamento ininterrotto di cause ed effetti e obbliga il legislatore a fare come il medico che adatta la cura alla violenza della malattia.
Il nemico, ricco di inventiva quando si tratta di procurare la nostra rovina, visti neutralizzati i morsi dei serpenti in coloro che innalzavano gli sguardi verso l’immagine del serpente (già ne abbiamo spiegato il simbolismo), viene escogitando un altro metodo per trascinare al peccato.
Il fatto si ripete oggigiorno nei riguardi di molti. Ci sono persone che, per il fatto di condurre una vita morigerata e mortificata riguardo ai desideri delle passioni, prendono l’iniziativa di entrare nel sacerdozio, usando intrighi e maneggi che dimostrano un orgoglio contrario ai piani salvifici di Dio.
Colui che la Scrittura definisce autore delle disgrazie degli uomini, è anche autore di questo genere di peccati. Quegli uomini prima ribelli, quando videro che la terra aveva cessato di produrre serpenti per merito della fede in colui che fu innalzato sopra il legno, credettero di essere diventati invulnerabili ai morsi velenosi.
Invece, scomparsa la passione della concupiscenza, comparve in loro il malanno della superbia80.
Quelli che non furono inghiottiti dalla terra, vennero inceneriti dai fulmini. Qui la Scrittura ci insegna che, se sappiamo scendere sotto terra, la superbia non crescerà dentro di noi.
Basandoci su questi fatti potremmo, non senza ragione, definire la superbia una salita verso il basso. Non meravigliarti se ti senti portato ad averne l’idea che ne hanno molti, i quali ritengono che il termine superbia indichi superiorità sugli altri. I fatti della vita di Mosè sembrano invece confermare la definizione data da noi.
Quelli che si erano innalzati al di sopra degli altri, finirono sotto terra, dentro la spaccatura che si era aperta per inghiottirli. Non va dunque rigettata la definizione della superbia come di una caduta in profondità. Attraverso questi fatti, Mosè ci insegna a essere umili, a non vantarci di ciò che facciamo ma vivere in buone disposizioni di spirito l’attimo presente.
Chi si è liberato dalla sensualità, può correre il rischio di cadere in un altro genere di passioni. Ogni passione in quanto tale è una caduta e se varie sono le passioni, identica è la caduta.
C’è chi cade, lasciandosi andare sulla china del piacere e c’è chi viene buttato a terra dalla superbia. Non è saggio scegliere tra l’una o l’altra caduta, poiché tutte in quanto tali vanno fuggite.
Se perciò vedessi qualcuno che si crede superiore agli altri perché si è liberato dalle cadute nella sensualità e perciò accede al sacerdozio, riconosci pure in lui uno che, per la sua superbia, va a finire sotto terra.
IL VERO SACERDOZIO
Nei fatti successivi la legge ci insegna che il sacerdozio è cosa divina, non umana. Mosè fa mettere delle verghe davanti all’altare e incide su ciascuna il nome delle rispettive tribù.
Una delle verghe, per intervento miracoloso, dimostrò che era stato Dio a scegliere il Sommo Sacerdote. Le altre infatti rimasero quali erano ma quella del Sommo Sacerdote miracolosamente mise da sé radici e sbocciò in rami e frutti, non già per effetto di rugiada scesa dall’alto ma per una forza divina, che portò il frutto a maturazione. Messi davanti a questo portento, i sudditi appresero a vivere in buon ordine.
Il frutto prodotto dalla verga di Aronne ci fa pensare ai caratteri che deve avere la vita del sacerdote. Essa deve apparire austera, dura e scabra all’esterno ma possedere internamente, nel segreto e nell’oscurità, un cibo saporoso. Questo cibo viene portato alla luce quando ha raggiunto, col tempo, la maturazione e allora si rompe l’involucro legnoso che lo racchiude.
Se tu venissi a sapere di qualche sacerdote che conduce una vita agiata, usa profumi, ha una carnagione rosea, come quella delle persone che vestono di lino e di porpora, ingrassa in continui banchetti, beve vino di qualità, si unge con unguenti finissimi e si circonda di tutte le comodità care ai gaudenti, a buon diritto potrai ripetere nei suoi riguardi le parole del Vangelo: «Se guardo il frutto, non riconosco l’albero sacerdotale». Il frutto del sacerdozio è l’austerità, non la spensieratezza e il frutto dell’austerità non giunge a maturazione in virtù dell’umidità naturale del terreno. Le soddisfazioni del sacerdote dalla vita spensierata scorrono in lui come ruscelli, che un giorno tingeranno di rosso il raccolto della sua vita.
LA STRADA REGALE
I sudditi di Mosè, liberi ormai dalla, superbia, passano in mezzo a popolazioni che vivono in maniera estranea alla loro. La legge li precede sulla via regale81, senza farli deviare né a destra né a sinistra.
Non è infatti infrequente che il viandante imbocchi strade sbagliate. Come chi, percorrendo un sentiero che passi in mezzo a due precipizi sabbiosi, si trova nel pericolo di uscire fuori dal mezzo e precipitare nel baratro se devia verso destra o verso sinistra, così la legge esige che si vada dietro a lei e non ci si sposti o a destra o a sinistra per non abbandonare la strada veramente stretta e angusta, di cui parla il Signore (Mt 4, 25).
Il comando della legge indica che la virtù deve essere concepita come un bene situato nel mezzo, perché il male deriva appunto o da un difetto o da un eccesso di virtù.
Così la timidità è mancanza di coraggio, mentre la tracotanza è un coraggio eccessivo82. Nel mezzo tra questi due difetti opposti sta la virtù. Lo stesso vale di tutte quelle altre virtù per mezzo delle quali si attua il bene: esse stanno in mezzo tra due mali opposti.
La sapienza sta fra la scaltrezza e la semplicità. Se non è da lodare l’astuzia del serpente, neppure lo è la semplicità della colomba, quando queste qualità siano prese separatamente ma se le uniamo insieme, esse formano una forte virtù.
Chi è intemperante manca di saggezza ma chi esagera nella temperanza ha una coscienza malata, come dice l’Apostolo (1 Tm 4, 2). L’uno si abbandona senza ritegno ai piaceri, l’altro disprezza il matrimonio quasi fosse un adulterio. La fusione di questi due estremi costituisce la saggezza. Tutto ciò che si oppone alla virtù è male e non interessa quelli che seguono la legge poiché, come dice il Signore, questo mondo è tutto posto nel maligno (1 Gv 5, 19).
Chi in questa vita percorre la strada della virtù, riuscirà sicuramente a portare a termine il suo viaggio, se saprà mantenersi sulla strada regale che è la strada pulita della virtù e non devierà verso le strade informi del male, che s’aprono su ambedue i suoi lati.
LA MAGIA DELLE PASSIONI
La strategia del demonio
Già s’è detto che l’ascesa alla virtù è molestata dagli attacchi del nemico il quale escogita di volta in volta i mezzi più adatti a spingere i singoli al male.
Vedendo egli il popolo d’Israele molto avanti sulla strada che porta a Dio, imita i migliori strateghi e porta l’attacco su un altro fronte. Gli strateghi infatti, quando giudicano impossibile travolgere con un attacco frontale lo schieramento compatto dei nemici, fanno ricorso all’assalto di piccole pattuglie e alle imboscate.
Il grande stratega del male si comporta allo stesso modo, non attaccando direttamente coloro che la virtù e la legge hanno resi forti ma assalendoli dì nascosto con imboscate.
Le arti magiche
Egli si serve della magia per combattere i suoi oppositori. Un certo augure e indovino aveva il potere, secondo il racconto, di procurare la rovina ai nemici mediante l’aiuto del demonio. Costui fu pagato dal re dei Madianiti per lanciare maledizioni contro quelli che Dio proteggeva ma cambiò le maledizioni in benedizioni.
Già sappiamo dall’esposizione storica fatta all’inizio, che la magia nulla può contro chi pratica la virtù, poiché l’aiuto divino ci rende sicuri contro ogni assalto.
Il racconto ci assicura che il menzionato indovino esercitava la divinazione. Dice infatti che maneggiava i responsi e prendeva consiglio dal volo degli uccelli. In precedenza ci aveva informato che la voce del suo asino gli fece sapere ciò che aveva interesse di sapere.
La Scrittura ci attesta che in quella circostanza la voce dell’asino si espresse in suoni articolati, mentre normalmente l’indovino prendeva i suoi oracoli dal verso degli animali, in forza di un intervento demoniaco.
La Scrittura ci mostra anche come le persone soggiogate da questo inganno del demonio, giungano ad accogliere come insegnamento della ragione la voce delle bestie.
L’indovino, disposto ad accettare un insegnamento del genere, venne a sapere per mezzo delle stesse pratiche ingannatrici di cui era vittima, che il popolo d’Israele non avrebbe potuto essere vinto, nonostante i denari che egli aveva ricevuto per maledirlo.
Sappiamo dal Vangelo che un’intera massa di demoni si oppone alla potenza di Cristo. Essa infatti è chiamata legione.
Dicono i demoni: «Sappiamo che tu sei il Santo di Dio, venuto anzitempo a castigarci» (Mt 5, 9). Ciò avvenne anche quando il demonio, operando per mezzo di Balaam, gli fece sapere che il popolo ebreo era imbattibile e inattaccabile.
Da parte nostra, applicando a questi fatti il metodo di interpretazione fin qui seguito, affermiamo che nessuna maledizione, pronunciata contro le persone virtuose, può recare a loro danno o sofferenza. L’insulto o l’oltraggio non hanno la forza di turbare i seguaci della virtù.
Così l’accusa di cupidità, non può essere un insulto per chi non possiede nulla. Non è possibile rimproverare di dissolutezza chi vive da anacoreta. Il mite non può essere accusato di irascibilità né l’umile di superbia.
Coloro che sono conosciuti come persone contrarie a ogni azione biasimevole, potranno mai essere accusati di cose biasimevoli?
Essi mirano a non offrire motivo di biasimo nella loro vita affinché, come dice l’Apostolo, «siano confusi i nostri avversari, non avendo da dire di noi nessun male».
Perciò l’indovino che era stato assoldato per maledire, risponde: «Come maledirò colui che Dio non maledisse? Come insulterò chi non dà motivo a insulti e, guardando a Dio, ha reso la sua vita invulnerabile al peccato?».
LE FIGLIE DI MOAB
La malattia della sensualità
L’inventore del male, visto fallire questo piano, non desistette di molestare quelli che voleva assalire. Portò allora le sue macchinazioni su un terreno che gli è proprio e di nuovo trascinò gli uomini al peccato, servendosi del piacere sensuale.
Il piacere è veramente la pastura di ogni vizio. Esso, presentandosi sotto un aspetto attraente, trascina le anime più sensuali all’amo della morte. La natura corre verso questo male in maniera davvero irrefrenabile, ed è ciò che avvenne anche al tempo di Mosè.
Il piacere giunse, servendosi delle donne, a ferire con i suoi strali coloro che si erano dimostrati tanto validi nelle armi da ridurre all’impotenza nemici armati di ferro. Essi li volsero in fuga ma, come furono forti con gli uomini, altrettanto divennero deboli con le donne. Colpiti non dalle loro armi ma dalla loro avvenenza, le presero con sé e, dimentichi del valore e della forza che avevano acquistato, tutto dissiparono nel piacere. Quelle unioni illegittime con donne straniere provocarono il giusto risentimento degli altri. Mettendosi a contatto con il male quelle persone avevano perso l’appoggio del bene. Così Dio si adirò contro di loro ma Finees, acceso di zelo, non attese che il Signore decidesse come togliere di mezzo quel peccato. Di sua iniziativa divenne insieme giudice ed esecutore.
Egli, nell’ira contro gli impudichi travolti dalla fiamma della passione, esegui l’opera sacerdotale di purificazione del peccato non con il sangue di animali, cui non si poteva addossare la colpa di incontinenza, ma con il sangue di coloro che avevano fatto il male, unendosi a donne straniere.
La lancia che trafisse i loro corpi, trovati avvinti l’uno all’altro, fu lo strumento d’attuazione della giustizia di Dio; esso procurò loro la morte, nel momento stesso in cui si abbandonavano al piacere.
Mi pare che il racconto offra qui un utile insegnamento a tutti, ammonendoci che tra le molte passioni ostili allo spirito, nessuna ha maggior forza di quella che provoca in noi la malattia del piacere.
Questo fatto per cui gli Israeliti sono resi schiavi da donne straniere (essi che pure avevano avuto il sopravvento sulla cavalleria egiziana, avevano vinto gli Amaleciti, erano apparsi terribili ai popoli vicini, avevano sbaragliato l’esercito dei Madianiti), non dimostra forse la difficoltà di combattere tale passione, che si presenta come il nostro nemico più difficile da domare?
Il piacere, divenuto padrone di uomini che le armi non erano riuscite a sottomettere, va agitando davanti a loro il trofeo del disonore e porta a conoscenza di tutti la loro infamia.
Insolenza del vizio
Esso riduce gli uomini come bruti, dominandoli con l’istinto animalesco e irrazionale dell’incontinenza e facendo loro dimenticare di essere uomini. Senza preoccuparsi di tener nascoste le loro sacrileghe profanazioni, essi giungono a vantarsi di azioni disonorevoli, avvoltolandosi come porci nel fango dell’impurità apertamente, sotto gli occhi gli uni degli altri.
Tanta è la forza che ha la malattia del piacere di trascinarci al male, che dobbiamo stare attenti affinché non entri in noi da nessuna parte.
Il piacere è come un fuoco che comunica le sue fiamme devastatrici a quanto gli è vicino. Ce lo insegna Salomone nella Sapienza quando ci avverte di non mettere il piede nudo vicino a un carbone acceso e di non porre fuoco nel seno.
Se resteremo lontani da quanto fa divampare il fuoco, potremo godere perfetta quiete (Pro 6, 27). Se invece ci avvicineremo a questo calore avvampante fino a toccano, allora si accenderà in noi il fuoco del desiderio, che comunicherà al piede e al seno le sue fiamme scottanti.
Il Signore nel Vangelo, per tenerci lontani da questo male, volle che stroncassimo alla radice il desiderio passionale, avvertendoci che la malattia della sensualità penetra in noi attraverso gli sguardi colpevoli (Mt 5, 19).
Le impressioni cattive infatti, una volta che abbiano preso possesso dei punti chiave del nostro essere, sono come una peste che soltanto la morte può far cessare.
LA PERFEZIONE È NEL PROGRESSO
Credo che non occorra prolungare il nostro discorso, ora che abbiamo esposto al lettore tutta la vita di Mosè come esempio di virtù.
Ciò che abbiamo detto costituirà un aiuto non indifferente per chi aspira alla vera saggezza in una vita spirituale. Ma chi per pigrizia si arresta davanti alle fatiche della virtù, non troverà giovamento nelle molte cose di cui abbiamo discorso e tanto meno in quelle che potremmo aggiungere.
Ma perché non ci si dimentichi che nessun limite circoscrive la vita perfetta e ne può arrestare il progresso (questo concetto fu ribadito con forza nella prefazione), sarà utile, al termine del nostro discorso sulla vita di Mosè, mostrare che la definizione della virtù da noi data, ha un fondamento sicuro.
Quando nacque Mosè, il fatto di avere genitori ebrei era considerato un delitto. Sottratto alle imposizioni di un decreto tirannico che lo condannava a morte, egli fu salvato prima dai suoi genitori, poi dagli autori stessi di quel decreto.
Costoro, che pure avevano voluto la sua morte, si preoccuparono di allevarlo e dargli un’educazione raffinata, facendolo istruire in ogni ramo del sapere. Cresciuto che fu, non tenne in alcun conto gli onori umani e la stessa dignità regale, perché sapeva che custodire la virtù significa possedere una forza e una dignità più valida e più degna di qualsiasi guardia del corpo e di qualsiasi pompa regale. Qualche tempo dopo, egli salvò un suo compatriota, assalendo l’egiziano con un colpo mortale.
Noi, che facciamo un’esegesi spirituale, abbiamo visto simboleggiato nell’egiziano il nemico della nostra anima. Mosè invece, è il simbolo di chi ci è amico.
Prima che la luce sfavillante dal cespuglio giunga a riempire lo spirito di Mosè, egli apprenderà altissimi insegnamenti nel silenzio del deserto. Poi si darà pensiero di far conoscere ai suoi compatrioti le cose meravigliose che Dio aveva operato in suo favore. In quell’epoca della sua vita per due volte diede prova di poteri straordinari, dapprima combattendo i nemici attraverso molteplici castighi, poi beneficiando i compatrioti.
Non avendo a disposizione per la traversata del mare una flotta di navi, fece in modo che il popolo lo attraversasse a piedi, sostituendo alle navi la fede che aveva saputo infondere in loro.
Rese allora asciutto il fondo del mare, perché gli Ebrei potessero attraversarlo. Fu lui che fece ritornare le acque del mare come erano prima, per annegarvi gli Egiziani e allora intonò l’inno di vittoria. Poi lo guidò una colonna di nube e lo illuminò un fuoco celeste. Provvide ai suoi un cibo disceso dal cielo, fece scaturire dalla pietra acqua abbondante, vinse gli Amaleciti col semplice gesto di stendere le mani. Salito il monte, si spinse dentro la nube e udì il suono delle trombe.
Si accostò a Dio, penetrò nel tabernacolo celeste, corresse con la legge i costumi del popolo, vinse le più dure battaglie, come si è detto. Quando le sue imprese volgevano alla fine, fece castigare l’incontinenza per mezzo del sacerdozio; questo appunto significa la vendetta di Finees contro gli incontinenti.
Dopo tutto ciò, salì al monte del suo ultimo riposo. Egli non metterà piede nella terra promessa, che si stendeva davanti ai suoi sguardi e a quelli di tutto il popolo. Avendo avuto come alimento il cibo del cielo, non toccò più cibo terreno e, giunto in cima al monte, non volle mettere una corona alla statua della propria vita83, intorno alla quale si era affaticato come abile scultore. Di lui dice la Scrittura: «Mosè, servo di Dio, morì per volere di Dio». Nessuno conobbe il suo sepolcro, i suoi occhi non si offuscarono né il suo volto si deturpò.
IL SERVO DI DIO
Così sappiamo che egli fu ritenuto degno, per le sue azioni, di essere chiamato servo di Dio, titolo di grandissimo onore che dimostra come si sia innalzato al di sopra di tutto ciò che è nel mondo.
Nessuno infatti potrebbe servire Dio, se non si innalza al di sopra di tutto ciò che è nel mondo. Il termine della sua vita, fissato da Dio, è chiamato dalla Scrittura col nome di morte, ma si trattò di una morte vivente perché a essa non seguì sepoltura, per essa non si innalzò un monumento funebre, essa non assomigliò a quella che fa chiudere gli occhi per sempre e deturpa il volto. Da ciò dobbiamo apprendere a considerare come unico fine della vita quello di meritare, attraverso le nostre opere, il titolo di servi di Dio.
Quando tu, sgominati tutti i nemici: l’egiziano, l’amalecita, l’idumeo, il madianita, avrai attraversato il mare e sarai stato illuminato dalla nube e addolcito dal legno; quando, bevuta l’acqua sgorgante dalla pietra, avrai gustato il cibo che scende dall’alto e con purità e innocenza ti sarai apprestato a salire il monte e là giunto avrai sentito suonare le trombe del divino mistero e, dopo esserti avvicinato a Dio nella densa caligine della fede, ti saranno stati rivelati i misteri del tabernacolo e la dignità del sacerdozio, quando avrai preparato il tuo cuore come fa il tagliapietre così che Dio vi possa incidere le sue parole, quando avrai distrutto l’idolo d’oro, eliminando dalla tua vita la passione dell’avarizia84 e ti sarai portato tanto in alto che la magia di Balaam non potrà raggiungerti (sentendo parlare di magia devi intendere i diversi inganni di questa vita per effetto dei quali gli uomini, come ammaliati dal filtro di Circe, perdono i caratteri della loro natura e assumono la figura di animali); quando avrai provato tutto ciò e in te sarà fiorita la verga del sacerdozio (quella che non assorbe nessun umore dalla terra onde giungere a fioritura ma produce da sé stessa il frutto di nocciolo, amaro e aspro all’esterno, dolce e buono di dentro); quando, eliminato tutto ciò che si oppone alla tua dignità, lo seppellirai come fu di Datan o lo distruggerai con il fuoco come avvenne di Kore, allora sarai vicino al termine.
Parlando di termine, io intendo quella realtà in vista della quale uno agisce. Termine del lavoro dei campi è in tal senso la raccolta dei frutti, termine della costruzione della casa è l’abitarvi, termine del commercio è la ricchezza, termine degli sforzi atletici è la corona. Parimenti il termine della vita spirituale è giungere a essere chiamati servi1ori di Dio.
La Scrittura non dice che Mosè fu messo in una tomba e questo indica la rimozione dalla nostra vita di ogni impedimento del male. La Scrittura accenna anche a un’altra caratteristica propria di chi ha servito Dio, cioè che l’occhio di Mosè non diminuì la propria forza visiva e il suo volto non subì deturpazioni. Come è possibile infatti che le tenebre avvolgano un occhio sempre immerso nella luce e perciò ignaro di tenebre?
Colui che in tutta la sua vita ha cercato le cose che non periscono, non può subire nessuna deturpazione. Chi è realmente divenuto simile a Dio e mai si è scordato di lui, non solo porta sopra di sé i tratti della fisionomia di Dio, ma raggiunge una perfetta somiglianza col suo modello, ottenendo che la sua anima resti immune da corruzione, da mutamenti e dal dominio del male.
CONCLUSIONE
O Cesareo, a te, uomo di Dio, abbiamo sottoposto in un breve discorso ciò che riguarda la perfezione della virtù, presentandoti Mosè come modello di una vita così bella affinché, imitandone le azioni, ciascuno riproduca in sé stesso le linee caratteristiche di questa bellezza, che abbiamo contemplato.
Che Mosè abbia raggiunto il più alto grado possibile di perfezione, stanno a dimostrano inequivocabilmente le parole da Dio a lui rivolte: «Io ti conobbi prima di tutti gli altri».
Dio stesso lo ha chiamato amico. Anch’egli avrebbe dovuto morire insieme con gli altri peccatori, se Dio nella sua benevolenza non si fosse placato; ma fu lui a placare l’ira del Signore contro gli Israeliti. Dio cambiò proposito, per non causare dolore a Mosè che gli era amico.
Tutte queste cose e altre consimili testimoniano chiaramente che Mosè ha raggiunto nella sua vita la vetta dell’altissimo monte della perfezione.
Con ciò crediamo di aver attuato il nostro proposito, che mirava a cercare in che cosa consiste la perfezione della vita secondo virtù.
Procura, o uomo generoso, di meditare questi insegnamenti, ricavati dai fatti attraverso un’interpretazione eminentemente spirituale e applicali alla tua vita personale, perché anche tu possa essere conosciuto da Dio e diventare suo amico.
Questa appunto è la vera perfezione: staccarsi dal male non per la servile paura del castigo e compiere il bene non per la speranza del premio, quasi usando nel campo della virtù di una mentalità commerciale e affaristica.
Ogni attesa di ricompensa promessa o sperata deve passare in secondo ordine, così che soltanto la perdita dell’amicizia di Dio, resti l’unico vero motivo di paura e il divenire amici suoi sia giudicata la cosa più onorevole e desiderabile.
Se si troveranno in te queste disposizioni di spirito ora che ti sei innalzato a pensieri più spirituali e divini, (ben so che esse ci saranno in misura sovrabbondante), comune sarà il vantaggio che ne verrà, in Cristo Gesù, al quale gloria e potere nei secoli. Amen!