La morte dei primogeniti (Es 12,29 30)
Tuttavia il fatto che rese più evidente questa diversità tra Ebrei ed Egiziani, fu la morte dei primogeniti. Davanti ai loro figli più cari trovati morti, gli Egiziani levarono grandi grida di dolore, mentre tra gli Ebrei c’era piena tranquillità e sicurezza. Essi infatti avevano segnato gli stipiti delle porte di ogni loro casa con il sangue degli agnelli uccisi e questa fu la ragione della loro salvezza.
La partenza degli Ebrei (Es 12,37 42)
Mosè non appena vide gli Egiziani colpiti indistintamente con la morte dei loro primogeniti e, per tanta disgrazia, immersi nel dolore e nel pianto, diede agli Israeliti l’ordine della partenza, rendendoli docili con l’invito a chiedere agli Egiziani le loro suppellettili, a titolo di prestito.
L’inseguimento (Es 14,5 9)
Per tre giorni gli Ebrei camminarono fuori dei confini dell’Egitto, ma l’Egiziano, ci dice la storia, dispiaciuto che Israele non fosse più sottoposto alla sua schiavitù, decise di assalirli con la forza, mandando contro di loro un esercito di cavalieri. Alla vista dell’esercito con armi e cavalli gli Ebrei, poco pratici di guerra e non abituati a tali spettacoli, si spaventarono e si ribellarono a Mosè. Ma qui la storia riferisce sul conto di questi un fatto quasi incredibile: mentre infatti egli moltiplicava le energie per incoraggiare i suoi, esortandoli a nutrire buone speranze, nel suo intimo supplicava il Signore che li liberasse dalle angustie. Riferiscono che Dio intese quel grido silenzioso, consigliando a Mosè come scampare dal pericolo.
La nube (Es 13,21 22)
Intanto era apparsa una nube a far da guida al popolo. Essa non consisteva di vapori umidi, soggetti a condensazione, come normalmente avviene. Era una nube dalla straordinaria composizione cui corrispondevano altrettanto straordinari effetti. Infatti era guidata dal Signore e, se stiamo alle informazioni del racconto, avveniva questo: quando i raggi del sole splendevano con forza, la nube faceva da riparo al popolo, mandando ombra a chi le stava sotto e insieme una sottile rugiada, che rinfrescava l’aria infuocata; di notte invece, si trasformava in fuoco che, da sera fino all’alba, mandava luce sul cammino degli Israeliti3.
Il passaggio del Mar Rosso (Es 14, 5 31)
Mosè la seguiva e altrettanto raccomandava di fare al popolo. Giunsero così, dietro tale guida, sulle rive del Mar Rosso. Ma l’esercito egiziano piombò alle spalle degli Israeliti, mettendoli in grave angustia, poiché non avevano altra via di scampo che spingersi dentro il mare. Sorretto dalla forza di Dio, Mosè operò allora un prodigio grande, incredibile. Stando sulla riva del mare, ne colpì con la verga le acque ed ecco, sotto i colpi della verga, il mare si divise e le onde, rotte a una estremità, portarono la loro spaccatura fino alla riva opposta, proprio come succede in un vetro, quando la frattura fatta a un capo si estende fino all’altro capo.
Tutti, Mosè e il popolo, scesero nel fossato che aveva diviso in due il mare e lì non solo si trovarono all’asciutto, ma perfino il sole arrivò ad avvolgerli con la sua luce. Attraversarono allora a piedi il fondo asciutto del mare, senza paura delle pareti di ghiaccio che di qua e di là si levavano come un muro4. Anche il Faraone entrò coi suoi per la strada aperta in mezzo alle acque, ma queste subito tornarono ad accavallarsi e confondersi e il mare, ripresa uniformità d’aspetto, ricominciò a fluire alla maniera consueta.
Quando gli Israeliti avevano ormai terminato il tragitto sul fondo del mare e si trovarono sull’altra riva, intonarono un inno di vittoria in onore del Signore, che aveva drizzato innanzi a loro un trofeo non intriso di sangue5 e aveva sommerso nelle acque gli Egiziani, con cavalli, carri e armi.
Le acque di Mara (Es 15, 22 25)
Avanzarono nel deserto per tre giorni, senza trovare acqua. Mosè era preoccupato per l’impossibilità di soddisfare la sete di tante persone. Si accamparono attorno a una palude dalle acque salate e più amare di quelle del mare. La gente, divorata dalla sete, fissava, seduta sui bordi, l’acqua della palude. Ma ispirato da Dio, Mosè andò in cerca di un pezzo di legno e lo gettò nelle acque: subito esse divennero dolci.
Per effetto del legno, l’acqua amara era diventata dolce. Poiché la nube riprese a precederli, essi non avevano che da seguire gli spostamenti di quella guida, stando a questa regola: se la nube si fermava sospendevano la marcia; viceversa quando riprendevano il cammino, la nube tornava a guidarli.
Le palme di Elim (Es 15, 27)
Seguendola, giunsero in una località ricca di buone acque, che zampillavano tutt’intorno da dodici abbondanti fonti, ombreggiate da un boschetto di palme. Erano appena settanta queste palme, ma tanto alte, belle e grosse da lasciare meravigliati chi le mirava.
L’acqua dalla roccia (Es 17, 1 7)
La nube li guidò verso un’altra località, dove fecero sosta. Il luogo era deserto, coperto di sabbia asciutta e bruciata, senza alcuna vena d’acqua che lo inumidisse. Di nuovo allora tornò la sete a tormentarli e Mosè procurò acqua dolce, buona e abbondante più del bisogno, facendola ancora scaturire da una roccia della collina, colpita con la sua verga.
La manna (Es 16, 9 27)
Intanto si era esaurita la provvista di cibo che ciascuno aveva preso per il viaggio e si trovavano ormai stretti dalla fame, quando avvenne un’incredibile meraviglia. Il cibo arrivò non dalla terra come è normale, ma dal cielo, al pari di rugiada. Proprio come una rugiada infatti esso scendeva di mattina, ma nell’atto in cui lo raccoglievano, trovavano che si trattava di cibo. Non erano infatti delle gocce, come avviene nella rugiada, ma certi grani cristallini, simili al seme di coriandro, rotondi e dal sapore di miele.
I fatti riguardanti la raccolta di questo cibo hanno dello straordinario: succedeva anzitutto che i più deboli non raccogliessero meno degli altri, tutti invece finivano per avere una porzione eguale, anche se età e capacità fisiche erano differenti e ciascuno cercasse di raccoglierne in proporzione dei propri bisogni.
Ma non mancava qualcuno che, non accontentandosi del fabbisogno quotidiano, ne ammassava per il giorno seguente. Orbene, la porzione accantonata diveniva immangiabile, trasformandosi in vermi.
Solo nel giorno precedente a quello consacrato, per mistica ragione, al riposo, ognuno scopriva di aver raccolto una porzione doppia, nonostante che la quantità discesa e raccolta fosse la medesima degli altri giorni. Avveniva questo, perché la necessità di raccogliere il cibo, non servisse di pretesto per violare la legge del sabato. Si trovavano dunque di fronte a una più chiara manifestazione della divina Potenza. Infatti negli altri giorni, il cibo preso in più si guastava; esso invece restava intatto e non meno fresco del solito, quando veniva raccolto per il sabato, che era il loro giorno festivo.
Vittoria sugli Amaleciti (Es 17, 8 16)
Gli Amaleciti, una popolazione straniera, mossero guerra contro di loro. Era la prima volta che il popolo d’Israele scendeva armato a combattere. Furono in realtà uomini appositamente scelti quelli che sostennero la battaglia, non già tutto il popolo, ma veri e propri soldati, in grado di condurre una guerra. In quell’occasione Mosè sperimentò una strategia nuova.
Nel tempo stesso in cui l’altro capo degli Israeliti, Giosuè, muoveva con l’esercito contro gli Amaleciti, Mosè in disparte stava sopra un colle, con gli occhi rivolti al cielo, assistito di qua e di là da due aiutanti. Il racconto ci fa sapere che l’esercito d’Israele aveva il sopravvento sui nemici, fin quando Mosè teneva sollevate le mani al cielo; cedeva invece ai loro assalti, quando anche le mani di Mosè si lasciavano andare. Ciò costatando, i due assistenti pensarono di tenergli sollevate le braccia, divenute, per ignote ragioni, troppo pesanti per stare alzate da sole. Ma anch’essi si stancarono di restare in quella posizione e perciò fecero accomodare Mosè su un seggio di pietra; così gli fu più facile tener sollevate le mani verso il cielo. Nel frattempo gli Israeliti riuscirono a travolgere i loro nemici.
La nube continuava a guidarli dall’alto e, seguendola, non avrebbero potuto perdere la giusta direzione. Avevano dunque di che vivere senza troppe fatiche, giacché il pane pioveva dal cielo già pronto, né mancava acqua da bere, scaturendo essa dalla roccia. La nube da parte sua li proteggeva contro il calore del giorno, e di notte, risplendendo come fuoco fiammeggiante, disperdeva le tenebre.
La teofania del Sinai (Es 19, 1 24)
Durante una sosta nel deserto ai piedi di una montagna, dove avevano piantato l’accampamento, subirono una prova dolorosa. In compenso là furono iniziati da Mosè ai misteri divini. Fu anzi Dio stesso che introdusse Mosè e il popolo ai suoi misteri per mezzo di grandiosi miracoli. Questa mistagogia avvenne in questo modo. Fu dato ordine al popolo che si tenesse lontano da ogni impurità di corpo e di anima. Dovevano anche compiere diverse abluzioni e astenersi dal matrimonio in determinati giorni. Purificati da queste osservanze e liberate le loro anime dalle passioni, essi dovevano salire verso il monte, per essere introdotti ai misteri di Dio6.
Il nome di questa montagna era il Sinai. L’accesso a questo monte era permesso solo alle persone di sesso maschile, purché si fossero purificate da ogni macchia. Venne predisposta anche una rigorosa sorveglianza per impedire che non vi si trovasse nessun animale e per scacciano immediatamente, qualora se ne fosse scoperta la presenza.
L’aria, prima chiara e luminosa, si fece improvvisamente oscura e una nube venne a coprire il monte. Davanti a simile spettacolo, molti incominciarono a tremare di paura e ancor più s’impaurirono, quando videro un fuoco provenire dalla nube e circondare tutta la montagna insieme a nubi di fumo.
Mosè avanzava davanti a tutti, ma anch’egli guardando a quanto succedeva, si sentiva agitato dalla paura. Tremava al pari degli altri e, non riuscendo a nascondere il suo stato d’animo, confessò apertamente il terrore che si era impossessato di lui, visibile del resto anche dal tremore delle sue membra.
Dall’apparizione usciva un suono terrificante così che la loro paura traeva alimento dalla vista e dall’udito. Era un suono simile a quello di numerose trombe, grave e spaventevole come mai fu dato di udire. Nessuno, al suo primo esplodere, poté sostenerne il rimbombo. Più il suono si avvicinava e si spandeva attorno, più metteva paura. Poi, per divina virtù, si espresse in voce articolata, come quella degli organi vocali e formulò un discorso, ritrasmesso dall’aria. Non erano parole di cui si potesse tener poco conto, poiché esse comunicavano gli ordini di Dio.
Avvicinandosi, la voce cresceva di intensità e le parole risuonavano assai più forti e distinte che non il suono di tante trombe, come era all’inizio7.
Ma il popolo non riuscì né a sostenere la visione, né a percepire i suoni. Tutti allora, di comune accordo, chiesero a Mosè che si incaricasse di trasmettere loro gli ordini provenienti dalla voce8.
Tutti erano persuasi che si trattasse di un insegnamento soprannaturale, ossia di una rivelazione divina. Essi si ritrassero e scesero dal monte, lasciandovi Mosè, solo. In lui allora successe il contrario di quanto avviene normalmente. Rimasto solo, si sentì pieno di coraggio, come nessun altro avrebbe potuto averne, mentre di fronte a cose spaventose di solito si prende coraggio quando si è in molti.
Questo significa che la paura iniziale non derivava propriamente da lui, ma dall’influsso che su di lui aveva la paura degli altri. Non appena egli fu lontano dalla folla timorosa, ebbe l’ardire di entrare solo nella nube e, scomparso ormai alla vista di chi lo guardava, s’accostò alle realtà invisibili.
Non visto, stava dunque vicino all’Essere invisibile, insegnando, a mio parere, con questo fatto, che chiunque voglia unirsi a Dio deve estraniarsi dalle cose visibili, per volgere la sua mente alla cima di quei monte che è l’Essere invisibile e incomprensibile, cioè l’Essere divino. Esso si trova là dove non può arrivare la comprensione dell’intelligenza.