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Meditazioni per le festività (di Mons.Riboldi)

Ultimo Aggiornamento: 07/07/2017 21:39
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18/08/2014 07:41
 
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 XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


 Donna, davvero grande è la tua fede


È davvero commovente l’episodio dell’incontro della donna cananea con Gesù, che Matteo ha voluto – tra i tanti – ricordare e proporre a tutti noi, perché quella donna ha avuto una fede che è una vera lezione per tutti, sempre. (Mt. 15, 21-28)


Ammiriamo innanzitutto l’umiltà e fiducia con cui si rivolge al Maestro: ‘Pietà di me Signore!’, non per se stessa, ma per amore della figlia ‘crudelmente tormentata da un demonio’.


Non era una donna che apparteneva ai discepoli di Gesù. Questi provenivano dal ‘popolo ebreo’, il popolo eletto, che Dio aveva scelto per la nostra salvezza. Lei era una straniera – diremmo oggi un’extracomunitaria! -  Apparentemente, non aveva nulla da condividere con Gesù.


E Gesù – da pedagogo – evidenzia questa disparità: ‘Ma Gesù non le rivolse neppure una parola’, come se le sofferenze di chi non Gli apparteneva, non Lo interessassero.


Sembra davvero voglia evidenziare le nostre stesse discriminazioni!


Quante volte, di fronte alle tragedie di tanti, che cercano da noi ‘le briciole che cadono dalle nostre tavole’, pare che non solo non ci interessino, ma – Dio ci perdoni – li respingiamo.


Fa molto riflettere il grido della donna Cananea – ‘Pietà - e l’apparente indifferenza di Gesù, che pare ‘mettere tutti alla prova’! Infatti  i discepoli si trovano quasi ‘costretti’ a scuotere ‘l’indifferenza’ del Maestro: ‘Esaudiscila, non vedi come ci grida dietro?’.


Più che un vero atto di amore, chiedono di ‘togliersela dai piedi’, ascoltandola, perché dava fastidio.


La Cananea non si lascia affatto fermare, ma delicatamente affronta Gesù, con parole di umiltà, fiducia, mettendosi nelle sue mani, al di là di ogni appartenenza.


E Gesù continua a mettere anche lei alla prova: ‘Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini’. Ma la risposta di lei pare sorprendere lo stesso Gesù: ‘E’vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni’.


A questo punto Gesù si commuove e ascolta ed esprime la sua meraviglia con un’affermazione, che vorremmo sentirci dire tutti: ‘Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri’.


Un episodio che davvero diventa ‘un’icona di accoglienza e fede totale’.


L’insegnamento di Gesù, ci offre l’occasione di riflettere insieme sul tema dell’accoglienza verso il ‘diverso’, che rischia, se dimenticato, di far degenerare la civiltà dell’amore che, per noi cristiani, è il cuore della fede. Gesù ci chiede – con raffinata pedagogia - di superare ogni divisione tra gli uomini.: tutti agli occhi del Padre sono figli, a qualunque etnia appartengano, qualunque sia la loro fede, la loro origine, la loro provenienza. Tutti vanno amati, ascoltati, accolti.


Penso a quei ‘barconi di disperati’ che, provenienti dalle coste africane, dopo un estenuante viaggio nel deserto, fuggendo dai loro Paesi, per sottrarsi alla violenza o, ‘più semplicemente’, alla fame, vengono da noi e ci urlano il diritto alla vita. C’è da lodare la generosità della nostra Marina che, quando vede, soccorre e salva. Ma giunti a riva, li attende il cosiddetto Centro di prima accoglienza, per poi, in tanti casi, dopo mesi, se non anni, rimandarli all’inferno da cui provengono, perché ‘clandestini’. Fa male anche solo scorgere indifferenza o fastidio verso di loro, incredibile poi sentire certi discorsi, in nome della sicurezza, di cittadini o peggio ancora di politici, al limite della xenofobia.  E cosa dovremmo dire di tanti che ‘usano i clandestini’, per un lavoro ‘in nero’, mal pagato e quindi con uno sfruttamento di poveri, che è un grave furto. Che cosa è più grave? Chi condannare? I clandestini che sottostanno a qualsiasi condizione, cercando a caro prezzo un pane per vivere o chi sfrutta il loro bisogno?


Nessuno vuole negare l’atteggiamento criminale di alcuni che, con i loro comportamenti, danneggiano i propri connazionali, ma quello che si deve evitare è ogni sentimento razzista, che cancella il cuore del Vangelo: ‘Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi’, ricordando che la ‘zizzania’ è presente ovunque tra il seme buono e spetta al Padrone della messe discernere l’una dall’altro. E poi davvero non abbiamo memoria storica. Non ricordiamo che, in tante ondate, dall’inizio del ‘900, noi stessi abbiamo cercato dignità di vita ed accoglienza negli Stati Uniti e in tutta l’America del Sud, dove oggi vi è ‘la ricchezza di tante nazionalità’: come mai oggi siamo ‘ciechi e sordi’ di fronte ad emergenze umane di una tale gravità?


La sofferenza, che la Chiesa prova davanti al rifiuto, discriminazione, sfruttamento, dolore e morte di tanti nostri fratelli e la dura realtà che affrontano ogni giorno i migranti, è stata spesso testimoniata da Papa Francesco: “Migranti e rifugiati non sono pedine sullo scacchiere dell’umanità”, ha sottolineato Papa Francesco, invocando “unreciproco aiuto tra i Paesi” per superare le difficoltà legate al fenomeno, tra cui ipregiudizi e le paure delle popolazioni nei confronti del diverso. E di fronte alla strage di migranti di Lampedusa non ebbe mezzi termini.


Papa Francesco non si è trattenuto: ‘Viene la parola vergogna. È una vergogna’.


Anche noi, come la Cananea, dovremmo saper ritornare a rivolgerci a Gesù, abbandonandoci nelle sue mai, con totale fiducia, perché ci sostenga in questo nostro impegno di aiuto concreto e sostegno del fratello, di ogni fratello. Spesso siamo proprio come la figlia della Cananea, che aveva bisogno di essere guarita. Anche il nostro cuore deve essere liberato dal male dell’indifferenza e del disinteresse, per ritrovare una fede totale e semplice, che si affida, senza tanti ragionamenti, spinta dall’amore, a Colui in cui sente di poter porre la sua fiducia, per la salvezza dei fratelli.


Una fiducia ripagata che meriterà per sempre quella splendida lode, che vorremmo sentire rivolta anche a noi: ‘Donna davvero grande è la tua fede!’.


 


Antonio Riboldi – Vescovo –


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26/08/2014 08:44
 
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XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Voi chi dite che Io sia?


Sappiamo tutti come il termine ‘cristiano’ il più delle volte sia semplicemente ‘un aggettivo’ e non un ‘modo di essere’, che testimonia e interpreta il dono della vita, ossia, come afferma Paolo: ‘Per me vivere è Cristo’.

Eppure ci troviamo di fronte ad un presente che conosce tanti che vivono sul serio Cristo, ne sono testimoni viventi e ritengono che Lui sia la sola Persona, il solo Bene da coltivare e a cui donarsi, in altre parole Gesù è ‘la Via, la Verità e la Vita’, e sono di Cristo fino a ritenere un dono il testimoniare il loro amore dando la vita, con il martirio.

Penso tante volte a fratelli nella fede, in Paesi dove è assolutamente proibita ogni forma di religione o domina l’integralismo islamico, e dove professare apertamente la fede cristiana significa carcere duro e, non sono pochi i casi in questi ultimi mesi, la pena di morte.

Vescovi, sacerdoti e tanti semplici cristiani hanno sperimentato l’asprezza del carcere duro per tanti anni, ma non si sono mai arresi.

Tanti vivono la ‘passione di Cristo’ oggi, in tutto il mondo, spesso dai mass-media, perché ‘non fanno notizia’, ma ‘seme di nuovi cristiani’ nel piano di Dio -

Chiedere loro: ‘Chi dite che sia il Figlio dell’uomo?’ Li sorprenderebbe, perché, con evidente stupore, direbbero sicuri: ‘Tutto, la nostra vita’.

Ricordo mia mamma, innamorata di Gesù, che, quando con papà affermava: ‘Gesù è davvero tutto per me’, lui scherzando rispondeva: ‘Allora per me è rimasto nulla!?’.

Così come tanti, nei conventi, nella vita comune, vivono davvero un’esistenza in cui Cristo è il tutto. Sono ‘la luce del mondo, il sale della terra’ e quello spazio tra noi, in cui Dio si mostra vivo, come fu al tempo di Gesù.

Forse, per tanti, questo modo discreto che prende le distanze dai tanti ‘rumori del mondo’ - capace solo di promettere illusioni, che spesso si rivelano amare – questo stile tipico dell’amore, che si dà senza rumore, non fa presa.

Purtroppo è questa superficialità, che sconfina nell’indifferenza religiosa o nell’ateismo pratico, in cui Gesù conta poco o nulla, quella che regna su troppi.

Ma se è meravigliosamente bello, divino, farsi conquistare da Gesù, è terribilmente triste vivere senza di Lui: un’assenza, quella di Gesù, che a volte porta ad odiare la stessa vita.

Così Gesù, oggi, interpella i ‘suoi’ sulla Sua identità. Scelti da Lui, si erano lasciati affascinare. Chissà quanti sogni nutrivano gli apostoli. Ma erano sogni di mondo o di Cielo?

Avevano scelto di seguire Lui o quello che speravano di ricevere da Lui?

Narra il Vangelo:

“In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: ‘La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?’. Risposero: ‘Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremia o qualcuno dei profeti’.

Disse loro: ‘Ma voi chi dite che io sia?’. Rispose Simon Pietro: ‘Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente’. E Gesù gli disse: ‘Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli’.

Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. (Mt. 16, 13-20)

La domanda, posta da Gesù stesso: ‘Voi chi dite che io sia?’ è rivolta ancora agli uomini di oggi, a noi personalmente. Io, cosa penso di Cristo? Forse lo conosciamo perché Egli vive con noi, in una società, in cui ancora traspaiono i Suoi principi. Lo conosciamo, forse, per l’educazione religiosa ricevuta.

Ma la domanda resta e le nostre labbra, sovente, sono senza risposta, o perlomeno senza una risposta piena, perché la sentiamo troppo impegnativa, grave, perché implica tutto il nostro destino umano e spirituale: conoscerLo vorrebbe dire seguirlo e vivere per Lui e in Lui.

La sua figura rimane così vaga e sbiadita, e, come i discepoli colti nella tempesta sul lago, vedendoLo venire, camminando sulle acque, grideremmo: ‘E’ un fantasma!’.

Così la nostra conoscenza di Cristo è rudimentale, frammentaria, incerta o forse fredda, se non ostile. Lo conosciamo senza amarLo, Lo ‘supponiamo’ senza conoscerLo, trascurandoLo e dimenticandoLo. Oppure come scriveva don Tonino Bello: ‘Conosco molti cristiani, e tra questi ci sono anch’io, che si aggrappano al Signore, perché hanno paura, ma non si abbandonano a Lui perché Lo amano. E questo non è un abbraccio di tenerezza, è un prodotto della paura. Noi al Signore ci dobbiamo abbandonare. … Ecco, così è Gesù Cristo: Lui per ognuno ha una parola particolare. Ha una parola di tenerezza, di incoraggiamento. Noi dobbiamo riscoprirla soltanto.

Ma come può avvenire questo reale e vivo incontro? Abbiamo una direttiva sicura nelle parole pronunciate da Papa Francesco in un’omelia a Santa Marta: “La domanda – ‘Chi sono io per voi, per te?’ – a Pietro, soltanto si capisce lungo una strada, una lunga strada di grazia e di peccato, una strada di discepolo. Gesù non ha detto 'Conoscimi!' ha detto ‘Seguimi!’. Seguire Gesù con le nostre virtù, anche con i nostri peccati, ma seguire sempre Gesù. Non è uno studio di cose che è necessario, ma è una vita di discepolo. Ci vuole un incontro quotidiano con il Signore, tutti i giorni, con le nostre vittorie e le nostre debolezze”.

Ma, ha aggiunto, è anche “un cammino che noi non possiamo fare da soli. … Conoscere Gesù è un dono del Padre, è Lui che ci fa conoscere Gesù; è un lavoro dello Spirito Santo, che è un grande lavoratore e lavora in noi, sempre. … Chiediamo al Padre che ci dia la conoscenza di Cristo nello Spirito Santo, ci spieghi questo mistero”.

Antonio Riboldi – Vescovo
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06/09/2014 07:52
 
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XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


 Un bene perduto: l’ammonizione


 


Oggi la Parola di Dio ci invita al dovere di carità dell’ammonizione. Credo che, chi ama il fratello, non può tacere di fronte ai suoi errori, magari compiuti senza sapere neppure che sono tali. Quante volte capita – a tutti! – Di ‘uscire dalla strada buona della vita’ e non esserne pienamente consapevoli!


Se si ama davvero, non si può tacere.


Ci sono troppi silenzi pericolosi, nella politica, nell’economia, nella scuola, nella famiglia: silenzi che fanno tanto male a tutti. Quanto deve farci temere il silenzio sui mali attorno a noi, magari con la scusa ‘fanno tutti così’ oppure ‘che male c’è?’! Non è questo che Gesù ci insegna. Ascoltiamo:


“Disse ai suoi discepoli: ‘Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra, sarà sciolto in cielo”. (Mt. 18, 15-20)


Ma è necessario che a muoverci nell’ammonimento non sia l’esibizione di un’immunità personale dall’errore e neppure la troppo facile tendenza a giudicare o condannare, spesso con motivazioni, più o meno consapevoli, che nulla hanno a che fare con l’amore, tanto meno il ‘criticare’, fermandosi ad una visione superficiale su chi ci sta vicino o ‘ci passa’ vicino.


Papa Francesco, in un’omelia in Santa Marta, con il suo stile diretto e incisivo ha detto: ‘Chi giudica un fratello sbaglia e finirà per essere giudicato allo stesso modo. Dio è l’unico giudice e chi è giudicato potrà contare sempre sulla difesa di Gesù, il suo primo difensore, e sullo Spirito Santo. … Se noi vogliamo andare sulla strada di Gesù, più che accusatori dobbiamo essere difensori degli altri davanti al Padre. Io vedo una cosa brutta a un altro, vado a difenderlo? No! Ma stai zitto! Vai a pregare e difendilo davanti al Padre, come fa Gesù. Prega per lui, ma non giudicare! Perché se lo fai, quando tu farai una cosa brutta, sarai giudicato. Ricordiamo questo, ci farà bene nella vita di tutti i giorni, quando ci viene la voglia di giudicare gli altri, di sparlare degli altri, che è una forma di giudicare”.


E’ quanto ci dice oggi S. Paolo, nella lettera ai Romani:


“Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole …


L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”. (Rom. 13, 8-10)


L’ammonizione, di cui parla Gesù, infatti, non ha nulla a che vedere con il facile giudizio, ma è il dono umile, fatto con carità, per aiutare a uscire dal male, e non deve mai essere e neppure apparire quasi una superiorità, ma solo desiderio profondo di bene.


C’era un tempo in cui le nostre mamme non lasciavano mai sfuggire un tratto sbagliato della nostra vita. Sapevano, nel loro grande amore, che era un volerci bene e che, se non correggevano a tempo debito, si rischiava che il male diventasse una triste abitudine di vita. ‘Antonio – mi diceva mia mamma – è vero che ti faccio cento prediche al giorno, ma è perché ti voglio bene. Non vorrei, quando saremo davanti al Padre, sentirmi dire che, se sei cresciuto male, la responsabilità è mia, perché non ti ho educato al bene da piccolo. Verrà il tempo che sarai solo a decidere: non dimenticare mai i miei ammonimenti!’. E così fu. Alla vigilia della sua morte, all’età di 99 anni, visitandola, già vescovo, ebbe ancora la forza di ammonirmi: ‘Ricordati, Antonio, e mi raccomando: fà sempre giudizio e comportati bene!’.


Fossimo capaci tutti di mostrare l’amore al fratello, ammonendolo sempre con umiltà, affetto sincero e discrezione, certamente tanti, ma tanti, si salverebbero.


Ascoltiamo il profeta Ezechiele: “Così dice il Signore: Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti. Ascolterai una parola della mia bocca e tu li avvertirai da parte mia. Se io dico all’empio: Empio tu morirai e tu non parli, per non distogliere l’empio dalla sua condotta, egli, l’empio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per le sue iniquità, tu invece sarai salvo”. (Ez. 33, 7-9)


C’è solo da pregare che tra di noi, che ci vogliamo bene, torni con amore quanto dice il profeta: ‘essere sentinelle’ del prossimo; tutti, a vicenda, aiutandoci a correggere la rotta, quando usciamo di strada!


Ci fu un tempo in cui, da vescovo, alzai la voce contro la criminalità organizzata, ma tenendo sempre presente il motto di Giovanni XXIII: ‘condannare l’errore, ma amare l’errante’.


Uno che si definiva ‘capo’ – e lo era – chiese di incontrarmi. Dopo aver riflettuto e pregato, accettai la sua richiesta. Venne una sera e si trattenne con me per tre ore, in cui cercai di fargli capire l’enormità del male che commetteva e la necessità di cambiare, per il bene suo e di tutta la comunità. Ascoltava meravigliato che qualcuno avesse il coraggio di rinfacciargli le sue scelte sbagliate. Era talmente stupito che ogni tanto mi interrompeva con una frase: ‘Lei mi sta nel mezzo del cuore’. Se ne andò confuso e lentamente l’ammonizione si fece strada, al punto che un giorno mi fece sapere che aveva deciso di sciogliere il suo gruppo, che contava circa 400 uomini, come lui dediti al crimine. La cosa si seppe e la criminalità non accettò questo atto di estinzione di una ‘famiglia potente’. Fu immediatamente ucciso. Morì, ma non da criminale, ma, come più volte aveva affermato quella notte, ‘da cristiano’.


È una grande responsabilità ‘essere sentinelle’ di quanti il Signore ci affida.


Non dimentichiamo ciò che esige:


‘Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spiritocorreggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione’.(Galati 6,1).


 Antonio Riboldi – Vescovo


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13/09/2014 06:38
 
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14 Settembre 2014


Esaltazione della Croce


 Amore e dolore nel segno della croce


 


È davvero un grande mistero dell’amore di Dio per noi quello che contempliamo nella Croce su cui il Figlio unigenito donò tutto se stesso, per farci partecipi del Suo Amore e della Sua Gloria.


La Chiesa, oggi, celebra cantando il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria o croce unica speranza, sorgente di vita immortale, accresci ai fedeli la grazia, ottieni alle genti la pace”.


Così Paolo VI, presto beato, ci interpella: ‘La croce non è del tutto scomparsa nei profili dei nostri paesaggi rurali. Riposa anche sulle tombe dei nostri morti. … Non è scomparsa dalle pareti di casa nostra (o almeno spero che le mode moderne non l’abbiano sfrattata di casa, per fare posto ad altro che è la vanità dell’uomo). Cristo è la pendente, morente, con il suo tacito linguaggio di sofferenza redentrice, di speranza che non muore, di amore che vince e che vive. Questo è davvero bello. Ancora, almeno con questo segno siamo cristiani. Ma poi, nelle nostre coscienze personali grandeggia ancora questo tragico e insieme luminoso albero della croce? … Noi tutti ricordiamo certamente che, se davvero siamo cristiani, dobbiamo partecipare alla passione del Signore e dobbiamo portare dietro i passi di Gesù, ogni giorno, la nostra croce. Cristo crocifisso è esempio e guida’. (14 settembre 1971)


Tutti noi, che viviamo, senza eccezioni, abbiamo una croce personale.


Ciascuno ha la sua. Inutile confrontarsi. Ogni croce è fatta su misura per le spalle di ciascuno. Rappresenta la nostra storia di dolore. E ogni croce ha il suo significato, solo se, come quella di Gesù, è portata con amore. Diversamente diventa disperazione. E tutti sappiamo quali pericoli genera la disperazione. Tutti abbiamo potuto conoscere amici, persone che, non trovando la via dell’amore, soffrono fino all’inverosimile.


Ma ogni croce che portiamo, anche se non lo comprendiamo, è una storia e può diventare una meravigliosa storia di amore: quell’amore che non si racconta come una favola, che non evade i problemi, ma si celebra con la ferialità della vita, che sempre contiene gioie e sofferenze.


Porto sempre con me l’immagine di un quadro dell’Addolorata, presente nella cappella del mio noviziato al Calvario di Domodossola. Attorno a quella Madonna, che è l’icona della sofferenza, è scritto: ‘All’amore e al dolore’. Amore e dolore come le due braccia della croce. Ma bisogna avere tanta fede e saper vivere partecipando alla passione del Signore, che porta alla resurrezione.


È nei momenti della sofferenza che si misura la nostra fede in Gesù e il nostro amore per Lui.


Dice l’apostolo Giovanni nel Vangelo di oggi: “Gesù disse a Nicodemo: ‘Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo, che è disceso dal cielo. … Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui”. (Gv. 3, 13-17) Sembra quasi incredibile che Dio ci ami così tanto!


I cristiani che riescono nella vita pratica a penetrare in questo mistero ineffabile di amore, scoprono nella sofferenza un modo di ricambiare tanto amore.


Dobbiamo riacquistare il vero senso dell’amore che vive anche di sofferenza, di dolore.


Scriveva sempre Paolo VI, parlando della Croce che attira a sé:


“Siamo tutti in modo e in grado diverso, sofferenti: forse non sentiamo l’invito, che a sé ci chiama, dell’Uomo che conosce il soffrire. Il dolore che nel mondo naturale è come un isolante, per Gesù è un punto di incontro, è una comunione. Ci pensate fratelli? Voi ammalati, voi disgraziati, voi moribondi? Ci pensate voi uomini aggravati dalla fatica e dal lavoro? Voi, oppressi e solitari dalle prove e dalle responsabilità della vita? Tutti vi possono mancare, Gesù in croce, no. Egli è con voi. Egli è in noi. Di più, Egli è per noi. È il grande mistero della croce: Gesù soffre per noi!


Espia per noi. Condivide il male fisico dell’uomo, per guarirlo dal male morale …. ci parla di misericordia, ci parla di amore, di resurrezione”. (giugno 1956)


Gesù ha detto ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” e in un’omelia Papa Francesco ha sottolineato che questo è lo stile cristiano: ‘Noi non possiamo pensare la vita cristiana fuori da questa strada. Sempre c’è questo cammino che Lui ha fatto per primo: il cammino dell’umiltà, il cammino anche dell’umiliazione, di annientare se stesso, e poi risorgere. Ma, questa è la strada. Lo stile cristiano, senza croce non è cristiano, e se la croce è una croce senza Gesù, non è cristiana. Lo stile cristiano prende la croce con Gesù e va avanti. Non senza croce, non senza Gesù …. E questo stile ci salverà, ci darà gioia e ci farà fecondi, perché questo cammino di rinnegare se stessi è per dare vita, è contro il cammino dell’egoismo, di essere attaccato a tutti i beni soltanto per me … Questo cammino è aperto agli altri, perché quel cammino che ha fatto Gesù, di annientamento, quel cammino è stato per dare vita. Lo stile cristiano è proprio questo stile di umiltà, di mitezza, di mansuetudine”.


Le prove, le croci, le sofferenze di tutti i giorni, se offerte, ci santificheranno e tramite esse il Signore salverà molte anime. La Vergine apparsa ai pastorelli di Fatima ce lo ha confermato, chiedendo loro: «Volete offrire a Dio tutte le sofferenze che Egli desidera mandarvi in riparazione dei peccati dai quali Egli è offeso e per domandare la conversione dei peccatori?».


La loro risposta fu immediata«Sì, lo vogliamo!» E Maria continuò: «Andate dunqueperché avrete molto da soffrire, ma la Grazia di Dio vi conforterà». (Fatima, 13 maggio 1917)


Chiediamo allo Spirito Santo occhi per vedere e cuore per amare.


Invochiamo lo Spirito Santo insieme, perché davvero l’Amore di Dio, rivelatosi a noi in Gesù Crocifisso, tocchi nel profondo il nostro cuore e cambi la nostra vita.


 


Antonio Riboldi – Vescovo


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22/09/2014 08:12
 
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XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Tutti chiamati ad operare nella Chiesa e nel mondo



Ogni uomo o donna è prima di tutto una ‘creatura di Dio’, donata ai genitori, che, sempre, dovrebbero fargli conoscere la bellezza della vita.

I genitori di Giovanni Paolo II potevano mai immaginare che il loro figlio, educato cristianamente nella difficile Polonia del suo tempo, un giorno sarebbe stato chiamato da Dio a lavorare nella Sua vigna, che è la Chiesa, da Pontefice?

Potevano mai i miei genitori sapere che un giorno Dio mi avrebbe scelto e chiamato per essere totalmente Suo ed ‘usarmi come servo obbediente ed inutile a lavorare nella Sua chiesa’?

Sappiamo, o dovremmo sapere, che, quando Dio ha creato me o voi, ci ha fatto dono di tante capacità o carismi, che sono le vie per manifestare la Sua gloria e, nello stesso tempo, edificare la società in cui viviamo.

Il Vangelo ci descrive bene, oggi, questo ‘essere chiamati’, a suo tempo, ‘nella vigna del Signore’.

Scrive l’evangelista Matteo: “Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: ‘Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: ‘Andate anche voi nella vigna: quello che è giusto ve lo darò’. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: ‘Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?’. Gli risposero: ‘Perché nessuno ci ha presi a giornata’. Ed egli disse loro: ‘Andate anche voi nella vigna’. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: ‘Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. (Mt. 20, 1-16)

Non è possibile che ‘il padrone di casa’ non ‘chiami, a suo tempo, nella sua vigna’, che è la Chiesa, il mondo. Dio non crea mai e poi mai uomini e donne ‘inutili’, condannati a vivere sul marciapiede della storia. C’è per tutti una ‘via’, un ‘lavoro nella vigna’. Tutti chiama a suo tempo.

Nessuno deve restare ‘disoccupato’. A nessuno è concesso di essere ozioso. Soprattutto se ci riferiamo alla vita con Dio. Dio invita a tutte le ore, ad uno ad uno.

C’è un momento in cui Dio ci ha sorpresi ‘oziosi’ e ci ha invitati, continua ad invitarci o ci inviterà.

Questo incontro con Dio – servirLo nella Sua vigna, e quindi conoscerlo, amarlo e seguirlo – è il senso e la sola verità della vita.

Cosa potrebbe significare vivere ‘oziosi’, sprecando il bello della vita, come se Dio non ci invitasse?

Non riesco proprio a immaginarlo. O forse riesco a intravederlo, osservando tanti che dicono di ‘vivere bene’, ma senza Dio.

Diciamocelo con sincerità, è come avere gli occhi, ma non vedere la luce, avere un cuore e non saper amare, è mancare di sorriso e di pace, è essere privati dell’infinito.

Non importa poi quale sia il lavoro che ci affida e per cui ci ha dato i cosiddetti carismi: l’importante è ‘esserci’ nella vigna. Ma è facile rinunciare alle proprie responsabilità, delegandole ad altri.

Succede in famiglia, dove i genitori, che nel Battesimo dei figli hanno promesso di essere responsabili della loro educazione, dimenticano questo impegno, delegandolo non si sa a chi o cosa, permettendo così che i figli diventino vittime dei tanti cattivi maestri che la società offre, creando quelle devianze di cui i mass-media ogni giorno ci parlano. Ed è tanto triste assistere a fatti raccapriccianti, i cui protagonisti sono adolescenti o giovani, che ci fanno esclamare: ‘Ma chi li ha traditi?’.

Si rinuncia nelle scuole dove si bada di più alla materia da insegnare, che ha un capire e coltivare le grandi capacità interiori, che sono i doni di Dio.

Facile delegare il progresso della società alla sola politica, abdicando al nostro ruolo di voce dei nostri diritti e doveri.

Rimane così l’interrogativo: è facile incontrarsi con Dio? Sentirsi chiamati?

Ne sentiamo a volte tanto il bisogno, ma non abbiamo la semplicità del bambino che sa spalancare gli occhi senza malizia, aperto a tutto e tutti.

Eppure, come ha detto Papa Francesco: ‘Chi conosce Gesù, chi lo incontra personalmente, rimane affascinato, e tutto in una grande umiltà e semplicità. … Quante persone, quanti santi e sante, leggendo con cuore aperto il Vangelo, sono stati talmente colpiti da Gesù, da convertirsi a Lui. … Il Vangelo ti fa conoscere Gesù vero, ti fa conoscere Gesù vivo; ti parla al cuore e ti cambia la vita. E allora sì, puoi cambiare effettivamente tipo di vita, oppure continuare a fare quello che facevi prima ma tu sei un altro, sei rinato: hai trovato ciò che dà senso, ciò che dà sapore, che dà luce a tutto, anche alle fatiche, anche alle sofferenze e anche alla morte. … Ogni giorno leggere un passo del Vangelo è trovare Gesù e avere la gioia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo, gioia che si vede, traspare in ogni parola, in ogni gesto, anche in quelli più semplici e quotidiani: traspare l’amore che Dio ci ha donato mediante Gesù.’

Solo incontrando personalmente Gesù, il nostro cuore può davvero essere ‘toccato’, sconfiggendo ogni tipo di amarezza ed invidia, salvo una … Ricordo l’esclamazione, al limite del pianto, di un grande pensatore italiano che, un giorno, in cui eravamo insieme, stringendomi forte tra le braccia, per significare la forza delle sue parole, mi disse: ‘Non invidio alcunché a nessuno in questo mondo. Invidio solo chi ha fede: una fede che sembra a volte un vedere già spalancate le braccia del Padre’.

Come Paolo, abbandoniamoci dunque fiduciosi alla volontà di Dio su di noi e sui nostri fratelli: ‘Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno’. ”.(Fil. 1, 20-27)

Piano piano scopriremo che davvero ogni cosa che accade è dono; non ci sono più problemi o croci, ma solo possibilità di amarlo sempre di più a seconda del suo volere e delle situazioni che egli ci presenta.

Antonio Riboldi – Vescovo
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03/10/2014 08:28
 
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 XXVII Domenica del Tempo Ordinario


Gesù ci affida la Chiesa, Sua vigna


 


Quale meraviglia se conoscessimo e vivessimo il grande dono e la grande responsabilità, che Gesù ci ha affidato, ossia la Chiesa! La Chiesa siamo tutti noi, diventati Suoi ‘familiari’con il Battesimo.


Quanto Dio ci ami e voglia essere amato, lo descrive, oggi, il Vangelo.


È la storia del Padre che, quando intende piantare la sua ‘tenda’ in mezzo a noi, ‘Sua vigna’, incontrando il rifiuto, risponde con il dono del Figlio. È la storia di Gesù crocifisso.


“Gesù disse ai principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo: ‘Ascoltate un’altra parabola:


c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.


Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figli dicendo: ‘Avranno rispetto per mio figlio!’. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: ‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini? Gli risposero: Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo. E Gesù disse loro: Non avete mai letto nella Scrittura: ‘La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi’? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Mt 2l, 33-44).


In poche battute Gesù traccia la storia della predilezione di Dio per il popolo eletto: una storia contrastata, come è narrata nella Bibbia, con tanti profeti uccisi. E da ultimo la venuta di Gesù, il Figlio, rifiutato e crocifisso. Da quel rifiuto è nata la Chiesa, affidata a noi ‘pagani’, che dovremmo sapere come ‘farla fruttificare’. Duemila anni di storia ci mostrano i tanti interventi del Padre, i tanti martiri e i tanti rifiuti. La Chiesa è saldamente nelle mani di Dio e, ogni giorno, possiamo assistere al meraviglioso lavoro, che la Grazia fa compiere a tanti vescovi , sacerdoti, religiosi e religiose, laici, che davvero sono i ‘preziosi vignaioli’. Anche oggi, tra noi.


Non solo, ma la Chiesa è la Sua grande famiglia in continua missione, perché tutti, senza eccezioni, possano appartenervi. Un incredibile dono, che chiede di essere donato.


Quello che infonde tanta, ma tanta, speranza, è la certezza che Dio continua ad amare la Sua vigna e l’affida a noi – Suoi vignaioli – chiedendoci di allargare i confini della vigna a tutto il mondo.


Ed è così. Ottobre è il mese dedicato alla missione.


Se è vero che ognuno, nella Chiesa, nessuno escluso, è missionario, il pensiero, la preghiera, la comunione di cuori, l’aiuto anche materiale, va ai nostri ‘missionari’, sparsi in tutto il mondo, che condividono direttamente la povertà di tanti e, troppe volte, sono soggetti a vere persecuzioni.


Basta pensare ai laici, ai sacerdoti e alle religiose uccisi in India, in Africa, colpevoli solo di essere cristiani.


Ho avuto modo di conoscere due martiri della fede. Il vescovo Card. Van Thuang di Saigon, costretto a tanti anni di carcere duro, lontano dai suoi fedeli e dalla sua Chiesa. Incontrandolo, dopo gli anni di persecuzione, mi esprimeva la sua gioia di essere stato vescovo senza voce, ma con il cuore e la sua vita donata per la fede. Mi voleva donare la sua croce pettorale, costruita con il filo spinato e un poco di metallo preso nella sua prigione.


‘La mia comunione con la mia Chiesa? – diceva - Ogni sera, di nascosto, quando le guardie mi lasciavano solo, chino sulla branda, celebravo la S. Messa, con una goccia di vino – mi era concesso perché pensavano fosse una medicina - sul palmo della mano e un pezzetto di pane. In quel momento mi sentivo davvero vescovo della mia Chiesa, in missione... tanto che alla fine, alcune guardie chiesero di essere battezzate’.


E come dimenticare Padre Lele, comboniano, con cui ebbi modo di essere speranza tra i terremotati dell’Irpinia? Un meraviglioso giovane, sempre con un grande sorriso, che andava oltre le nostre tristezze quotidiane. Il suo più profondo desiderio era la missione. I superiori gli affidarono una comunità in Brasile. Si mise a fianco dei campesinos, che lottavano per il diritto alla terra e fu ucciso. Ora, mi pare, si stia pensando o già facendo il processo canonico in diocesi per la beatificazione.


E come non ricordare un mio confratello rosminiano, Padre Nazareno, che ha operato per tanti anni in Tanga? Aveva costruito una bella missione in anni di fatica, accanto ai Masai. Una mattina fu aggredito da predoni, che gli rubarono tutto e lo picchiarono selvaggiamente. Ma non fuggì. Fu il vescovo a volergli affidare un’altra missione, dove dovette ricominciare tutto da capo. ‘Il mio grande desiderio – ha sempre detto – è morire tra i miei fedeli ed essere sepolto in mezzo a loro, come uno di loro’. È lo stesso desiderio che portavano in cuore le tre sorelle saveriane uccise barbaramente in settembre in Burundi. Quanto è davvero grande il cuore di tanti cristiani per la vigna del Signore!


Un amore che ha le sue radici nel Cuore stesso di Dio.


Ma noi, nella Chiesa, in questa mistica vigna, che ruolo giochiamo?


Possediamo un poco di amore alla Chiesa e come lo coltiviamo? È certo che chi mi legge non la calpesta, ma non basta! Occorre sentirci protagonisti di quello che Gesù ha detto: diventare ‘popolo che la fa fruttificare’. Ascoltiamo le parole di Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata Missionaria mondiale: ‘Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione! Vi invito ad immergervi nella gioia del Vangelo, ed alimentare un amore in grado di illuminare la vostra vocazione e missione. Vi esorto a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del “primo amore” con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il cuore di ciascuno, non per un sentimento di nostalgia, ma per perseverare nella gioia. Il discepolo del Signore persevera nella gioia quando sta con Lui, quando fa la sua volontà, quando condivide la fede, la speranza e la carità evangelica. A Maria, modello di evangelizzazione umile e gioiosa, rivolgiamo la nostra preghiera, perché la Chiesa diventi una casa per molti, una madre per tutti i popoli e renda possibile la nascita di un nuovo mondo.


Antonio Riboldi – Vescovo


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17/10/2014 10:04
 
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XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


 Invitati al ‘banchetto di Dio con l’abito nuziale’


Nella Parola di Dio appare il grande desiderio del Padre di averci con Sé: prima come ‘vignaioli’, nella Sua ‘vigna’ – e lo dovremmo essere nella vita della Sua Chiesa – e poi con l’immagine accattivante di oggi, ossia l’invito a partecipare al ‘Suo banchetto’, paragonando così la fede ad un vero incontro ‘conviviale’ divino. Ma è facile accettare tale invito?


In apparenza sarebbe assurdo anche solo pensare di declinarlo – se non altro per il grande onore di essere stati scelti – ma nella realtà si rischia facilmente di preferire altro, che poco o nulla sa del banchetto celeste. Ogni volta che cerchiamo di immaginare in che cosa consista il Regno dei Cieli, rimaniamo a corto di parole. Il più delle volte forse lo releghiamo ad un insieme di meraviglie, quali solo si possono trovare presso Dio. Forse a volte lo descriviamo ‘lontano’, perché lo riteniamo un ‘luogo’ fuori della nostra vita terrena: un aldilà, che ‘un giorno, forse, vedremo’ o ‘una mèta che implica tante fatiche’ e crediamo impossibile da raggiungere.


Alcuni poi lo considerano come una favola per bambini o per i poveri, cui sono negati i ‘paradisi della terra’ – come fosse giusto e ragionevole considerare ‘paradisi’ quelli che l’uomo si costruisce, che alla fine si dimostrano ‘ubriacature’ passeggere e, magari, anche dannose.


Ecco allora che Gesù prova a descriverci il Regno dei Cieli, nel suo stile immediato, annunciando le meraviglie di Dio, con il linguaggio dei semplici e degli umili. Ancora una volta, come per la parabola della vigna, parla di un invito, che razionalmente non si dovrebbe poter rifiutare.


Eppure abbiamo la contrapposizione tra chi rifiuta, preferendo i propri interessi, e gli ultimi, coloro che non hanno nulla o ‘sentono’ di non aver nulla e, come i santi, ‘corrono’.


Ascoltiamo la Parola del Signore, che esprime la sua grande passione, di averci commensali al Suo banchetto: “Gesù riprese a parlare con parabole e disse: ‘Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: ‘Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!’. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.  Poi disse ai suoi servi: ‘La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze’. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: ‘Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?’. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: ‘Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti’. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.  (Mt 22,1-14).


Da una parte è davvero impressionante la larghezza di cuore di Dio, che ci invita, direi con passione, nel convito del Suo Amore, le Sue nozze: un invito che, se fossimo saggi, non dovremmo rifiutare.


Eppure, lo sa bene il Signore, c’è chi rifiuta, preferendo i propri interessi: ‘andarono chi ai propri campi, chi ai propri affari‘. Lo ha ricordato anche Papa Francesco in un’omelia: “Dimenticare il passato, non accettare il presente, sfigurare il futuro: questo è quello che fanno le ricchezze e le preoccupazioni’. Sono tanti, troppi, quelli che anche oggi rifiutano l’invito. È la storia della superbia, della sufficienza dell’uomo, che riesce solo a vedere l’angolino del proprio io, illuminato da luci al neon, incapace di spalancare gli occhi sulla vastità del sole, che è il Regno di Dio. Come ha detto Papa Francesco: “E’ la potenza dell’uomo al posto della gloria di Dio! Questo è il pane di ogni giorno. Per questo la preghiera di tutti i giorni a Dio ‘Venga il tuo Regno, cresca il tuo Regno’, perché la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari. La salvezza verrà dalla grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia nella vita cristiana”.


Allenamento quotidiano’ degli ultimi, coloro che non hanno nulla o ‘sentono’ di non aver nulla e, come i santi, non hanno paura a mostrare la loro povertà di spirito, ossia un cuore aperto a Dio e custode vero della terra; a loro non pare vero di poter partecipare al banchetto del Re e ‘corrono’ di fronte all’invito. S. Paolo, scrivendo ai Filippesi, in qualche modo, insegna come essere i ‘poveri ai crocicchi delle strade’:“Fratelli ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono stato iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in Colui che mi conforta”.(Fil. 4, 10-20)


Ma vi è una condizione che Gesù pone a noi, che in Lui abbiamo fede,come disse a Lamezia Terme, Papa Francesco ‘qualcosa di essenziale: la veste nuziale, che è la carità, l’amore. … Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale, la carità, vivere un profondo amore a Dio e al prossimo’.


Scriveva il caro Paolo VI, presto beato: “S. Paolo esclama: ‘Egli mi amò e diede se stesso per me’. Siamo inseguiti da questo ineffabile, irrefrenabile amore. Siamo così conosciuti, ricordati, assediati da questo potente e silenzioso amore che non ci dà tregua, che vuole a noi comunicarsi, che vuole da noi essere compreso, ricevuto, ricambiato … come rimanere impassibili, inerti, distratti, indifferenti? L’amore vuole amore.’


Assetati come siamo di gioia, di libertà, noi, che siamo gli invitati privilegiati dal Padre, potremo ancora pregarlo e poi rifiutare l’invito, rivolgerci a ‘sorgenti di acque stagnanti’, che fanno stare solo male o sapremo, con il cuore libero da false e illusorie speranze, aprirci all’amore?


Antonio Riboldi


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17/10/2014 10:06
 
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XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Tutti chiamati ad essere missionari


Se c’è un aspetto nella nostra vita di cristiani, che ci rattrista, e tanto, è il ‘silenzio’ sulla Parola di Dio. Non è più ‘di casa’. Pare che l’unica parola che domini in tante case e diventa poi ‘il vangelo’, o meglio ‘l’antivangelo’, siano i modelli di vita delle comunicazioni TV, che offrono idolatrie senza alcuno scrupolo o rispetto della bellezza dell’uomo, donataci da Dio e che siamo chiamati a coltivare e donare. È vero che, per fortuna, ci sono ancora tanti che si accostano alla Mensa Eucaristica la domenica, giorno del Signore, ma anche per molti di questi cristiani, l’annuncio della Parola e l’omelia sembrano ‘un di più’. Ma si può davvero essere cristiani senza la Luce della Parola di Dio?

Ci fu chi affermò che se S. Paolo fosse tornato, avrebbe viaggiato con in una mano il Vangelo, come guida della vita, e nell’altra il giornale, come realtà con cui confrontarsi.

Oggi c’è rimasto tra le mani solo il giornale, che – come la TV – pare consideri tutto ciò che è espressione di fede, come ‘non notizia’, perché non fa ‘tiratura’. In altre parole prevale il commercio del ‘punto di vista personale’ – quando non addirittura la falsità – sull’offerta di ciò che è luce e sale.

Chi di noi non dedica un tempo del suo giorno o alla lettura del quotidiano o al telegiornale?

Possono – quando va bene – raccontarci le vicende del mondo in cui viviamo: vicende che il più delle volte spengono la speranza, rattristano o ci confondono.

Ma quanto tempo dedichiamo alla lettura di una pagina del Vangelo o della Bibbia?

E si può amare Dio senza conoscerlo?

Per questo la Chiesa ogni anno, in modo particolare, dedica un mese – questo di ottobre – alle missioni e, oggi, è la Giornata missionaria. Scrive il S. Padre, nel suo Messaggio per la Giornata missionaria: ‘Oggi c'è ancora moltissima gente che non conosce Gesù Cristo. Rimane perciò di grande urgenza la missione ad gentes, a cui tutti i membri della Chiesa sono chiamati a partecipare, in quanto la Chiesa è per sua natura missionaria: la Chiesa è nata "in uscita".’

Affermava il carissimo Paolo VI, di cui oggi si celebra a Roma la beatificazione, nella Esortazione apostolica ‘Evangelii nuntiandi’, che ‘evangelizzare è la grazia, la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda’. E questo vale per tutti, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici. Diversa è la forma, uguale la missione e la responsabilità. ‘Guai a me – diceva S. Paolo – se non evangelizzassi’.

E’ necessario ‘dare la priorità alla missione, all’annuncio del Vangelo’, su cui Papa Francesco insiste anche nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium.

Il nostro è tempo di inevitabili fallimenti, se vogliamo, ma di meravigliose sfide, che conoscono la loro audacia nella fiducia in Dio che se ‘chiama e manda’ sa di avere una potenza tale da abbattere ogni difficoltà. E' tempo di coraggio evangelico, che non è esibizionismo di potenza umana, ma di umile servizio alla fede ed agli uomini.

Ho conosciuto tanti missionari che amavano la loro missione più della loro vita, ansiosi di portare la Parola, aiutando i fratelli meno fortunati. ‘L’unico desiderio che ho è di essere sepolto in terra d’Africa, tra i miei fedeli’, ripeteva un mio confratello. Saranno loro a ‘farmi strada’ al cospetto di Dio. Ma anche noi saremo giudicati da Dio sul nostro ‘silenzio’ su di Lui o sul nostro ‘annuncio’ di Lui. È un vero peccato che, a volte conosciamo ogni pettegolezzo su ‘personaggi’ che non meriterebbero tanto, ma poco o nulla su Chi è l’Unico da conoscere: Dio, che ci educa e si fa conoscere attraverso la Sua Parola, la S. Scrittura.

E quale sarà la nostra difesa riguardo al poco spazio che si dà ai tanti martiri di oggi, in alcune regione dell’Africa o dell’Asia?

È come se molto poco contasse o importasse il grande problema della libertà religiosa, della fede.

Eppure sono impensabili alla luce della chiamata di Gesù, comunità o famiglie che sono ripiegate su se stesse, come avessero scelto le catacombe per vivere la propria vita cristiana, anziché le vie del mondo per recare la luce a tutti gli uomini.

Papa Francesco nel suo Messaggio lo dice chiaramente: ‘Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 2). Pertanto, l'umanità ha grande bisogno di attingere alla salvezza portata da Cristo. I discepoli sono coloro che si lasciano afferrare sempre più dall'amore di Gesù e marcare dal fuoco della passione per il Regno di Dio, per essere portatori della gioia del Vangelo. Tutti i discepoli del Signore sono chiamati ad alimentare la gioia dell'evangelizzazione.’

Quello che sempre mi ha impressionato, quando ero chiamato da tante parti a testimoniare la fede ed invitare ad uscire dal buio delle false parole del mondo, con la luce che solo viene dalla Parola, era la grande partecipazione della gente.

Tante volte i parroci, per fare in modo che anche chi non credeva potesse partecipare, sceglievano, come luoghi di incontro, le sale pubbliche.

In una cittadina, dove anche il parroco aveva difficoltà a radunare ‘credenti’, invitato, a sera, nella grande sala non vi trovai più di 20 persone. ‘E’ tutto quello che riusciremo a mettere insieme’, fu l’affermazione avvilita del responsabile. Volli che si attendesse ancora un poco per iniziare, con speranza. E lentamente, sbucando da ogni parte, furtivamente, la grande sala si riempì, al punto che tanti dovettero accontentarsi di sentire, affacciati alle finestre, dall’esterno.

Il tema era: ‘Gesù è il solo che dà gioia alla vita’. Ascoltarono per un’ora, in grande silenzio, come affascinati. Quando credevo fosse giunta l’ora di licenziare quella folla, si alzò uno e gridò: ‘Non ci lasci, continui. Fuori c’è gran buio, qui abbiamo intravisto la luce’.

Tornai l’anno dopo, con il prof. Zichichi, in quel grande teatro. Il tema era ‘Scienza e fede’. La sala si era riempita già un’ora prima e tanti attendevano fuori, con pazienza, per trovare un posto.

Quanto bisogno c’è di Dio, oggi, nel nostro mondo ‘ricco’, ma anche tanto confuso!

E Lui è lì a parlarci con il Vangelo.

Se c’è qualcosa nella mia vita di cristiano, sacerdote e vescovo, che avverto come un grande dono, che mi rende felice e fa felici tanti, è proprio la gioia di comunicare l’Amore del Padre, nella missione.

Vedere un fratello o una sorella che, sentendo il Vangelo, si illumina, è immensa gioia. Ha ragione Papa Francesco quando nel Messaggio per questa Giornata missionaria conclude: ‘Non lasciamoci rubare la gioia dell'evangelizzazione! Vi invito ad immergervi nella gioia del Vangelo, ed alimentare un amore in grado di illuminare la vostra vocazione e missione. Vi esorto a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del "primo amore" con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il cuore di ciascuno, non per un sentimento di nostalgia, ma per perseverare nella gioia. Il discepolo del Signore persevera nella gioia quando sta con Lui, quando fa la sua volontà, quando condivide la fede, la speranza e la carità evangelica.’

Auguro a voi la stessa gioia di essere missionari dove siete, con chi vivete e in quello che fate.

Antonio Riboldi
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11/11/2014 11:03
 
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Omelia del giorno 9 Novembre 2014

Dedicazione della Basilica Lateranense

Noi siamo ‘l’edificio’ di Dio, la Sua Chiesa

La Parola di Dio, oggi, ci interpella, e seriamente, su cosa intendiamo per ‘Chiesa’.

Se ci facciamo caso, normalmente ci fermiamo al tempio. Ogni paese, ogni comunità, ha la sua Chiesa e tutti consideriamo solo questo aspetto: la Chiesa come ‘luogo’ dove avviene l’incontro ‘a tu per Tu’ con Dio, nelle liturgie, nella preghiera e nell’adorazione del SS.mo Sacramento.

Ci sono chiese o cattedrali, che sono un vero splendore di arte, altre più modeste, ma tutte ‘case’ di Dio. I nostri fratelli nella fede si sono sempre prodigati affinché le ‘case di Dio-con noi’ fossero belle, creando dei veri capolavori d’arte. Ricordo che, dopo il terremoto del Belice, Paolo VI raccomandava a noi parroci, nel momento della ricostruzione, di costruire ‘chiese a misura di abitanti’, semplici, ossia che rispecchiassero la povertà dei fedeli.

Dopo il terremoto, nei tempi di vita nelle tende, la Chiesa era una tenda in cui, a volte, per la sua precarietà, dovevamo celebrare con l’ombrello!

Ma se intendiamo per chiesa ‘il luogo di incontro con Dio’, tutto può essere Chiesa: la famiglia, detta ‘piccola Chiesa domestica’, e lo stesso luogo di lavoro. Quello che conta è che rispecchino la Presenza del Padre, perché essere Chiesa, significa soprattutto essere un popolo in cammino, guidato dallo Spirito di Dio, attraverso i Suoi pastori.

Ma Papa Francesco, nella recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium e in tanti suoi interventi, sottolinea con forza un altro aspetto, proponendo ‘una Chiesa in uscita’.

Il nostro è tempo di inevitabili fallimenti, se vogliamo, ma di meravigliose sfide, che conoscono la loro audacia nella fiducia in Dio che se ‘chiama e manda’ sa di avere una potenza tale da abbattere ogni difficoltà. E' tempo di coraggio evangelico, che non è esibizionismo di potenza umana, ma di umile servizio alla fede ed agli uomini.

S. Paolo, oggi, in cui la liturgia celebra la ‘Dedicazione della basilica Lateranense’, ‘va oltre’, in profondità e così, stupendamente, ci definisce:

“Fratelli, voi siete l’edificio di Dio … Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti non si può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, che è Gesù Cristo. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui, perché santo è il tempio di Dio, che siete voi”. (Corinzi, 3. 9-17)

La nostra appartenenza alla Chiesa inizia il giorno del Battesimo, la vera ‘seconda nascita’.

Nella Chiesa, siamo cresciuti, con i sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia e siamo stati accolti di fatto con il sacramento della Cresima, che ci ha resi consapevoli ‘testimoni della fede’.

Nella Chiesa tanti hanno iniziato il cammino della loro specifica vocazione, con la celebrazione del sacramento del Matrimonio.

Così la Chiesa è o dovrebbe essere la casa in cui percorriamo il pellegrinaggio verso la celeste Chiesa, che è il Paradiso, anzi la Chiesa siamo noi: ‘popolo in cammino’!

Ma è così? Ci sentiamo Chiesa-comunità? O abbiamo della Chiesa concetti sbagliati, che la privano della sua divina bellezza? È la casa di Dio con noi e di noi con Dio?

Impensierisce il fatto che tanti cristiani, da tempo, non la considerino più la casa di Dio con noi, vedendo, pericolosamente, come sola casa, il mondo: una casa senza Dio, tremenda, con tutti i mali che ne conseguono! Nella Chiesa, Dio ci raduna come una sola famiglia che si ama e cresce con Lui nell’Amore. Fuori si rischiano false amicizie o compagnie, che devastano la bellezza della nostra vita interiore, distruggono ‘l’edificio di Dio’, che noi siamo.

Quando, da vescovo, ogni domenica, chiamavo i fedeli alla celebrazione eucaristica e vedevo il Duomo affollato di fedeli, provavo la grande gioia di chi si sente in famiglia.

Era lì che si costruiva il tempio di Dio. E lo provo ancora oggi.

Ma qualche volta, purtroppo, come ‘il tempio di Dio’ che ognuno di noi è, anche la Chiesa, come edificio di culto, luogo di intimità con Dio, che esige il massimo rispetto, viene ‘usata’ in modi che nulla hanno a che fare con la sua vera natura. Basta pensare a certi matrimoni o prime comunioni, veri ‘spettacoli mondani’...non si può esprimere l’impressione che ne nasce, ma sentiamo Gesù:

“Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: ‘Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!’. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: ‘Lo zelo per la Tua casa mi divorerà’.” (Mt. 2, 13-22) Credo che Gesù, anche oggi, davanti a tante violazioni della Casa del Padre Suo, userebbe la stessa sferza.

Il beato Rosmini, nel 1848, scrisse un libro che intitolò: ‘Le cinque piaghe della Santa Chiesa’. Sanzionato, l’anno dopo, dalla Congregazione dell’Indice. Sarà proprio il caro e ora beato Paolo VI a togliere l’opera dall’elenco, dichiarando che non meritava tale sentenza e, anzi, ‘Le cinque piaghe’ divennero, secondo molti, ispirazione per molti argomenti affrontati dal Concilio Vaticano II.

Secondo Rosmini le piaghe della Santa Chiesa erano: la divisione del popolo dal Clero, nel pubblico culto, l’insufficiente educazione del Clero, la disunione dei vescovi, la nomina dei vescovi, abbandonata al potere temporale, la servitù dei beni temporali.

Oggi forse vi è un altro aspetto, che tocca ognuno di noi, e che Papa Francesco evidenziò in un discorso, solo poche settimane dopo la sua elezione alla Cattedra di S. Pietro, esprimendo il suo rammarico per una fede epidermica di tanti, contraddetta dalla condotta, e la necessità di coerenza alla vera sequela di Gesù, dichiarando che bisogna "uscire da se stessi, da un modo stanco e abitudinario di vivere la fede, chiuso nei propri schemi’. … Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo il coraggio di 'uscire' per portare Cristo’.

Ci vuole il coraggio e la testimonianza dei Santi che amavano e amano la Chiesa di ieri e di oggi.

Il beato Rosmini, prima di scrivere Le cinque piaghe, faceva queste considerazioni:

‘Posi mano a scrivere questo libro a sfogo dell’animo mio addolorato e fors’anco a conforto altrui. Esitai prima di farlo: perciocché meco medesimo mi proponea la questione: Sta egli bene che un uomo senza giurisdizione, componga un trattato sui mali della Santa Chiesa?... A questa questione io mi rispondevo, che il meditare sui mali della Chiesa, anche a un laico non potea essere riprovevole, ove a ciò fosse mosso dal vivo zelo del bene di essa e della gloria di Dio’.

Non ci resta che chiedere allo Spirito di saper vivere e provare gioia e orgoglio anche noi, per ‘essere edificio di Dio, tempio in cui Egli abita’ e ‘Suo popolo in cammino’. Battezzati che, sentendo la chiamata, rispondono con la vita.

Bisogna tornare ad essere cristiani convinti e gioiosi, per essere capaci di ‘andare incontro a chi si è allontanato dalla fede per varie ragioni’, rispondendo ad un bisogno che oggi più che mai, secondo Papa Francesco, ha la Chiesa: ‘la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità’, perché ‘chi conosce Gesù, chi lo incontra personalmente, rimane affascinato … Trovare Gesù è avere la gioia cristiana, che è un dono dello Spirito Santo, gioia che si vede, trasparire in ogni parola, in ogni gesto, anche in quelli più semplici e quotidiani … ’


Antonio Riboldi – Vescovo
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18/11/2014 14:35
 
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XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)


 Il rendiconto finale dei doni ricevuti


 


La vita è – o dovrebbe essere – un cammino di saggezza, in cui si misura il come abbiamo vissuto, per presentarci fedeli e saggi al cospetto del Signore, che sicuramente verrà per tutti.


Non sappiamo quando, ma verrà.


Avverte S. Paolo oggi: “Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. … Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.”. (I Tess. 5, 1-6)


Vivere non è solo ‘passare del tempo’: sarebbe un modo sconveniente, insensato e dannoso per creature, cui Dio ha donato capacità, che rendono abili - oltre che a realizzare il sogno, che Dio ha per noi – a fare del bene agli altri. Vivere non è neppure un fare disordinatamente tante cose, che non hanno senso, ma neppure se hanno un contenuto accettabile. Non è detto che ‘fare tanto’ sia lo stesso che ‘fare bene’.


Ho paura che tante cose di cui ci occupiamo, non abbiano alcun peso e valore se ‘misurate’ con il metro divino della verità e della giustizia, che ogni vita deve avere e, peggio ancora, può accadere che le tante o poche cose che facciamo siano svilite dall’intenzione errata che poniamo in esse: per esempio quando impieghiamo tutte le nostre capacità per realizzare un sogno di gloria o di ricchezza o di benessere o un ‘trono’ di prestigio, che ci faccia sentire ‘qualcosa più degli altri’!


E direi che oggi – almeno per quanto si vede – tanta parte degli uomini brucia l’intera esistenza per procurarsi qualcosa che luccica, ma poi si rivelerà, e spesso si rivela subito, per quello che è veramente: un pugno di polvere.


C’è poi chi usa dei talenti avuti da Dio per fare del male, che è in effetti usare i beni di Dio contro Dio e gli uomini; la conseguenza inevitabile è la distruzione di ogni umanità e civiltà.


Vivere è avere avuto in consegna ‘una missione’ e dei talenti da sfruttare per il bene nostro, degli uomini e per la Gloria di Chi ce ne ha fatto dono: Dio. La vita è ‘una vocazione ed una missione’.


Oggi, Gesù nel Vangelo di Mt. 25, 14-30, sottolinea la saggezza e la bontà del Padre, che, nel farci il dono della vita, ci ha dato ‘i talenti’ secondo il Suo Cuore. Gesù racconta la parabola di ‘Un uomo, che partendo chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni … Chiamò e consegnò a ciascuno secondo la sua capacità’.


Poche parole, che sono però la ‘dote’ avuta per fare della vita una esperienza di amore e di gloria a Dio. Anzitutto vivere non è una scelta personale, ma una chiamata del Padre, che è Amore e, quindi, la vita è un bene consegnato a noi per allargare il Suo Regno di giustizia e di pace, di Amore.


Avere la coscienza di essere chiamati dal Padre deve – o dovrebbe – far sorgere una quotidiana domanda: ‘Che cosa chiede a me? Quali talenti o capacità mi ha dato per fare fruttare la Sua vigna?’. Da cui: ‘Qual è il vero indirizzo da dare alla mia vita? Cosa debbo fare?’


E su questo possiamo e dobbiamo interrogarci subito e sempre, per verificare se meritiamo la sentenza: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone”.


Una cosa è certa: non possiamo ignorare di avere tutti doni o carismi, ossia capacità che sono il bello della nostra vita qui e, se realizzati nella carità, ‘una corona di gloria’, vera, nell’eternità.


Tante volte mi si chiede (e l’insistenza della domanda dice da sola quanto interessi la risposta) in che consista la serenità, che mi accompagna sempre.


In molta parte dipende dal fatto che ‘sono’ dove Dio ha stabilito e manifestato, nell’obbedienza o attraverso le circostanze, che fossi, e che cerco di fare ciò che a Lui è più gradito. Mi è stato affidato da Dio non solo il prossimo da servire, ma anche il come servirlo e amarlo. Lo stesso carisma di vescovo mi è stato dato dallo Spirito nella Chiesa.


Non basta però avere la coscienza della propria chiamata, occorre anche saper scoprire i tanti talenti che Dio ci consegna. E questi talenti – è bene ricordarselo – non sono dati per creare un trono alla superbia, ma per dare gloria al Padre e neppure ammettono di essere gelosamente nascosti, per non correre rischi, e tanto meno ignorati, come se non ci fossero!


Debbono essere portati alla luce e messi in circolazione, impiegati, perché nel loro impiego, non si dimostra solo la nostra fedeltà, ma sono la via per manifestare il bene al nostro prossimo.


Guardando attorno, anche nelle nostre comunità ecclesiali, a volte si ha l’impressione che troppi di noi assomiglino a casseforti, che custodiscono tesori, che servono a nessuno.


È terribile la responsabilità, che ci assumiamo davanti a Dio e davanti agli uomini!


Quanto bene si potrebbe vedere attorno a noi e in noi, solo se le nostre ‘casseforti’ si aprissero!


C’è una via sicura per scoprire i talenti che Dio ci ha dato: la via della carità. Messi di fronte ai fratelli, che chiedono di essere amati, in qualunque campo e in qualunque sincera forma, chi di noi non ha trovato ‘il genio’ – direbbe Giovanni Paolo II – di scoprire strade, capacità, che forse ignorava?


Nessuno mai mi aveva insegnato come ci si comporta davanti ad un terremoto – reale – che colpisce l’intera comunità. Ma la tragedia subito mi ha mostrato talenti, che erano una multiforme espressione di amore, che non sapevo di avere.


Quando Paolo VI mi chiese di essere vescovo di Acerra, provai grande confusione. Ma ora, rivisitando i miei 36 anni di vescovo, mi stupisco di quanti talenti Dio mi ha fatto dono, per compiere il bene, che era il senso della Sua chiamata.


Solo chi non conosce l’amore assomiglia al servo del Vangelo, che risponde: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato, e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco qui il tuo”.


Non ha capito nulla di Dio, il cui vero volto è quello di Padre; Lo giudica ‘un padrone severo’, ‘colui che castiga’, ecco perché Gesù lo definisce ‘servo malvagio e infingardo’.


C’è gente che si fa spaventare dalle grandi difficoltà del nostro tempo, dimenticando che Dio è nostro alleato, nostro amico, Colui che ‘non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi’pertanto ‘come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?’ (Rom. 8, 32)


È proprio nei momenti difficili che il Padre, nel Figlio, con l’aiuto dello Spirito, ci sostiene e noi possiamo mettere alla prova la nostra bellezza e fedeltà.


Confrontiamoci con le sfide che tanti nostri fratelli hanno saputo affrontare con la certezza che la fede e l’amore possono donare.


Non diciamo mai, e neppure pensiamo, fratelli e sorelle, che siamo ‘buoni a niente’.


Tutti siamo chiamati ed abbiamo carismi capaci di costruire lo stupendo mosaico della civiltà dell’amore.


Come Papa Francesco ha ricordato in un’udienza generale:


“L’attesa del ritorno del Signore è il tempo dell’azione: noi siamo nel tempo dell’azione, il tempo in cui mettere a frutto i doni di Dio non per noi stessi, ma per Lui, per la Chiesa, per gli altriiltempo in cui cercare sempre di far crescere il bene nel mondo. E in particolare, in questo tempo di crisi, oggi, è importante non chiudersi in se stessi, sotterrando il proprio talento, le proprie ricchezze spirituali, intellettuali, materiali, tutto quello che il Signore ci ha dato, ma aprirsi, essere solidali, essere attenti all’altro.


Non resta che impegnarci, sapendo di non essere soli nel cammino.


Antonio Riboldi – Vescovo


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04/12/2014 07:20
 
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 I Domenica di Avvento (Anno B)


 Avvento, attesa della grande Gioia


 


Come non vedere nell’Avvento il tempo dell’attesa del più grande evento nella nostra storia di uomini, ossia Dio che torna tra noi.


I nostri progenitori, tentati da satana, avevano preferito il proprio orgoglio all’amore immenso del Padre, che ci aveva creati e fatto dono della vita, per la sola ragione di essere partecipi della sua felicità eterna. Gli abbiamo detto NO. E ci siamo trovati ‘nudi’. Risuonano sempre alle orecchie le amare parole del Padre tradito, che ci cerca: ‘Uomo dove sei?’. ‘Mi sono nascosto perché sono nudo’.


da allora è iniziata la profonda e dolorosa nudità, che tante volte ci accompagna e sentiamo interiormente. In fondo, la terribile realtà storica dell’umanità è questa nudità, ossia l’assenza dell’amore di Dio, che è la sola ragione della nostra esistenza, anzi, la sola vita possibile.


Ma Dio, che è Amore, che è per noi il Padre di cui non possiamo fare a meno, dopo una lunga attesa, che ha accompagnato il popolo eletto, nel Vecchio Testamento, come ‘a preparare la Sua Via’, torna tra noi, uomo tra uomini, per riportarci a casa.


L’Avvento dovrebbe contenere questa attesa, vissuta nella preghiera, nella conversione, per prepararci alla festa di sentirci di nuovo amati e di amare, come è nella nostra natura.


La Chiesa, oggi, dedica questo tempo, l’Avvento, perché tutti possiamo preparare la nostra grotta, per ricevere Dio che viene a noi nell’umiltà del presepio, che è l’espressione della Sua grande discrezione e delicatezza, come è la natura dell’Amore.


Avvento: un tempo ‘per preparare la via al Signore’, come disse Giovanni Battista.


Ma noi vogliamo essere pronti a vivere degnamente questo tempo particolare di ‘attesa di Dio’?


Non c’è bisogno di ricordarci quanto abbiamo bisogno che Lui torni tra noi!


Abbiamo bisogno che Lui ci aiuti a fugare le tante nubi, che cercano di nasconderci la verità.


Per questo l’Avvento è davvero il tempo di metterci alla prova, per vedere se davvero in noi c’è il sincero  desiderio che Dio si faccia strada, che venga e, quindi, ci apra alla gioia del Natale, che è Lui con noi, pronto a condividere gioie e speranze, sofferenze e ansietà.


Gesù, oggi, ci indica come vivere questo prezioso tempo di Avvento:


“Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo avere lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito e ha ordinato al portiere di vegliare.


Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se la sera o a mezzanotte o al canto del gallo o di mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate”. (Mc. 13, 33-37)


E un modo di ‘vegliare’, cioè attendere la venuta di Gesù a Natale, è quello di affidarsi alla preghiera, alla lettura della Parola, allacarità verso chi non ha.


In questi ultimi tempi, la Chiesa suggerisce di entrare nel mistero di Dio che, amandoci, vuole essere nostra luce, tornando alla lettura e alla meditazione della Parola di Dio, nella Sacra Scrittura.


È difficile? Direi proprio di no, ma è fondamentale come ha affermato spesso anche Papa Francesco:


«Leggere durante la giornata un passo del Vangelo. Perché, per imparare? No! Per trovare Gesù, perché Gesù è proprio nella Sua Parola, nel Suo Vangelo. Ogni volta che io leggo il Vangelo, trovo Gesù. Ma come ricevo questa Parola? Eh, si deve ricevere come si riceve Gesù, cioè con il cuore aperto, con il cuore umile, con lo spirito delle Beatitudini. Perché Gesù è venuto così, in umiltà. È venuto in povertà. È venuto con l’unzione dello Spirito Santo».


Basterebbe ‘sacrificare’ qualche momento della televisione, che ci annebbia l’anima, e fare spazio a Dio che, nella Sacra Scrittura, ci parla. Capiremmo il Natale.


Non solo, ma, mentre il consumismo fa del Natale l’idolatria dei doni, proviamo a programmare doni a chi non conosce neppure il necessario.


Quel dono, a Natale, sarà il modo più bello di annunziare che Dio è vicino a tutti, nasce per tutti.


Impossibile? Forse per chi ripete la storia di quanti, quando nacque Gesù, non offrirono ospitalità a Maria, una donna incinta, e a Giuseppe: ‘Per loro non c’era posto!’, ma non per chi ascolta la Parola.


Sono sempre parole di Papa Francesco: E’ importante capire che l’ascolto della parola del Signore, la contemplazione, e il servizio concreto al prossimo non sono due atteggiamenti contrapposti … una preghiera che non porta all’azione concreta verso il fratello povero, malato, bisognoso di aiuto, è una preghiera sterile e incompleta. Ma, allo stesso modo, quando nel servizio ecclesiale si è attenti solo al fare, si dà più peso alle cose, alle funzioni, alle strutture, e ci si dimentica della centralità di Cristo, non si riserva tempo per il dialogo con Lui nella preghiera, si rischia di servire se stessi e non Dio presente nel fratello bisognoso … E’ dalla contemplazione, da un forte rapporto di amicizia con il Signore che nasce in noi la capacità di vivere e di portare l’amore di Dio, la sua misericordia, la sua tenerezza verso gli altri. Non è il regalo che ci fa buoni, ma è farsi dono che ci fa conoscere l’Amore e suscita la gioia.


Vorrei pregare in questo tempo Maria, la Mamma di Gesù e nostra, con le parole del caro don Tonino Bello: “Santa Maria donna del silenzio, riportaci alle sorgenti della pace.


Liberaci dall’assedio delle parole: dalle nostre, prima di tutto, ma anche da quelle degli altri.


Persuadici che solo nel silenzio maturano le grandi cose della vita: la conversione, l’amore, il sacrificio, la morte. Liberaci, ti preghiamo dagli appagamenti facili, dai rapporti comodi.


Apri il nostro cuore alle sofferenze dei fratelli.


E perché possiamo essere pronti ad intuirne la necessità donaci occhi gonfi di tenerezza e di speranza.”


Antonio Riboldi – Vescovo


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03/04/2015 12:18
 
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Pasqua di Resurrezione

Gesù Cristo è risorto. Alleluia!



Chi non ricorda lo smarrimento del Venerdì santo?

L’immenso e totale amore di Gesù per l’umanità, per ciascuno di noi, era stato condiviso, fino in fondo, solo dalla Mamma, da Giovanni il prediletto e da alcune donne.

Gli apostoli, presi da paura, erano fuggiti, temendo di essere coinvolti nell’odio dei farisei.

L’ignoranza, l’odio, l’inferno che alle volte diventa il cuore dell’uomo, credevano di averla spuntata addirittura su Dio, che è l’Amore. Forse ci fu chi, quella notte, si era compiaciuto del male fatto, ma si può essere felici quando crocifiggiamo Gesù con i nostri peccati?

Fanno pensare, e molto, ‘le folle accorse allo spettacolo, che tornavano battendosi il petto’: sono i tanti che oggi, come ieri, come sempre, parlano di ‘eclissi di Dio’, tranne poi accorgersi che senza Dio ‘si fa buio su tutta la terra’ e, ancora di più, nella speranza e nel cuore!

Ci doveva essere un grande silenzio sul Calvario: il silenzio della paura.

La conosciamo tutti la paura che tutto sia finito, a causa di ciò che ci accade. Chi non ha provato questo senso di essere orfano di futuro, per quanto di grave può accadere, o già è accaduto?

È più che comprensibile, dunque, la paura degli Apostoli.

Ma regnava anche il silenzio dell’attesa!

Penso alla Madonna del Sabato santo, alla Maddalena e ai tanti che amavano veramente il Maestro. Gesù era la loro sola ragione di vita. Certamente non si erano rassegnati a pensarlo sepolto, come non esistesse più. Tutto si può seppellire, ma non l’amore, che genera sempre speranza.

E così il Sabato era diventato il tempo dell’Attesa, come è il ‘sabato’ di quanti, raggiunti dalla Grazia del Perdono, attendono che l’Amore mostri il volto di una storia nuova.

Si scrive tanto, oggi, del bisogno di molti di tornare alla fede smarrita, e quindi alla speranza.

Chi di noi, amici carissimi, non ha passato simili momenti, in cui si aveva l’impressione che la vita non avesse più senso e ‘ci sentivamo come morti’?

Ed, all’improvviso, vederselo davanti, splendente di gloria – perché morire per amore, non è finire nella cenere, da dove tutti veniamo, ma è entrare in una Vita, che nulla più ha di questa esperienza terrena! – era........non ci sono parole per descrivere le sensazioni, i sentimenti, i pensieri!!!

Ma una cosa è certa: tutti i timori cadono ed inizia un cammino nuovo, che porta in Alto, varcando le soglie della morte, eredità del peccato di Adamo!

Eppure anche in questa esperienza dirompente della resurrezione, la nostra ottusità continua ad emergere, come nell’incertezza degli Apostoli, nell’incredulità di Tommaso, nell’incapacità di riconoscerlo dei discepoli di Emmaus, nella convinzione della Maddalena, che il Maestro le sia stato sottratto… Un’incredulità persistente, che assomiglia tanto alla nostra, di fronte all’annuncio che un giorno risorgeremo.

Se pensassimo che verrà anche per noi la Pasqua, quando saremo noi a risorgere e – speriamo – entreremo nella gloria del Risorto, come vivremmo più intensamente la nostra esistenza quaggiù!

È un pensiero che dovrebbe accompagnarci sempre, per dare alla vita quotidiana la giusta prospettiva con il senso dell’attesa di quel giorno.

Se vivessimo in tale consapevolezza, cambierebbe tanto di noi, che a volte ci affidiamo alla vita come una situazione ‘provvisoria’ senza futuro o affaticandoci, come fanno tanti, stupidamente e tragicamente a costruirsi solo un Golgota, convinti di creare ‘giorni di uomini’, illusi di poter, ancora una volta, oscurare ‘il giorno del Signore’.

Non sia così per noi credenti: facciamoci riempire il cuore di stupore e di amore.

La memoria della Pasqua ci aiuti ad entrare nel Mistero della vita con Cristo Risorto, Vivo, che da allora attraversa tempi e anime con la Sua Gioia.

Sono venti secoli che quell’annuncio si ripete, come un ‘oggi senza tramonto’.

Ha raggiunto tantissimi nella storia: meglio, è la stessa storia della Chiesa.

E anche oggi possiamo risentirlo...sempre se, come Maria, come gli Apostoli, come i discepoli, siamo animati dal desiderio di trovarLo ... perché senza di Lui, senza Resurrezione, direbbe S. Agostino: ‘a nulla varrebbe vivere!’.

Ma occorre vivere seguendo le parole che S. Paolo scrive ai cristiani di Colossi:

“Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù,

dove è Cristo seduto alla destra di Dio;

rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.

Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!

Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato,

allora anche voi apparirete con Lui nella gloria” (Col. 3, 1-4)

L’augurio è che il nostro tempo conosca la bellezza del Cristo Risorto, esca dalla notte che fa paura e, insieme ai tanti cristiani oggi perseguitati e martiri per la fede, possiamo essere ‘testimoni di Gesù Risorto’ e, quindi ‘con Lui e per Lui, speranza del mondo’.



Antonio Riboldi
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10/04/2015 07:30
 
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Omelia del giorno 12 aprile 2015

II Domenica di Pasqua (Anno B)

“Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!’”



Ci sono momenti, nella vita, difficili da conciliare con l’idea dell’Amore del Padre, in cui abbiamo riposto la nostra totale fiducia o fede: momenti in cui vacilla o viene meno la nostra fede in Lui, e ricordiamo solo la Morte del Figlio e non la Sua e nostra resurrezione. Sono i momenti della prova, quando pare che tra noi e Dio sia calata una densa nube, al punto da mettere in dubbio non solo che ci voglia bene, ma addirittura che esista.

Mi è sempre rimasta nel ricordo una scena, subito dopo il terremoto a Santa Ninfa.

Nello smarrimento generale, un uomo, vedendo la sua casa accartocciata come un oggetto da buttare, ebbe un moto di incontenibile rabbia: prese una scarpa e la lanciò contro il cielo, come volesse colpire in faccia Dio stesso. Io stesso, davanti alla Chiesa Madrice, un ammasso di pietre su pietre, guardai verso l’altare, che non c’era più, però custodiva da qualche parte Gesù nel Santissimo Sacramento, e mi uscì dal cuore il lamento: ‘Signore fammi capire come ci vuoi bene’.

In quel momento giunse un giovane: ‘Padre, mamma, papà e le mie due sorelle sono sotto le macerie e credo siano morti’. Era come se Dio mi svegliasse dal ‘sonno della fede’ e mi indicasse dove era... Era là, sotto quelle macerie. Lui era là dove c’era disperazione e morte e occorreva correre a salvare quelli che, diversamente, sarebbero morti. Ma non è facile.

Facile invece è smarrirsi e voltare le spalle alla fede.

Ed è comprensibile, nel dolore, questo smarrimento! Di fronte alle tante tragedie del nostro mondo, che avvengono in tanti modi: dalla tragedia della fame e della miseria, a quella delle insensate guerre o dei rigurgiti di violenza nelle stesse famiglie, a tutti i tipi di sfruttamento, ai massacri brutali dei cristiani a cui ogni giorno assistiamo, che sembrano il ghigno di satana, è facile essere tentati di porsi la stessa domanda: ‘Signore, facci capire dove e come è il tuo amore’.

Proprio il Vangelo di oggi mette in evidenza il dubbio o la incertezza che Dio non sia più tra noi, come fosse morto per sempre...almeno per noi! E lo fa con il racconto di Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: ‘Abbiamo visto il Signore!’. Ma egli disse loro: ‘Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò’.

Ma è anche difficile provare la gioia dei discepoli, eppure sono tantissimi i nostri fratelli che sanno affrontare la vita - che a volte mette in difficoltà la fede come in Tommaso - senza abbandonare mai la certezza che verrà il giorno in cui vedremo faccia a faccia Gesù Risorto, risorgendo anche noi.

Non sono solo i primi cristiani, che morivano con il sorriso sulle labbra, perché sapevano di ‘vedere Gesù’, ma ancora oggi, nonostante le tante paure che ci vogliono allontanare dal Risorto, tanti cristiani e tanti martiri cristiani vivono come già appartenenti al Cielo.

Hanno certezze che sembrano ‘bestemmie per il mondo e per i tanti che sono stati schiavizzati o indottrinati dal mondo’. Ma la loro vita è una risposta a Gesù che ci chiede la piena fede, come quella degli apostoli, anche se a volte sentiamo la paura di Pietro o abbiamo l’incertezza di Tommaso.

In questa domenica davvero speciale, ricordiamo le parole pronunciate dal caro S. Giovanni Paolo II, che ispirandosi alle rivelazioni di S. Faustina, l’ha dedicata alla Divina Misericordia:

“’Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la Sua Misericordia’. (Salmo 117)

Facciamo nostra l’esclamazione del Salmista! … Vogliamo rendere grazie al Signore per il suo amore, che è più forte della morte e del peccato. Esso si rivela e si attua come misericordia nella nostra quotidiana esistenza e sollecita ogni uomo ad avere a sua volta misericordia verso il Crocifisso. Non è forse proprio amare Dio e amare il prossimo e persino i propri nemici, seguendo l’esempio di Gesù, il programma di ogni battezzato e della Chiesa tutta intera?

Con questi sentimenti celebriamo la seconda domenica di Pasqua, che dal Grande Giubileo è chiamata anche la ‘Domenica della Divina Misericordia’.

E’ davvero un immenso dono del Padre quello di avere compassione per le nostre quotidiane debolezze, che sono offese alla Sua bontà. Ci sarebbe da disperarsi se queste debolezze o peccati non incontrassero un Padre che talmente ci ama, pronto ‘a gettarci le braccia al collo’, solo se...’rientriamo in noi stessi’, prendiamo atto dei nostri peccati e ci abbandoniamo al Suo immediato e totale perdono, che è la grande ed unica nostra vera pace.

Questa domenica ‘Festa della Divina Misericordia’, giustamente, la liturgia della Parola continua a farci vivere il grande dono e mistero e ci mostra Gesù che ‘torna vivo e risorto’ tra i Suoi, che si erano rinchiusi per la paura e temevano che l’orribile onda della persecuzione giungesse fino a loro.

Ma è proprio la paura che determina il ritorno di Gesù tra di loro, come se il Maestro volesse confermare nella fede e nell’amore, quanti aveva scelto, per essere poi Suoi testimoni in tutto il mondo.

Scriveva il caro Paolo VI, nella Pasqua del 1963:

“Il mistero pasquale nel nostro tempo chiede fedeltà che è vera professione di fede … È necessario il ritorno della fiducia (che mancava in Tommaso) che è conseguenza della fede e della speranza. Anche le nostre avversità possono essere da Cristo condotte nel disegno della Sua Provvidenza. Leviamo allora gli occhi dell’anima alla trionfante figura di Cristo e lasciamo che le sue corroboranti parole risuonino oggi nei nostri spiriti: ‘Pace a voi: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!’”.

Cristo è Risorto! Vivere senza questa certezza ci porta solo a crearci idoli vani, fondamentalismi distruttori o a farci prendere da ogni tipo di paura … di vivere e...di morire!



Antonio Riboldi
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18/04/2015 18:23
 
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Omelia del giorno 19 Aprile 2015

III Domenica di Pasqua

Sono proprio Io!



Quello che colpisce tutti, credo, è il pessimismo dilagante, che si nota nelle parole e sul volto di troppi, e vicino al pessimismo si respira tanta paura, di cui non si sa nemmeno spiegare le ragioni.

Una paura che mette addosso tanta, ma tanta, insicurezza in quanto facciamo e viviamo.

Pare che tutte le speranze che, nel tempo, ci eravamo costruite, lentamente si sciolgano come neve al sole. Ed abbiamo ragione, perché di nulla possiamo essere certi qui sulla terra, a volte neppure di quelli in cui si era forse posta tutta la nostra fiducia, perchè li si riteneva amici o persone care, magari familiari … Dichiara il salmista: ‘Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e felice l’uomo che confida nel Signore’, sì, perché Lui non delude. Gesù non era e non è uno che ti lascia per strada, abbandonandoti al tuo destino.

Se ti chiama e tu lo segui, Lui non ti lascia mai. Sono gli uomini che ‘scompaiono’, dandoci l’impressione di avere riposto il nostro amore nel ‘nulla’: sono i momenti del buio della vita, della speranza che pare andare in frantumi, in cui ci ritroviamo ad essere,come gli apostoli, sorpresi anche dalla Sua apparente assenza nelle nostre difficoltà, come se fosse solo ‘un fantasma’ o come se Cristo non fosse mai risorto, ma fosse rimasto sempre là, immobile e senza vita, nel sepolcro … un ‘fantasma’, appunto, senza consistenza.

È quella stessa speranza e fede che sono mancate per un momento agli Apostoli, impauriti dalla morte di Gesù. Hanno vissuto quell’incertezza che è davvero l’oscurità dell’anima, che anche noi possiamo provare, quando per qualche dura prova della vita perdiamo la serenità o viviamo il dubbio che tutto sia illusione, amareggiati dalle delusioni e dai tradimenti: una sofferenza che tutti, credo, seppur in forme forse diverse, abbiamo sperimentato.

È la prova della nostra fede ed è in quei momenti che, a volte, si spalanca poi all’improvviso il Cielo di una gioia inattesa, come narra il Vangelo di oggi.

“In quel tempo di due discepoli che erano ritornati da Emmaus narravano agli Undici ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: ‘Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che ho io.’

Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: ‘Avete qui qualche cosa da mangiare?’. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: ‘Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi’. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: ‘Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni’”. (Lc. 24, 35-48)

VederseLo lì davanti, Glorioso, Lui, che credevano sepolto per sempre, certamente deve averli sconvolti. Quell’irrompere improvvisamente nella loro vita, Risorto, ha ‘cambiato’ la loro esistenza!

Niente è stato più come prima! Gesù li ha portati in ‘un altro mondo’, dove non esistono il tradimento, la finzione, il male: la morte non ha più posto, c’è posto solo per la Gioia, la Vita.

Viene da chiederci se anche noi crediamo davvero nell’inaspettato e atteso Dio che vuole ogni giorno farci rinascere a questa vita nuova: ‘Pace a voi!’, camminando con noi, nella nostra quotidianità.

È vero che il vivere è a volte un viaggio duro, pericoloso, insidiato da difficoltà e delusioni di ogni genere, ma non lo è più, se siamo sorretti dalla fede di chi cammina con e verso Gesù Risorto.

Per questo stupisce e disorienta il rendersi conto di quanti, troppi, vivano come se il Cielo non ci fosse e, quindi, neppure una vita nuova dopo la morte. Viviamo un tempo di tale consumismo, che lascia poco posto al desiderio del divino....come se fossimo ben ‘sepolti’ alla gioia, preferendo il buio delle creature senza vita: successo, potere, denaro, che diventano davvero il veleno della vita, magari ingannando e tradendo persino gli affetti più cari!

Eppure non possiamo non sentire la nostalgia di un amore più grande, che non può avere casa quaggiù, dove, se siamo fortunati, possiamo al massimo godere di qualche sprazzo, che è come un raggio di sole, che si affaccia al mattino e scompare al tramonto. Basta un briciolo di verità nella nostra coscienza spesso sopita, se non ottenebrata, un barlume di desiderio … Se in noi, come negli Apostoli, c’è almeno una ricerca, una voglia di seguirLo, un vago desiderio di vederLo e quindi di stare con Lui, allora Lui fa il primo passo verso di noi.

Certamente non è cosa da poco saper accogliere Cristo, che cerca in tutti i modi di ‘apparire a noi’. Ma Lui ci sorprende, se solo glielo permettiamo, viene, toglie la pericolosa ‘nube’ che lo nascondeva, come non ci fosse, ‘apre la nostra mente’ e Lo ‘vediamo’... Lui c’è, è vivo!

E la nostra spesso spiritualmente povera vita, cambia, perché scopriamo che nella Resurrezione di Gesù, non c’è solo una conferma della nostra fede, ma vi è qualcosa di infinitamente più grande: l’aver ritrovato ‘la vera Via, Verità e Vita’. Quella Via che non solo non porta ad una negazione del domani, che è la nostra resurrezione con Cristo, ma dà senso di futuro anche al presente! Vivere è così avere un piede su questa esperienza terrena ed un piede nell’eternità. E vivere con gli occhi fissi al Paradiso, credetemi, è il motivo della Gioia che è in tanti, che sono con noi e tra di noi.

È quello che prego per tutti voi, miei amici, sempre e voi chiedetelo per me.



Antonio Riboldi
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09/05/2015 18:26
 
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Omelia del giorno 10 Maggio 2015

VI Domenica del Tempo di Pasqua

Rimanete nel mio amore



Alle volte, giustamente, la Parola di Dio ci sveglia da uno stile di vita, in cui ci adattiamo, ma che della vita ha perso la parte più bella, direi il senso stesso che Dio ci ha dato creandoci.

Dio ci ha fatti ‘simili a Sé’: e Lui è l’Amore. Se così è, inevitabilmente, quel ‘soffio’, che Dio ‘ispirò’ in noi, e di cui non possiamo fare a meno, è il volerci bene, come ce ne vuole Lui.

Non occorrono tante parole per capire che vivere senza amare e senza essere amati, è come non vivere, peggio, è sopportare la vita come un peso di cui non si capisce la ragione. E quando l’Amore è bandito dalla nostra vita, inevitabilmente lo sostituiamo con un altro ‘dio’, erigendo il nostro egoismo come unica legge da seguire, appropriandoci di un inesistente diritto di fare quello che ci pare in tutto.

Ma viene il momento, come singoli e come società, in cui non si può più nascondere la ripugnanza per tutto il male che deriva da una tale impostazione di vita e allora diventiamo giudici spietati degli altri, degli ‘antagonisti’ di ogni realtà, istituzionale, sociale o personale, mancando di una consapevolezza essenziale: se si soffre disagio e malessere, lo si deve proprio al fatto che ciascuno si fa regola dei propri comportamenti. Quando l’uomo si fa ‘dio’, inevitabilmente, causa il disordine che soffriamo.

Oggi la Parola di Dio, Gesù stesso, con forza, ci esorta all’irrinunciabile bene, che è l’amare.

“Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando:che vi amiate gli uni gli altri.” (Gv. 15, 9-17)

Incredibile, anche solo pensare, quanto Dio, il Padre, ci ami.

Il Suo Amore non è una parola, che a volte è solo suono, vuoto, senza frutto, ma è un Amore che Gli ha richiesto il massimo che si possa donare, ossia il Figlio Gesù, l’infinito dell’Amore, fatto Dono con la sua Morte e partecipato a noi con la Resurrezione.

Un vero e serio richiamo alla nostra vera natura di figli amati, che nella vita di ogni giorno dovrebbero sempre cercare di camminare sulla via dell’amore paziente, misericordioso, umile, gratuito con Lui.

E’ una testimonianza di vita che vediamo in tante mamme e papà, in tante persone consacrate, in tantissimi che vivono la serenità anche nelle difficoltà, nella sofferenza, come se per loro vivere fosse ‘essere in braccio a Dio’. Davvero Dio ha un grande posto tra noi, anche oggi, in cui a molti sembra trionfi la solitudine e l’amarezza di non essere amati. Quanta sofferenza possiamo alleviare e quanto amore seminare! Poteva Gesù essere più chiaro nell’affermare la necessità vitale di volerci bene?

Credo sia davvero un volerci fare entrare nella familiarità con Dio, comunicandola tra di noi.

Un bene immenso, ma pare che il mondo lo rifiuti o non lo comprenda … e sta male, tanto male!

Così la saggezza del grande Paolo VI dipingeva questo malessere del mondo, nel 1956 – ma sembra il nostro oggi –: “In un mondo che va perdendo la capacità di amare, man mano che perde la capacità di conoscere Dio, e facendo l’uomo centro del suo pensiero e della sua attività, divinizza se stesso, spegne la luce della verità, vulnera i motivi dell’onestà e della gioia, noi proclameremo la legge dell’amore … Risponderemo a Dio con l’offerta del nostro cuore … Sarà la nostra vita un incantevole dialogo con quel Dio, che dopo averci creato, redenti, associati alla Sua Vita, rivolge a noi la fatale domanda che Cristo rivolse a Pietro: ‘Mi ami tu?’. In un mondo che ha deturpato l’amore in tutte le maniere, … che ha confuso l’amore con il piacere, che lo ha sconsacrato nell’innocenza, lo ha mercanteggiato nella sua debolezza, lo ha esasperato per renderlo complice della passione e del delitto, in questo mondo noi proclameremo la legge dell’amore che si purifica. Lo rispetteremo negli affetti sacri della famiglia cristiana; lo difenderemo nelle crisi della giovinezza, lo educheremo alla visione della bellezza che è nelle cose, ma soprattutto negli uomini, nostri fratelli, perché figli dello stesso Padre. In un mondo infine, che divora nell’egoismo individuale e collettivo, e crea antagonismi, inimicizie, gelosie, lotte di interessi, l’odio in una parola, noi proclameremo la legge dell’amore che diffonde e dona, che sa allargare il cuore ad amare gli altri, a perdonare le offese, a servire, a sacrificarsi senza calcoli e senza encomi, a farsi povero per i poveri, fratello tra i fratelli, e così creare un mondo di giustizia e di pace. Così Dio ci aiuti”.

È davvero un inno all’Amore, chiamato oggi a farsi strada tra gli uomini, perché sappiano conoscere quella Gioia, che Dio ci ha donato, creandoci con e per Amore. Quella gioia che, come spesso ha affermato, testimoniandola, Papa Francesco è “il segno del cristiano. Un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato … E’ come il sigillo del cristiano, la gioia. Anche nei dolori, nelle tribolazioni, nelle persecuzioni pure … La gioia custodisce la pace e custodisce l’amore.”

Amare Lui più di se stessi è la via per quella serenità di cui tutti abbiamo bisogno e che, troppe volte, perdiamo per rincorrere un amore disordinato alle persone o alle cose, che certamente non offre la gioia che solo Gesù può donare. È difficile tutto questo? Per chi ‘rimane in Lui’, amando veramente Dio e facendo dell’amore ai fratelli il senso della propria vita, no! Anzi, davvero amare è liberarsi da se stessi, la più terribile schiavitù. E non saremmo più felici, se invece di perdere tempo in lamenti o accuse e violenze, scorgessimo, nei passi quotidiani, l’Amore di Gesù che ci precede, sorride e sorregge, come a dirci: ‘Coraggio, tutto è amore, e in fondo c’è la pienezza di gioia che sogni’.



Antonio Riboldi
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16/05/2015 08:32
 
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Omelia del giorno 17 Maggio 2015

Ascensione del Signore (Anno B)

Ascensione del Signore Risorto



Dobbiamo provare ad entrare nell’animo degli Apostoli dopo ‘quel terzo giorno’ dalla sepoltura del Maestro quando, come oggi raccontano gli Atti degli Apostoli, “Gesù si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio.”

Anche se non comprendevano il ‘come’ e il ‘perché’, sicuramente intuirono che il Suo ritorno, gli incontri inaspettati e quelli tanto desiderati, erano come un ‘nuovo’ invito a seguirLo.

Infatti di fronte al loro desiderio – forse ancora troppo umano – di ‘ricostituire il Regno d’Israele’ Gesù risponde con decisione: ‘Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra’.

‘Essere Suoi testimoni’ è il senso profondo della nostra vita quaggiù, perché la presenza di Gesù tra di noi, concretamente, ha il fine di permetterci di tornare alla nostra vera casa, che non è qui, ma in Cielo dove Lui è asceso. E se questo è lo stesso desiderio d’amore del Padre, che tutti, senza eccezioni, un giorno saliamo al Cielo e anche la sola, unica ed eterna nostra vocazione.

“Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse ai loro sguardi. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in vesti bianche si presentarono a loro e dissero: ‘Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che è stato tra voi assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo’.” (At. 1, 1-11)

Ma quanto può sembrare difficile, alla prima impressione, essere un giorno per sempre cittadini del Regno dei Cieli! Eppure è la sola ragione per chi concepisce la vita, non solo come un momento di esperienza sulla terra, dove è impossibile conoscere la gioia vera, ma come ‘un pellegrinaggio’ proiettato verso l’eternità. Spesso c’è il rischio di vivere alla giornata, e non è certamente giusto interpretare la vita in modo così riduttivo. ‘Quanto a noi, la patria è nei cieli – afferma S. Paolo – non abbiamo qui città permanente, ma andiamo in cerca della futura’ (Ebr. 13, 14)

Se si pensa bene, per chi crede, il Cielo è un’assemblea di santi e di gente semplice, che sono stati nostri compagni di vita: una vita con ‘i piedi a terra’, ma il pensiero e il cuore ‘rivolti al Cielo’.

Possiamo incontrare, qui, oggi, sulla strada della vita, tanti nostri fratelli che seguono quelle orme: vivono da pellegrini ‘provvisori’ su questa terra. Sono impegnati, come tutti, a compiere la loro fatica terrestre, ma il loro passo è sempre diretto al Cielo.

Che servirebbero tanti sacrifici, se non fossero interpretati e vissuti come la necessaria fatica verso una gioia eterna? È la grande speranza che portano nel cuore tanti che ci sono vicini e da cui apprendiamo come si cammina nella vita verso il Cielo.

Viviamo della speranza che Cristo, salendo al Cielo, ha dischiuso all’anima. Questa speranza ci darà il miglior senso di questa vita presente: ci libererà dall’incombente ossessione del materialismo organizzato, opprimente castigo a se stesso, e, se avesse a prevalere, rovina della stessa civiltà cristiana. La speranza del Cielo ci insegna a portare e santificare i dolori del nostro viaggio terreno, ci infonde premura e amore per fare del bene ai nostri simili; ci conserva nella libertà dello spirito, che l’orizzonte puramente temporale tenta di restringere e soffocare; ci ammonisce finalmente a considerare questo nostro provvisorio soggiorno sulla terra, come una vigilia laboriosa e amorosa, sostenuta dalla preghiera che vince il sonno della materia e della morte, in attesa dell’incontro e del ritorno a Lui, Cristo, in Cielo. ‘Affrettiamoci verso quella vita.– dice S. Ambrogio – Dio, dopo questa nostra vita, sia la nostra patria”.

Ma è anche necessario convincerci che la Resurrezione di Gesù e la sua Ascensione al Cielo, non è solo una ‘questione personale’, come una dimostrazione della potenza, che Dio ha su tutto, anche sulla morte, ma, Lui, Dio, si è fatto uomo, per coinvolgerci tutti, ma proprio tutti, nella Sua stessa sorte.

È questo il grande evento dell’Amore del Padre.

Non ci rimane, allora, che guardare alla vita temporale, questo piccolo spazio, concessoci da Dio, non come un’avventura, ma come un valore che veramente ci riporta alla ragione per cui Dio ci ha creati: imparare a ‘stare sempre con Lui’ già qui sulla terra, per essere pronti a ‘stare con Lui eternamente in Cielo’, con il più gran numero di nostri fratelli.

E questa è la missione che Gesù ha lasciato agli Apostoli, salutandoli, prima di ascendere al Cielo, come ci narra oggi l’evangelista Marco: ‘Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro alcun danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno’. Il Signore, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme a loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano”. (Mc, 16, 15-20)

È bello riflettere sulle ultime parole di Gesù, mentre manda i Suoi a predicare in mezzo a questo mondo che, anche se non appare, ha bisogno di infinito, di speranza, di quella gioia che dà il Cielo. Un incarico che fa tremare anche noi, oggi, tanto è grande! Ecco perché Lui assicura la Sua Presenza ‘operando con noi e confermando la Sua Parola con i miracoli che l’accompagnano’.

Ed è così. Sappiamo che Gesù, asceso al Cielo, non è lontano da noi; è qui con noi a condividere la nostra ‘passione quotidiana’ e ci sentiamo forti della Sua Forza, amati e per questo capaci di amare, per l’azione del Suo stesso Spirito, che è Amore, diventando Suoi testimoni. Coraggio dunque, qualsiasi sia la nostra situazione: Gesù è con noi, ha cura di ciascuno di noi, opera attraverso noi.



Antonio Riboldi
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31/05/2015 09:21
 
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Omelia del giorno 31 Maggio 2015

Solennità della SS.ma Trinità

La Chiesa, quasi ripercorrendo il continuo cammino della storia dell’amore che Dio ha per ciascuno di noi, dopo averci narrato l’amore di Gesù, Figlio del Padre, dato a noi per la nostra salvezza, la Presenza vivificante dello Spirito Santo con la Pentecoste, oggi, ci presenta quella che è stata definita ‘la Famiglia di Dio’, ossia la SS.ma Trinità.

Davanti a questo incredibile ed infinito Mistero di Amore, che vuole riversarsi su ciascuno di noi, si vive una vera trasformazione per chi crede e accetta di entrare a farne parte, come figlio adottivo.

S. Paolo ce lo ricorda: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà! Padre!’. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”. (Rom. 8, 14-17)

C’era una volta nelle nostre famiglie una serenità di rapporti e di affetti, che aveva la sua origine da una fede semplice , ma profonda, che sono sicuro c’è ancora in tante famiglie cristiane anche oggi.

Era una fede che si manifestava anche nei gesti. All’inizio di ogni giornata o di ogni azione, compresa quella di mettersi a tavola, un segno della nostra fede, che voleva dedicare ciò che si faceva a Colui da cui tutto proviene, a cui tutto dovrebbe essere indirizzato, era il segno della croce. Con un semplice gesto della mano, che traccia sul corpo della persona una croce, a partire dalla fronte fino al cuore, si ricorda il Mistero pasquale di Gesù e, con le essenziali parole che accompagnano il gesto, non solo si fa una solenne professione di fede – la fede a cui ci gloriamo di appartenere – ma si dà un senso altissimo alla nostra vita, nella sua quotidianità. Erano i nostri genitori, soprattutto la mamma, a guidare i movimenti delle nostre manine, ancora inesperte, nel fare il segno della croce, dicendo loro stesse, al nostro posto: ‘Nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo’. Poi si aggiungeva la lode: ‘Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo’.

Ma nasce una domanda urgente: Come mai, in una società di maggior benessere – nonostante la crisi economica – oggi vi è tanto sfacelo nelle famiglie, tante tensioni e a volte violenze? Perché nella sfera individuale come nella società, noi uomini, oggi, siamo tanto lontano dalla gioia divina? Come mai ci rendiamo così irriconoscibili, da sembrare tragiche maschere, più che immagini viventi di una bellezza e di una felicità infinita, che ci viene da Dio?

Forse non siamo più abituati o educati a vedere e credere la nostra vita come la storia di un grande Amore, che viene proprio dall’opera della Trinità, presente ed operante oggi in noi.

Occorre ritornare ‘bambini’ capaci di contemplare ‘le meraviglie’ che Dio dona ed opera prima di tutto nella nostra storia personale: meraviglie a volte oscurate da tante debolezze e fragilità, ma sempre affiancate dalla misericordia di Dio, pronto a cancellarle con l’Amore che perdona.

Dobbiamo conoscere e riscoprire l’azione della SS.ma Trinità in noi ed attorno a noi. Ma Chi è per noi la SS.ma Trinità? Ascoltiamo la semplice, ma profonda ed efficace catechesi di Papa Francesco ad un gruppo di bambini della Prima Comunione; potrà aprire anche i nostri cuori ad una visione di fede rinnovata e sincera, se solo lasciamo un po’ di spazio all’azione dello Spirito, ‘che abita in noi’:

“Chi sa chi è Dio?”. Ecco! Creatore. E quanti Dio ci sono? Uno? Ma a me hanno detto che ce ne sono tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo! Come si spiega questo? Ce n’è Uno? Sono tre in uno, tre persone in uno. E che cosa fa il Padre? Il Padre è il principio, il Padre, che ha creato tutto, ha creato noi. Che cosa fa il Figlio? Che cosa fa Gesù?... Gesù viene ad insegnarci la Parola di Dio … Ci ha salvati! E Gesù è venuto per dare la sua vita per noi. Il Padre crea il mondo; Gesù ci salva. E lo Spirito Santo che fa? Ci ama! … E questa è la vita cristiana: parlare con il Padre, parlare con il Figlio e parlare con lo Spirito Santo. Gesù ci ha salvato, ma anche cammina con noi nella vita. … Primo: ci aiuta. Ci guida e ci insegna ad andare avanti. E Gesù ci dà anche la forza per camminare. Ci sostiene! Nelle difficoltà, vero? … Ma come ci dà la forza Gesù? Nella Comunione ci dà la forza, proprio ci aiuta con la forza. Lui viene a noi. Sembra pane! Ma non è proprio pane. E’ il Corpo di Gesù. Gesù viene nel nostro cuore. Ecco, pensiamo a questo, tutti: il Padre ci ha dato la vita; Gesù ci ha dato la salvezza, ci accompagna, ci guida, ci sostiene, ci insegna; e lo Spirito Santo ci dà l’amore (e ci santifica). Pensiamo a Dio così e chiediamo alla Madonna, nostra Madre, che ci insegni a capire bene com’è Dio.”.

Lasciamo che queste parole di Papa Francesco parlino al nostro cuore. La sua è la risposta semplice e vera a tanti nostri tormenti, inquietudini, perché viviamo, spesso per ignoranza, come fossimo orfani o, peggio, come maschere da strada, senza volto, perché, per presunzione o errato senso di autosufficienza, rifiutiamo la gioia offerta dal nostro Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Da qui anche l’invito di Gesù ai suoi apostoli e a ciascuno di noi, nel Vangelo di oggi,:

“Mi è stato dato oggi potere in cielo e in terra: Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. (Mt. 28, 16-20)

Non ci resta, in questo mondo che soffre proprio perché è ‘orfano di Dio’ e per questo si affida ad altri che sono mercenari, di riportare e rivivere il dono offertoci dal nostro Dio Trinità: un’incredibile compagnia! Non dimentichiamo mai che, nella fatica quotidiana, non siamo soli, mai e poi mai soli. Dio Padre ha cura di noi, Gesù ci ha detto: ‘Io sono con voi sempre fino alla fine del mondo’… e ci ha inviato lo Spirito Santo, Spirito di sapienza, di fortezza, di scienza … Tocca a noi, ora, nella ferialità della vita, costruire quella santità, o dignità di figli, che è poi la bellezza di vivere non una vita qualunque, a volte priva di senso, ma piena di gioia già quaggiù: una pienezza di vita da figli, che va oltre la morte, per essere in Cielo eternamente figli della ‘grande famiglia’ di Dio.


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14/06/2015 16:35
 
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XI Domenica del Tempo Ordinario

Il Regno di Dio è come un granello di senape

Chi di noi è avanti nell’età ricorda senz’altro che una volta era un fatto rarissimo e scandaloso nei nostri piccoli paesi, dominati dalle certezze che erano ‘fede, famiglia, lavoro’, che qualcuno, non dico rinnegasse, ma manifestasse dubbio o indifferenza su Dio, sull’unità della famiglia e sulla dignità e necessità del lavoro. Più che a ‘speranze’ ci si affidava a ‘certezze’, forse non sufficientemente coltivate, perché, al momento dei cambiamenti avvenuti nella società, sono come crollate, lasciando il vuoto che tutti conosciamo e che dà luogo ad un profondo senso di frustrazione.

A questo vuoto e non senso della vita si aggiunge oggi il manifestarsi insistente di un senso di impotenza di fronte alla brutalità del male, che il mondo ci presenta giorno dopo giorno, in una crescita che sembra volersi avvicinare al dominio totale sull’uomo.

Tanti, allora, quando si ha come l'impressione che il male stia sommergendoci, negandoci ogni briciola di speranza, vivono, con sofferenza, una dura amarezza interiore, altri appaiono quasi ‘rassegnati’ al male, come una resa incondizionata, anche se impossibile e assurda per ogni cristiano che segue veramente Gesù. Ma occorre davvero vivere una fede che riveli la pienezza della Presenza di Dio, l'Unico capace di sostenerci fino al martirio. Anche Papa Francesco, nella visita a Sarajevo ha evidenziato che ‘nel nostro tempo l’aspirazione alla pace e l’impegno per costruirla si scontrano col fatto che nel mondo … si percepisce un clima di guerra … quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore!’. Ma ha subito alzato lo sguardo al Cielo: ‘“Pace è il sogno di Dio, è il progetto di Dio per l’umanità, per la storia, con tutto il creato.’ E’ questo il motivo per cui oggi S. Paolo ci esorta: "Fratelli, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - camminiamo infatti nella fede e non nella visione - siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a Lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male". (II Cor. 5,6-10)

Sono tanti i fratelli che coltivano la fede nella vita e vogliono essere ‘graditi a Dio’. Forse conoscono anche la fatica di mettere alle spalle il mondo, ma soprattutto vivono dell'interiore gioia che Dio dona in pienezza a chi vive di fede in Lui: chi ama non pensa a ciò che rinuncia, ma all'amore di cui vive.

Sono, con le parole di Papa Francesco, coloro che si impegnano a ‘fare la pace’ che ‘è un lavoro artigianale” che richiede “passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia …”. È la chiave di lettura che ci dà l’evangelista Marco per poter vivere la speranza nel Regno. Attorno a Gesù, allora come oggi, si affollava tanta gente, ognuno con la sua domanda, ognuno con la sua speranza. Che cosa poteva offrire il Figlio dell’Uomo? Sicurezze materiali, condivisione di potere, difesa della sofferenza, verità comode?

Tutta la storia insegna che la massa ha sempre cercato un ‘messia’ che la mettesse al sicuro dalle incertezze e dalle paure: non importa se questo avveniva rapinandoci dei più elementari diritti, libertà, dignità, amore, che sono la vera nostra grandezza. Così come la storia puntualmente dimostra che questi ‘messia’ hanno solo saputo, e continuano a creare cimiteri di martiri, mai la civiltà dell’uomo.

E Gesù cosa offriva, cosa offre?

Il Maestro descrive se stesso, il Suo Regno, ‘come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura … A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra’ (Mc 4, 26-34)

Ho provato una volta, in Terra Santa, a tenere tra le mani un seme di senape: sembrava di avere ‘un nulla’ che chiunque poteva distruggere, ma, contemplando gli alberi, nati da tali semi, mi rendevo conto di quello che quel ‘nulla’ poteva diventare, se solo avesse trovato un terreno che lo accogliesse.

Gesù si presentava anche nella forma esterna, davanti ai suoi ascoltatori, come quel seme di senape. La Sua Parola, che ha una potenza creatrice, aveva la stessa debolezza. Lo dice chiaro l’evangelista: ‘Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa. ’

Anche i suoi discepoli, a cui aveva spiegato ogni cosa, nel momento della Passione, quando il Male provò a stritolare quel granello di senape, lo abbandonarono e lo tradirono.

Ma la croce era il giusto terreno che quel granello cercava, per diventare lo splendido Regno di Dio che siamo anche noi e che nessuno riesce più a demolire.

Il Vangelo certamente fa giustizia di tanti che non voltano le spalle a Cristo, e non si lasciano abbagliare, accettando le tante offerte del mondo, simili a fuochi artificiali nella notte, che offrono luce e calore per la durata di pochi secondi! Una volta spentisi, si torna al buio e alla realtà evanescente a cui ci si è affidati. Facile cedere al vuoto del mondo, sembra non si corrano rischi... ma spesso, già quaggiù, i frutti dell'agire secondo il mondo sono solitudine e non senso, mentre stupendo è il 'premio' garantito alla coerenza di chi fa del Vangelo il solo Libro della sua vita: è pace e gioia nello Spirito.

E, grazie a Dio, ci sono ancora tanti cristiani che non si lasciano intontire dall'ambizione alle cariche o dalla superficialità delle mode senza senso. Le critiche sono per loro la conferma davanti a Dio e agli uomini che la coerenza nella fede è un bene che va oltre tutti i vantaggi momentanei, spesso definiti 'bene’, ma che tali non sono. Siamo sinceri, è davvero 'coraggio' l'affidarsi al nulla delle cose o non è piuttosto essere degli sprovveduti, incapaci di guardare oltre l'immediato, il subito ed adesso?

Occorre davvero tanto coraggio per essere cristiani veri, che si nutrono di fede e danno alla vita il significato che Dio stesso le ha donato?

Se riflettiamo seriamente alla nostra povertà e a chi dovremmo essere, - come ha detto a Sarajevo, Papa Francesco, rammentando le parole di San Paolo – cioè cristiani capaci ‘di rivestirsi con sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità … ’ sembrerebbe di sì. Ma Papa Francesco oggi, come Gesù ieri, ce lo dice chiaramente, ‘non dipende solo da noi. … La pace è dono di Dio, non in senso magico, ma perché Lui, con il suo Spirito, può imprimere questi atteggiamenti nei nostri cuori e nella nostra carne … la pace è dono di Dio perché è frutto della sua riconciliazione con noi. Solo se si lascia riconciliare con Dio, l’uomo può diventare operatore di pace”.

Il Regno di Dio, che è Gesù, è già in mezzo a noi ed è un seme che cresce, ma occorre che i cristiani, che con serietà vogliono vivere di fede, di fatto da Lui si facciano condurre, cercando di dare alla vita, in ogni atto o gesto quotidiano, anche il più semplice, la stessa cura che Dio ha per il seme che ha posto in loro. D'altra parte tutti sappiamo che la vita non è uno scherzo: la vita non concede a nessuno leggerezza e superficialità, perché comunque, per la sua stessa finitezza, mette a dura prova ciò che davvero siamo e crediamo, ma il sorriso di un cristiano di grande e sincera fede - e ne ho incontrati tanti - testimonia la bellezza dell'uomo che, ogni giorno, si lascia plasmare da Dio.

Diamo a Dio la nostra totale ed incondizionata fiducia, abbandonandoci alla Sua azione, mettendo la nostra vita nelle Sue mani e nel Suo Cuore, affidandoci a Lui, credendo che Lui e solo Lui conosce il cammino che dobbiamo percorrere per essere davvero felici.

Dio non voglia, carissimi, che viviamo senza una ragione o senza uno sguardo al Cielo. Ricordiamocelo sempre: non siamo cose, siamo figli del Padre, tutti, e quindi chiamati alla sola Bellezza che è propria dei figli di Dio, quella che si riflette nelle persone buone.

Quando si incontra un cristiano vero, che è sempre gioioso e pieno di speranza, nonostante sofferenze e difficoltà, davvero si ha l’impressione di avere tra le mani un ‘granello di senape’, tanto appare ‘povero e indifeso’, ma senti che dietro vi è l’immensa pianta del Regno di Dio, già operante in mezzo a noi. Pensiamo ai tanti nostri fratelli martiri per la fede … oggi! Sono essi ‘seme di nuovi cristiani’.

Antonio Riboldi – Vescovo
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04/07/2015 22:23
 
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Omelia del giorno 5 Luglio 2015

XIV Domenica del Tempo Orinario (Anno B)

Vocazione di ogni cristiano: essere profeta!

Il Vangelo di oggi è duro nella sua essenzialità. Ci dice che non basta credere di essere vicini a Gesù, perché da noi nasca un’autentica risposta di fede e che è un difficile compito, anche oggi, quello di coloro che si propongono di fare dono del Vangelo, della Parola di Dio, agli uomini del nostro tempo.

“In quel tempo, Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono.

Venuto il sabato incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: ‘Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?’. E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: ‘Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua’. E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le sue mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità”. (Mc. 6, 1-6)

È terribile anche solo pensare come tanta Luce possa essere rifiutata. In troppi sono così sazi delle dannose e vuote parole nostre e del mondo, che non sentono più il bisogno di ‘parole vere’, che contengano ‘verità e vita’, come sono quelle che Dio offre, gratuitamente, per il Suo grande Amore, che desidera comunicare con noi.

Anche Gesù ha conosciuto fino in fondo l’amarezza della contestazione, nella sua patria, tra la sua gente, il rifiuto della sua parola, fino alla crocifissione.

È tanto bello, anche se tremendamente gravoso, essere tra gli uomini ‘un profeta di Dio’, la Sua stessa voce. È bello esserlo: bello, perché è Dio che ancora parla agli uomini; e se Dio parla agli uomini, vuol dire che la Sua fedeltà non viene meno, che c’è la possibilità che ci sia la luce e che quindi noi tutti possiamo camminare nella luce.

Chi non vorrebbe essere profeta di Dio? O chi non vorrebbe sentire un profeta di Dio? Ci sono oggi questi profeti? Tanti, rispondo con fermezza.

Il caro Papa Francesco, vescovi, preti, laici, martiri, disseminati per tutta la faccia della terra: come fossero insieme una potente voce, unica voce che parla agli uomini e per gli uomini.

È mai la loro voce è stata così chiara, così piena di calore, di misericordia, così vera, così forte. Possiamo veramente dire che oggi Gesù, Verbo del Padre, nella Sua Chiesa, è Parola viva, Parola di vita. Ma la ‘sua’ gente, i ‘suoi’, l’ascoltano? O si scandalizzano?

C’è di vero che tanti l’accolgono con gioia: la gioia di spalancare gli occhi e la vita alla verità che ci fa liberi. E c’è di vero che tantissimi si ‘scandalizzano’ fino a quasi voler cacciare dalla vita questi ‘profeti’. Non è difficile individuare l’ostracismo, a volte il disprezzo, il rifiuto anche tra di noi, di tutto ciò che viene dalla Verità che è nella Parola di Gesù, offertaci dai suoi profeti. Danno fastidio alla cecità di chi tale è per i falsi idoli che si è creato. Guai dire al bugiardo che è bugiardo, al corrotto che è corrotto, al ladro che è ladro, allo sfruttatore che è uno sfruttatore, al criminale che è criminale!

Per fortuna il Signore è fedele e anche oggi ci ripete quanto disse al profeta Ezechiele:

“In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: ‘Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di Me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di Me sino ad oggi. Quelli a cui ti mando, sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: ‘Dice il Signore Dio – Ascoltino o non ascoltino – perché sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. (Ez. 2, 2-5)

La Parola del Padre, per vivere serenamente e conoscere la bellezza di Dio e del dono della vita, senza provare il vuoto dell’anima, non può essere ignorata.

Ecco perché noi non possiamo tacere. ‘Guai a noi se non predicassimo!’ – ci avverte l’Apostolo.

Un ‘guai’ che pesa sulla nostra società, tante volte priva di valori umani e divini: valori che solo la Parola sa suggerire. Penso che le parole. che oggi la Liturgia ci offre, suonino come un grave avvertimento. Ci dovrebbero fare arrossire davanti alla pigrizia che ci assale, di fronte al nostro dovere, ricevuto nel Battesimo, di essere tutti missionari. Tanto meno ci si deve lasciare prendere dalla paura di essere criticati; si dovrebbe, invece, sentire la necessità, ogni giorno, di trovare un tempo per nutrirci della Parola di Dio, per poi viverla ed annunciarla.

Ci avverte il ‘nostro’ grande Paolo VI, verso cui nutro un grande amore: “Forse mai come oggi il mondo ha avuto così grande bisogno di valori spirituali … Anche le nazioni più prospere del mondo stanno scoprendo da sé che la felicità non consiste nel possedere molti beni; stanno imparando da un’amara esperienza ‘del vuoto’, quanto siano vere le parole di Gesù: ‘Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio’… Se mai ci fu un tempo in cui i cristiani sono chiamati, più che in passato ad essere luce che illumina il mondo, questo è il nostro tempo. Noi infatti possediamo l’antidoto al pessimismo, agli oscuri presagi, allo scoraggiamento, alla paura di cui soffre il mondo. Noi abbiamo la Buona Novella”. (25 giugno 1971)

Buona Novella che dobbiamo conoscere ed ascoltare, come ci ha ricordato Papa Francesco: “Ricordiamo … uno che parla e fa, solamente, non è un vero profeta, non è un vero cristiano, e alla fine crollerà tutto: non è sulla roccia dell’amore di Dio non è saldo come la roccia. Uno che sa ascoltare e dall’ascolto fa, con la forza della parola di un Altro, non della propria, quello rimane saldo. Benché sia una persona umile, che non sembra importante, ma quanti di questi grandi ci sono nella Chiesa! Quanti vescovi grandi, quanti sacerdoti grandi, quanti fedeli grandi che sanno ascoltare e dall’ascolto fanno!”


Antonio Riboldi –
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10/07/2015 06:33
 
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Omelia del giorno 12 Luglio 2015

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Il battezzato è chiamato ad essere ‘profeta’



Dio che ama l’uomo e vuole a tutti i costi la sua salvezza, non ha esitato mandarci Suo Figlio Gesù; e continua nel tempo a contestare in continuità le tante mortali sicurezze che ci creiamo, e tali non sono; manda uomini, donne destinati appositamente a scuotere le nostre coscienze, la stessa coscienza del mondo intero, se necessario, senza preoccuparsi delle reazioni o delle persecuzioni. Vuole aiutarci a comprendere il pericolo che si corre nel rifiuto o nell’ignoranza della Parola di Dio, evitando che cadiamo in un quieto vivere ‘cristiano’, simile ad un sopore da cui c’è il pericolo di non risvegliarsi.

Oggi la Parola di Dio ci presenta una figura ‘scomoda’, è il profeta Amos, a cui Dio si rivolge così:

“In quei giorni il sacerdote di Betèl Amasìa disse ad Amos: ‘Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betèl non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno’. Amos rispose ad Amasìa: ‘Non ero profeta, né figlio di profeta: ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: ‘Va’, profetizza al mio popolo in Israele’”. (Am. 7, 12-15)

E il grande Paolo, apostolo delle genti, così ringrazia Dio:

“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. In lui anche voi, dopo aver ascoltato il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso …”. (Ef. 1, 3-14)

E Gesù si è preoccupato che la voce del Padre, che mette ‘luce’ negli uomini, portandoli alla verità della vita non tacesse mai, non si affievolisse neppure, ma continuasse nei secoli. Da qui la missione che Gesù affida ai Dodici:

“In quel tempo Gesù chiamò i Dodici ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio, né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa, ma calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. E diceva loro: ‘Entrati in una casa, rimanetevi finché ve ne andate da quel luogo. Se in qualche luogo non vi riceveranno, andandovene scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi a testimonianza per loro’. E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano”. (Mc. 6, 7-13)

Un mandato che è valido anche oggi, poiché ogni battezzato è, deve essere ‘profeta’. E noi assistiamo alla fatica di tanti sacerdoti, suore, comuni fedeli, che si spingono sulle frontiere di tutto il mondo per recare la Parola di Dio. Basterebbe pensare alla Cina o alle difficoltà dei cristiani nel mondo mussulmano. Davvero in tanti posti evangelizzare è vivere sul filo del rasoio: è facile imbattersi con la morte e, quindi, il martirio. Ma anche il nostro mondo occidentale, cosiddetto cristiano, quanto ha bisogno di essere rievangelizzato.

Fino a poco tempo fa, si aveva quasi la certezza che tutto fosse chiaro, almeno per quanto riguarda i grandi valori della vita: valori la cui origine e consistenza era nella Parola di Dio. Chi avrebbe mai osato discutere, per esempio, del grande ed intoccabile valore della famiglia? O del dono della vita? O del valore dell’onestà o, addirittura, della necessità di una fede cosciente e coerente, che era la dignità e il volto dell’uomo?

Oggi tutto o quasi è stato rimesso in discussione: a volte solo per chiarire meglio; a volte per cercare di piegare Dio o la Sua Legge al capriccio dell’uomo; a volte per cancellare tutto, sostituendo valori certi con vacuità del momento che possono solo esaltare l’egoismo o l’individualismo dell’uomo.

Ma non si oscura la verità dell’uomo, dietro cui si nasconde il misericordioso e gratuito amore di Dio, senza pagare un duro prezzo! Basta guardarci intorno … Le piaghe dell’anima dell’uomo moderno sono tante. Ecco perché, soprattutto oggi, l’amore del Padre ‘ci prende’, ‘ci sceglie’ e ‘manda’ dicendoci: ‘Va’, profetizza al mio popolo’.

In altre parole: ‘Va’, ai fratelli che ti ho affidato, in famiglia, sul luogo di lavoro, ovunque ti trovi accosta ogni persona, ogni famiglia, ogni ambiente e parla ancora una volta del Regno di Dio, della sua Buona Novella; dì ancora una volta che Dio ci ama e chiede che ci si apra al suo Amore, ci si converta a Lui con tutto il cuore, perché il resto, quello che si crede un bene, a cui si rischia di vendere interamente la propria vita, non è il bene assoluto, ma semmai un mezzo per conoscere meglio Lui, amarLo di più personalmente e riconoscendolo nei fratelli.

È vero che siamo spesso come storditi dal chiasso delle parole che arrivano da tanti e ignorano verità divina e speranza. Ma possiamo, anzi è nella nostra voglia di autenticità e felicità, essere profeti.

Non dobbiamo avere paura del mondo, di quello che dice il mondo. Invece, andiamo, grati e fieri della saggezza evangelica, felici di spargerla ovunque e con chiunque incontriamo.

Papa Francesco, in una messa celebrata nella cappella di Santa Marta, ha ricordato che ‘essere profeti è una vocazione di tutti i battezzati’. Ma occorre avere ‘nel cuore la promessa di Dio’ averla ‘viva’, ricordarla e ripeterla. Solo così può guardare ‘il presente, il suo popolo’ e sentire ‘la forza dello Spirito per dire una parola che lo aiuti a issarsi, a continuare il cammino verso il futuro’. E, ha ricordato, ‘il Signore sempre ha custodito il suo popolo con i profeti nei momenti difficili, … quando ci risveglia la memoria della sua promessa, ci spinge verso il futuro con la speranza’. Ha concluso pregando perché ‘non manchino profeti nel tuo popolo. Tutti noi battezzati siamo profeti. Signore, che non dimentichiamo la tua promessa; che non ci stanchiamo di andare avanti, che non ci chiudiamo nelle legalità che chiudono le porte. Signore, libera il tuo popolo e aiutalo con lo spirito di profezia’.



Antonio Riboldi
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02/08/2015 07:50
 
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Omelia del giorno 2 agosto 2015

XVIII Domenica del Tempo Ordinario



“Signore, dacci sempre questo Pane”



Possiamo facilmente immaginare la scena che l’apostolo Giovanni ci descrive nel suo Vangelo.

La folla era stata saziata dal miracolo dei pani, compiuto da Gesù. Aveva, quindi, nella sua immaginazione e nella sua sete di serenità e sicurezza economica, che troppe volte manca a tanti nel mondo, in ogni tempo, la possibilità di trovare in Gesù una certezza ‘materiale’.

Gesù era diventato, per la folla, uno che, in un modo o in un altro, avrebbe soddisfatto e risolto i problemi quotidiani, quelli che affliggono tragicamente intere famiglie e intere nazioni, anche oggi.

Purtroppo sono ancora tanti tra di noi e lontano da noi, che si sentono condannati a vedere il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, come sogni irraggiungibili… al punto che non sentiamo neppure la loro voce, coperta dal frastuono del benessere di pochi, che però ora già paghiamo e che cerca di coprire i lamenti o i diritti di chi ha fame. Anche se, da anni, se ne è fatta voce la Chiesa, e con un’accortezza profonda, sempre più forte, Papa Francesco. Sembra una speranza, una svolta per iniziare una più equa distribuzione delle ricchezze della terra, una nuova consapevolezza che la terra non appartiene a qualcuno, ma è di tutti.

Ma, tornando al Vangelo di oggi, quella folla che accerchiava Gesù non vuole certo farsi sfuggire di mano un ‘messia speciale’, soluzione ai suoi concreti problemi. Lo cerca affannosamente, fino a raggiungerlo, là dove si era appartato con i Suoi, dopo il segno dei pani moltiplicati.

Gesù voleva e vuole essere cercato per quello che era ed è, per la missione che era venuto a compiere tra noi e per noi, non come risposta a fragili certezze materiali.

Cerchiamo di entrare nel Suo Cuore, facendoci illuminare dalla Parola:

“… Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: ‘Rabbì, quando sei venuto qua?’. Gesù rispose loro: ‘In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo’. Gli dissero allora: ‘Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?’. Gesù rispose loro: ‘Questa è l’opera di Dio: che crediate in Colui che Egli ha mandato.’ Allora gli dissero: ‘Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo.’ Rispose loro Gesù: ‘In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo’. Allora gli dissero: ‘Signore, dacci sempre questo pane.’ Gesù rispose loro: ‘Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!’” (Gv. 6, 24-35)

È il discorso che apre il segreto della vita interiore di ogni uomo, che desidera davvero ‘entrare nella vita’, anche oggi, soprattutto oggi. Ricevere il Pane di Dio significa credere di fatto in Gesù, accostarsi a Lui come al Figlio di Dio, per ricevere da Lui la Vita. Gesù, parlando di Sé, ci conferma che è venuto a saziare la ‘vera fame’ dell’uomo, che nulla ha a che fare con ‘la fame delle cose’ di questa terra, ma è quella nostalgia - a volte ‘disagio’, magari ‘noia’ - che tante volte sentiamo e a cui non sappiamo dare un senso e un valore. Spesso non ci rendiamo neppure conto che, pur sazi di cose, ‘dentro’ sentiamo come un vuoto, che non sappiamo come riempire.

Bisogna prenderne coscienza, per poi seguire le indicazioni che oggi Gesù ci offre: Lui è il Pane, che può colmare quel vuoto… se abbiamo fede e fiducia.

Ricordo un incontro, di tanti anni fa. Sedevo, una sera, su un muretto, che domina una grande città. Vicino a me c’era un giovane, che aveva cercato di godersi fino in fondo questa vita, cercando disperatamente in ogni situazione ‘qualcosa’, ‘qualcuno’, che lo saziasse. Giungevano sino a noi le luci della città, ubriaca di vita. Come a manifestare la voglia di pazzia, arrivava il rumore assordante delle macchine e di suoni, che, da lontano, creavano l’impressione di una festa senza fine.

‘Ha mai pensato, padre, - mi diceva quel giovane – cosa voglia dire passare notti e notti in discoteche, farsi assordare dal grande chiasso che chiamano musica? Essere circondati, urtati da persone che continuamente parlano e ridono nello sforzo di dare un volto a un divertimento che invece è solo stordimento? Lo sa quante volte si prova disgusto per tutto questo? Amicizie che sono solo egoismi soddisfatti e buttati. Discorsi che sono solo rumori per ingannarsi’. Dopo un lungo silenzio gli chiesi: ‘Che ne dici di quei giovani, che credono e cantano: Gesù, Tu sei la mia vita, altro io non ho?’. Sono tanti, sai, giovani e meno giovani, che non ‘vedono’ la vita come te. Sono nelle scuole, nelle piazze, al lavoro, nei conventi.’. Pensavo a quando, adolescente, mia mamma mi insegnava che ‘una buona Comunione è molto meglio di una buona colazione’. Pensavo a Chi avevo affidato totalmente la mia vita: Gesù, il pane della vita. E ancora mentre scrivo mi commuove questo mio Dio, che non si impone con la grandezza che spaventa, ma si avvicina con passi discreti, come sa fare solo chi ama veramente, e si fa cibo che veramente dà la Vita, quella vera.

Alla fine quel giovane mi chiese: ‘Padre, mi aiuti a trovare questo cibo.’ Quel giovane, oggi, è un padre di famiglia, felice e con una famiglia numerosa per giunta, e vive, giorno per giorno, una vita diventata Eucaristia, ringraziamento. E racconta ai suoi figli e ai suoi nipoti del giorno in cui ‘Gesù è diventato la mia vita, altro io non ho … se non voi, che mi siete stati affidati da Lui!’. Come tanti, ha avuto la grazia, con il Pane della Vita, di imparare a ‘volare alto’, come certamente ognuno di noi può fare se solo crediamo in Gesù persona viva che cammina al nostro fianco e si dona a noi nell’Eucarestia.

Antonio Riboldi
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15/08/2015 07:33
 
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Maria Assunta in Cielo: una mamma che ci attende

Ricordo la prima volta che mi staccai da mia madre. Avevo dodici anni e volendo seguire la chiamata del Signore partii per il seminario che doveva ospitarmi.

Quel giorno ci fu in famiglia una grande confusione per i preparativi. Arrivai a destinazione e fui accolto premurosamente dai Padri rosminiani, ma non avevo messo in conto la nostalgia della famiglia, di mamma soprattutto. Appena partì, mi sentii come strappato da lei, letteralmente aggredito dall’incertezza, tanto da essere tentato di rincorrerla.

Quel pomeriggio i Superiori ci condussero fuori per una breve passeggiata. Continuavo a scrutare la strada, ogni persona che passava per vedere se per caso non fosse mia mamma tornata a prendermi. Avevo l’impressione di non poter vivere senza di lei e per mesi, ogni giorno, piansi tanta era la nostalgia.

La mamma è per ognuno di noi una figura di riferimento, vi è con lei un legame che niente può spezzare – a volte nel bene, ma anche nel male, purtroppo! - .

E’ inutile nasconderselo: non tutte le mamme sanno guardare al vero bene dei propri figli.

Mia mamma, molti anni dopo la mia partenza, quando ormai ero un giovane sacerdote, mi confessò quanto avrebbe voluto poter tornare a riprendermi: ‘Solo Dio conosce il sacrificio fatto. A Gesù, che ti aveva chiamato, confidavo la mia pena e ti affidavo alla cura della Mamma Celeste’.

Ancora oggi, in cui tu, mamma, finalmente contempli il nostro Signore Gesù e la Mamma Celeste, ti dico: ‘Grazie, mamma, perché dalla tua generosità e fede profonda è sgorgato il mio vero bene. La Mamma del Cielo davvero si è presa cura di me e continua a starmi al fianco, fino al giorno in cui ci incontreremo tutti, e la famiglia sarà riunita’.

Siamo stati creati per amore, dobbiamo vivere per l’Amore, volando alto, senza fermarci alle cose che non sanno cosa sia l’eternità e la festa di oggi, di Maria Assunta in Cielo, è il richiamo alla vita eterna, alla vera ragione della nostra faticosa esistenza., questa ‘valle di lacrime’.

È pericolosa miopia vivere con gli occhi continuamente attratti da ciò che finisce ed è senza futuro, come la bellezza fisica, la ricchezza, il benessere, il potere, la gloria e quanto vogliamo.

La vera sapienza è vivere con i piedi a terra, ma con gli occhi al Cielo.

Così doveva certamente essere la vita di Maria Santissima, la nostra cara Mamma.

Una vita vissuta nella pienezza della Grazia – l’Immacolata - , ma senza sfuggire ai suoi compiti di sposa, di madre, nella semplicità della vita di Nazareth, seguendo il Figlio nella sua predicazione, con la discrezione di una mamma, ma non esitando a stargli vicino ‘sotto la croce’, con un dolore che le ‘trapassa l’anima’ per le sofferenze del Figlio, per poi gioire della Sua resurrezione, dell’inizio della Chiesa con la Pentecoste, attendendo, come tutti noi, il ritorno al Padre, presso il Figlio - l’Assunta.

Uno ‘stile’ di vita proposto dalla Mamma a tutti noi suoi figli. È meraviglioso sapere che la nostra vita non è un vicolo cieco, ma una strada che, superato il limite della morte, trova la sua eternità in Cielo. Purtroppo oggi siamo spesso come travolti dai tanti ‘ingannevoli paradisi del mondo’, che non hanno futuro, per cui rischiamo di affidarci a loro, perdendoci.

Condividiamo i sentimenti e l’invito del caro e beato Paolo VI: “L’Assunzione ci obbliga con suadente invito a verificare se la via, che ciascuno di noi percorre, è rivolta verso il sommo traguardo e a rettificarla decisamente verso di esso … Maria ci insegni ad operare con bravura e con dedizione, sì, nella cura delle cose di questo mondo, che ci danno il programma dei nostri immediati doveri, ma Maria ci dia insieme la sapienza e la povertà di spirito, che tengano liberi i nostri cuori e agili i nostri animi per la ricerca dei beni eterni.” (15 agosto 1961)

L’uomo che conserva gelosamente la sua natura di figlio di Dio, non può non sentire la responsabilità di una vita vissuta nella fede e nella carità, unita alla speranza e nostalgia di ‘Casa’, quella vera, dove la vita è piena e noi ritroveremo tutti i nostri cari.

Come ci confermano le parole di Papa Francesco, pronunciate alcuni anni fa, proprio il giorno dell’Assunzione:

“Dio ci aspetta, ci attende, non andiamo nel vuoto, siamo aspettati. Dio ci aspetta e troviamo, andando all’altro mondo, la bontà della Madre, troviamo i nostri, troviamo l’Amore eterno. Dio ci aspetta: questa è la nostra grande gioia e la grande speranza che nasce proprio da questa festa. Affidiamoci alla materna intercessione di Maria, affinché ci ottenga dal Signore di rafforzare la nostra fede nella vita eterna; ci aiuti a vivere bene il tempo che Dio ci offre con speranza. Una speranza cristiana, che non è soltanto nostalgia del Cielo, ma vivo e operoso desiderio di Dio qui nel mondo, desiderio di Dio che ci rende pellegrini infaticabili, alimentando in noi il coraggio e la forza della fede, che nello stesso tempo è coraggio e forza dell'amore”.

Buona festa, dunque, affidando ciascuno di voi al Cuore della Mamma, alla Sua cura materna!

Antonio, vescovo

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06/09/2015 08:54
 
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XXIII Domenica del Tempo Ordinario

6 settembre 2015



Dio ha scelto i poveri e noi …?



Fino a qualche anno fa, si sentiva spesso dire: ‘Credevamo di essere ricchi, o meglio di stare bene’, poi è arrivata la crisi economica, che ha messo a dura prova la sicurezza materiale, - tranne per alcuni ‘privilegiati’, davvero ricchi – e ci ha fatto compiere un passo indietro nelle nostre certezze di benessere acquisito.

Dalle varie inchieste che si fanno a getto continuo sullo stato vero di salute della nazione viene fuori che esistono sacche, e numerose, di miseria vera e propria, oltre al dramma dei profughi, che tanti fa discutere, dimenticando la tragedia personale di tutti questi nostri fratelli, al punto da manifestare apertamente un senso di fastidio, se non di ripulsa, come quando in una riunione di gente vestita bene si affaccia uno vestito con semplicità o peggio con povertà.

Ricordo sempre un fatto che mi capitò tanti anni fa, visitando gli emigrati della mia parrocchia di S. Ninfa in Venezuela. Ero sconcertato dalla realtà delle favelas, miseri rifugi, al cui confronto le baracche in cui avremmo poi dovuto vivere dopo il terremoto, erano delle regge. Bastava una pioggia torrenziale a spazzare via tutto, e ciò capitava spesso tra l’indifferenza generale. Una sera fui invitato ad un rinfresco tra i meravigliosi palazzi di Caracas. Vi erano alcuni venezuelani il cui benessere balzava prepotentemente agli occhi. Feci la domanda che da giorni mi frullava in mente: ‘Chi sono quelli che abitano le favelas? Sono poveri venezuelani o immigrati?’. Ebbi una risposta secca come una lama: ‘Quelli lì sono campesinos!’. Insomma, erano creature che avevano persino perso il diritto alla cittadinanza, ad un’identità: erano ‘quelli lì!’.

La stessa risposta, se badate bene, l’abbiamo ovunque, in un palazzo, in un paese, in una città, in una nazione dove ci sono dei poveri, persone considerate ‘diverse’ da noi. Sono ‘quelli lì’, che devono rimanere nell’ombra, ‘non dare fastidio’, anzi, spesso, essere allontanati, perché ‘mettono a repentaglio il nostro benessere …. la nostra sicurezza’!?

Quanti inchini, quante attenzioni, invece, abbiamo verso chi ha o fa mostra di avere! Pensiamo all’obbrobrio del funerale a Roma di un mafioso, che tanto scalpore – giustamente – ha fatto. Quanta folla ad … ossequiare! Davvero troppa gente ha davvero perso ogni senso di pudore, di dignità, di onestà.

Invece i poveri sono solo ‘quelli lì’, gli emarginati anche dal diritto ad una dignità di vita.

Ma la Chiesa, interprete del Cuore di Dio, li ha scelti come privilegiati e noi, se davvero siamo cristiani, non solo di nome, ma di fatto, dobbiamo seguire questo esempio.

Scrive l’apostolo Giacomo: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: ‘Tu siediti qui, comodamente’ e al povero dite: ‘Tu mettiti là, in piedi’ oppure: ‘Siediti qui ai piedi del mio sgabello’, non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?”. (Gc. 2, 1-5)

È più che giusto che il nostro pensiero e la carità della Chiesa – come sta avvenendo in tante diocesi con prestiti agevolati, con l’apertura delle parrocchie e dei monasteri agli immigrati o in altri modi – si faccia vicino a chi davvero non sa come sostenere la famiglia, o perché disoccupato o per i pochi mezzi o perché costretto a fuggire da guerre e miseria.

È in questi momenti che, al posto dell’egoismo del benessere, dovrebbe, per noi cristiani, sorgere il dovere della generosità, ossia la capacità di farsi prossimo a chi non sa più come affrontare la vita quotidiana. È davvero il momento della carità o, se volete, della beatitudine della povertà, proclamata da Gesù.

‘Si stava bene – mi diceva mamma, esperta nella povertà – quando si stava materialmente male. Ora che abbiamo tutto, si sta davvero molto male spiritualmente e come cuore’. Quanta saggezza evangelica nelle sue parole.

Affermava Paolo VI, riferendosi alla povertà che Gesù aveva scelto come stile di vita:

“La povertà è da Cristo onorata: bisogna che la onoriamo anche noi … Oggi la povertà è oggetto di lodevolissimo interesse. Importante, perché impegna tutti; difficile, perché, più o meno, tutti, specialmente nel nostro mondo moderno, siamo assorbiti dalla vita economica. Né a questa vita economica si deve abdicare, sì bene la si deve ragionevolmente promuovere, perché legge della vita umana. Ma poveri in spirito, se vogliamo essere ricchi di carità, se vogliamo essere cristiani, e, alla fine, se vogliamo essere veri e civili, dobbiamo pur diventare. … Chi possiede, spesso è posseduto dalle sue ricchezze e dalle preoccupazioni che esse portano con sé. Difficile virtù, oggi, la povertà di spirito, perché la ricchezza da conquistare, da accrescere, da godere, ha invaso il cuore umano; ecco perché il cuore langue. (1959)

C’è veramente da farsi un esame di coscienza, tutti, alla luce di questa scomoda ma necessaria Parola di Dio. Un esame che ci dica se ‘quelli lì’ li trattiamo davvero con amore.

Dietro ogni povero c’è sempre Cristo e chi chiuderebbe la porta in faccia a Cristo che bussa?

Forse siamo ormai davvero diventati tutti ‘sordomuti’, sordi alla Parola e sordi di fronte alla richiesta di aiuto di tanti nostri fratelli, ma vogliamo chiedere a Gesù di ‘imporci le mani’, come è nel Vangelo di Marco, oggi. Crediamo in Lui che ‘… guardando verso il Cielo emise un sospiro e disse: ‘Effatà’, cioè ‘Apriti!’.” (Mc. 7, 31-37) e lasciamo che trasformi i nostri cuori spesso troppo ‘induriti’.



Antonio Riboldi
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29/09/2015 09:26
 
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 Guai a chi dà scandalo!


 Dicevamo alcune domeniche fa, che il cuore dell’uomo è la sede delle scelte da compiere e luogo sacro delle responsabilità. Il Vangelo di Marco di oggi inizia con una bella apertura di orizzonte:


“In quel tempo, Giovanni rispose a Gesù dicendo: ‘Maestro abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva’. Ma Gesù disse: ‘Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi, è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa’.


Gesù ci chiede di guardarci l’un l’altro oltre ‘le appartenenze religiose o sociologiche o politiche’!!! Quando si opera per il bene, l’operato è secondo giustizia e verità, quindi viene da Dio, anche se non lo si riconosce consapevolmente. Quanti oggi operano secondo l’ispirazione di Dio, magari … negandoLo!


Ma occorre che educhiamo il nostro cuore al bene! Chi sa educare il proprio cuore o il cuore di un bambino o di un uomo in genere, compie la più grande opera di carità davanti agli occhi di Dio e degli uomini. Ma Dio solo sa con quanti sacrifici si edifica un cuore buono secondo il Cuore di Cristo, e non può accettare che ci si metta di mezzo il cattivo esempio, lo scandalo, perché allora l’impresa diviene disperata. Ecco dunque che subito le parole di Gesù diventano esigenti e dure, senza compromessi o inutili e vane disquisizioni, offrendoci un serio e drammatico motivo di riflessione, perchè il ‘dare scandalo’ è un male che colpisce e può lasciare il suo marchio per la vita nel cuore di chi ne è vittima.


“Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato in mare’: una frase tremenda se centellinata parola per parola nel suo contenuto.


La realtà è che sono tanti gli scandali in ogni manifestazione della vita quotidiana che non fanno più impressione. Si leggono statistiche di migliaia di fanciulli avviati alla prostituzione, usati nella pornografia per divertire gli adulti, e non se ne parla con l’orrore dello scandalo di vite violentate, ma di brutalità di commercio ‘che tira’. Una volta almeno lo scandalo conservava l’orrore che gli è proprio: oggi rischia di passare come segno di liberazione dalla virtù.


Scriveva il caro Paolo VI, nel settembre 1964: “Innanzitutto voi non troverete più nel linguaggio della gente perbene di oggi, nei libri, nelle cose che parlano degli uomini, la tremenda parola che invece è tanto frequente nel mondo religioso, la parola ‘peccato’…  E non torna perché, distaccato l’intelletto umano dalla sapienza divina, si è perduto il concetto di peccato. … Viene adottata, come norma, una indulgenza molto liberale, molto facile, che spiana le vie ad ogni esperienza, come se il male non esistesse. Ma come a contraddire tutto questo, guardate se c’è un filo ottimista nella produzione moderna. … Dilaga la tacita, ma inesorabile sentenza che l’uomo è inguaribile. Ma Gesù vede e guarda a noi, che siamo povera gente, con tanti malanni, pronto a guarirci e ridarci quella veste del ‘bambino’ che è la vera grandezza nostra”.


Ecco perché Gesù oggi ci dice che per essere cristiani occorre essere decisi rispetto al bene, al buono e al bello della vita, che vanno sempre difesi, costi quel che costi!


“Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché conle due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”. (Mc. 9, 37-47)


E S. Giacomo, con le sue parole, stigmatizza come ‘scandalo’ la ricchezza accumulata ingiustamente, facendo risentire il grido dei profeti di tutti i tempi che hanno sempre visto l’accumulare dei beni come un fatto di corruzione – parola tanto in auge ai nostri tempi – che nasce da qualche ingiustizia; avvertendo come istintivamente la ricchezza faccia nascere un tipo di uomo il cui sentimento sulla propria condizione umana viene falsato perdendo di vista ogni vera relazione di fraternità e di giustizia, pensiamo al tragico fenomeno del caporalato, causa di ingiustizie e vittime! “Ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme, il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine; la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato (o avete pagato in nero!! diremmo oggi) grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza” (Gc. 5, 1-6)


Come dunque affrontare gli scandali del mondo o meglio il mondo divenuto scandalo continuato? In modo semplice: vivendo con chiarezza, con coraggio lo ‘scandalo della croce’, il benefico ‘scandalo delle beatitudini’, svincolandoci e liberandoci da ogni compromesso, da una mentalità disonesta, cercando di operare nella giustizia e verità, salvaguardando la dignità e bellezza del cuore, vivendo alla Presenza e nella Luce di Dio, amando i fratelli che il Signore ci affida. Dobbiamo far sì che la ‘foresta che cresce’, nel silenzio e nella pace, sia sempre più folta, dando speranza al mondo.


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02/10/2015 19:52
 
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 L’uomo non separi mai….


Viviamo un tempo in cui, in nome del cosiddetto ‘progresso scientifico ed economico’, e tutto quello che volete, assistiamo ad una vera guerra a tutto quanto di bello e buono è nell’uomo e per l’uomo.


È proprio vero che, quando l’uomo volta le spalle a Dio e ‘si fa dio’, tenta di creare una società ‘a propria immagine e somiglianza’, ossia come quella di Adamo ed Eva, ma dopo il peccato originale, quando si sentirono ‘nudi’ ed estromessi dal regno di Amore che è la casa del Padre, e quindi privi della bellezza dell’amore, in balìa dell’egoismo.


Ecco perché la Chiesa, che è la famiglia di Dio, non fa che predicare e vivere la verità, dal rispetto alla vita, al bene del matrimonio, alla pace, perché sa molto bene che solo nel servire il Padre vi è la vera civiltà dell’amore, la gioia di vivere, la pace.


È ormai sempre più urgente rendersi conto del disordine esistente sui principi e nei comportamenti, per saper occupare, con bontà e misericordia, ma anche fermezza, come fa Papa Francesco, la frontiera della verità ed affermare la bellezza della vita, del matrimonio e della fedeltà. E’ questo l’invito e la testimonianza del Maestro che ci viene offerta nel Vangelo di oggi.


“Avvicinatisi dei farisei  per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: ‘E’ lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?’. Ma egli rispose loro: ‘Che cosa vi ha ordinato Mosè?’. Dissero: ‘Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla’.


Gesù disse loro: ‘Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicchè non sono più due, ma una cosa sola. L’uomo non separi mai ciò che Dio ha congiunto”. (Mc. 10, 2-16)


Grave e tragico errore divenire discepoli della falsità, come accade per i farisei e per tanti, in ogni tempo!


Viene da chiedersi: che fare? Almeno noi che facciamo dell’obbedienza a Dio la vera norma della dignità della persona e della validità delle istituzioni, a cominciare dal matrimonio, possiamo suggerire una profonda ed incessante preghiera. Ma non basta.


Oggi è necessaria una ‘nuova pedagogia’ del matrimonio, almeno in chi si accosta a questo meraviglioso e impegnativo sacramento, che è la comune vocazione alla santità.


Una pedagogia che sia, non solo una superficiale e breve ‘preparazione’, ma come un ‘catecumenato’: aiuto, sostegno, impegno consapevole ad entrare nel grande dono dell’amore.


Occorre saper proclamare il bene necessario e la serietà del matrimonio, sapendo dire un no chiaro alle superficiali mode o capricci dell’uomo, che non vuole regole, perché, come afferma Papa Francesco: “L’alleanza d’amore tra l’uomo e la donna, alleanza per la vita, non si improvvisa non si fa da un giorno all’altro, non c’è il matrimonio express bisogna lavorare sull’amore, bisogna camminare; l’alleanza dell’amore dell’uomo e della donna si impara, si affina, mi permetto di dire: è un’alleanza artigianale. Fare di due vite una vita sola, è anche quasi un miracolo, un miracolo della libertà e del cuore, affidato alla fede. Dovremo forse impegnarci di più su questo punto, perché le nostre “coordinate sentimentali” sono andate un po’ in confusione. Chi pretende di volere tutto e subito, cede anche su tutto – e subito – alla prima difficoltà o alla prima occasione. Non c’è speranza per la fiducia e la fedeltà del dono di sé, se prevale l’abitudine a consumare l’amore come una specie di “integratore” del benessere psico-fisico. L’amore non è questo!”


Ma direi che la migliore maniera di proclamare la pienezza, l’unicità del matrimonio è la ‘testimonianza’ degli sposi cristiani, ossia mostrare con i fatti, con la vita, la bellezza del sacramento dell’amore: testimonianza che è proclamata libertà da tanti idoli del mondo, a cominciare dal denaro e dalla schiavitù delle tante mode, che ci vorrebbero schiavi del male.


Non dobbiamo lasciarci ingannare dal ‘potere mediatico’, che spesso sconvolge la verità.


Può darsi che nel ‘chiasso’ generalizzato, si rischi di sentirsi a volte soli e quasi emarginati.


Ricordatevi sempre il detto: ‘Una goccia da sola non può nulla, ma tante gocce creano il mare;


una nota sola non ha senso, ma tante insieme fanno una sinfonia; una parola da sola dice poco, ma con le altre fa poesia’.


Abbiamo negli occhi il meraviglioso scenario delle famiglie che a Philadelphia hanno incontrato il caro Papa Francesco. Quanto è incoraggiante per molti, sapere che sono tanti coloro che difendono la sacralità della famiglia, mantenendo intatti ‘i tre pilastri, che nella visione della fede devono sostenere l’amore sponsale: fedeltà, perseveranza e fecondità’, come li ha definiti Papa Francesco.


E’ quello che prego e chiedo a Maria e Giuseppe, Sacra Famiglia con Gesù, in questo mese dedicato al Rosario – definito dal caro e beato Paolo VI: ‘riflessione sui misteri che vi portano alla storia della vita di Gesù e di Maria … È una scala, il S. Rosario, e voi vi salite insieme, adagio adagio, andando in su, incontro alla Madonna, che vuol dire incontro a Gesù’ e affidando ogni famiglia alla protezione di S. Francesco, il santo della perfezione evangelica radicale, che è poi lo stile di vita di Gesù.


Antonio Riboldi


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08/10/2015 21:50
 
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Omelia 11 ottobre 2015 


Accogliere l’invito di Dio o restare tristi, perché lo si è rifiutato?


Il modo con cui si presenta Gesù, e quindi la Sua missione tra di noi, è perentorio: non ammette tentennamenti. Da sempre il popolo eletto – speriamo anche noi – attendeva ‘la notizia delle notizie’, ossia che il Messia era tra di loro e quindi Dio, non solo manteneva le Sue promesse, ma, quanto più conta, tornava, con Gesù tra noi, a essere nostro Padre.


E’ finito il tempo di discutere, il tempo delle incertezze o del sentirsi come avvolti dall’oscurità. È finito il tempo di chiedersi: ‘Cosa farà Dio? Ci ama sul serio?’.


Gesù è venuto ed è giunto il tempo di decidersi: la Buona Novella, ossia la certezza che Dio costruisce giorno per giorno, uomo per uomo, il Suo piano di salvezza è qui, in Gesù che ORA parla.


Lui, anche se troppe volte preferiamo chiacchiere di uomini, che non hanno e non danno né senso né futuro, Lui è qui, ora: Dio è presente in Gesù che ci parla, ADESSO.


Gesù, con la Sua Parola, è la concreta prova che l’amore di Dio non è ‘una favola’, non è una ‘promessa’ tutta da verificare. GESÙ È IL VANGELO DI DIO.


Allora deve avere fatto una certa impressione – e così deve essere oggi – a quanti Lo udivano parlare in un modo che univa Dio all’uomo: un linguaggio totalmente nuovo che, se accolto, finalmente fa gustare il sapore della bellezza del Cielo, che si apre su questa terra proprio con la Parola.


Allora, come oggi, la Parola di Dio, che si manifesta senza incertezze nelle parole di Gesù, ha suscitato e suscita stupore e la letizia per chi, accogliendola, trova il non facile bandolo della verità della vita; per altri, ieri e oggi, se chiudono il loro cuore o sentono la Parola come troppo esigente, perché mette a rischio le sicurezze a cui si aggrappano, non vi è che l’esperienza vissuta dal giovane ricco di cui ci parla oggi il Vangelo: ‘Egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato: possedeva infatti molti beni’. (Mc. 10, 17-30)


Ho ormai 92 anni e dal lontano 1951 ho iniziato come sacerdote, prima parroco e poi vescovo, ad annunciare la Parola di Dio; mi sono sempre stupito, quelle poche volte che ho trovato indifferenza, perché so che quando la Parola è accolta con amore fa sentire bene ‘dentro’. Per grazia di Dio sono più le volte che ho visto piangere di gioia gente semplice, durante l’ascolto della Parola!


Per me, l’annunciare ‘tempi nuovi’ con il Vangelo, è stata davvero la meravigliosa esperienza di far conoscere Dio, sempre tenendo presente che non ero io a parlare o scrivere, ma, come direbbe Madre Teresa di Calcutta, ‘sono la matita tra le dita di Dio’, con cui Lui scrive a noi una lettera d’amore, con la Sua ‘Parola viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio’. Una Parola che ‘penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito … e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale noi dobbiamo rendere conto’: (Eb 4, 12-13) come afferma oggi S. Paolo.


Ma ci vuole fede, tanta fede.


Gesù continua ad invitarci a stare con Lui sempre, ma noi siamo disposti ad accoglierlo nella nostra esistenza?


L’offrirsi di Gesù, di Dio, come ‘primo e totalizzante amore’, che deve occupare tutta la vita, può essere respinto, rifiutato. Come è possibile rifiutare l’offerta di essere amati e di amare, soprattutto se viene da Dio?


Ci sarebbe da rattristarsi piuttosto se non ci venisse fatta!


Purtroppo le ‘cose di questo mondo’ troppo spesso ci avvinghiano e soffocano ogni anelito più alto. Possiamo ammirare, possiamo anche godere di tante bellezze e comodità della vita: sono sempre creature di Dio, ma siamo pronti a ‘venderle tutte’ per non perdere un soffio del Suo Amore?


E questo vale per ogni cristiano, qualunque posto il Signore gli abbia assegnato nella sua vita.


È talmente grande l’errore del rifiuto di quel ‘tale’ e di quanti siamo come lui, che Gesù pronuncia quella terribile frase che da sola definisce la tragicità di una scelta sbagliata per la vita: ‘Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio’.


Ma stiamo attenti a non essere riduttivi, per poter tacitare la nostra coscienza.


Oggi le voci di aiuto per una vita dignitosa, che conosca la verità del suo esistere, la ricerca della vera felicità sono tante. Direi che sono la domanda di tutti: non si può far finta di non sentirla.


Dio ci chiama attraverso questa urgenza di tanti nostri fratelli. È pericoloso voltare le spalle a Dio che chiama, per preferire ciò che non è voce di verità, ma solo affezione a cose che sono  nulla davanti alla vita eterna, come possono essere il ‘nostro benessere’, la ‘nostra sicurezza’.


Non ci resta che pregare perché le famiglie educhino i figli ai grandi sì a Dio, quando manifesta la Sua volontà e sappiano aprirsi alla solidarietà fattiva verso i più fragili e deboli.


Preghiamo per i giovani, perché sappiano essere generosi e aperti nel fare della vita un sì, senza ma, al bene che il Padre propone ed è nei Suoi progetti.


E preghiamo per i sacerdoti, i consacrati, che testimonino con la gioia e la santità la bellezza dell’essere stati chiamati e di aver avuto la grazia di seguirLo.


Ricordiamocelo sempre: noi, ‘scelti e chiamati’ siamo le ‘sentinelle di Dio’.


Antonio Riboldi


Vescovo


 


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08/10/2015 21:50
 
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Omelia 11 ottobre 2015

Accogliere l’invito di Dio o restare tristi, perché lo si è rifiutato?

Il modo con cui si presenta Gesù, e quindi la Sua missione tra di noi, è perentorio: non ammette tentennamenti. Da sempre il popolo eletto – speriamo anche noi – attendeva ‘la notizia delle notizie’, ossia che il Messia era tra di loro e quindi Dio, non solo manteneva le Sue promesse, ma, quanto più conta, tornava, con Gesù tra noi, a essere nostro Padre.

E’ finito il tempo di discutere, il tempo delle incertezze o del sentirsi come avvolti dall’oscurità. È finito il tempo di chiedersi: ‘Cosa farà Dio? Ci ama sul serio?’.

Gesù è venuto ed è giunto il tempo di decidersi: la Buona Novella, ossia la certezza che Dio costruisce giorno per giorno, uomo per uomo, il Suo piano di salvezza è qui, in Gesù che ORA parla.

Lui, anche se troppe volte preferiamo chiacchiere di uomini, che non hanno e non danno né senso né futuro, Lui è qui, ora: Dio è presente in Gesù che ci parla, ADESSO.

Gesù, con la Sua Parola, è la concreta prova che l’amore di Dio non è ‘una favola’, non è una ‘promessa’ tutta da verificare. GESÙ È IL VANGELO DI DIO.

Allora deve avere fatto una certa impressione – e così deve essere oggi – a quanti Lo udivano parlare in un modo che univa Dio all’uomo: un linguaggio totalmente nuovo che, se accolto, finalmente fa gustare il sapore della bellezza del Cielo, che si apre su questa terra proprio con la Parola.

Allora, come oggi, la Parola di Dio, che si manifesta senza incertezze nelle parole di Gesù, ha suscitato e suscita stupore e la letizia per chi, accogliendola, trova il non facile bandolo della verità della vita; per altri, ieri e oggi, se chiudono il loro cuore o sentono la Parola come troppo esigente, perché mette a rischio le sicurezze a cui si aggrappano, non vi è che l’esperienza vissuta dal giovane ricco di cui ci parla oggi il Vangelo: ‘Egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato: possedeva infatti molti beni’. (Mc. 10, 17-30)

Ho ormai 92 anni e dal lontano 1951 ho iniziato come sacerdote, prima parroco e poi vescovo, ad annunciare la Parola di Dio; mi sono sempre stupito, quelle poche volte che ho trovato indifferenza, perché so che quando la Parola è accolta con amore fa sentire bene ‘dentro’. Per grazia di Dio sono più le volte che ho visto piangere di gioia gente semplice, durante l’ascolto della Parola!

Per me, l’annunciare ‘tempi nuovi’ con il Vangelo, è stata davvero la meravigliosa esperienza di far conoscere Dio, sempre tenendo presente che non ero io a parlare o scrivere, ma, come direbbe Madre Teresa di Calcutta, ‘sono la matita tra le dita di Dio’, con cui Lui scrive a noi una lettera d’amore, con la Sua ‘Parola viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio’. Una Parola che ‘penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito … e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale noi dobbiamo rendere conto’: (Eb 4, 12-13) come afferma oggi S. Paolo.

Ma ci vuole fede, tanta fede.

Gesù continua ad invitarci a stare con Lui sempre, ma noi siamo disposti ad accoglierlo nella nostra esistenza?

L’offrirsi di Gesù, di Dio, come ‘primo e totalizzante amore’, che deve occupare tutta la vita, può essere respinto, rifiutato. Come è possibile rifiutare l’offerta di essere amati e di amare, soprattutto se viene da Dio?

Ci sarebbe da rattristarsi piuttosto se non ci venisse fatta!

Purtroppo le ‘cose di questo mondo’ troppo spesso ci avvinghiano e soffocano ogni anelito più alto. Possiamo ammirare, possiamo anche godere di tante bellezze e comodità della vita: sono sempre creature di Dio, ma siamo pronti a ‘venderle tutte’ per non perdere un soffio del Suo Amore?

E questo vale per ogni cristiano, qualunque posto il Signore gli abbia assegnato nella sua vita.

È talmente grande l’errore del rifiuto di quel ‘tale’ e di quanti siamo come lui, che Gesù pronuncia quella terribile frase che da sola definisce la tragicità di una scelta sbagliata per la vita: ‘Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio’.

Ma stiamo attenti a non essere riduttivi, per poter tacitare la nostra coscienza.

Oggi le voci di aiuto per una vita dignitosa, che conosca la verità del suo esistere, la ricerca della vera felicità sono tante. Direi che sono la domanda di tutti: non si può far finta di non sentirla.

Dio ci chiama attraverso questa urgenza di tanti nostri fratelli. È pericoloso voltare le spalle a Dio che chiama, per preferire ciò che non è voce di verità, ma solo affezione a cose che sono nulla davanti alla vita eterna, come possono essere il ‘nostro benessere’, la ‘nostra sicurezza’.

Non ci resta che pregare perché le famiglie educhino i figli ai grandi sì a Dio, quando manifesta la Sua volontà e sappiano aprirsi alla solidarietà fattiva verso i più fragili e deboli.

Preghiamo per i giovani, perché sappiano essere generosi e aperti nel fare della vita un sì, senza ma, al bene che il Padre propone ed è nei Suoi progetti.

E preghiamo per i sacerdoti, i consacrati, che testimonino con la gioia e la santità la bellezza dell’essere stati chiamati e di aver avuto la grazia di seguirLo.

Ricordiamocelo sempre: noi, ‘scelti e chiamati’ siamo le ‘sentinelle di Dio’.

Antonio Riboldi

Vescovo

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19/10/2015 22:15
 
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Omelia del 18 Ottobre

Sono venuto per servire

Nel nostro tempo tutto basato sul successo e su un individualismo sfrenato, non si accetta la realtà del nostro essere creature: l’uomo in sé è davvero piccolo e misero, insufficiente, ed acquista bellezza e dignità solo se sa riconoscere la sua miseria e fa posto a Chi è grande e da Cui sgorga la vera grandezza, Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.

È terribile il male della superbia. È tragica la corsa che si fa in ogni capo per affermare una grandezza che è solo esteriore, se non addirittura dannosa. Così abbiamo le ‘grandi potenze’, i ‘grandi’ della terra, i ‘famosi’, ma tutti constatiamo come spesso questa ‘corsa’ produce solo tanta povertà e tanta, ma tanta gente che è umiliata, al punto da sentirsi ed essere considerata nulla: l’esercito dei miseri e dei poveri della terra, sgabello dei cosiddetti ‘grandi’.

Nessuno vuole vestire l’abito ‘dell’ultimo’, ma solo quello ‘del primo’… anche se poi la vera grandezza si scopre proprio negli ultimi: ‘Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente,, perché ha guardato all’umiltà della Sua serva’, proclama Maria SS. ma.

Anche gli Apostoli, prima della Pentecoste, non ancora trasformati dallo Spirito Santo, ragionavano come noi uomini. “‘Maestro – dicono a Gesù, nel Vangelo di oggi, Giacomo e Giovanni - noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo’. Egli disse loro: ‘Cosa volete che io faccia per voi?’. Gli risposero: ‘Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra’.

E’ evidente che i due apostoli ragionavano secondo le prospettive molto riduttive di noi poveri uomini. Immaginavano cioè che, stando accanto al Maestro, se non proprio subito, sicuramente in un prossimo futuro, ne avrebbero condiviso la gloria che Gesù stava lentamente costruendo. Avevano di Gesù l’immagine di uno che si sarebbe costruito un regno terreno, fatto di potenza e di prestigio. Non intuivano minimamente che dietro la povertà di nascita, di origine, di mandato, c’era una missione che scendeva dal Cielo, di una grandezza senza misura, quale è ogni ‘missione di Dio’, destinata a ridurre in polvere ogni concetto di prestigio e potenza, fino a proclamare che la vera grandezza e gloria sta nella beatitudine dei poveri in spirito, dei miti, dei misericordiosi. Non sapevano che Gesù avrebbe demolito la potenza umana, facendosi demolire fino alla’umiliazione della morte in croce, dove veramente si confessò il nulla che è ogni uomo e il tutto che è Dio nella resurrezione.

A Giacomo e Giovanni e a tutti noi suoi discepoli, che forse ci attendiamo, seguendo Cristo ‘un posto alla sua destra o alla sua sinistra’, il Maestro lascia un’eredità che sarà e deve essere la nostra via maestra per sempre: ‘Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (Mc. 10, 35-45)

Certamente, in quel momento, gli apostoli difficilmente avranno capito la risposta di Gesù. Solo dopo la Pentecoste sarà per loro tutto chiaro…sino a dare la vita! E lo stile di vita di Gesù – ‘essere servo di tutti’ – dovrebbe essere lo stile di ogni cristiano…altro che assalto al prestigio e al potere!

Chi, come me, medita queste meravigliose parole di Gesù, che designa lo stile del cristiano, ‘servire e non essere servito’, sa come il servire è davvero la nostra identità. I fedeli devono poter vedere in noi solo la guida, in quanto siamo persone chiamate e scelte da Dio stesso per essere servi della Sua Grazia. La nostra ‘autorità’, infatti, è tale solo quando si tratta di guida al servizio del Vangelo, della Grazia, dell’unità nella comunità, …tutto, sempre, solo, in spirito di servizio.

Ogni altro atteggiamento, che deturpa questo aspetto, offende la carità e l’umiltà.

A volte questo spirito di servizio ci chiama a gesti che possono essere fraintesi, ma se è il servire il nostro obiettivo, la verità fa luce. Un ricordo: immediatamente dopo il terremoto del Belice, che ci colse in piena notte, il 16 gennaio 1968, il primo dovere che si affacciò a me e ai miei coadiutori, che avevamo la cura di quella comunità, ormai dispersa e senza casa, fu quella di mettersi al servizio, cercando tra le macerie eventuali superstiti o vittime rimaste intrappolate. Un compito che, a pensarlo ora, sapeva di incoscienza, perché la terra continuava a tremare e avevamo le mani ‘nude’.

Per tutta la notte si percorsero le vie della cittadina distrutta e così salvammo parecchie vite.

Da quella notte capii che essere parroco voleva dire rischiare tutto per servire la mia gente ed accompagnarla poi nella difficile via della ricostruzione.

In questa seconda fase molti non capirono, pensando forse a ‘motivi sotterranei’ – che non esistevano – come quello di cercare ‘visibilità’. Ricordo come una domenica, volendo spiegare alla mia gente, durante la S. Messa, la ragione del nostro servizio, che non conosceva limiti né rischi, dissi: ‘Vi domandate perché facciamo tutto questo. La risposta è una sola: l’amore che abbiamo per voi e l’amore è sempre e solo servizio. Niente altro’. Non dimenticherò mai il pianto che seguì e non cessava, tanto da dover lasciare l’altare e ritirarmi per un tempo in baracca, per poi poter continuare la Messa.

Nella storia dell’umanità si è sempre giocato al tragico ‘essere primo’, ossia il più importante, riducendo il senso della vita al potere, al successo, al prestigio.

Ha dichiarato il beato Paolo VI: ‘Sono due i malanni della psicologia umana, colpevoli delle rovine più estese e più grandi dell’umanità: l’egoismo e l’orgoglio’.

Se vogliamo che l’umanità sia salvata dobbiamo essere capaci di accogliere l’invito di Gesù e seguirlo sulla strada che ha percorso: ”Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Lui, Gesù, Figlio di Dio si è messo il grembiule e ha lavato i piedi agli Apostoli. Ha scandalizzato tutti quando ha dato ‘spettacolo’ di massima umiliazione sulla croce, ma questo è il solo stile che può adottare chi veramente vuole amare: farsi servo fino a scomparire.

Antonio Riboldi - Vescovo
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25/10/2015 22:34
 
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 La missione è ‘vedere’ Gesù, per contagiare il mondo di speranza


 


Domenica scorsa si è celebrata la Giornata mondiale missionaria. Ogni anno, ad ottobre, la Chiesa tutta è invitata a riscoprire questa sua vocazione missionaria, ricordando le parole di Gesù, dette prima di tornare al Padre: “Andate in tutto il mondo e portate il messaggio del Vangelo a tutti gli uomini.”


In questi giorni tanto si parla, grazie anche al Sinodo dei vescovi, della missione della famiglia nella Chiesa. Del resto c’è nell’aria – e lo affermano tanti esperti – una appassionata ricerca di Dio, come voglia di figli prodighi, nauseati dal mondo, di conoscere il Padre e tornare da Lui.


Così bene descriveva il caro e beato Paolo VI questa attesa in un’omelia del lontano 1955:


C’è una strana sinfonia di nostalgici che sospirano al Cristo perduto; di pensosi che intravedono qualche evanescenza di Cristo; di generosi che da Lui imparano il vero eroismo; di sofferenti che sentono la simpatia per l’Uomo dei dolori; di delusi che cercano una parola ferma, una pace sicura; di onesti che riconoscono la saggezza del vero Maestro; di volenterosi che sperano di incontrarlo sulle vie diritte; di tanti che confidano la loro avventura spirituale e dicono la loro felicità per averlo trovato: “Di Te, Gesù, abbiamo bisogno”.


Credo proprio che molti stiano uscendo dalla indifferenza, di fronte alla conoscenza profonda di Dio: indifferenza che è però ancora in troppi, perché si parla di tutto, che è spesso il nulla dello spirito e ancora troppo poco di Dio, come fosse un argomento che annoia. E quello che preoccupa è che questo avviene nelle famiglie, nelle scuole. Come a dire: “Dio non interessa!”. Ma è giunto il momento di uscire allo scoperto, mettendo al centro della famiglia la Bibbia, come sola ‘luce ai nostri passi’ e la conoscenza di Dio come il solo ‘tesoro’, che può dare senso al nostro esistere. È un impegno che non possiamo più delegare né ignorare. È la grande carità che si deve usare verso i fratelli, gli amici, i vicini: “Di Te, Gesù, abbiamo bisogno!”.


Ma è anche vero che bisogna essere ‘ciechi’ per non accorgersi di quanto avviene per e contro questa missione: non solo nel mondo, ma anche in modo subdolo nei Paesi cristiani. Viene da pensare ai tanti fratelli, costretti a vivere la fede come nelle catacombe, sempre a rischio di essere imprigionati, come è capitato anche a tanti Vescovi. E come non ‘vedere’ i tanti fratelli costretti a lasciare i loro Paesi per la continua persecuzione nei loro confronti?


Il nostro è davvero tempo di martiri: martiri che fanno seriamente riflettere sulla nostra pigrizia, sul nostro silenzio, sulla mancanza di coraggio nel testimoniare e donare la luce del Vangelo ovunque, a cominciare dalle nostre famiglie. Pensando a tutti questi nostri fratelli, perseguitati nel mondo per la loro fede, dovrebbe assalirci una grande confusione, considerando la nostra paura nell’essere missionari nella nostra Nazione, per timore di essere ‘emarginati’ perché credenti. Ma perché, spesso, nei credenti ci sono così tanti timori e reticenze, quasi una sorta di ‘vergogna’ o viceversa un uso strumentale della propria appartenenza cristiana? Forse il Vangelo di oggi può davvero darci una risposta. Ci sono troppe cecità nelle nostre vite. C’è bisogno di luce per vedere Gesù che passa, di gridare contro corrente, di chiedergli di liberarci da ciò che ci incatena e di seguirlo sulla via di ogni giorno. Senza luce non si passa dal voler emarginare all’accoglienza, dall’individualismo egocentrico alla comunità e alla solidarietà.


Forse siamo proprio noi i veri ’ciechi’; non come Bartimeo, illuminato da una fede semplice e totale!


Come possiamo testimoniare la Luce dell’amore e della Verità, che è Gesù, se non lo ‘vediamo’, se non facciamo esperienza della Sua Presenza salvifica nella nostra vita?


Abbiamo molto da imparare, nel nostro cammino di fede, da Bartimeo che “al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: ‘Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me’.


Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me!’.


La folla, e forse anche alcuni tra i discepoli, sono i veri ciechi: credono di conoscere chi è Gesù, credono di vederci e di sapere come deve comportarsi chi segue Gesù, credono di difenderlo, di proteggerlo zittendo chi grida. Non è possibile seguire Gesù e ascoltare la sua parola se non si fa caso al grido del povero o peggio ancora si cerca di zittirlo.


Nei ‘molti che lo sgridavano’ Papa Francesco, in un’omelia a Santa Marta ha riconosciuto due tipologie di cristiani: Gente che, anche oggi, non sente il grido dei tanti che hanno bisogno di Gesù… indifferenti … E’ gente egoista, vive per se stessa ...Sono cristiani di nome, cristiani di salotto, cristiani di ricevimenti, ma la loro vita interiore non è cristiana, è mondana … Poi, ci sono i rigoristi, quelli che Gesù rimprovera, che caricano tanti pesi sulle spalle della gente e invece di rispondere al grido che chiede salvezza allontanano la gente”. Ma c’è anche “il gruppo dei cristiani che hanno coerenza fra quello che credono e quello che vivono, e aiutano ad avvicinarsi a Gesù, alla gente che grida, chiedendo salvezza, chiedendo la grazia, chiedendo la salute spirituale per la loro anima”.


Sono coloro che, come Gesù, sanno ‘fermarsi’ o come alcuni tra i discepoli danno speranza e coraggio, perché si fidano della potenza misericordiosa del Maestro, venuto per salvare tutti, senza eccezioni.


Allora, Gesù si fermò e disse: ‘Chiamatelo’. E chiamarono il cieco dicendogli: ‘Coraggio! Alzati, ti chiama’. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: ‘Che vuoi che io ti faccia?’. E il cieco a lui: ‘Rabbunì, che io riabbia la vista’. E Gesù gli disse: ‘Va’, la tua fede ti ha salvato’. E subito riacquistò la vista …’, ma Gesù non attribuisce la guarigione a se stesso, ma alla fede di Bartimeo, che tornato finalmente a vedere, vede quel volto che misteriosamente il suo cuore già amava e, dopo quanto ha ricevuto, il suo amore non può che aumentareOra ‘vede’ che senza di Lui la sua vita non avrebbe più senso, senza di Lui non potrebbe più vivere, ed allora vi è un’unica cosa sensata che gli resta da fare: “e prese a seguirlo per strada”. (Mc, 10, 46-52)


Da quel giorno, il ‘cieco che vede’ diventa il ‘discepolo che segue’ il Signore sulla sua via, sentendo l’urgenza di farlo conoscere ai fratelli.Diventa testimone credibile, missionario della salvezza, che lui stesso ha sperimentato.


Antonio Riboldi


Vescovo


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01/11/2015 19:08
 
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 Omelia del 1 Novembre 2015


 Solennità di tutti i Santi: essere ‘beati’


La solennità dei Santi e la Commemorazione dei Defunti, che la Chiesa più che opportunamente celebra quasi al termine dell’anno liturgico, ci propone ogni anno due essenziali riflessioni: una sulla nostra vocazione alla santità, l’altra sulla nostra chiamata ad essere partecipi dell’amore e gloria di Dio nella resurrezione. Possono sembrare due riflessioni che sfuggono ai tanti problemi che si affollano quotidianamente nella nostra vita. Ma Gesù più volte ci ha avvertito che la vita è una ‘vigilia’, che non ammette distrazioni. È davvero una cosa seria. La nostra esistenza, per chi crede, è solo un passaggio, un pellegrinaggio, una preparazione, meglio, un dono del Padre, che, come tutti i suoi doni, appartiene all’eternità. Qui abbiamo un compito da svolgere: adempiere la Sua volontà, che è il nostro vero bene, per godere della Sua Presenza, partecipare alla Sua stessa Vita, in quanto figli, da oggi e, dopo, per sempre. Sono pensieri da capogiro, ma ringraziamo lo Spirito Santo quando ci illumina interiormente e ci fa guardare la vita da questa meravigliosa prospettiva.


Infatti sono troppi quelli che vivono come se dovessero restare eternamente ‘qui’, spendendo ogni energia per raccattare le illusioni che il mondo dona.


E c’è anche chi non vuole neppure pensare alla morte, cercando ogni tipo di distrazione …


Ma serve questo bendarsi gli occhi e la coscienza? O non è forse ‘un suicidio dell’anima’?


Ma che senso avrebbe una vita che finisce in un tumulo di terra, dopo un breve incontrarsi, uno stare un poco insieme amandosi, per poi sparire senza alcuna speranza di rincontrarsi?


I nostri fratelli nella fede, al tempo degli Apostoli e dopo, vivevano ‘annunciando la morte del Signore, proclamando la sua resurrezione, nell’attesa della sua venuta’.Vivevano la vita intensamente, con gioia, ma anche guardando tutto quello che era di questo mondo, compresi i beni, con un sano distacco. Ce la mettevano tutta negli impegni del quotidiano, ma permeato della stessa carità di Cristo, accogliendo fatiche e sofferenze, per conformarsi al Cristo crocifisso e diventare degni di risorgere con Lui. La loro ‘carta d’identità’, che ci permette di ‘riconoscere’ i Santi di ogni tempo, segreto della loro gioia nell’oggi e definitivo passaporto per ‘domani’, in Cielo, era quella proclamata da Gesù, che il Vangelo ci fa meditare in questa solenne celebrazione dei Santi:


 “In quel tempo Gesù, vedendo le folle sulla montagna, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo:


‘Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.


Beati gli afflitti, perché saranno consolati.


Beati i miti, perché erediteranno la terra.


Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.


Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.


Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.


Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.


Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.


Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.


Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. (Mt. 5, 1-12)


Le beatitudini sono il segreto della vera felicità, che tutti vorremmo possedere e vivere, perché ci accorgiamo che quello che ci circonda è ‘tutto vanità’, e neppure a volte vale la pena ricordarlo e, peggio ancora, affidargli il nostro cuore.


A volte, pensando al Paradiso, pare di sognare una meta irraggiungibile, soprattutto verificando la grande fatica che facciamo per trapiantare il ‘divino in noi’.


Ma ci conforta il ricordo di tantissime persone con cui abbiamo avuto la fortuna di camminare, anche se con sacrificio, con gli occhi rivolti al Cielo, come se l’OGGI fosse solo l’attesa di quel grande giorno.


Ripenso a mamma, che portava sempre lo stesso grembiule e il cui desiderio era quello di indicarci la via del Paradiso. ‘A me, qui in terra, basta questo grembiule’ – mi diceva – ‘in attesa della veste bianca del Paradiso, se Dio mi vorrà’.


Tanti nostri cari ed amici, che hanno attraversato la nostra vita. Li abbiamo ammirati come santi – penso ai carissimi San Giovanni Paolo II e beato Paolo VI. Quanto debbo ad entrambi! -  E’ confortante sapere che tutti li ritroveremo Lassù e in ogni istante di questo nostro esilio pregano per noi, ‘fanno il tifo’ per noi!


Davvero ora, più ancora di prima, ci sono ‘cari’.


Nel giorno della Commemorazione dei Defunti, il libro della Sapienza ci ricorda:“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura; la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di Sé. Li ha saggiati come oro nel crogiolo e li ha graditi come un olocausto”. (Sap. 3, 1-9)


Ha senso dunque un’esistenza vissuta tutta al presente, senza la visione del futuro?


Pensiamoci seriamente: la nostra sorte ce la giochiamo ogni giorno con il nostro modo di vivere.


E’ giusto e ‘santamente intelligente’ chiederci oggi, se la nostra mèta è di essere tra i ‘giusti’ in Cielo.


Il Paradiso è la nostra Casa. Il Padre ci attende e tutto ha predisposto perché lo raggiungiamo. Non con le nostre miserevoli buone intenzioni o povere forze, ma ‘lavando le nostre vesti e rendendole candide col sangue dell’Agnello’, che ci ha salvati, ‘quando ancora eravamo peccatori’.


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