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LE PROVE ONTOLOGICHE DELL'ESISTENZA DI DIO

Ultimo Aggiornamento: 22/01/2019 11:33
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13/02/2010 23:56
 
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Kant

Proprio nel confronto a partire dalla critica svolta da Kant alle prove dell’esistenza di Dio che Schelling svilupperò in parte la riformulazione di una prova dell’esistenza di Dio.

Kant approfondisce il discorso su tali prove già a partire da uno scritto precritico, intitolato L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763), e continua la sua speculazione filosofica in questa direzione a partire dalla Critica della Ragione Pura (1781).

In particolare il filosofo analizza le prove dell’esistenza di Dio nel capitolo della Dialettica trascendentale dedicato all’ideale della ragione pura, e ne individua di tre tipi:

-          la fisico-teologica, che corrisponde alla quarta e quinta delle prove di Tommaso (rispettivamente ex gradu e ex fine);

-          la prova cosmologica, corrispondente alle prime tre prove di Tommaso (rispettivamente ex motu, ex causa e ex possibili et necessario).

-          la prova ontologica, detta anche cartesiana, in riferimento al razionalismo di Cartesio e di Leibniz.

Kant riconduce la prova fisico-teologica a quella cosmologica, e a sua volta la prova cosmologica a quella ontologica, per cui si propone di argomentare intorno a quest’ultima dimostrandone l’inefficacia filosofica. Va notato subito come nella sezione della Critica della Ragion pura presa in esame Kant conduca una critica a tutte le prove dell’esistenza di Dio, mostrando al tempo stesso in maniera limpida e netta come l’idea di Dio, propriamente costituita dall’ideale trascendentale, sia inevitabile per la ragione: per un verso, dunque, Kant afferma l’inevitabilità dell’idea di Dio e per altro verso l’impossibilità di dimostrarne l’esistenza, per cui pensare Dio non faciliterebbe affatto l’accesso effettivo della ragione alla prova della sua esistenza. E’ significativo sottolineare che tale paradossalità della ragione sarà ben presente all’ultimo Schelling. L’ideale trascendentale costituisce un vero e proprio abisso della ragione umana, e questa abissalità permetterà di riflettere parecchio, sia sulla trascendentalità della ragione, attraverso una filosofia negativa, sia sulla possibilità di provare l’esistenza di Dio, attraverso una filosofia positiva.

L’ideale trascendentale della ragione umana è per Kant un’idea personificata, attraverso un processo di ipostatizzazione tale da far assurgere ad archetipo tale idea: si tratta dunque dell’ideale che permette di compiere tutta la serie di possibilità pensabili da parte della ragione umana. Esso è propriamente un ens perfectissimum, secondo l’espressione dell’argomentazione di Anselmo, ma Kant richiama anche altre espressioni, come ad esempio omnitudo realitatis, che sta ad indicare la realtà di ogni totalità pensabile racchiusa nell’ideale trascendentale; egli inoltre fa riferimento ad una vera e propria teologia trascendentale, ossia ad una teologia svolta semplicemente attraverso la trascendentalità della ragione: la ragione, a priori e inevitabilmente, giunge ad una riflessione su Dio, che è inteso come ideale trascendentale.

La riflessione sulla paradossalità della ragione si fonda, dunque, sull’argomentazione critica intorno alle prove dell’esistenza di Dio.

1)      In primo luogo, Kant incentra la sua attenzione sulla prova fisico-teologica, che dal mondo esperibile della fisica risale a Dio come suo fondamento, secondo l’argomentazione, già presente in Aristotele, che giustifica l’ordine e la finalità del mondo sensibile attraverso un rimando ad un principio primo, che si configura come causa teleologica del mondo stesso. Kant afferma che in questo caso siamo di fronte ad un salto logico, in quanto non è possibile risalire dalla teologia riscontrabile nel mondo alla sua causa finale prima ed incausata: tale percorso sarebbe lecito soltanto attraverso la dimostrazione delle relazioni di causalità, che gradualmente potrebbero condurci dalla realtà fisica ad un essere assolutamente incondizionato.  Ma questa è propriamente la strada che percorre la prova cosmologica dell’esistenza di Dio, cioè quella che dal cosmo risale per gradi, ossia di causa in causa, ad un Atto primo puro, immobile movente di ogni divenire: Kant è dunque riuscito a ricondurre a quest’ultima la prova fisico-teologica, da cui è partito.

2)      Kant analizza la prova cosmologica, partendo non dall’esperienza sensibile in quanto tale, come invece fa Tommaso, piuttosto dalla possibilità a priori di qualcosa di esperibile nel cosmo, operando in tal modo ancora una volta riflessione trascendentale: il filosofo ipotizza infatti la possibilità di un’esperienza sensibile, che non prescinde totalmente dall’esperienza stessa, ma che è comunque parzialmente a priori. Partendo dalla possibilità dell’esistenza effettiva di qualcosa, Kant giunge alla presupposizione inevitabile di una incondizionatezza che fondi tale possibilità. Il filosofo afferma che, se qualcosa esiste e se riesco almeno a riscontrarlo, allora lo si potrà determinare nella sua individualità solamente nell’esclusione di ogni altra diversa possibilità, da cui la possibilità particolare in questione deve necessariamente distinguersi: per distinguere una cosa nella sua singolarità, si dovrebbe possedere l’intera serie delle possibilità; in caso contrario la cosa non potrà mai essere determinata con una precisione tale da escludere il suo confondersi con qualcos’altro. Questa serie completa è propriamente costituita dall’ideale trascendentale, ossia dall’idea di Dio: essa sarebbe la causa incausata ed incondizionata di ogni altra causa infinita, di quella concatenazione di cause che non può essere infinita, altrimenti di fatto sarebbe indefinita non solo nella sua totalità, ma anche nella singolarità di ogni ente finito e determinato: se non circoscriviamo questo rimando apparentemente infinito, nemmeno le singole cose saranno determinabili nella loro singolarità. Allora cosmologicamente l’esaminare una data cosa ci rimanda inevitabilmente a tale causa ultima ed incondizionata, raffigurabile come un essere necessario che fonda, senza essere causato, la concatenazione di cause possibili. La possibilità di un semplice ente nella sua determinazione finita presuppone dunque la necessità di un ens necessarium: la prova cosmologica, a partire dalla possibilità di un ente determinato, rinvia alla necessaria presupposizione ad esso di un ente necessario. A questo punto sorge un ulteriore problema secondo Kant: questo ente necessario dovrà essere in qualche modo definito, quindi non ci si potrà limitare ad una definizione negativa di esso come ente incausato e non-possibile. Per descriverne la necessità dovremo dire qualcosa di più, ossia ricondurre l’ens necessarium all’ens perfectum e dunque ricondurre la prova cosmologica alla prova ontologica; per affermare la necessità dell’ente dovremo dunque concepirlo come l’essere così perfetto, da includere nella sua essenza la sua stessa esistenza. Se la prova fisico-teologica si fonda su quella cosmologica, e quest’ultima sulla prova ontologica, se inoltre la prova ontologica risulterà valida, allora reggeranno mediatamente tutte le altre prove, in quanto esse si fondano sull’effettività dell’esistenza di Dio.

3)       A differenza che nella sua opera precritica L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, nella Dialettica trascendentale Kant critica radicalmente la prova ontologica. Tale critica è molto articolata e di fatto si basa sul fatto che Cartesio include l’esistenza fra le perfezioni attribuibili a Dio. Kant riesce a dimostrare che l’esistenza non è una delle perfezioni possibili di Dio: ogni esistenza, e tra queste l’esistenza di Dio, non costituisce una perfezione, non è un predicato. L’esistenza non è un predicato reale, non è un predicato in generale. Se noi per affermare l’esistenza di Dio formuliamo una proposizione del tipo Dio è esistente, allora attribuiremo a Dio l’esistenza come suo predicato, come sua qualità. Tutte le altre perfezioni di Dio sono attribuibili a Lui come predicati ella soggettività di Dio. Potremmo dire ad esempio Dio è onnipotente, in quanto l’onnipotenza è un predicato incluso nello stesso soggetto della proposizione, il predicato infatti non fa che esplicitare analiticamente a priori  una caratteristica del soggetto: la copula nel giudizio in questione ha mero valore logico, in quanto unisce semplicemente in maniera analitica il predicato al soggetto, esplicitando una caratteristica del soggetto già implicita in esso, ma senza voler esprimere l’esistenza di Dio onnipotente. La copula nel giudizio analitico non può valere essa stessa come predicato: dicendo che Dio è onnipotente noi non intendiamo che Esiste un Dio che è onnipotente. Non possiamo dire che Dio sia esistente, in quanto l’esistenza non è una sua predicabile qualità e non è inclusa nella sua soggettività. L’esistenza è qualcosa che solo in una fase successiva, sintetica, possiamo aggiungere a questo soggetto: l’esistenza non è un predicato. Esempio di giudizio analitico a priori: il triangolo ha tre lati. Si tratta di un’affermazione nella quale il fatto di avere tra lati non fa che esplicitare analiticamente ciò che è contenuto nel soggetto. Ma con ciò non avremo affermato l’esistenza del tale triangolo che dobbiamo descrivere. Lo stesso ragionamento vale per Dio: se noi diciamo che Dio è onnipotente, non ne affermiamo l’esistenza. A tal proposito Kant riporta l’esempio della moneta da cento talleri, che certamente nella sua identità è qualcosa di chiaramente pensabile, numericamente ineccepibile, ma nella sua effettiva realtà sarà esperibile solo attraverso la posizione stessa della cosa, la sintesi con l’esperienza e con l’intuizione sensibile. Non accade che l’idea di cento talleri aggiunga o diminuisca di un centesimo la loro quantità, ovvero l’essenza stessa della moneta in questione nella sua effettiva realtà. I cento talleri pensati dalla mia mente o i cento talleri che effettivamente posso possedere, da un punto di vista di definizione della cosa, sono esattamente identici, eppure l’esistenza è qualcosa di diverso. Lo stesso vale per Dio: Dio non fa eccezione rispetto a qualsiasi altro ente relativamente all’esistenza. Anche la sua esistenza non è un predicato, ma un’esistenza che può essere colta attraverso un intuizione sensibile. Ma Dio è un’idea della ragione, che sfugge a qualsiasi sensibilità, dunque la sua esistenza no è sintetizzabile. Eppure Dio è l’idea inevitabile, l’idea per eccellenza della ragione stessa. Se la ragione vuole pensare, allora non potrà fare a meno di ricorrere all’ideale trascendentale, incondizionata condizione di ogni realtà e complessività di ogni possibilità pensabile presupposta necessariamente alla pensabilità di ogni singolarità determinata. Nel tentativo di avvicinarci all’ideale trascendentale siamo ribaltati da un’idea all’altra, senza poter trovare un fondamento su cui basarci. Kant sinteticamente riassume il procedere della prova cosmologica e di quella ontologica, facendo notare come l’una rinvii all’altra senza soluzione di continuità e senza la possibilità di una risoluzione del nodo problematico ad esse sotteso. Infatti incisivamente il filosofo afferma che “l’intero compito dell’ideale trascendentale si riduce a questo: o trova per la necessità assoluta un concetto o per il concetto di una qualche cosa la necessità assoluta di questa”. Qui abbiamo in estrema sintesi l’indicazione di quali siano i percorsi della prova cosmologica (prima parte dell’affermazione) e di quella ontologica (seconda parte dell’affermazione): la prova cosmologica – almeno per quanto concerne la seconda parte dell’argomentazione kantiana, ossia quando si giunge all’incondizionato come condizione di ogni altra ipotizzabile condizione finita – esige una definizione dell’incondizionato stesso, richiede che dell’ens necessarium si dica il suo il suo essere ens perfectum: ecco spiegato il rinvio alla prova ontologica. Ma se noi siamo rinviati dalla necessità di una causa incondizionata all’esigenza di un concetto per essa, che è quello di perfezione, ecco che dal concetto di una qualsiasi cosa siamo inevitabilmente e circolarmente rinviati alla necessità, cioè la concettualità a sua volta è priva di necessità, nel senso che essa – che si parli di Dio, di un triangolo o di una moneta da cento talleri -, pur potendo includere in sé anche l’idea di esistenza necessaria, non da riferimento all’esistenza effettiva, in quanto l’esistenza non è un predicato, e quindi in nessuna concettualità potremo includere l’esistenza nella sua effettività. L’esistenza può effettivamente essere riscontrata mediante una sintesi della concettualità con l’intuizione sensibile, che nel caso di Dio non ci è data. Soltanto un’intuizione intellettuale come quella di Dio potrebbe concepire concetto ed esistenza come qualcosa di simultaneo, perché Dio crea le cose nell’atto stesso in cui le pensa e le pensa nell’atto stesso in cui le crea. Saranno gli idealisti ad attribuire tale intuizione intellettuale all’Io piuttosto che a Dio, permettendo dunque una fondazione della razionalità trascendentale.

Nell’essere rinviati circolarmente da una prova all’altra, senza un fondamento ultimo né un’insensatezza conoscitiva – di fatto la ragione inevitabilmente è attratta dall’ideale trascendentale ma al tempo stesso ne è respinta – Kant, in una pagina significativa della prima Critica individua un “abisso” della ragione umana. “La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della  ragione umana. L’eternità stessa, con tutta la sublimità terribile con cui possa pure essere dipinta da uno Haller (poeta svizzero), è lungi dal produrre sull’animo quest’impressione vertiginosa; infatti si limita a misurare la durata delle cose, ma non le sostiene. Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo; che un ente che ci rappresentiamo come il sommo di tutti i possibili dica in certo qual modo a se stesso: Io sono dall’eternità per l’eternità; fuori di me non è nulla se non ciò che è qualcosa meramente per mia volontà; ma donde sono io allora? Qui tutto sprofonda sotto di noi, e la massima perfezione con la minima meramente fluttuano senza sostegno davanti alla ragione speculativa, a cui nulla costa fare svanire l’una come l’altra senza il benché minimo ostacolo”. Questa è una delle pagine più abissali del sistema filosofico di Kant, che ci fa capire come il nostro intelletto operi relativamente alla conoscibilità come su un’isola circondata da mari tempestosi – il riferimento è ad uno spunto metaforico presente in un’altra pagina della produzione kantiana. Nel passo citato si afferma non solo la presenza di un abisso della ragione umana, verso il quale la ragione è inevitabilmente attratta e dal quale al tempo stesso è insopportabilmente respinta, ma anche che è quello stesso fondamento ultimo, che la ragione identifica con Dio, ad essere abissale: persino Dio interroga se stesso intorno alla propria fondatezza; l’ultimo fondamento di ogni cosa da ultimo risulta infondato.

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