LE PROVE ONTOLOGICHE DELL'ESISTENZA DI DIO

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Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:47

Molti pensatori, filosofi, scienziati e anche artisti o semplici credenti e non credenti, si sono da sempre posti il problema dell'esistenza di Dio.

Le prove addotte in favore o in contrario sono state molte.

Ciò che occorre notare è che questo problema non lascia requie a nessuno perchè nel cuore dell'uomo vi è un richiamo costante e insopprimibile a ricercare ciò per cui è stato fatto.

In ogni caso qui di seguito documenteremo le tesi formulate dai più valenti pensatori che hanno portato il loro contributo per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio.

Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:49

 Anselmo d’Aosta

 La posizione di Anselmo d’Aosta, precedente di due secoli quella di Tommaso, è articolata in dimostrazioni “a priori” e “a posteriori” relativamente all’esistenza di Dio, ma è celebre soprattutto la prova “ontologica”  contenuta nel Proslogion, composto tra il 1077-78.

Inizialmente intitolato “la fede alla ricerca dell’intelletto” (fides quaerens intellectum), segue due direzioni suggerite già da Agostino “credo ut intelligam” e “intelligo ut credam”, ma per Agostino vi era circolarità tra le due: sia il credere può essere presupposto dell’intelligenza (presupposto, dunque che è a fondamento) e viceversa, sia l’intelligenza è rafforzatrice per la fede (presupposto per capire la propria fede). Per Anselmo d’Aosta è sul presupposto della fede che l’intero compito si svolge: nella fede è già inscritta la ricerca, essendo essa il fondamento dell’indagare, del ricercare.

In questo, Agostino e Anselmo non fanno che approfondire Isaia, il quale afferma “se non crederò, non intenderò” (nisi credidero, non intelligam).

E’ dalla fede, quale presupposto non scontato, che Anselmo inizia il suo cammino di ricerca e giunge a formulare la propria argomentazione relativamente alla esistenza di Dio, provabile senza il ricorso all’esperienza esteriore. Nel secondo capitolo del Proslogion, giunge a definire Dio come ens perfectum, ossia come quell’ente che accoglie in sé tutte le perfezioni, inclusa quella perfezione che è l’esistenza: l’essere intellettualmente comprensibile di Dio include in sé la sua stessa esistenza. Se noi pensassimo a Dio senza pensarlo esistente, ecco che non avremmo pensato veramente a Dio, perché potremmo pensare a un’idea ancora più grande: quella pensata prima più quella della sua esistenza.

Un conto è pensare alla perfezione di Dio come essere perfettissimo e altro la conseguenza logica che non possiamo pensarlo non esistente. Inoltre Anselmo esprime così la sua idea di Dio: “non Sei solo ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ma Sei anche alcunché di maggiore di quanto possa essere pensato”; le due affermazioni vanno tenute assieme, infatti la prima è il contenuto della argomentazione ontologica, mentre la seconda vuole evidenziare il ruolo della fede, in quanto  si vuole esprimere che Dio è anche più perfetto, più grande di ogni pensiero che si possa formulare su di lui.

Solo nella contemplazione di questi apparenti contrasti, quindi nella comprensione simultanea di queste due tesi, possiamo davvero affermare la perfezione di Dio, senza ridurlo a ente razionale, cioè a prodotto semplicemente della nostra speculazione,garantendogli la indicibilità, la superiorità, la differenza qualitativa tra Lui e l’uomo. Tuttavia in questo modo non rinunceremo così al tentativo di intuirne l’essenza.

Ecco che, così compreso il pensiero anselmiano, potremo comprendere la motivazione, da parte dell’ultimo Schelling, di riprendere l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta e nel              riapprofondirne la portata. Filosofia negativa e filosofia positiva non sono che le due facce del tentativo di comprensione dell’esistenza di Dio, Dio vivente capace di porsi in relazione con la conoscenza umana, la quale è capace a sua volta, almeno in parte, di cercare di comprendere Dio nelle sue relazioni storiche con la finitezza umana.

Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:50

 Tommaso d’Aquino

  San Tommaso d’Aquino formalizza diverse prove dell’esistenza di Dio, e sembra essere proprio lui il principale teorizzatore della prova “a posteriori” dell’esistenza di Dio, anche se, comunque, parla della prova “a priori” formulata da Anselmo d’Aosta in tono critico, dichiarandola inaccettabile.

San Tommaso, infatti, afferma che di per sé, la prova ontologica sarebbe valida in assoluto, ma solo relativamente a Dio e non per l’uomo, che invece deve contemplare Dio a partire dalla propria finitezza: cioè, la prova che partendo semplicemente dall’essere di Dio ne dimostra l’esistenza, per Dio stesso è sicuramente valida (essenza ed esistenza coincidono in Dio), ma per la debole mente umana non è valida, in quanto l’uomo non può fare esperienza diretta del fatto che in Dio coincidono essenza ed esistenza.

Per San Tommaso, come chiaramente in Aristotele, la conoscenza non può che avvenire attraverso l’esperienza, la quale a sua volta non può che avvenire per mezzo dei sensi.

Così, San Tommaso passa ad individuare quali siano le prove a posteriori per giungere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio e queste vengono chiamate prove cosmologiche o fisico-teologiche, in quanto partono dal cosmo sensibile e ordinato, invece di partire da una mera nozione dell’essere riscontrabile nella stessa mente finita dell’uomo. Per San Tommaso le prove dell’esistenza di Dio sono cinque, e c’è una ripresa di varie tematiche aristoteliche.

1)      La prima parte dal principio aristotelico che ogni movimento non può che essere ricondotto ad uno suo movente, e il movente ultimo di ogni movimento non può che essere un motore immobile, cioè che muove pur non essendo mosso (Dio). Questo concetto, proprio della teologia aristotelica,intende Dio come causa finale, cioè muove per attrazione, attraverso il desiderio, ogni cosa finita, la qual mossa dal desiderio di questo fine superiore, viene attratta, appunto, finalisticamente da questo motore che resta, tuttavia, immobile.

2)      La seconda via individua nella serie di causalità, argomentabili relativamente ai rapporti di causalità fra cose sensibili, tra sostanze sensibili e anche soprasensibili, quindi in una continua concatenazione di cause con cause, un fondamento primo di questa serie. Questa causalità non è semplicemente una causa efficiente, ma la causa finale, ossia la immobile movenza attrattiva propria al primo principio aristotelico della realtà come motore immobile. La serie di cause rinvia ad una causa prima, che può essere causa assolutamente finale, cioè Dio.

3)      La terza consiste nell’interpretazione tomistica del rapporto tra potenza e atto aristotelico: prima l’atto, poi la potenza. Se riscontriamo una potenza, per spiegarla, dovremo risolverla all’attualità rispetto alla quale tale potenza è potenzialità. Non possiamo fare a meno di considerare Dio come atto puro, ossia un atto privo di ogni potenzialità, una realtà pienamente realizzata in quanto ha in sé stesso il suo fine.

4 e 5) La quarta e la quinta risalgono dalla realtà sensibile alla realtà divina: riscontrando alcuni gradi di realtà è necessario risalire ad un principio primo, che contiene tali gradi nella propria purezza, nella propria perfezione. La quinta prova, non solo riscontra queste tracce di caratteristiche trascendentali nel mondo sensibile, ma riscontra proprio l’ordine del cosmo: il cosmo è tale proprio perché è ordinato, ed è possibile riscontrare in esso una certa provvidenza, ossia possiamo dire che è governato da qualcosa di superiore, e questo lo possiamo dire a posteriori.

Ecco dunque la reinterpretazione tomistica della metafisica aristotelica: tuttavia San Tommaso riconoscerà un apofatismo relativamente alla divinità e introdurrà una teologia della Rivelazione, ossia una teologia fatta non solo attraverso la conoscenza naturalmente propria all’esistenza finita e alla sua capacità conoscitiva, ma anche basata sulla rivelazione positiva del cristianesimo.



Leggiamo dalla sua SUMMA TEOLOGICA

(per scaricarla integralmente vedasi:

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9045073


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E' EVIDENTE L'ESISTENZA DI DIO?

Motivi a favore

Sembra che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti:

1 Noi diciamo evidenti di per sé le cose la cui conoscenza è insita per natura in noi, come avviene nel caso dei primi princìpi. Ma, come di­ce san Giovanni di Damasco, «la conoscenza del­l'esistenza di Dio è insita in tutti per natura»'. Perciò l'esistenza di Dio è evidente per se stessa.

2. Si dicono ancora evidenti le nozioni che vengono conosciute non appena ne sono chiariti i termini, come afferma Aristotele a proposito dei primi principi della dimostrazione negli Analitici posteriori'. Per esempio, non appena si sa che co­s'è il tutto e che cos'è la parte, immediatamente si capisce che il tutto è sempre maggiore di ogni sua parte. Così, non appena venga compreso che cosa significhi la parola Dio, subito si capisce che Dio esiste. Con tale parola, infatti, si indica l'essere rispetto al quale non può esistere nulla di più grande. Ora, ciò che esiste nello stesso tempo nella mente e nella realtà è più grande di ciò che esiste solo nella mente. Dunque, una vol­ta compresa la parola Dio, subito egli appare co­me esistente nella mente. Di conseguenza esiste anche nella realtà. Perciò l'esistenza di Dio è evi­dente di per se stessa.

3. Infine l'esistenza della verità è di per sé evidente. Di fatto, chi dice che non esiste la veri­tà, afferma che esiste una verità. Se infatti non esiste la verità, almeno sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualcosa di vero, bisogna che esista la verità. Ora Dio è la verità stessa, in base a ciò che si legge nel vangelo di Giovanni: «Io sono la via, la verità e la vita»'. Perciò l'esi­stenza di Dio è di per sé evidente.

Motivo contrario

Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è per sé evidente, come afferma Arístotele riguardo ai primi princìpi della dimostrazione. Ora si può pensare l'opposto della proposizione: Dio esiste, giacché - secondo il Salmo - «l'insensato ha detto nel suo cuore: "Dio non c'è"». Dunque non è per sé evidente che Dio esista.

Risposta conclusiva

Una cosa può essere evidente in due sensi, cioè: in se stessa, ma non per noi; in se stessa e an­che per noi. Così è evidente la proposizione in cui il predicato è già compreso nella definizione del soggetto. Ad esempio, «l'uomo è un animale» è una proposizione evidente perché il termine «ani­male» è già contenuto nella definizione del termi­ne «uomo». Se è a tutti nota la natura del predica­to e del soggetto, la proposizione che ne risulta sa­rà per tutti evidente. Ciò risulta, appunto, nel caso dei primi princìpi della dimostrazione i cui termini sono nozioni universali che nessuno ignora, come ente e non ente, il tutto e la parte, ecc.

Ma se qualcuno ignora la natura del predí­cato e del soggetto, la proposizione può essere evidente in se stessa, ma non lo è per lui. Accade così, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti solo per i dotti. Per esempio, è evidente per i dotti che le cose immateriali non sono estese, non occupano spazio.

Dico pertanto che la proposizione Dio esiste, considerata in se stessa, è evidente perché, in es­sa, il predicato si identifica con il soggetto. Dio, infatti, è il suo essere, come vedremo in seguito. Ma poiché noi non conosciamo l'essenza di Dio, tale proposizione non è evidente per noi. Per di­ventare evidente, ha bisogno di essere dimostrata per mezzo delle cose che sono a noi più note, an­che se di per sé sono meno evidenti, cioè per mezzo degli effetti.

Risposta ai motivi a favore

1. È vero che abbiamo dalla natura una conoscenza generale e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo. L'uomo infatti desidera per natura la felicità, e ciò che è desiderato per natura dall'uomo è da questi anche conosciuto per natura. Ma ciò non è propriamente conoscere che Dio esiste, così co­me conoscere uno che sta venendo verso di noi non vuol dire conoscere Pietro, benché sia pro­prio Pietro colui che sta venendo verso di noi. Molti infatti ritengono che il sommo bene del­l'uomo, cioè la felicità, consista nelle ricchezze, altri che consista nei piaceri e altri ancora che consista in qualche altra cosa.

2. Colui che ode il nome di Dio, non sem­pre comprende che con esso viene espresso l'es­sere rispetto al quale non si può pensarne uno di maggiore. Prova ne è il fatto che alcuni hanno creduto che Dio fosse un corpo. Ma, ammesso pure che con la parola Dio tutti intendano signi­ficare ciò che essa dice - l'essere rispetto al qua­le non si può pensarne uno maggiore -, da que­sto non risulta che si intenda che ciò che è espresso da tale parola esista nella realtà delle cose. Da questo risulta solo che esiste nella cono­scenza intellettiva. Né si può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è un essere rispetto al quale non si può pensarne uno maggiore. Cosa, questa, che non è ammessa da coloro che dicono che Dio non esiste.

3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente, ma non è altrettanto evidente che esista una verità prima.

 

 

DIO ESISTE ?


Sembra che Dio non esista.

Infatti:

1. Di due cose opposte, se una è infinita, l'altra viene completamente annullata. Ma ciò che significa la parola Dio è, appunto, una realtà che è infinito bene. Pertanto, se Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Invece nel mondo c'è il male. Dunque Dio non esiste.

2. Ciò che può esser compiuto da un ristret­to numero di cause, non si vede perché debba venire compiuto da cause più numerose. Ora tut­ti i fenomeni osservati nel mondo possono venir realizzati da altre cause, nell'ipotesi che Dio non esista. In effetti i fenomeni naturali vengono ri­condotti, come a loro principio, alla natura, e tutto ciò che è di ordine spirituale viene ricon­dotto alla ragione e alla volontà umana, come a suo principio. Non c'è quindi alcuna necessità dell'esistenza di Dio.

Motivo a favore

Nel libro dell'Esodo viene detto da parte di Dio stesso: «Io sono colui che è».

Risposta conclusiva

L'esistenza di Dio si può provare per mezzo di cinque vie.

La prima via e la più evidente è quella che si desume dal divenire.

È infatti una cosa certa - tanto da essere constatabile dall'esperienza sensi­bile - che in questo mondo alcune realtà sono soggette al divenire. Ora tutto ciò che è in dive­nire diviene a partire da altro da sé. Infatti nulla è in divenire se non in quanto è in potenza ri­spetto all'ente che rappresenta il termine del suo divenire. Divenire, infatti, altro non è che passa­re dalla potenza all'atto. Ora nulla passa dalla potenza all'atto se non a causa di un ente che è già in atto. Per esempio, il fuoco - che è caldo in atto - rende caldo in atto il legno che, di per sé, è caldo solo in potenza. Scaldandolo, lo fa dive­nire caldo e lo modifica. Però non può avvenire che uno stesso ente sia in atto e in potenza con­temporaneamente e sotto lo stesso aspetto, ma solo secondo aspetti diversi. Infatti ciò che è cal­do in atto non può esserlo in potenza nello stesso tempo, ma sarà freddo in potenza. E perciò impossibile che una realtà - sotto un identico aspetto - sia insieme in divenire e anche si faccia divenire, o che sia soggetto attivo e passivo del proprio divenire. Dunque tutto ciò che è in dive­nire trova necessariamente in altro da sé il sog­getto che lo fa divenire. Se pertanto un ente, che determina il divenire di un altro, è anch'esso soggetto al divenire, bisogna che il suo divenire si attui grazie all'intervento di un altro ente e questo grazie all'intervento d'un terzo e così via. Ma non si può procedere all'infinito in tal modo, perché altrimenti non vi sarebbe un primo ente che fa divenire e, di conseguenza, nessun al­tro ente che fa divenire: in quanto gli enti inter­medi che fanno divenire non hanno la capacità di determinare il divenire, se non per il fatto di es­sere spinti essi stessi a divenire dal primo ente. Così, per esempio, un bastone mette in movimen­to, cioè fa divenire una cosa, solo in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare a un primo ente che fa divenire tutti gli altri, senza divenire a sua volta. E tutti comprendono che tale ente è Dio".

La seconda via si basa sulla natura della cau­sa efficiente.

Troviamo infatti negli oggetti sensi­bili la presenza di un ordine di cause efficienti. Ma non si trova - anzi ciò è addirittura impossi­bile - che una realtà sia causa efficiente di se stessa. In tal caso, infatti, essa preesisterebbe a se stessa, Il che è del tutto assurdo. Ora non è possibile che, nell'ambito delle cause efficienti coordinate tra loro, si possa procedere all'infini­to. E ciò perché, in tutte le cause efficienti coor­dinate, la prima è causa dell'intermedia e l'intermedia è causa dell'ultima, sia nell'ipotesi che le cause intermedie siano molte, sia che si tratti di una sola. Ora, rimossa la causa, viene rimosso in­sieme anche l'effetto. Perciò se non vi fosse una prima causa nell'ambito delle cause efficienti, non vi sarebbe neppure l'ultima e l'intermedia. Ma se si procede all'infinito nell'ambito delle cause efficienti, non vi sarà una prima causa efficiente. Così non vi saranno più né l'effetto ultimo né le cause efficienti intermedie. Il che è evidente­mente falso. Perciò è necessario ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.

La terza via è presa dalla realtà contingente e dalla realtà necessaria.

Tra le diverse cose, noi ne troviamo alcune che possono essere e non es­sere. Infatti alcune cose nascono e alcune peri­scono, il che vuol dire che possono essere e non essere, ossia che sono contingenti. Ora è impos­sibile che le cose di tale natura siano sempre esi­stite e ciò perché una realtà che può non essere, un tempo non esisteva. Se tutte le realtà esistenti fossero tali da poter non essere, in un determina­to momento non sarebbe esistito nulla nel mon­do. Ma se ciò fosse vero, anche ora non vi sareb­be nulla, e questo perché ciò che non esiste non comincia ad esistere se non a causa d'una realtà già esistente. Se pertanto a un determinato mo­mento non fosse esistita alcuna realtà, sarebbe stato impossibile che qualche realtà cominciasse ad esistere. Così ora non esisterebbe niente. Ma ciò è evidentemente falso. Perciò non tutti gli enti sono contingenti. Bisogna che, nella realtà, ci sia qualcosa di necessario. Ora tutto ciò che è necessario, o ha la causa della propria necessità in altro essere, oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro ne­cessità, non si può procedere all'infinito, come non lo si può nelle cause efficienti, come si è provato. Dunque bisogna affermare l'esistenza di un ente che sia, di per se stesso, necessario e che non tragga da altri la propria necessità, ma che sia causa di necessità per tutti gli altri enti necessari. E questo tutti dicono Dio.

La quarta via si desume dai gradi di perfe­zione che si riscontrano nella realtà.

In questa, infatti, si riscontrano enti che possiedono un gra­do maggiore o minore di bontà, di verità, di no­biltà, e così via. Ma il grado maggiore o minore viene attribuito ai diversi enti in rapporto al diverso modo con cui essi si avvicinano a ciò che rappresenta il grado sommo di quella qualità. Così, ad esempio, più caldo è ciò che maggior­mente si avvicina al caldo in grado sommo. Vi è dunque qualcosa che è vero in grado sommo, così come è buono in maniera superlati­va e nobilissimo e - per conseguenza - ente som­mo. Infatti ciò che è vero in sommo grado è an­che ente in sommo grado, come viene affermato nel secondo libro della Metafisica. D'altra parte, ciò che è in grado sommo se­condo un determinato genere è causa di tutti gli enti che appartengono a quel genere. Così, ad esempio, il fuoco che è caldo in sommo grado è causa di tutti gli enti caldi, come si afferma nello stesso libro della Metafisica. Perciò esiste una realtà che è causa per tutti gli enti dell'essere, della bontà e di qualunque perfezione. E tale realtà noi la chiamiamo Dio.

La quinta via muove dall'ordine del mondo.

Vediamo infatti che alcuni enti - pur essendo privi di conoscenza, come sono i corpi fisici - operano per un fine. Ciò appare dal fatto che sempre, o almeno molto di frequente, si compor­tano in quel modo preciso che fa loro conseguire la piena realizzazione. È chiaro così che raggiun­gono il loro fine non per opera del caso, ma a causa d'una precisa determinazione. Ora ciò che è privo di conoscenza non tende al proprio fine se non perché è diretto da un en­te che possiede conoscenza e intelligenza: come, ad esempio, la freccia dall'arciere. Perciò esiste un ente intelligente dal quale gli enti della natu­ra vengono guidati al loro fine. E questo ente noi lo chiamiamo Dio.

Risposta ai motivi contrari

1. All'obiezione del male, sant'Agostino ri­sponde: «Dio, sommamente buono, non permet­terebbe che in alcun modo ci fosse del male nelle sue opere, se non fosse tanto potente e tanto buono da saper trarre il bene anche dal male».

È dunque alla stessa infinita bontà di Dio che si collega la sua permissione del male, unita alla sua volontà di trarne del bene.

2. Affermando Dio, non si intende negare le causalità naturali o libere. Ma poiché la natura non può agire in vista d'un fine determinato, se non sotto la direzione di qualche agente ad essa superiore, bisogna necessariamente attribuire a Dio, causa prima, ciò che realizza la natura. Allo stesso modo gli atti della volontà libera - senza cessare di appartenerle - devono essere ricondot­ti a una causa più elevata della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili. Ora tutto ciò che è materiale e defet­tibile dev'essere ricondotto a una causa prima, immutabile e necessaria per se stessa, come ab­biamo dimostrato.


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L'ESISTENZA DI DIO E' DIMOSTRABILE ?


Motivi contrari

Sembra che l'esistenza di Dio non sia dimo­strabile.

Infatti:

1. L'esistenza di Dio è un articolo di fede. Ora le cose di fede non si possono dimostrare perché la dimostrazione genera la scienza, men­tre la fede riguarda solo le cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può dimostrare l'esistenza di Dio.

2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ma, di Dio, noi non possiamo conoscere la natura o ciò che è. Possiamo sapere solo ciò che non è, come os­serva Giovanni di Damasco. Dunque non pos­siamo dimostrare che Dio esiste.

3. Anche se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò avverrebbe solo movendo dai suoi ef­fetti. Ma questi non sono proporzionati al suo essere, giacché egli è infinito, mentre i suoi effet­ti sono finiti. Tra il finito e l'infinito non vi è al­cuna proporzione. Allora, dal momento che non si può risalire, per via di dimostrazione, ad una causa partendo da un effetto senza proporzione rispetto ad essa, ne risulta che non si può dimo­strare l'esistenza di Dio.

Motivo a favore

Dice san Paolo: «Le qualità invisibili di Dio si rendono a noi visibili per mezzo del mondo crea­to». Ora ciò non sarebbe vero se non si potesse dimostrare l'esistenza di Dio, movendo dal creato, poiché la prima cosa che bisogna conoscere intor­no a un dato soggetto è se esso esista.

Risposta conclusiva

Ci sono due specie di dimostrazioni: una par­te dalla causa e viene chiamata propter quid perché muove da ciò che in sé ha una proprietà logica. L'altra parte dagli effetti ed è chiamata dimostra­zione quia perché muove da cose che hanno una priorità soltanto rispetto a noi. Ogni volta che un effetto ci è più noto della causa da cui deriva, noi ci serviamo di esso per conoscere la causa.

Comunque, movendo da qualche effetto si può dimostrare l'esistenza della sua causa (natu­ralmente a condizione che gli effetti siano per noi più noti della causa). E ciò perché, dal momento che l'effetto dipende dalla causa, una volta che c'è un effetto è necessario ammettere la preesistenza della causa. Pertanto, dal momento che l'esistenza di Dio non è evidente per noi, essa può essere di­mostrata per mezzo degli effetti a noi più noti.

Risposta ai motivi contrari

1. L'esistenza di Dio e altre verità di lui che si possono conoscere con la sola ragione, al dire dell'Apostolo, non sono articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede. Difatti la fede suppone la conoscenza naturale, così come la grazia presuppone la natura e, in generale, la perfezione suppone ciò che può esser perfeziona­to. Nulla però impedisce che una causa - di per sé dimostrabile e oggetto di conoscenza razionale - sia accolta come oggetto di fede da chi non ar­riva a comprenderne la dimostrazione.

2. Quando si vuol dimostrare una causa me­diante un effetto, è necessario mettere l'effetto al posto della definizione della causa, per dimostra­re appunto l'esistenza della causa stessa. E ciò si verifica specialmente per Dio. Poiché, per prova­re l'esistenza d'una realtà, è necessario accogliere come termine medio la sua definizione nominale, e non già la sua essenza, dal momento che la ri­cerca dell'essenza di una realtà è posteriore alla ricerca della sua esistenza. Ora i nomi da noi at­tribuiti a Dio derivano dai suoi effetti, come sarà dimostrato in seguito. Dunque, nel dimostrare l'esistenza di Dio movendo da un suo effetto, possiamo accogliere come termine medio la defi­nizíone nominale di Dio.

3. È vero che da effetti non proporzionati alla causa non si può raggiungere di quest'ultima una conoscenza perfetta. Ma, movendo da qualunque effetto, noi possiamo dimostrare con tut­ta evidenza l'esistenza della causa. Così, partendo da opere di Dio, se ne può dimostrare l'esistenza benché, mediante tali opere, non ci sia possibile conoscere perfettamente l'essenza di Dio.


Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:51
Cartesio

Cartesio, attraverso i teologi scolastici, riprende l’argomento anselmiano in particolar modo nelle Meditationes de prima philosophia (Meditazioni metafisiche). Il termine prima filosofia è stato già usato da Aristotele per definire la teologia, quindi, anche Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche vuole riflettere su Dio. Infatti, afferma esplicitamente che vuole indagare la questione dell’anima e della sua immortalità, e l’esistenza di Dio.

Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche (pubblicate nel 1641 in lingua latina), non parte, come Anselmo, dalla fede per portare intelligenza alla fede stessa, ma parte dal dubbio universale, pur restando il fine di dimostrare qualcosa di certo, indubitabile, ossia l’esistenza di Dio. Provare l’esistenza di Dio significa, per Cartesio, garantire la corrispondenza tra pensiero ed estensione, ossia tra idee della nostra mente e realtà esterna, posta precedentemente in dubbio. Dio è il punto fermo da cui dipende la certezza stessa (anche il cogito).

Ponendo in dubbio tutte le nostre credenze circa l’esistenza di una realtà a noi esterna, Cartesio riesce, al fine, a trovare una certezza: l’essere dubitante, ossia un io pensante che esiste,  riconoscendosi esistente proprio attraverso l’atto del dubitare. Scopre, così, l’esistenza di un io dubitante e pensate le idee. Cartesio distingue poi tre tipi di idee relativamente alla loro origine: le idee avventizie, fattizie e innate.

Le idee avventizie, sarebbero quelle idee che provengono dall’esperienza sensibile, quindi da ciò che è a noi esterno.

Le idee fattizie, sarebbero quelle idee prodotte in noi, a prescindere da una nostra esperienza sensibile, quindi solamente a partire dalla nostra mente.

Le idee innate, non provengono, invece, né da una realtà esterna a noi, né dalla produttività della nostra mente. Esse sono infatti presenti in noi a prescindere da una nostra esperienza sensibile  e a prescindere da una nostra creatività interiore, dunque le idee innate sono eterne. Da qui una ripresa dell’eternità delle idee platoniche come base dell’argomentazione dell’immortalità dell’anima: se riscontriamo idee che sono da sempre presenti nella nostra anima, poiché noi siamo mortali, la nostra anima sarà, invece, immortale e per questo motivo abbiamo in essa idee eternamente presenti.

Fatta questa tripartizione, Cartesio formula tre possibili diverse dimostrazioni a priori dell’esistenza di Dio: nella terza meditazione viene riscontrata la presenza, nella nostra mente, dell’idea di Dio come essere infinito. L’origine di una tale idea non è nella realtà esterna a questa idea, perché essa non è infinita come Dio: quindi tale idea non è avventizia.

Cartesio nega, inoltre, che una tale idea sia fattizia perché l’idea di un essere infinito non può giungere da un essere finito: l’uomo non può produrre fattiziamente una tale idea, in quanto è essere finito.

Cartesio afferma questo sulla base di un presupposto logico e gnoseologico, cioè afferma che la causa di una idea deve avere una realtà formale altrettanto grande quanto la realtà oggettiva presente nell’idea causata. Per formale dobbiamo pensare all’atto aristotelico, alla forma come ciò che è in atto. Per oggettivo dobbiamo pensare il contenuto dell’idea, ossia a ciò che è oggettivabile alla facoltà rappresentativa della nostra mente. Cartesio afferma che la causa formale, cioè in atto, deve avere almeno altrettanta realtà formale quanto l’idea causata ne abbia di realtà effettiva, cioè se noi abbiamo, nella nostra mente, l’idea di Dio come essere infinito, questa che per noi è una rappresentazione (realtà oggettiva) nella nostra mente, dovrà essere causata da una causa che contenga in atto (formalmente) almeno altrettanta realtà formale quanta realtà oggettivata nella nostra mente. Così Cartesio sventa l’ipotesi che l’idea di Dio sia fattizia, perché dimostra che in noi non c’è la causa formale del risultato rappresentativo di tale causalità, in noi c’è solo l’oggettività, la rappresentatività di Dio come essere infinito, ma non Dio nella sua forma.

Così l’idea di Dio non può essere prodotta da noi (non può essere fattizia) e non può giungerci da una realtà esterna, né può essere intesa come semplice negazione del finito, in quanto per Cartesio l’infinito precede il finito, così come il perfetto precede l’imperfetto, ma è idea innata. Nella terza meditazione, viene introdotta una definizione di Dio come infinita potestas, concependolo non solo come ente supremo, infinito, perfetto, ma anche come volontà, capacità. Cartesio vuole arrivare ad intendere Dio come continuo sostenitore della nostra esistenza finita, e dunque vuole dimostrarne l’effettiva esistenza a partire proprio dall’idea presente in noi.

Infine, nella quinta meditazione si stabilisce che nell’idea stessa di Dio si debba includere anche quella della perfezione della sua esistenza: se Dio è l’essere infinito, l’essere perfettissimo, nella sua stessa essenza, nelle sua stessa idea dobbiamo includere l’esistenza, perché l’esistenza è vista come perfezione. E’ proprio su quest’ultimo punto che Kant solleverà la sua critica a Cartesio, considerando l’esistenza come non essere una perfezione, ma piuttosto una posizione della cosa. La critica schellinghiana a Cartesio assumerà l’argomento cartesiano di Dio come quell’ente alla cui “essenza compete l’esistenza”, ma affermerà che “Dio è l’essere necessariamente esistente, se esiste”, cioè il fatto che Dio è necessariamente esistente è frutto di una definizione meramente logica, che noi possiamo ritenere a priori come valida, tuttavia l’effettivo darsi di questa perfezione logica avverrà solo se riusciremo a presupporre l’esistenza effettiva di Dio. In altri termini, con la definizione di Dio come l’essere necessariamente esistente avremmo soltanto l’idea di Dio,ma non ancora la sua effettiva esistenza.

Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:53

Leibniz

Leibniz, sia nella Monadologia, nel 1714, sia nello scritto del 1701 Sulla dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio, svilupperà l’interpretazione cartesiana dell’argomento anselmiano estrapolato dal contesto di fede e lo riformulerà in una maniera ancora più logica. Per Leibniz, infatti, la prova dell’esistenza di Dio è ridotta alla riflessione logica sulla sua possibilità: se Dio è possibile, necessariamente esiste. Dio è quell’essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza o natura, e allora basterà pensare la possibilità di un essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza che ne avremo dimostrato l’effettiva esistenza. Basterà, dunque, dimostrare la non-contraddittorietà logica per dimostrare l’esistenza di quell’essere la cui esistenza è inclusa nella sua essenza. Ecco che in Leibniz abbiamo questa estrema logicizzazione dell’argomento anselmiano, il quale verrà totalmente abbandonato nel suo contenuto, nel corso della filosofia moderna, di considerare la fede come presupposto indagante e quindi non scontato e di considerare la conoscenza di Dio come non-conoscitiva attraverso la ripresa della Lettera a Timoteo, che afferma l’apofaticità di Dio. Kant si misurerà continuamente con la filosofia della scuola wolffiana, criticando radicalmente l’argomentazione ontologica, tuttavia valorizzandone la portata e ravvivandone la possibilità di contestualizzazione e quindi, creando quel terreno fertile attraverso il quale Schelling rivaluterà la prova ontologica, pur componendo il percorso in due cammini conoscitivi, ossia filosofia negativa e filosofia positiva.


Così come già avveniva in Aristòtele, la metafisica di Leibniz culmina di sua natura in una teoria di Dio. Il primo passo consiste nel dimostrarne l'esistenza. Differenti prove vengono ritenute valide. La prima è la prova a priori di Anselmo, che era stata ripetuta da Cartesio: data la nozione di essere perfettissimo, ad essa bisogna necessariamente riconoscere l'esistenza, perché altrimenti le si negherebbe una perfezione, cadendo in contraddizione: l' essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza, altrimenti non sarebbe il più perfetto. Se Dio esistesse solo come concetto mentale ( così come esiste un ippogrifo o un drago ) non potrebbe essere l' ente " più perfetto " perchè già solo l' uomo in quanto esistente sia come concetto astratto ( al pari dell' ippogrifo e del drago ) sia come ente reale avrebbe una maggiore perfezione rispetto a Dio. A tale prova va però aggiunto un passo preliminare, e cioè la dimostrazione che la nozione di essere perfettissimo è effettivamente possibile e cioè non contraddittoria: il che è facilmente fatto quando si osserva che la contraddizione, e cioè l'incompatibilità tra differenti perfezioni, può nascere solo quando nella nozione di una sia contenuto un elemento contrario alla nozione di un altro, il che però non può avvenire quando si suppongono perfezioni assolutamente positive e semplici. La validità di questo argomento mostra che la nozione di Dio è l'unica che implica l'esistenza, e dunque Dio è l'unico essere necessario. La seconda prova usa in maniera peculiare il principio di ragion sufficiente, e viene talvolta giudicata da Leibniz la più solida: Posto questo principio, la prima questione che si ha il diritto di porre è: perché esiste qualcosa anziché nulla? Infatti il nulla è più semplice e più facile del qualcosa. ... Ora, questa ragione sufficiente dell'universo non potrebbe trovarsi nella serie delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle rappresentazioni loro nelle anime: perché, essendo la materia in sé stessa indifferente al moto e alla quiete, e a questo o a quel movimento, è impossibile trovarvi la ragione del movimento, e ancor meno d'un determinato movimento. E benché il movimento attuale della materia venga dal precedente, e questo ancora da uno precedente, non ci si trova in una situazione migliore, quand'anche si vada lontano quanto si voglia: infatti, resta sempre la stessa questione. È necessario, quindi, che la ragion sufficiente, la quale non abbia più bisogno di un'altra ragione, sia fuori della serie delle cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne sia causa, ovvero in un essere necessario, portante con sé la ragione della sua esistenza; altrimenti non s'avrebbe ancora una ragione sufficiente a cui fermarsi. Quest'ultima ragione delle cose è chiamata Dio (Princìpi della natura e della grazia, 7-8). Altre due prove sono tratte l'una dall'esistenza delle verità eterne, l'altra dall'armonia prestabilita. Secondo la prima, le verità eterne o di ragione non potrebbero esistere e dunque essere conosciute se non ci fosse l'intelletto di Dio che le pensasse. Secondo l'altra, le sostanze non potrebbero mostrare quella perfetta reciproca armonia se non ci fosse un essere perfetto che le ha create così armonizzate. Entrambe queste due ultime prove appaiono in realtà molto fragili. Quella basata sulle verità eterne sembra essere una petitio principii, perché suppone già la loro dipendenza dall'intelletto divino. La seconda, benché talvolta venga citata da Leibniz come evidente, sembra in realtà basarsi sul presupposto che la conoscenza sia causata dagli oggetti esterni, dei quali quindi si possa accertare l'armonia: il che è proprio ciò che la teoria dell'armonia prestabilita esclude! Tale sostanziale difetto si aggira soltanto ritenendo questa prova identica al classico argomento basato sul finalismo e la bellezza della natura, che benché «evidente» e ricco di forza psicologica è tutt'altro che rigoroso, come la contemporanea filosofia di Spinoza mette bene in evidenza. E' bene riportare la dimostrazione dell' esistenza di Dio addotta da Leibniz nella Monadologia: dà prima una prova a posteriori riassumibile in questi termini: anche se noi potessimo conoscere tutta la serie di ragioni particolari di un determinato fatto non ne avremmo trovato ancora la ragion sufficiente, perchè ognuna di quelle ragioni particolari sarebbe sempre un fatto, una realtà contingente e quindi avrebbe bisogno a sua volta di una ragion d' essere. La ragion sufficiente di un qualsiasi fatto può dunque trovarsi solo in un Essere necessario: Dio. Questa é la dimostrazione a posteriori, proprio perchè parte da un effetto di Dio stesso. Il procedimento che ci conduce a Dio come a ragion sufficiente dell' universo ci permette poi di fissare gli attributi di Dio: l' unità, l' infinità, la somma perfezione, e di stabilire quali rapporti esistono fra Dio e il mondo. Dio é la fonte di tutto ciò che é positivo nelle creature, mentre ciò che in esse é negativo, vale a dire la loro imperfezione, deriva dalla loro natura di creature, dalla loro limitazione: E siccome tutto questo dettaglio non implica che altri contingenti precedenti o più dettagliati, di cui ciascuno ha ancora bisogno di un’analisi simile per renderne ragione, in tal modo non siamo affatto progrediti: è necessario trovare una ragione sufficiente o ultima al di fuori della successione o serie dei contingenti, per quanto infinita possa essere. Ed è così che l’ultima ragione delle cose deve essere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei cambiamenti non sia se non in modo eminente, come nella sua sorgente. Ed è questo ente che noi chiamiamo dio. Ora, essendo questa sostanza una ragione sufficiente di tutto questo dettaglio, che è tutto concatenato con tutto, non c’è che un dio, e questo dio è sufficiente. Si può anche giudicare che questa sostanza suprema, che è unica, universale e necessaria, non avendo nulla al di fuori di sé che ne sia indipendente, ed essendo una semplice conseguenza dell’essere possibile, sia incapace di limiti e debba contenere quanta più realtà possibile. Ne segue che dio è assolutamente perfetto; non essendo la perfezione altro che la grandezza della realtà positiva presa precisamente, mettendo da parte i limiti o confini nelle cose che ne hanno. E là dove non ci sono cardini, cioè in dio, la perfezione è assolutamente infinita. Da ciò segue anche che le creature hanno le loro perfezioni dall’influenza di dio, ma le imperfezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza limiti. In questo, infatti, si distinguono da dio. Ma Leibniz nella Monadologia dà anche una prova a priori: Dio é causa non solo dell' esistenza delle cose, ma anche della loro essenza; il che vuol dire: ogni cosa esiste in quanto Dio la fa esistere, ed ogni cosa é tale ( cavallo, uomo, albero ) perchè Dio l' ha pensata così ( e non avrebbe potuto fare altrimenti perchè Dio può tutto, ma non può non essere Dio ). Ecco allora che Leibniz qui non parte dalle cose esistenti per risalire a Dio come loro causa, ma da una nostra idea. La dimostrazione a priori assume due forme. La prima parte dalle idee che noi abbiamo di qualsiasi cosa considerata come possibile, idee sulle quali si fondano le proposizioni necessarie ed universali. Una cosa infatti non sarebbe neppure possibile se Dio non ne avesse l' idea e non potesse realizzarla; dunque se ci sono delle cose possibili, esiste un Dio che può crearle. La seconda dimostrazione a priori della Monadologia parte dall' idea che abbiamo di Dio stesso, idea che ce lo rappresenta almeno come possibile; ora, se Dio é possibile, Dio esiste; dunque Dio esiste. Perchè se Dio é possibile, Dio esiste? Perchè se Dio non esistesse, nessun altro potrebbe farlo esistere e allora Dio sarebbe impossibile, il che é contro l' ipotesi. È anche vero che si trova in dio non solo la fonte delle esistenze, ma anche quella delle essenze, in quanto reali, ovvero di ciò che vi è di reale nella possibilità: è perché l’intelletto di dio è la ragione delle verità eterne o delle idee da cui esse dipendono, e che senza di lui non ci sarebbe nulla di reale nelle possibilità, e non solo nulla di esistente, ma nemmeno alcunché di possibile. Perché occorre che, se c’è una realtà nelle essenze o possibilità, ovvero nelle verità eterne, questa realtà sia fondata in qualcosa di esistente e attuale, e di conseguenza nell’esistenza dell’essere necessario, nel quale l’essenza include l’esistenza o nel quale è sufficiente essere possibile per essere attuale. Così dio solo (o l’essere necessario) ha questo privilegio: che esiste necessariamente, se è possibile. E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che non include alcuna limitazione, alcuna negazione, e, di conseguenza, alcuna contraddizione, solo questo è sufficiente per conoscere a priori l’esistenza di dio. L’ abbiamo provato anche per la realtà delle verità eterne. Ma l’abbiamo appena provato anche a posteriori, poiché esistono degli esseri contingenti che non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non nell’essere necessario, che ha la ragione della sua esistenza in sé stesso.

Coordin.
00sabato 13 febbraio 2010 23:56

Kant

Proprio nel confronto a partire dalla critica svolta da Kant alle prove dell’esistenza di Dio che Schelling svilupperò in parte la riformulazione di una prova dell’esistenza di Dio.

Kant approfondisce il discorso su tali prove già a partire da uno scritto precritico, intitolato L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763), e continua la sua speculazione filosofica in questa direzione a partire dalla Critica della Ragione Pura (1781).

In particolare il filosofo analizza le prove dell’esistenza di Dio nel capitolo della Dialettica trascendentale dedicato all’ideale della ragione pura, e ne individua di tre tipi:

-          la fisico-teologica, che corrisponde alla quarta e quinta delle prove di Tommaso (rispettivamente ex gradu e ex fine);

-          la prova cosmologica, corrispondente alle prime tre prove di Tommaso (rispettivamente ex motu, ex causa e ex possibili et necessario).

-          la prova ontologica, detta anche cartesiana, in riferimento al razionalismo di Cartesio e di Leibniz.

Kant riconduce la prova fisico-teologica a quella cosmologica, e a sua volta la prova cosmologica a quella ontologica, per cui si propone di argomentare intorno a quest’ultima dimostrandone l’inefficacia filosofica. Va notato subito come nella sezione della Critica della Ragion pura presa in esame Kant conduca una critica a tutte le prove dell’esistenza di Dio, mostrando al tempo stesso in maniera limpida e netta come l’idea di Dio, propriamente costituita dall’ideale trascendentale, sia inevitabile per la ragione: per un verso, dunque, Kant afferma l’inevitabilità dell’idea di Dio e per altro verso l’impossibilità di dimostrarne l’esistenza, per cui pensare Dio non faciliterebbe affatto l’accesso effettivo della ragione alla prova della sua esistenza. E’ significativo sottolineare che tale paradossalità della ragione sarà ben presente all’ultimo Schelling. L’ideale trascendentale costituisce un vero e proprio abisso della ragione umana, e questa abissalità permetterà di riflettere parecchio, sia sulla trascendentalità della ragione, attraverso una filosofia negativa, sia sulla possibilità di provare l’esistenza di Dio, attraverso una filosofia positiva.

L’ideale trascendentale della ragione umana è per Kant un’idea personificata, attraverso un processo di ipostatizzazione tale da far assurgere ad archetipo tale idea: si tratta dunque dell’ideale che permette di compiere tutta la serie di possibilità pensabili da parte della ragione umana. Esso è propriamente un ens perfectissimum, secondo l’espressione dell’argomentazione di Anselmo, ma Kant richiama anche altre espressioni, come ad esempio omnitudo realitatis, che sta ad indicare la realtà di ogni totalità pensabile racchiusa nell’ideale trascendentale; egli inoltre fa riferimento ad una vera e propria teologia trascendentale, ossia ad una teologia svolta semplicemente attraverso la trascendentalità della ragione: la ragione, a priori e inevitabilmente, giunge ad una riflessione su Dio, che è inteso come ideale trascendentale.

La riflessione sulla paradossalità della ragione si fonda, dunque, sull’argomentazione critica intorno alle prove dell’esistenza di Dio.

1)      In primo luogo, Kant incentra la sua attenzione sulla prova fisico-teologica, che dal mondo esperibile della fisica risale a Dio come suo fondamento, secondo l’argomentazione, già presente in Aristotele, che giustifica l’ordine e la finalità del mondo sensibile attraverso un rimando ad un principio primo, che si configura come causa teleologica del mondo stesso. Kant afferma che in questo caso siamo di fronte ad un salto logico, in quanto non è possibile risalire dalla teologia riscontrabile nel mondo alla sua causa finale prima ed incausata: tale percorso sarebbe lecito soltanto attraverso la dimostrazione delle relazioni di causalità, che gradualmente potrebbero condurci dalla realtà fisica ad un essere assolutamente incondizionato.  Ma questa è propriamente la strada che percorre la prova cosmologica dell’esistenza di Dio, cioè quella che dal cosmo risale per gradi, ossia di causa in causa, ad un Atto primo puro, immobile movente di ogni divenire: Kant è dunque riuscito a ricondurre a quest’ultima la prova fisico-teologica, da cui è partito.

2)      Kant analizza la prova cosmologica, partendo non dall’esperienza sensibile in quanto tale, come invece fa Tommaso, piuttosto dalla possibilità a priori di qualcosa di esperibile nel cosmo, operando in tal modo ancora una volta riflessione trascendentale: il filosofo ipotizza infatti la possibilità di un’esperienza sensibile, che non prescinde totalmente dall’esperienza stessa, ma che è comunque parzialmente a priori. Partendo dalla possibilità dell’esistenza effettiva di qualcosa, Kant giunge alla presupposizione inevitabile di una incondizionatezza che fondi tale possibilità. Il filosofo afferma che, se qualcosa esiste e se riesco almeno a riscontrarlo, allora lo si potrà determinare nella sua individualità solamente nell’esclusione di ogni altra diversa possibilità, da cui la possibilità particolare in questione deve necessariamente distinguersi: per distinguere una cosa nella sua singolarità, si dovrebbe possedere l’intera serie delle possibilità; in caso contrario la cosa non potrà mai essere determinata con una precisione tale da escludere il suo confondersi con qualcos’altro. Questa serie completa è propriamente costituita dall’ideale trascendentale, ossia dall’idea di Dio: essa sarebbe la causa incausata ed incondizionata di ogni altra causa infinita, di quella concatenazione di cause che non può essere infinita, altrimenti di fatto sarebbe indefinita non solo nella sua totalità, ma anche nella singolarità di ogni ente finito e determinato: se non circoscriviamo questo rimando apparentemente infinito, nemmeno le singole cose saranno determinabili nella loro singolarità. Allora cosmologicamente l’esaminare una data cosa ci rimanda inevitabilmente a tale causa ultima ed incondizionata, raffigurabile come un essere necessario che fonda, senza essere causato, la concatenazione di cause possibili. La possibilità di un semplice ente nella sua determinazione finita presuppone dunque la necessità di un ens necessarium: la prova cosmologica, a partire dalla possibilità di un ente determinato, rinvia alla necessaria presupposizione ad esso di un ente necessario. A questo punto sorge un ulteriore problema secondo Kant: questo ente necessario dovrà essere in qualche modo definito, quindi non ci si potrà limitare ad una definizione negativa di esso come ente incausato e non-possibile. Per descriverne la necessità dovremo dire qualcosa di più, ossia ricondurre l’ens necessarium all’ens perfectum e dunque ricondurre la prova cosmologica alla prova ontologica; per affermare la necessità dell’ente dovremo dunque concepirlo come l’essere così perfetto, da includere nella sua essenza la sua stessa esistenza. Se la prova fisico-teologica si fonda su quella cosmologica, e quest’ultima sulla prova ontologica, se inoltre la prova ontologica risulterà valida, allora reggeranno mediatamente tutte le altre prove, in quanto esse si fondano sull’effettività dell’esistenza di Dio.

3)       A differenza che nella sua opera precritica L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, nella Dialettica trascendentale Kant critica radicalmente la prova ontologica. Tale critica è molto articolata e di fatto si basa sul fatto che Cartesio include l’esistenza fra le perfezioni attribuibili a Dio. Kant riesce a dimostrare che l’esistenza non è una delle perfezioni possibili di Dio: ogni esistenza, e tra queste l’esistenza di Dio, non costituisce una perfezione, non è un predicato. L’esistenza non è un predicato reale, non è un predicato in generale. Se noi per affermare l’esistenza di Dio formuliamo una proposizione del tipo Dio è esistente, allora attribuiremo a Dio l’esistenza come suo predicato, come sua qualità. Tutte le altre perfezioni di Dio sono attribuibili a Lui come predicati ella soggettività di Dio. Potremmo dire ad esempio Dio è onnipotente, in quanto l’onnipotenza è un predicato incluso nello stesso soggetto della proposizione, il predicato infatti non fa che esplicitare analiticamente a priori  una caratteristica del soggetto: la copula nel giudizio in questione ha mero valore logico, in quanto unisce semplicemente in maniera analitica il predicato al soggetto, esplicitando una caratteristica del soggetto già implicita in esso, ma senza voler esprimere l’esistenza di Dio onnipotente. La copula nel giudizio analitico non può valere essa stessa come predicato: dicendo che Dio è onnipotente noi non intendiamo che Esiste un Dio che è onnipotente. Non possiamo dire che Dio sia esistente, in quanto l’esistenza non è una sua predicabile qualità e non è inclusa nella sua soggettività. L’esistenza è qualcosa che solo in una fase successiva, sintetica, possiamo aggiungere a questo soggetto: l’esistenza non è un predicato. Esempio di giudizio analitico a priori: il triangolo ha tre lati. Si tratta di un’affermazione nella quale il fatto di avere tra lati non fa che esplicitare analiticamente ciò che è contenuto nel soggetto. Ma con ciò non avremo affermato l’esistenza del tale triangolo che dobbiamo descrivere. Lo stesso ragionamento vale per Dio: se noi diciamo che Dio è onnipotente, non ne affermiamo l’esistenza. A tal proposito Kant riporta l’esempio della moneta da cento talleri, che certamente nella sua identità è qualcosa di chiaramente pensabile, numericamente ineccepibile, ma nella sua effettiva realtà sarà esperibile solo attraverso la posizione stessa della cosa, la sintesi con l’esperienza e con l’intuizione sensibile. Non accade che l’idea di cento talleri aggiunga o diminuisca di un centesimo la loro quantità, ovvero l’essenza stessa della moneta in questione nella sua effettiva realtà. I cento talleri pensati dalla mia mente o i cento talleri che effettivamente posso possedere, da un punto di vista di definizione della cosa, sono esattamente identici, eppure l’esistenza è qualcosa di diverso. Lo stesso vale per Dio: Dio non fa eccezione rispetto a qualsiasi altro ente relativamente all’esistenza. Anche la sua esistenza non è un predicato, ma un’esistenza che può essere colta attraverso un intuizione sensibile. Ma Dio è un’idea della ragione, che sfugge a qualsiasi sensibilità, dunque la sua esistenza no è sintetizzabile. Eppure Dio è l’idea inevitabile, l’idea per eccellenza della ragione stessa. Se la ragione vuole pensare, allora non potrà fare a meno di ricorrere all’ideale trascendentale, incondizionata condizione di ogni realtà e complessività di ogni possibilità pensabile presupposta necessariamente alla pensabilità di ogni singolarità determinata. Nel tentativo di avvicinarci all’ideale trascendentale siamo ribaltati da un’idea all’altra, senza poter trovare un fondamento su cui basarci. Kant sinteticamente riassume il procedere della prova cosmologica e di quella ontologica, facendo notare come l’una rinvii all’altra senza soluzione di continuità e senza la possibilità di una risoluzione del nodo problematico ad esse sotteso. Infatti incisivamente il filosofo afferma che “l’intero compito dell’ideale trascendentale si riduce a questo: o trova per la necessità assoluta un concetto o per il concetto di una qualche cosa la necessità assoluta di questa”. Qui abbiamo in estrema sintesi l’indicazione di quali siano i percorsi della prova cosmologica (prima parte dell’affermazione) e di quella ontologica (seconda parte dell’affermazione): la prova cosmologica – almeno per quanto concerne la seconda parte dell’argomentazione kantiana, ossia quando si giunge all’incondizionato come condizione di ogni altra ipotizzabile condizione finita – esige una definizione dell’incondizionato stesso, richiede che dell’ens necessarium si dica il suo il suo essere ens perfectum: ecco spiegato il rinvio alla prova ontologica. Ma se noi siamo rinviati dalla necessità di una causa incondizionata all’esigenza di un concetto per essa, che è quello di perfezione, ecco che dal concetto di una qualsiasi cosa siamo inevitabilmente e circolarmente rinviati alla necessità, cioè la concettualità a sua volta è priva di necessità, nel senso che essa – che si parli di Dio, di un triangolo o di una moneta da cento talleri -, pur potendo includere in sé anche l’idea di esistenza necessaria, non da riferimento all’esistenza effettiva, in quanto l’esistenza non è un predicato, e quindi in nessuna concettualità potremo includere l’esistenza nella sua effettività. L’esistenza può effettivamente essere riscontrata mediante una sintesi della concettualità con l’intuizione sensibile, che nel caso di Dio non ci è data. Soltanto un’intuizione intellettuale come quella di Dio potrebbe concepire concetto ed esistenza come qualcosa di simultaneo, perché Dio crea le cose nell’atto stesso in cui le pensa e le pensa nell’atto stesso in cui le crea. Saranno gli idealisti ad attribuire tale intuizione intellettuale all’Io piuttosto che a Dio, permettendo dunque una fondazione della razionalità trascendentale.

Nell’essere rinviati circolarmente da una prova all’altra, senza un fondamento ultimo né un’insensatezza conoscitiva – di fatto la ragione inevitabilmente è attratta dall’ideale trascendentale ma al tempo stesso ne è respinta – Kant, in una pagina significativa della prima Critica individua un “abisso” della ragione umana. “La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della  ragione umana. L’eternità stessa, con tutta la sublimità terribile con cui possa pure essere dipinta da uno Haller (poeta svizzero), è lungi dal produrre sull’animo quest’impressione vertiginosa; infatti si limita a misurare la durata delle cose, ma non le sostiene. Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo; che un ente che ci rappresentiamo come il sommo di tutti i possibili dica in certo qual modo a se stesso: Io sono dall’eternità per l’eternità; fuori di me non è nulla se non ciò che è qualcosa meramente per mia volontà; ma donde sono io allora? Qui tutto sprofonda sotto di noi, e la massima perfezione con la minima meramente fluttuano senza sostegno davanti alla ragione speculativa, a cui nulla costa fare svanire l’una come l’altra senza il benché minimo ostacolo”. Questa è una delle pagine più abissali del sistema filosofico di Kant, che ci fa capire come il nostro intelletto operi relativamente alla conoscibilità come su un’isola circondata da mari tempestosi – il riferimento è ad uno spunto metaforico presente in un’altra pagina della produzione kantiana. Nel passo citato si afferma non solo la presenza di un abisso della ragione umana, verso il quale la ragione è inevitabilmente attratta e dal quale al tempo stesso è insopportabilmente respinta, ma anche che è quello stesso fondamento ultimo, che la ragione identifica con Dio, ad essere abissale: persino Dio interroga se stesso intorno alla propria fondatezza; l’ultimo fondamento di ogni cosa da ultimo risulta infondato.

Coordin.
00domenica 14 febbraio 2010 00:03
R.G. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel.

La pubblicazione di Rimossi con le sue quasi 500 pagine ricostruisce oltre nove secoli di storia della prova logica dell’esistenza di Dio; scritto con linguaggio molto chiaro ma anche con grande rigore scientifico, questo libro costituisce un prezioso strumento di lavoro nell’ambito della teologia naturale.
Il problema di Dio non è solo una questione personale o riguardante esclusivamente chi crede in Dio, ma investe tutti coloro che con obiettività cercano una risposta alla questione del senso delle cose, che si domandano la ragione per cui esiste questo complesso ordine cosmico piuttosto che il nulla (cf 17). In particolare, poiché nessuno può sperare di conseguire delle prove empiriche dirette dell’esistenza di Dio, l’alternativa, secondo l’autore, è tra una percezione soggettiva di tipo mistico e le dimensioni logiche, senza con questo voler privare di valore le prove “a posteriori” come quelle cosmologiche, neocosmologiche e antropologiche; il testo di concentra sulle prove logiche che procedono da verità logiche o da puri concetti a priori e seguono una dimostrazione logica, ovvero «una serie concatenata di proposizioni derivate coerentemente le une dalle altre, secondo un ordine nel quale siano ben riconoscibili delle premesse vere che implicano una conclusione necessariamente vera» (19). Alle caratteristiche fondamentali della logica e alla nozione di dimostrazione razionale sono dedicate le pagine conclusive dell’introduzione (45-62).
Dopo la lunga e fondamentale introduzione, l’autore inizia nei capitoli del testo il lungo itinerario storico. La prima tappa (“La fede che cerca l’intelligenza”, pp. 63-110) è dedicata in particolare alla figura di Anselmo e al suo argomento ontologico (ratio Anselmi). In oltre 45 pagine l’autore ricostruisce la vicenda umana, le ragioni e il contesto da cui nascono Monologion e Proslogion, nonché una minuziosa analisi di quest’ultima opera, dei suoi presupposti, della struttura logica dell’argomentazione anselmiana, dei contenuti e delle obiezioni. Colpisce come nonostante la novità e il rigore della ratio Anselmi, per quasi tutti il sec. XII l’argomento non sia rientrato nelle discussioni del tempo; probabilmente questo nuovo modo di dimostrare l’esistenza di Dio col il suo uso speculativo della dialettica per confermare al verità di fede, appariva lontano dalla tradizione filosofica dei padri della Chiesa e dunque fin troppo audace. È con Bonaventura da Bagnoregio che la ratio Anselmi viene di nuovo valorizzata anche se maggiore interesse riveste G. Duns Scoto che introduce una modifica sostanziale nella struttura logica dell’argomento, nota come coloratio. La prova ontologica torna nell’oblio soprattutto col il predominio di Tommaso d’Aquino che l’aveva categoricamente rifiutata. A parte il Cusano, è nel Seicento che si assiste ad una reale ripresa del tema, ripresa che avviene in tre autori: Cartesio, Spinoza, Malebranche, ai quali è dedicata buona parte del cap. II “L’idea innata di Dio” (pp. 121-168).
L’autore in particolare ricostruendo anche le contestazioni riguardo a Cartesio ritiene che non solo il sistema dimostrativo del filosofo francese rimane viziato da una petitioprincipii (relativa al voler fondare la validità delle idee chiare e distinte con la certezza di un Essere perfettissimo garante della verità, Essere la cui esistenza però viene fondata sulle stesse idee chiare e distinte) ma che anche i postulati da cui dipende l’argomentazione cartesiana sarebbero ben lungi dall’essere autentici postulati cioè verità di per sé note (cf pp. 142-145). Da Cartesio procedono Spinoza e Malebranche; di essi «il primo percorse la via razionalistica fino alle sue estreme conseguenze panteistiche; il secondo accentuò invece il carattere trascendente della nozione di “Essere perfettissimo” fino ad accostarsi ad una visione del divino tipica del misticismo» (p. 145).
Il cap. III (“Se Dio è possibile, allora esiste”, pp. 169-232) ripercorre i tentativi fatti per “affinare” l’argomentazione cartesiana che aveva come cardine non più la dialettica ma il metodo matematico e il procedimento assiomatico geometrico e soprattutto non si basava più
sulla definizione anselmiana desunta dalla Scrittura ma sul concetto di “essere necessario”; in particolare con la critica della teoria delle idee innate propugnata da J. Locke, si presentò «l’esigenza di giustificare meglio il carattere di essere necessario attribuito a Dio e di trovare nuovi argomenti logici in grado di provarne l’esistenza necessaria anche facendo a meno dei concetti innati» (p. 170), trovandosi in questi ultimi il punto debole della prova. A questa esigenza risposero due tra i neoplatonici di Cambridge, H. More e R. Cudworth la cui riflessione sui concetti di possibilità e di necessità per quanto non brillante quanto a rigore logico ha aperto in epoca moderna un nuovo itinerario delle prove logiche che ha come figure eminenti G.W. Leibniz e K. Gödel. L’autore analizza quindi la posizione di Leibniz con le sue tre esposizioni dell’argomento ontologico collocate al crocevia tra la sua logica e la sua metafisica e contenute nelle opere L’essere perfettissimo esiste, Sulla dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio del R. P. Lamy e nei §§ 44 e 45 della Monadologia. Infine dopo la presentazione delle posizione di tre figure eminenti dell’illuminismo tedesco (Wolff, Baumgarten, Mendelsshon), l’autore discute e critica la versione dell’argomento ontologico basta sulla proposizione “se Dio è possibile, allora esiste”; in particolare l’analisi di questa formulazione condotta con le regole della logica modale risulta scorretta in più punti: sul versante logico siamo in presenza dal punto di vista formale di un errore logico poiché una proposizione subalterna (“Dio è possibile”) implica erroneamente una proposizione ad essa superiore; sul versante ontologico si confonde il piano delle idee con il piano delle realtà effettive passando illegittimamente dall’ordine del pensiero o del possibile all’ordine dell’essere reale.
Il capitolo IV (“Dubbi, critiche e stroncature”, pp. 233-297) presenta una rassegna delle critiche alle prove logiche. Capostipite fu Gaunilone ma certo il critico più famoso è stato Tommaso d’Aquino che ha messo in discussione l’universalità della nozione di Dio da cui muoveva Anselmo, ha cioè ribadito la non evidenza per noi (ma non in sé) dell’essenza divina – bisognosa quindi di essere dimostrata con argomenti a posteriori - e soprattutto ha contestato la possibilità stessa di un salto dall’ordine delle idee (logica) all’ordine della realtà (ontologia). Ancora più radicali le critiche di Ockham per il quale appare impraticabile il provare l’esistenza di Dio per via razionale. È in epoca moderna che con la rifioritura d’interesse per l’argomento ontologico crescono anche i critici: l’autore esamina le critiche di Hobbes, Locke, Gassendi, S. Parker, S. Clarke ed altri per poi concentrarsi su Hume (cf pp. 260-268) e soprattutto su I. Kant (cf pp. 269-297) i cui strali nei confronti della prova ontologica, l’unico argomento razionale atto a dimostrare l’esistenza di Dio ebbero un peso enorme e una portata nuova. Tuttavia l’indirizzo preso dalla filosofia nel periodo dell’idealismo, segnò una ripresa della prova dell’esistenza di Dio fondata sul puro pensiero, soprattutto in un pensatore come Hegel per il quale vige l’identità fra reale e razionale, tra pensiero ed essere.
Siamo così nel cap. V (“Ragione assoluta e fede rivelata”, pp. 299-359) nei cui primi tre paragrafi vengono ricostruite le posizioni di Hegel, Schelling e Rosmini. Se negli orientamenti filosofici dei neokantiani e dei positivisti vi fu una sostanziale indifferenza verso la dimostrazione logica dell’esistenza di Dio, la figura di Brentano al contrario riveste un notevole interesse. È però nel 1931 con la pubblicazione del Fides quaerens intellecutm. La prova dell’esistenza di Dio secondo Anselmo e il suo programma teologico di K. Barth che l’argomento ontologico viene rilanciato. L’autore ricostruisce la Wirkungsgeschichte dell’interpretazione barthiana che ha acceso il dibattito sulla natura della ratio anselmi (se filosofica, teologica o mistica) esaminando le posizioni di Grabmann, Stolz, Weischedel, Gilson, F.S. Schmitt, Söhngen, Kolping, S. Vanni Rovini. Tuttavia il Novecento segna anche la nascita della controversia sulla validità storico-linguistica degli argomenti ontologici che interessò studiosi di matematica ed esponenti del neopositivismo seguiti poi dai filosofi analitici sotto l’influsso di L. Wittgenstein. L’autore presenta di questo filone le posizioni di
B. Russell, L. Frege, A.J. Ayer, W.C. Kneale, J.N. Findlay, N. Malcolm, A. Plantinga. La rassegna delle posizioni si sposta sul versante dei filosofi cosiddetti “continentali” i quali, però, si sono occupati molto meno della prova ontologica sia per il rifiuto della metafisica scolastica, sia per il disinteresse verso le argomentazioni rigorosamente formalizzate: K. Jaspers, E. Lévinas, J. Seifert. Infine viene esposta l’ultima formulazione della prova ontologica, quella di K. Gödel.
Nella conclusione (pp. 447-473) l’autore ripercorre in modo sincronico i risultati della sua puntuale analisi di quasi mille anni di storia degli argomenti ontologici: riassume le diverse forme della prova, i procedimenti logici maggiormente utilizzati (metodo elenctico, assiomatico, modale), illustra le critiche (che classifica in logiche, gnoseologiche, ontologiche, empiristiche, nominalistiche e semantiche), getta un breve sguardo sulla post-modernità dove dell’argomento ontologico non rimane quasi nulla. Un’ampia bibliografia e un quanto mai opportuno indice dei nomi concludono il volume.
Questa pubblicazione nonostante la sua ampiezza si legge bene e l’autore coniuga molto bene chiarezza espositiva e rigore nella ricostruzione del tema, mostrando che le prove logiche dell’esistenza di Dio sono ben altro da un gioco infantile per la ragione come sostiene S. Landucci nel suo I filosofi e Dio (Roma-Bari 2005, p. VII).
Antonio Sabetta
AmarDio
00lunedì 10 maggio 2010 12:14
La esistenza di Dio
La dimensione religiosa caratterizza l'essere umano. Purificate dalla superstizione, le espressioni della religiosità
umana mostrano con chiarezza che esiste un Dio creatore.
1. La dimensione religiosa dell’essere umano
La dimensione religiosa caratterizza l’essere umano fin dalle sue origini storiche primitive. Purificate dalla deriva della
superstizione, dovuta in definitiva all’ignoranza e al peccato, le espressioni della religiosità umana manifestano la
convinzione che esista un Dio creatore, dal quale dipendono il mondo e la nostra esistenza personale. Se è vero che il
politeismo ha accompagnato molte fasi della storia umana, è altrettanto vero che la dimensione più profonda della
religiosità umana e la sapienza filosofica hanno cercato le ragioni più radicali del mondo e della vita umana in un unico
Dio, fondamento della realtà e compimento della nostra aspirazione alla felicità[1].
Nonostante la loro diversità, le espressioni artistiche, filosofiche, letterarie, ecc. presenti nella cultura dei popoli, tutte
hanno in comune la riflessione sul tema di Dio e sui temi più importanti dell’esistenza umana: la vita e la morte, il bene e
il male, il destino ultimo e il senso di tutte le cose[2]. Come testimoniato da queste manifestazioni dello spirito umano
lungo la storia, il riferimento a Dio appartiene alla cultura umana e costituisce una dimensione essenziale della società
degli uomini. La libertà religiosa rappresenta pertanto il primo dei diritti e la ricerca di Dio il primo dei doveri: tutti gli
uomini «dalla loro stessa natura e per obbligo morale sono tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la
religione; e sono pure tenuti ad aderire alla verità, una volta conosciuta»[3]. La negazione di Dio ed il tentativo di
escluderlo dalla cultura e dalla vita sociale e civile sono fenomeni relativamente recenti, limitati ad alcune aree del
mondo occidentale. Il fatto che i grandi interrogativi religiosi ed esistenziali siano rimasti invariati nel tempo[4] smentisce
l’idea che la religione sia circoscritta ad una fase “infantile” della storia umana, destinata a sparire con il progresso delle
conoscenze.
Il cristianesimo assume in sé quanto di buono vi è nella ricerca e nell’adorazione di Dio come espresse storicamente
dalla religiosità umana, svelandone però il vero significato, quello di un cammino verso l’unico e vero Dio che si è rivelato
nella storia di salvezza consegnata al popolo di Israele ed è venuto incontro a noi facendosi uomo in Gesù Cristo, Verbo
incarnato[5].
2. Dalle creature materiali a Dio
L’intelletto umano può conoscere l’esistenza di Dio avvicinandosi a Lui attraverso un cammino che ha come punto di
partenza il mondo creato e come itinerari due versanti, le creature materiali e la persona umana. Sebbene questo
cammino sia stato specialmente sviluppato da autori cristiani, gli itinerari che, partendo dalla natura e dalla coscienza
umana, conducono fino a Dio, sono stati esposti e percorsi da molti filosofi e spiriti religiosi di diverse epoche e culture.
Le vie verso l’esistenza di Dio vengono chiamate anche “prove”, non nel senso che le scienze matematiche o naturali
danno a questo termine, ma nel senso di argomenti filosofici convergenti e convincenti, che il soggetto comprende con
maggiore o minore forza a seconda della sua formazione specifica[6]. Che le prove dell’esistenza di Dio non possano
intendersi nel senso delle prove impiegate dalle scienze sperimentali discende con chiarezza dal fatto che Dio non è
oggetto della nostra conoscenza empirica.
Ciascuna via verso l’esistenza di Dio perviene soltanto ad uno specifico aspetto o dimensione della realtà assoluta di
Dio, quello dello specifico contesto filosofico entro cui la “via” di snoda: «partendo dal movimento e dal divenire, dalla
contingenza, dall’ordine e dalla bellezza del mondo si può giungere a conoscere Dio come origine e fine
dell’universo»[7]. La ricchezza e l’incommensurabilità di Dio sono tali che nessuna di queste vie, da sola, possa giungere
ad una immagine personale di Dio, ma solo a qualche aspetto di essa: la sua esistenza, intelligenza, provvidenza, ecc.
Fra le vie cosmologiche più note vi sono le celebri “5 vie” elaborate da san Tommaso d’Aquino che riprendono in buona
parte le riflessioni di filosofi a lui precedenti, e per la cui comprensione sono necessari alcuni elementi di metafisica[8].
Le prime due vie propongono l’idea che le catene causali (passaggio dalla potenza all’atto; passaggio dalla causa
efficiente all’effetto) che osserviamo in natura non possono risalire nel passato all’infinito, ma devono riposare su un
primo motore e su una prima causa; la terza, partendo dall’osservazione che gli enti naturali sono contingenti e limitati
deduce che la loro causa deve essere un Ente incondizionato e necessario; la quarta, considerando i gradi di perfezione
partecipata che si riscontrano nelle cose, ne deduce l’esistenza di una fonte di tutte queste perfezioni; la quinta via,
osservando l’ordine e il finalismo presenti nel mondo, conseguenza della specificità e della stabilità delle sue leggi, ne
deduce l’esistenza di una intelligenza ordinatrice che sia anche causa finale di ogni cosa. Questi ed altri itinerari analoghi
sono stati proposti da diversi autori con diversi linguaggi e diverse forme, fino ai nostri giorni. Essi mantengono pertanto
la loro attualità, sebbene per comprenderli sia necessario impiegare una conoscenza delle cose basata sul realismo (in
opposizione a forme di pensiero ideologico), che non riduca la conoscenza della realtà al solo piano empiricosperimentabile
(evitando cioè il riduzionismo ontologico), consentendo infine alla mente umana di ascendere dagli effetti
visibili alle cause invisibili (affermazione del pensiero metafisico).
AmarDio
00lunedì 10 maggio 2010 12:15
La conoscenza di Dio è anche accessibile al senso comune, cioè al pensiero filosofico spontaneo esercitato da ogni
essere umano, come risultato di esperienze esistenziali semplici: la meraviglia di fronte alla bellezza e all’ordine della
natura, la gratitudine per il dono della vita, il fondamento e la ragione del bene e dell’amore. Questo tipo di conoscenza è
importante anche per cogliere a quale soggetto si riferiscano le prove filosofiche dell’esistenza di Dio: san Tommaso, ad
esempio, termina le sue cinque vie collegandole con l’affermazione: “e questo tutti chiamano Dio”.
La testimonianza della Sacra Scrittura (cfr. Sap 13,1-9; Rm 1,18-20; At 17,22-27) e gli insegnamenti del Magistero della
Chiesa confermano che l’intelletto umano può giungere, partendo dalle creature, fino alla conoscenza dell’esistenza di
Dio creatore[9]. Al tempo stesso, sia la Scrittura che il Magistero avvertono che il peccato e le cattive disposizioni morali
possono rendere più difficile questo riconoscimento.
3. Lo spirito umano manifesta Dio
L’essere umano percepisce la sua singolarità e la sua emergenza sul resto della natura. Pur condividendo molti aspetti
della sua vita biologica con altre specie animali, egli si riconosce unico nella sua fenomenologia: riflette su sé stesso, è
capace di progresso culturale e tecnico, avverte la moralità delle proprie azioni, trascende con la sua conoscenza e la
sua volontà, ma soprattutto con la sua libertà, il resto del cosmo materiale[10]. In sostanza, l’essere umano è soggetto di
una vita spirituale che trascende la materia dalla quale egli pure dipende[11]. Fin dalle origini, la cultura e religiosità dei
popoli hanno spiegato questa trascendenza dell’essere umano affermando la sua dipendenza da Dio, di cui la vita
umana contiene come un riflesso. In sintonia con questo comune sentire della ragione, la Rivelazione ebraico-cristiana
insegna che l’essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26-28).
La persona umana è essa stessa via verso Dio. Esistono itinerari che conducono a Dio partendo dalla propria
esperienza esistenziale: «con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua
libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all'infinito e alla felicità, l'uomo si interroga sull'esistenza di Dio.
In queste aperture egli percepisce segni della propria anima spirituale»[12].
La presenza di una coscienza morale che approva il bene che facciamo e riprova il male che compiamo o vorremmo
compiere, conduce a riconoscere un Sommo bene cui siamo chiamati a conformarci, di cui la nostra coscienza è come il
messaggero. Partendo dall’esperienza della coscienza umana e senza conoscere la Rivelazione biblica, vari pensatori
avviarono fin dall’antichità una riflessione sulla dimensione etica dell’agire umano, riflessione disponibile ad ogni uomo
perché creato a immagine di Dio.
Insieme alla propria coscienza, l’essere umano si riconosce libero, quale condizione del proprio agire morale. Nel
riconoscersi libera, la persona umana legge in sé la corrispondente responsabilità delle proprie azioni e l’esistenza di
Qualcuno di fronte a cui essere responsabile; Questi deve essere maggiore della natura materiale, a noi inferiore, e
maggiore dei nostri simili, anch’essi chiamati ad essere responsabili come noi. L’esistenza della libertà e della
responsabilità umane conducono all’esistenza di Dio come garante di ciò che è bene e ciò che è male, come Creatore
legislatore e remuneratore.
Nel contesto culturale odierno si nega spesso la verità della libertà umana, riducendo l’essere umano ad un animale il cui
agire è regolato solo dall’azione di pulsioni necessarie, oppure identificando la sede della vita spirituale (mente,
coscienza, anima) con la corporeità degli organi cerebrali e nervosi, negando così l’esistenza di ogni vita morale. A
questa visione si può rispondere con argomenti che dimostrano, sul piano della ragione e della fenomenologia umana,
l’auto-trascendenza della persona umana, il libero arbitrio che opera anche in scelte condizionate dalla natura, e la non
riducibilità della mente al cervello.
Anche nella presenza del male e dell’ingiustizia nel mondo, molti uomini vedono oggigiorno una prova della nonesistenza
di Dio, perché se Egli esistesse, non permetterebbe tutto ciò. In realtà questo disagio e questo interrogativo
sono anch’essi una “via” verso Dio. L’uomo, infatti, percepisce il male e l’ingiustizia come privazioni, come situazioni
dolorose non dovute che reclamano un bene e una giustizia cui si aspira. Se nella struttura più intima del nostro essere
non si aspirasse al bene, non vedremmo nel male un danno e una privazione.
Nell’essere umano esiste come un desiderio naturale di verità, di bene e di felicità, quali manifestazioni del nostro
desiderio naturale di vedere Dio. Se tale desiderio restasse frustrato, la creatura umana sarebbe un essere davvero
contraddittorio, poiché queste aspirazioni costituiscono il nucleo più profondo della vita spirituale e della dignità
dell’essere umano. La loro presenza nell’intimo del nostro cuore mostrano l’esistenza di un Creatore che, attraverso la
speranza di Lui, ci chiama verso di Lui. Se le vie “cosmologiche” non assicurano di poter giungere a Dio come essere
personale, le vie “antropologiche”, che partono dall’uomo e dalle sue aspirazioni, fanno intravedere che il Dio da cui
riconosciamo di dipendere deve essere una persona capace di amare, un essere personale di fronte a creature
personali.
La sacra Scrittura contiene insegnamenti espliciti circa l’esistenza di una legge morale iscritta da Dio nel cuore dell’uomo
(cfr. Sir 15,11-20; Sal 19; Rm 2,12-16). La filosofia di ispirazione cristiana ha chiamato questa legge “legge morale
naturale”, accessibile agli uomini di ogni epoca e cultura, sebbene il suo riconoscimento, come per l’esistenza di Dio,
possa venire offuscato dal peccato. Il Magistero della Chiesa ha molte volte ribadito l’esistenza della coscienza umana e
della libertà come vie verso Dio[13].
AmarDio
00lunedì 10 maggio 2010 12:16
4. La negazione di Dio: le cause dell’ateismo
Le diverse argomentazioni filosofiche impiegate per “provare” l’esistenza Dio non causano necessariamente la fede in
Dio, ma solo la ragionevolezza di tale fede. E ciò per vari motivi: a) conducono l’uomo a riconoscere alcuni caratteri
filosofici dell’immagine di Dio (bontà, intelligenza, ecc.), fra i quali la sua stessa esistenza, ma non dicono nulla su Chi
sia l’essere personale verso il quale si dirige l’atto di fede; b) la fede è la risposta libera dell’uomo a Dio che si rivela, non
una deduzione filosofica necessaria; c) causa della fede è Dio stesso, che si rivela gratuitamente e muove con la sua
grazia il cuore dell’uomo perché aderisca a Lui; d) l’oscurità e l’incertezza con cui il peccato ferisce la ragione dell’uomo
ostacolano tanto il riconoscimento dell’esistenza di Dio quanto la risposta di fede alla sua Parola[14]. Per questi motivi,
l’ultimo in modo particolare, è sempre possibile da parte dell’uomo una negazione di Dio[15].
L’ateismo possiede una manifestazione teorica (pretesa di negare positivamente Dio, per via razionale) ed una pratica
(negare Dio con il proprio comportamento, vivendo come se non esistesse). Una professione di ateismo positivo come
conseguenza di una analisi razionale di tipo scientifico, empirico, è contraddittoria, perché Dio non è oggetto del sapere
scientifico-sperimentale. Una negazione positiva di Dio a partire dalla razionalità filosofica è possibile da parte di
specifiche visioni apriori della realtà, di natura quasi sempre ideologica, prima fra tutte il materialismo. L’incongruenza di
queste visioni può essere messa in luce con l’aiuto della metafisica e di una gnoseologia realista.
Una causa diffusa di ateismo positivo è ritenere che l’affermazione di Dio obblighi ad una penalizzazione dell’uomo: se
Dio esiste allora l’uomo non sarebbe libero, né godrebbe di una piena autonomia nella sua esistenza terrena. Questa
visione ignora che la dipendenza della creatura da Dio fonda la libertà e l’autonomia della creatura[16]. È vero piuttosto il
contrario: come insegna la storia dei popoli, quando si nega Dio si finisce col negare anche l’uomo e la sua dignità
trascendente.
Altri giungono alla negazione di Dio ritenendo che la religione, il cristianesimo in specifico, rappresenti un ostacolo al
progresso umano perché frutto di ignoranza o di superstizione. A questa obiezione si può rispondere su basi storiche: è
infatti possibile mostrare l’influenza positiva della Rivelazione cristiana sia sulla concezione della persona umana e dei
suoi diritti, sia sulla nascita e sul progresso delle scienze. Dalla Chiesa cattolica l’ignoranza è sempre stata considerata,
a ragione, un ostacolo verso la vera fede. In genere, coloro che negano Dio per affermare il progresso dell’uomo lo fanno
per difendere una visione immanente del progresso storico, avente come fine una utopia politica o un benessere
semplicemente materiale, incapaci di soddisfare pienamente le aspettative del cuore umano.
Fra le cause dell’ateismo, specialmente dell’ateismo pratico, va incluso anche il cattivo esempio dei credenti, «in quanto
per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della
propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di
Dio e della religione»[17]. In positivo, a partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa ha sempre segnalato nella
testimonianza dei cristiani il principale fattore per realizzare una necessaria, “nuova evangelizzazione”[18].
5. L’agnosticismo e l’indifferenza religiosa
L’agnosticismo, diffuso specie negli ambienti intellettuali, sostiene che la ragione umana non può concludere nulla su Dio
e sulla sua esistenza. Spesso i loro fautori si propongono un impegno di vita personale e sociale, ma senza alcun
riferimento verso un fine ultimo, cercando così di vivere un umanesimo senza Dio. La posizione agnostica termina
spesso identificandosi con un ateismo pratico. Inoltre, chi pretendesse di orientare i fini parziali del proprio vivere
quotidiano senza prendere alcun impegno circa il fine ultimo dei propri atti, in realtà ha quasi sempre scelto un preciso
fine ultimo, di carattere immanente, per la propria vita. La posizione agnostica merita comunque rispetto, sebbene i loro
assertori vadano aiutati a dimostrare la sincerità della loro non-negazione di Dio mantenendo una apertura alla
possibilità di riconoscerne l’esistenza e la sua rivelazione nella storia.
L’indifferenza religiosa rappresenta oggi la principale manifestazione di non credenza e, come tale, ha ricevuto una
crescente attenzione da parte del Magistero della Chiesa[19]. Il tema di Dio non viene preso in considerazione perché
quasi soffocato da una vita orientata ai beni materiali. L’indifferenza religiosa coesiste con certa simpatia per il sacro e
talvolta per lo pseudo-religioso, fruiti in modo moralmente disimpegnato, come fossero beni di consumo. Per mantenere
a lungo una posizione di indifferenza religiosa, l’essere umano ha bisogno di continue distrazioni in modo da non
soffermarsi mai sui problemi esistenziali più importanti, rimuovendoli sia dalla propria vita quotidiana che dalla propria
coscienza: senso della vita e della morte, valore morale delle proprie azioni, ecc. Poiché nella vita di una persona
esistono sempre eventi “che fanno la differenza” (innamoramento, paternità, morti premature, dolori e gioie, ecc.), la
posizione di “indifferenza religiosa” non è sostenibile lungo l’intero arco di una vita umana, perché su Dio non si può fare
a meno, almeno qualche volta, di interrogarsi. Prendendo spunto dagli eventi esistenzialmente significativi della vita,
occorre aiutare chi è indifferente ad aprirsi alla affermazione di Dio.
6. Il pluralismo religioso: vi è un unico e vero Dio, rivelatosi in Gesù Cristo
La religiosità umana, — che quando è autentica, è via verso il riconoscimento dell’unico Dio — si è espressa e si
esprime nella storia e nella cultura dei popoli in forme diverse e talvolta anche nel culto di una diversa immagine della
divinità. Le religioni della terra che esprimono la ricerca sincera di Dio e rispettano la dignità trascendente dell’uomo
vanno rispettate: la Chiesa Cattolica ritiene che in esse sia presente non di rado una scintilla, quasi una partecipazione
della Verità divina[20]. Nell’accostarsi alle varie religioni della terra, la ragione umana suggerisce un opportuno
discernimento: riconoscere la presenza di superstizione e di ignoranza, di forme di irrazionalità, di pratiche che non sono
in accordo con la dignità e la libertà della persona umana.
Il dialogo inter-religioso non si oppone alla missione e all’evangelizzazione. Anzi, nel rispetto della libertà di ciascuno,
fine del dialogo è proprio l’annuncio di Cristo. I semi di verità che le religioni non cristiane possono contenere sono infatti
semi dell’unica Verità che è Cristo e, pertanto, hanno il diritto di essere rivelati e condotti a maturazione mediante
l’annuncio di Cristo, via, verità e vita. Tuttavia, Dio non nega la salvezza a coloro i quali, ignorando incolpevolmente
l’annuncio del Vangelo, vivono secondo la legge morale naturale, riconoscendone il fondamento nell’unico vero Dio[21].
Nel dialogo inter-religioso il cristianesimo può procedere mostrando che le religioni della terra, quando espressione
autentiche del legame con il vero e unico Dio, hanno nel cristianesimo il loro compimento. Solo in Cristo Dio rivela l’uomo
all’uomo, offre la soluzione ai suoi enigmi e gli svela il senso profondo delle sue aspirazioni. Lui è l’unico mediatore fra
Dio e gli uomini[22].
Il cristiano può affrontare il dialogo inter-religioso con ottimismo e speranza in quanto sa che ogni essere umano è creato
a immagine dell’unico e vero Dio e che ognuno, se sa fare silenzio in sé stesso, può ascoltare la testimonianza della
propria coscienza, che conduce anch’essa all’unico Dio rivelatosi in Gesù Cristo. «Per questo io sono nato e per questo
sono venuto nel mondo — afferma Gesù di fronte a Pilato —; per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). In tal senso, il cristiano può parlare di Dio senza rischio di intolleranza, perché il
Dio che egli esorta a riconoscere nella natura e in sé stessi, il Dio che creato il cielo e la terra, è lo stesso Dio della storia
della salvezza, rivelatosi al popolo di Israele e fattosi uomo in Cristo. Questo fu l’itinerario seguito dai primi cristiani: essi
rifiutarono di far adorare Cristo come uno fra i tanti dèi del Pantheon romano, perché convinti dell’esistenza di un unico e
vero Dio; e si impegnarono allo stesso tempo per mostrare che il Dio intravisto dai filosofi come causa, ragione e
fondamento del mondo, era ed è lo stesso Dio di Gesù Cristo[23].
Giuseppe Tanzella-Nitti
Bibliografia di base
Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 27-49
Concilio Vaticano II, cost. Gaudium et spes, nn. 4-22
Giovanni Paolo II, enc. Fides et ratio, 14-IX-1988, nn. 16-35
Benedetto XVI, enc Spe salvi, 30-XI-2007, nn. 4-12
----------------------------------------
[1] Cfr. Catechismo, n. 28; Giovanni Paolo II, Enc. Fides et ratio, 14-IX-1998, n. 1.
[2] «Al di là di tutte le differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, c'è una fondamentale comunanza, dato
che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato dell'esistenza personale.
E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione: qualsiasi
cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla
dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri:
il mistero di Dio», Giovanni Paolo II, Allocuzione all'O.N.U., New York, 5-X-1995, «Insegnamenti», XVIII,2 (1995) 730-
744, n. 9.
[3] Concilio Vaticano II, Dich. Dignitatis humanae, n. 2.
[4] Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, n. 10.
[5] Cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Tertio millennio adveniente, 10-XI-1994, n. 6; Enc. Fides et ratio, n. 2.
[6] Cfr. Catechismo, n. 31.
[7] Catechismo, n. 32.
[8] Cfr. s. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 2, a. 3; Contra gentiles, I, c. 13. Per una loro esposizione
particolareggiata si rimanda il lettore ai due luoghi tomasiani indicati e ad un manuale di Metafisica o di Teologia
naturale.
[9] Cfr. Concilio Vaticano I, Cost. Dei Filius, 24-IV-1870, DH 3004; Sacrorum Antistitum, 1-IX-1910, DH 3538;
Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, 24-V-1990, n. 10; Enc. Fides et ratio, n. 67. Sinteticamente in
Catechismo, nn. 36-38.
[10] «Con gratitudine, perché intuiamo la felicità alla quale siamo chiamati, abbiamo imparato che tutte le creature sono
state tratte dal nulla da Dio e per Iddio: tanto le creature razionali, ciò è noi uomini, anche se così spesso perdiamo la
ragione, quanto le creature irrazionali, quelle che vagano sulla superficie della terra, o abitano nelle viscere del mondo, o
spaziano nell'azzurro del cielo, capaci perfino di guardare fisso il sole. Ma, in mezzo a questa meravigliosa varietà,
soltanto noi uomini — sugli angeli va fatto un discorso a parte — ci uniamo al Creatore attraverso l'esercizio della nostra
libertà: possiamo rendere o negare a Dio la gloria che gli compete in quanto Autore di tutto ciò che esiste», san
Josemaría Escrivá, Amici di Dio, n. 24.
[11] Cfr. Gaudium et spes, n. 18.
[12] Catechismo, n. 33.
[13] Cfr. Gaudium et spes, nn. 17 e 18. In particolare, la dottrina sulla coscienza morale e la responsabilità legata alla
libertà umana, nel quadro della spiegazione della persona umana come immagine di Dio, è stata estesamente sviluppata
da Giovanni Paolo II, Enc. Veritatis splendor, 6-VIII-1993, nn. 54-64.
[14] Cfr. Catechismo, n. 37.
[15] Cfr. Gaudium et spes, nn. 19-21.
[16] Cfr. Gaudium et spes, n. 36.
[17] Cfr. Gaudium et spes, n. 19
[18] Cfr. Gaudium et spes, n. 21; Paolo VI, Enc. Evangelii nuntiandi, 8-XII-1975, n. 21; Giovanni Paolo II, Veritatis
splendor, n. 93; Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Novo millennio ineunte, 6-I-2001, capp. III e IV.
[19] Cfr. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Christifideles laici, 30-XII-1988, n. 34; Enc. Fides et ratio, n. 5.
[20] Cfr. Concilio Vaticano II, Dich. Nostra Aetate, n. 2.
[21] Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, n. 16.
[22] Cfr. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 7-XII-1990, n. 5; Congregazione per la Dottrina della fede, Dich.
Dominus Iesus, 6-VIII-2000, nn. 5, 13-15.
[23] Cfr. Enc. Fides et ratio, n. 34; Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 30-XI-2007, n. 5
Coordin.
00sabato 15 maggio 2010 11:22
Dalle creature materiali a Dio

L’intelletto umano può conoscere l’esistenza di Dio avvicinandosi a Lui attraverso un cammino che ha come punto di partenza il mondo creato e come itinerari due versanti, le creature materiali e la persona umana. Sebbene questo cammino sia stato specialmente sviluppato da autori cristiani, gli itinerari che, partendo dalla natura e dalla coscienza umana, conducono fino a Dio, sono stati esposti e percorsi da molti filosofi e spiriti religiosi di diverse epoche e culture.


Le vie verso l’esistenza di Dio vengono chiamate anche “prove”, non nel senso che le scienze matematiche o naturali danno a questo termine, ma nel senso di argomenti filosofici convergenti e convincenti, che il soggetto comprende con maggiore o minore forza a seconda della sua formazione specifica
[6]. Che le prove dell’esistenza di Dio non possano intendersi nel senso delle prove impiegate dalle scienze sperimentali discende con chiarezza dal fatto che Dio non è oggetto della nostra conoscenza empirica.

Ciascuna via verso l’esistenza di Dio perviene soltanto ad uno specifico aspetto o dimensione della realtà assoluta di Dio, quello dello specifico contesto filosofico entro cui la “via” di snoda: «partendo dal movimento e dal divenire, dalla contingenza, dall’ordine e dalla bellezza del mondo si può giungere a conoscere Dio come origine e fine dell’universo»
[7]. La ricchezza e l’incommensurabilità di Dio sono tali che nessuna di queste vie, da sola, possa giungere ad una immagine personale di Dio, ma solo a qualche aspetto di essa: la sua esistenza, intelligenza, provvidenza, ecc.

Fra le vie cosmologiche più note vi sono le celebri “5 vie” elaborate da san Tommaso d’Aquino che riprendono in buona parte le riflessioni di filosofi a lui precedenti, e per la cui comprensione sono necessari alcuni elementi di metafisica
[8]. Le prime due vie propongono l’idea che le catene causali (passaggio dalla potenza all’atto; passaggio dalla causa efficiente all’effetto) che osserviamo in natura non possono risalire nel passato all’infinito, ma devono riposare su un primo motore e su una prima causa; la terza, partendo dall’osservazione che gli enti naturali sono contingenti e limitati deduce che la loro causa deve essere un Ente incondizionato e necessario; la quarta, considerando i gradi di perfezione partecipata che si riscontrano nelle cose, ne deduce l’esistenza di una fonte di tutte queste perfezioni; la quinta via, osservando l’ordine e il finalismo presenti nel mondo, conseguenza della specificità e della stabilità delle sue leggi, ne deduce l’esistenza di una intelligenza ordinatrice che sia anche causa finale di ogni cosa. Questi ed altri itinerari analoghi sono stati proposti da diversi autori con diversi linguaggi e diverse forme, fino ai nostri giorni. Essi mantengono pertanto la loro attualità, sebbene per comprenderli sia necessario impiegare una conoscenza delle cose basata sul realismo (in opposizione a forme di pensiero ideologico), che non riduca la conoscenza della realtà al solo piano empirico-sperimentabile (evitando cioè il riduzionismo ontologico), consentendo infine alla mente umana di ascendere dagli effetti visibili alle cause invisibili (affermazione del pensiero metafisico).

La conoscenza di Dio è anche accessibile al senso comune, cioè al pensiero filosofico spontaneo esercitato da ogni essere umano, come risultato di esperienze esistenziali semplici: la meraviglia di fronte alla bellezza e all’ordine della natura, la gratitudine per il dono della vita, il fondamento e la ragione del bene e dell’amore. Questo tipo di conoscenza è importante anche per cogliere
a quale soggetto si riferiscano le prove filosofiche dell’esistenza di Dio: san Tommaso, ad esempio, termina le sue cinque vie collegandole con l’affermazione: “e questo tutti chiamano Dio”.

La testimonianza della Sacra Scrittura (cfr.
Sap 13,1-9; Rm 1,18-20; At 17,22-27) e gli insegnamenti del Magistero della Chiesa confermano che l’intelletto umano può giungere, partendo dalle creature, fino alla conoscenza dell’esistenza di Dio creatore[9]. Al tempo stesso, sia la Scrittura che il Magistero avvertono che il peccato e le cattive disposizioni morali possono rendere più difficile questo riconoscimento.
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00sabato 15 maggio 2010 11:25
Lo spirito umano manifesta Dio

L’essere umano percepisce la sua singolarità e la sua emergenza sul resto della natura. Pur condividendo molti aspetti della sua vita biologica con altre specie animali, egli si riconosce unico nella sua fenomenologia: riflette su sé stesso, è capace di progresso culturale e tecnico, avverte la moralità delle proprie azioni, trascende con la sua conoscenza e la sua volontà, ma soprattutto con la sua libertà, il resto del cosmo materiale
[10]. In sostanza, l’essere umano è soggetto di una vita spirituale che trascende la materia dalla quale egli pure dipende[11]. Fin dalle origini, la cultura e religiosità dei popoli hanno spiegato questa trascendenza dell’essere umano affermando la sua dipendenza da Dio, di cui la vita umana contiene come un riflesso. In sintonia con questo comune sentire della ragione, la Rivelazione ebraico-cristiana insegna che l’essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26-28).

La persona umana è essa stessa via verso Dio. Esistono itinerari che conducono a Dio partendo dalla propria esperienza esistenziale: «con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all'infinito e alla felicità, l'uomo si interroga sull'esistenza di Dio. In queste aperture egli percepisce segni della propria anima spirituale»
[12].

La presenza di una coscienza morale che approva il bene che facciamo e riprova il male che compiamo o vorremmo compiere, conduce a riconoscere un Sommo bene cui siamo chiamati a conformarci, di cui la nostra coscienza è come il messaggero. Partendo dall’esperienza della coscienza umana e senza conoscere la Rivelazione biblica, vari pensatori avviarono fin dall’antichità una riflessione sulla dimensione etica dell’agire umano, riflessione disponibile ad ogni uomo perché creato a immagine di Dio.


Insieme alla propria coscienza, l’essere umano si riconosce libero, quale condizione del proprio agire morale. Nel riconoscersi libera, la persona umana legge in sé la corrispondente responsabilità delle proprie azioni e l’esistenza di Qualcuno di fronte a cui essere responsabile; Questi deve essere maggiore della natura materiale, a noi inferiore, e maggiore dei nostri simili, anch’essi chiamati ad essere responsabili come noi. L’esistenza della libertà e della responsabilità umane conducono all’esistenza di Dio come garante di ciò che è bene e ciò che è male, come Creatore legislatore e remuneratore.


Nel contesto culturale odierno si nega spesso la verità della libertà umana, riducendo l’essere umano ad un animale il cui agire è regolato solo dall’azione di pulsioni necessarie, oppure identificando la sede della vita spirituale (mente, coscienza, anima) con la corporeità degli organi cerebrali e nervosi, negando così l’esistenza di ogni vita morale. A questa visione si può rispondere con argomenti che dimostrano, sul piano della ragione e della fenomenologia umana, l’auto-trascendenza della persona umana, il libero arbitrio che opera anche in scelte condizionate dalla natura, e la non riducibilità della mente al cervello.


Anche nella presenza del male e dell’ingiustizia nel mondo, molti uomini vedono oggigiorno una prova della non-esistenza di Dio, perché se Egli esistesse, non permetterebbe tutto ciò. In realtà questo disagio e questo interrogativo sono anch’essi una “via” verso Dio. L’uomo, infatti, percepisce il male e l’ingiustizia come privazioni, come situazioni dolorose non dovute che reclamano un bene e una giustizia cui si aspira. Se nella struttura più intima del nostro essere non si aspirasse al bene, non vedremmo nel male un danno e una privazione.


Nell’essere umano esiste come un desiderio naturale di verità, di bene e di felicità, quali manifestazioni del nostro desiderio naturale di vedere Dio. Se tale desiderio restasse frustrato, la creatura umana sarebbe un essere davvero contraddittorio, poiché queste aspirazioni costituiscono il nucleo più profondo della vita spirituale e della dignità dell’essere umano. La loro presenza nell’intimo del nostro cuore mostrano l’esistenza di un Creatore che, attraverso la speranza di Lui, ci chiama verso di Lui. Se le vie “cosmologiche” non assicurano di poter giungere a Dio come essere personale, le vie “antropologiche”, che partono dall’uomo e dalle sue aspirazioni, fanno intravedere che il Dio da cui riconosciamo di dipendere deve essere una persona capace di amare, un essere personale di fronte a creature personali.


La sacra Scrittura contiene insegnamenti espliciti circa l’esistenza di una legge morale iscritta da Dio nel cuore dell’uomo (cfr.
Sir 15,11-20; Sal 19; Rm[13]. 2,12-16). La filosofia di ispirazione cristiana ha chiamato questa legge “legge morale naturale”, accessibile agli uomini di ogni epoca e cultura, sebbene il suo riconoscimento, come per l’esistenza di Dio, possa venire offuscato dal peccato. Il Magistero della Chiesa ha molte volte ribadito l’esistenza della coscienza umana e della libertà come vie verso Dio
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00domenica 29 agosto 2010 12:40
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ESISTE DIO?
QUESTO VIDEO OFFRE UNA RISPOSTA ALLA QUESTIONE

http://vimeo.com/9899250
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00domenica 17 luglio 2011 21:19

Le prove filosofiche dell’esistenza di Dio, secondo Tommaso d’Aquino

Proseguiamo nella serie delle “video-lezioni” sulle principali prove dell’esistenza di Dio elaborate da alcuni dei massimi filosofi della storia. In precedenza ci siamo occupati di quella fornita da Aristotele e da Anselmo d’Aosta.

Queste lezioni sono tenute dal Prof. Enrico Berti, docente di storia della filosofia all’Università di Padova, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Institut International de Philosophie, della Société Européenne de Culture, della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti e della Società filosofica italiana Dal 1983 al 1986 ha presieduto la Società filosofica italiana. Nel 1987 ha vinto il Premio dell’Associazione Internazionale “Federico Nietzsche” per la filosofia. La registrazione di questi video è avvenuta presso l’Istituto di Filosofia Applicata di Lugano nel 2009.

 

In questa terza lezione il filosofo si concentra sulle prove elaborata da Tommaso d’Aquino

 

 

Tommaso d’Aquino, frate domenicano del XII° secolo, si rifà apertamente alla filosofia di Aristotele. Sostiene che l’esistenza di Dio può essere riconosciuta con le sole forze della ragione, non solo da chi ha ricevuto un’educazione cristiana. Innanzitutto due preamboli fondamentali:

1) E’ evidente che Dio esiste? Se fosse evidente alla ragione che Dio esiste non ci sarebbe bisogno di dimostrarlo. L’esistenza di Dio, secondo Tommaso, non è evidente per noi, ma è evidente di per sé, perché l’essenza di Dio è il suo stesso essere.
2) E’ dimostrabile che Dio esiste? E’ vero che l’esistenza di Dio è un atto di fede, ma dalle opere di Dio, evidenti a noi, si risale a Dio. L’esistenza di Dio è dunque materia di fede ma anche di ragione.

 

Ed ecco le 5 vie, i cinque argomenti, esposti inizialmente nella Summa contra Gentiles, sono argomenti puramente razionali, perché rivolti a chi non ha la fede. Le riformulò in modo più rigoroso nella Summa Theologiae.

1) Movimento. E’ evidente che certe cose si muovono e tutto ciò che si muove è mosso da altro. Colui che è in movimento e colui che viene mosso sono due entità distinte. Il primo non è ancora in atto, il secondo è già in atto. Ci dev’essere dunque all’origine qualcosa che non può essere mosso da altro, questo lo chiamiamo Dio.

2) Causa efficiente. E’ impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa, perché per esserlo dovrebbe produrre sé stessa e dovrebbe esserci prima di essere prodotta. Noi non ci facciamo da noi stessi e quindi bisogna ammettere una prima causa efficiente, questa la chiamiamo Dio.

3) Contingenza. Esistono cose che prima non c’erano e poi non ci sono più, sono contingenti. Se tutto fosse contingente vorrebbe dire che tutto ciò che esiste può non essere. Questo significa dunque che ci può essere un momento in cui non c’è nulla, ma non si spiegherebbe perché adesso c’è qualche cosa. Non c’è quindi mai stato un momento in cui non c’era niente: se c’è qualche cosa allora vuol dire che non tutto è contingente, c’è almeno un ente che è necessario, cioè che non può non essere, questo lo chiamiamo Dio.

4) Gradualità: esistono cose più o meno belle, nobili, perfette ecc.., ma il grado minore o maggiore di una cosa dev’essere sempre in paragone a qualcosa d’altro, cioè se ci sono cose di grado parziale, ci deve essere necessariamente essere qualcosa di grado supremo. Se ci sono diversi gradi di essere, è necessario un essere nel grado massimo, questo lo chiamiamo Dio.

5) Ordine: esistono cose ordinate ad un fine, pur non essendo loro intelligenti. Queste cose non sono in grado di direzionarsi verso un fine, quindi occorre necessariamente qualcuno che le abbia dirette verso un fine (come la freccia e l’arciere), questo lo chiamiamo Dio.

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00domenica 17 luglio 2011 21:21

La prova filosofica dell’esistenza di Dio, secondo Anselmo d’Aosta

Proseguiamo nella serie delle “video-lezioni” sulle principali prove dell’esistenza di Dio elaborate da alcuni dei massimi filosofi della storia. Ieri ci siamo occupati di quella fornita da Aristotele.

Queste lezioni sono tenute dal Prof. Enrico Berti, docente di storia della filosofia all’Università di Padova, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Institut International de Philosophie, della Société Européenne de Culture, della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti e della Società filosofica italiana Dal 1983 al 1986 ha presieduto la Società filosofica italiana. Nel 1987 ha vinto il Premio dell’Associazione Internazionale “Federico Nietzsche” per la filosofia. La registrazione di questi video è avvenuta presso l’Istituto di Filosofia Applicata di Lugano nel 2009.

 

In questa seconda lezione il filosofo si concentra sulla prova elaborata da Anselmo d’Aosta (o di Canterbury).

 

 

Anselmo d’Aosta, monaco benedettino e poi arcivescovo di Canterbury, vive nel XII° secolo e basa la sua prova filosofica confutando la negazione di Dio. La espone nel Proslogion. E’ un argomento con un limite preciso (verrà criticato da Tommaso d’Aquino): dimostra efficacemente l’esistenza dell’Assoluto, ma non ne dimostra la trascendenza.

1) Negando Dio se ne ammette l’esistenza nella mente. Secondo Anselmo, l’insipiens (il non sapiente, lo stolto) dice “non c’è Dio”. Ma l’insipiens, per poter negare l’esistenza di Dio, deve avere una qualche idea di Dio nel suo intelletto, cioè deve dare un significato alla parola “Dio”, cioè “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”. Negandolo, ne ammette l’esistenza nella sua mente.

2) Dio non può esistere solo nella mente, altrimenti non sarebbe “ciò che è più grande”.. Se questa cosa “di cui non c’è n’è una maggiore” esiste solo nella mente, allora è una contraddizione, perché in realtà può esistere qualcosa di più grande e cioè che quella cosa esista anche nella realtà. Infatti, se oltre ad esistere solo nel mio intelletto, esiste anche nella realtà, questa che esiste anche nella realtà ha qualche cosa in più di quella che esiste solo nell’intelletto, è più grande. E allora se Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”, non può esistere solo nell’intelletto ma deve esistere anche nella realtà. Se esistesse solo nell’intelletto sarebbe contraddittorio, perché non sarebbe “ciò di cui si può pensare il maggiore”.

3) Obiezione: ci sono molte idee nel nostro intelletto che sono false. Ad Anselmo rispose un altro monaco, Gaulinone, che prese le parti dello “stolto” dicendo: non basta che un’idea sia nella nostra mente per far si che sia un’idea vera. Ad esempio, l’idea di un’isola più bella di tutte in mezzo ai mari, un’isola che supera tutte le altre terre abitate per abbondanza di beni, è comprensibile da tutti, dunque esiste nella nostra mente. Se non esistesse nella realtà non sarebbe più la più bella di tutte. Ma ciò non significa che esista veramente: non si può passare dall’idea all’essere.

4) Risposta: l’argomento vale solo per l’Assoluto. Anselmo risponde a Gaulinone nel Liber apologeticus, sostenendo che il suo esempio dell’Isola non è affatto calzante perché non è affatto paragonabile all’Assoluto, cioè per quanto bella sia non sarà mai “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”. L’argomento di Anselmo vale solo per una idea, cioè per quell’Ente del quale non si può pensare il maggiore. L’isola più bella o Babbo Natale non saranno mai “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”, altrimenti sarebbero Dio. In ogni caso un Assoluto c’è. Un altro esempio: ciò che è primo non può non esserci perché, o c’è solo lui e allora è primo perché non c’è nulla che venga prima di lui, oppure c’è qualcosa che viene prima di lui e allora lui non è il primo, ma sarà colui che viene prima di lui.

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00domenica 17 luglio 2011 21:23

La prova filosofica dell’esistenza di Dio, secondo Aristotele

Con questo articolo diamo avvio ad una serie di interessanti “video-lezioni” sulle principali prove dell’esistenza di Dio elaborate da alcuni dei massimi filosofi, come Aristotele, Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino.

Queste lezioni sono tenute dal Prof. Enrico Berti, docente di storia della filosofia all’Università di Padova, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Institut International de Philosophie, della Société Européenne de Culture, della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti e della Società filosofica italiana Dal 1983 al 1986 ha presieduto la Società filosofica italiana. Nel 1987 ha vinto il Premio dell’Associazione Internazionale “Federico Nietzsche” per la filosofia. La registrazione di questi video è avvenuta presso l’Istituto di Filosofia Applicata di Lugano nel 2009.

 

Nella prima lezione il filosofo si concentra sulla prova elaborata da Aristotele.

 

Aristotele non ha mai proposto esplicitamente prove dell’esistenza di Dio, al contrario dei filosofi della Scolastica. Tuttavia, questi ultimi si sono spesso richiamati ai suoi argomenti.

Nel primo trattato, quello della Fisica (libro 8°, capitoli IV e V), Aristotele cerca la prima causa motrice, cioè la causa del movimento e sostiene che “tutto ciò che si muove è mosso da qualche cosa”.

1) Il movimento pone l’esigenza del “perché”. Secondo Aristotele, il movimento (inteso non solo in senso spaziale, ma come qualunque tipo di mutamento o novità), suscita la domanda del “perché” qualcosa si muove. La causa del “movimento”, della “novità”, non può essere, ovviamente, la cosa stessa che si muove. Dev’essere ricercata in altro. E questo altro, se si muove, è mosso da altro ancora…quindi, non potendo procedere a ritroso all’infinito, bisogna risalire per forza ad una causa prima.
2) Questa causa prima dev’essere immobile. Secondo il filosofo, mutare significa passare dalla potenza all’atto e una cosa, per essere mossa dev’essere in potenza, per muovere deve essere già in atto. Quindi: non si può essere contemporaneamente in potenza e in atto e dunque la prima causa motrice è per forza immobile, è un motore immobile.

 

Nel secondo trattato, quello della Metafisica (il più famoso, libro 12°, capitolo VI), si concentra invece sulle uniche due cose che sono eterne: il movimento e il tempo.

1) Il movimento è eterno. Non si può ammettere che il movimento (cioè secondo lui qualunque tipo di cambiamento) abbia avuto un inizio e una fine. Se avesse un inizio, cioè se ci fosse stato un passaggio dal “prima” (in cui non c’è) al “dopo” (in cui c’è), questo sarebbe un mutamento esso stesso. Non ci può nemmeno essere una fine perché, se esiste il passaggio tra il “prima” (in cui c’è) e il “dopo” (in cui non c’è più), allora questo passaggio finale sarebbe un mutamento esso stesso. Dunque il mutamento è eterno.
2) Il tempo è eterno. Anche per il tempo se ci fosse un inizio, significherebbe l’esistenza di un “prima” in cui il tempo non c’era, ma definire un “prima” è una definizione temporale. Lo stesso per la fine: l’esistenza di un “dopo” è anch’esso un tempo.
3) Il movimento eterno ha bisogno di una causa. Occorre un motore che muova continuamente l’Universo e che non possa smettere mai. Questo motore è immobile (non muta) ma è attivo perché svolge un’attività. Questa attività è il pensiero: solo il pensiero infatti (un pensiero fisso su una verità: 2+2=4, ad esempio) non produce movimento.
4) Il motore pensa ed è attivo, allora è dio. Il pensiero è una forma di vita, infatti ciò che non vive non pensa. Dunque questo motore immobile, se pensa, è vivente. Se è vivente ed è eterno allora è un dio. Non è Dio, non usa mai questa parola con la maiuscola e senza articolo. Dice un dio. Il primo motore immobile allora è dio, il dio di Aristotele, il principio supremo che governa l’universo.

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00domenica 17 luglio 2011 21:24

Ordine e razionalità del cosmo: una delle prove filosofiche di Dio

Le parole rivolte recentemente da Benedetto XVI alla Pontificia Accademia delle Scienze ricalcano perfettamente il punto di vista di molti scienziati. Infatti, lo scienziato investiga la natura «percependo una costante, una legge, un logos [cioè una razionalità nella natura] che egli non ha creato, ma che ha invece osservato». Questa constatazione -continua il filosofo Lodovici su Avvenire- può portare a svolgere un ragionamento (filosofico o prefilosofico) che arriva ad affermare l’esistenza di Dio. È un argomento su cui l’attuale Pontefice ha insistito varie volte, fin da quando era professore universitario, per esempio in quel capolavoro che è la sua Introduzione al cristianesimo (1968), e poi, da Papa, per esempio nel discorso di Ratisbona (2006).

Una delle prove di Dio che la tradizione filosofica ha elaborato parte proprio dall’ordine e dal finalismo del mondo. In altri termini -continua il filosofo-, la natura manifesta delle leggi e queste reclamano un Legislatore come condizione di possibilità, perché, per vari motivi, il caso non le può spiegare. La natura manifesta una razionalità che rinvia a una Ragione creatrice, cioè ad un Logos che la crea comprensibile alla nostra ragione umana e perciò la ragione scientifica può cimentarsi a indagarla. Per questo, mentre non rientra nel campo scientifico affermare l’esistenza dell’Architetto, lo è il ricercare ed individuare il suo progetto. È anche per questo motivo -ricorda Lodovici- che la maggior parte degli scienziati di tutti i tempi è composta da credenti (assai spesso cristiani), tra cui molti ecclesiastici: Galileo, Newton, Galvani, Volta, Heisenberg, Einstein, Maxwell, Fermi, Eccles e Carrel, e gli ecclesiastici Mendel, Stenone, Spallanzani, Mercalli e Florenskij….

E’ lo stesso ragionamento, fra i tanti, di Roger Trigg, epistemologo dell’Università di Warwick: «La ricerca scientifica assume che il mondo sia ordinato. Si dà per scontanto che esistano delle regolarità da osservare. Ma in un certo senso è eccezionale che il mondo fisico sia tanto ordinato. E’ solo questione di caso? L’ordine che la scienza scopre nella natura riflette in qualche modo la mente del creatore dietro le cose. In altre parole, l’ordine ha una base religiosa. In qualche modo Dio ha creato un mondo che ci mosta qualcosa della sua mente e dellla sua razionalità» (da Stannard, La scienza e i miracoli, TEA 2006, pag. 230-231). Il fisico Angelo Tartaglia, membro della Società Italiana di Relatività Generale e Fisica della Gravitazione, ha affermato qualcosa di molto simile nel suo recentissimo libro, La luna e il dito (Lindau 2009): «Considerando l’evoluzione delle specie viventi e dell’universo inanimato, è facile la sensazione che ciò che accade sia, bene o male, inquadrato in un disegno finalistico. Nasce il sospetto che alla base ci sia un progetto intelligente. E’ una sensazione percepita e menzionata sotto tutti i cieli e in tutte le culture»

Credente
00lunedì 7 ottobre 2013 11:16

Le cinque vie di Tommaso
sono ancora valide

Tommaso d'Aquino 
 
di Francesco Santoni*
fisico e ricercatore

 
da Quaestiones quodlibetales, 05/09/13
 

Tempo fa, stimolato da una discussione con un amico filosofo, buttai giù una serie di riflessioni sul principio di causa e sul valore delle cinque vie tomiste per dimostrare l’esistenza di Dio. Il mio amico è un cattolico di ferma fede, non è per nulla impressionato dalle dimostrazioni di Tommaso, non ne capisce la necessità né il motivo per cui invece io le ritenga tanto importanti.

Io che sono teista solo grazie alla metafisica di Tommaso, ma agnostico in fatto di Rivelazione, cercavo di fargli capire il valore di queste dimostrazioni, e di come esse siano validissime e restino salde anche di fronte a tutti i tentativi di critica che gli sono stati mossi contro da diverse scuole filosofiche. Convinto che si tratti di riflessioni valide, e magari utili per qualcuno, le riporto qui, come dicevo, senza alcuna pretesa di sistematicità e completezza (si noterà forse che la discussione procederà un po’ a salti, infatti il contesto era una lunga ed articolata discussione avuta con il mio amico, e non posso stare qui, e sarebbe forse anche inutile e noioso, a riportare tutti i dettagli, me ne scuso).

 

1) Le cinque vie tomiste poggiano sul realismo e sul principio di causa. Entrambi questi presupposti non appartengono a Kant, alle cui spalle sta invece l’idealismo (secondo l’accezione gilsoniana) di Cartesio, e l’empirismo scettico di Hume. Già questo è di per sé sufficiente a sostenere che le prove tomiste sfuggano al maglio della Critica: Kant procede con una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità della conoscenza, mentre si potrebbe dire che Tommaso, dato il presupposto realista e riformulando (forse qui sono troppo ardito) il suo pensiero in termini kantiani, proceda ad una deduzione trascendentale delle condizioni di possibilità dell’essere dell’ente; tale deduzione è compiuta seguendo le implicazioni del principio di causa. Il risultato principale di questa ricerca è la scoperta della partecipazione dell’ente all’atto d’essere, l’ente che riceve l’essere per partecipazione dall’Essere Per Sé Sussistente che è Dio, nel quale essenza ed essere coincidono.

 

2) I principi più generali, quali l’atto e la potenza, non sono oggetto di dimostrazione, ma possono essere colti solo per analogia tramite esempi, come insegna Aristotele nellaMetafisica. Che cos’è l’atto? Se io rispondessi la fattualità, la realizzazione, la concretizzazione di una potenza, non avrei risposto, perché poi dovrei definire tutti questi termini, i quali però non significano altro che l’atto. E che cos’è la potenza? È ciò che può ricevere un determinato atto… ma anche questa risposta non soddisfa. Come cogliere allora i concetti di atto e potenza? Con un esempio dal quale il nostro intelletto è in grado di astrarre un concetto: il fuoco è caldo in atto, e l’acqua è calda in potenza, e può ricevere l’atto di esser calda dal fuoco. Oppure si possono fare altri esempi come il seme e la pianta, il bambino ed il vecchio ecc. Dall’analogia tra tutti questi esempi si coglie il concetto di potenza ed atto. Questa è la cosiddetta analogia di proporzionalità secondo la classica distinzione del cardinal Gaetano, che è l’unica vera analogia secondo Aristotele. Si chiama di proporzionalità perché non implica una somiglianza di perfezioni (cioè una proporzione): l’atto del fuoco non è l’atto della pianta; ma indica una somiglianza di rapporti tra perfezioni diverse (quindi una proporzionalità): il fuoco sta all’acqua (riscaldandola) come la luce del sole sta all’aria (illuminandola). Da questa proporzionalità si coglie il concetto di atto, e così per tutti i principi più generali. Ovviamente più esempi facciamo e più avremo chiaro il concetto che cogliamo per analogia. In questo consiste l’esperienza. Il razionalismo moderno rifiuta l’analogia, ma finisce così per sprofondare nello scetticismo e nell’agnosticismo, perché chiaramente non ha altro modo di cogliere i principi, che di certo non possono essere oggetto di dimostrazione, perché la dimostrazione stessa richiede a sua volta dei principi. E questa è anche la vera essenza del realismo aristotelico-tomista, che rifiuta di dedurre il reale dai principi, ma piuttosto è la continua ricerca e scoperta dell’implicazione dei principi nel reale stesso.

 

3) Che cos’è l’atto d’essere? Chiaramente anche qui non è possibile una definizione, e dobbiamo ancora procedere per analogia. Diciamo infatti che l’atto d’essere è l’atto di tutti gli atti, perfezione di tutte le perfezioni, forma di tutte le forme, perché è per l’essere che ogni essenza esiste in atto. Mettendo ogni perfezione, ogni essenza, ogni modo di essere l’uno accanto all’altro come una sinossi, dice Cornelio Fabro, ci facciamo un concetto dell’atto d’essere come perfezione suprema che è sintesi, plesso di tutte le perfezioni. Ciò che tutti chiamano Dio (nota espressione di Tommaso), l’assoluto, l’incondizionato, è quindi Atto Puro, ciò che è primo nell’ordine delle cause moventi, primo nell’ordine efficiente, primo nell’ordine finale, primo nell’ordine delle perfezioni ecc. Ecco perché per arrivare ad una qualche conoscenza di Dio bisogna percorrere tutte le vie di Tommaso, e magari trovarne anche di altre mai percorse, perché non esisterà mai una conoscenza di Dio che possa dirsi completa (eccezion fatta per la conoscenza che Dio ha di se stesso). Ognuna delle cinque vie ci dimostra la necessità di dover ammettere un primo principio nei diversi ordini, ma è poi nell’analisi della natura divina svolta nei successivi articoli della Somma che viene mostrato, sfruttando gli argomenti di ogni via, come esista un solo Primo Principio e come esso debbanecessariamente essere Atto Puro (ed inoltre c’è da tener conto che la Somma Teologica è una sintesi, e che per una trattazione più completa e dettagliata bisogna rivolgersi alla Somma Contro i Gentili e alle Questioni Disputate sulla Potenza di Dio e sulla Verità; non si può ridurre il discorso di Tommaso al solo e ben noto Respondeo che contiene le cinque vie).

 

4) Le cinque vie conducono quindi a Dio partendo dalla contemplazione del reale ed applicando sistematicamente il principio di causa. Ma il realismo ed il principio di causa stanno a fondamento anche di qualsiasi discorso scientifico (nell’accezione moderna del termine), e pertanto mi pare che le prove di Tommaso debbano godere della stessa fiducia che si ha nelle scienze. Del resto, da aristotelico, non mi piace parlare di scienze e di metafisica, ma piuttosto di scienza fisica e scienza metafisica (sì lo so, Aristotele non usa il termine metafisica, ma lasciamo correre ora) dove in entrambi i casi, secondo l’accezione classica, per scienza si intende conoscenza certa per cause. Le scienze si distinguono primariamente in ragione dell’oggetto studiato, e chiaramente Dio non entra nel discorso scientifico (qui torno all’accezione moderna), e a dirla tutta non è nemmeno l’oggetto proprio della metafisica, che è invece l’essere in quanto essere. Dio è solo secondariamente oggetto della metafisica, in quanto ente più eminente tra tutti gli enti ed a fondamento di essi, ecco perché Aristotele dice che la metafisica, o filosofia prima, potrebbe esser detta anche teologia. Ma con l’affermazione del pensiero cristiano, la teologia è diventata una scienza a sé, della quale ora Dio costituisce l’oggetto proprio, ed i principi primi sono dati dalla Rivelazione.

Si potrebbe allora porre il problema di quale scienza sia la principale, la metafisica o la teologia. Il ruolo pare certamente spettare alla teologia, perché essa si occupa dell’oggetto più importante, Dio, e da Egli è direttamente rivelata, quindi è massimamente certa. Tuttavia Dio per mostrarsi deve rivolgersi a noi parlando la nostra lingua, dicendo cose che noi possiamo capire; ma allora la Rivelazione presuppone già un discorso metafisico più o meno compiuto (forse non è un caso che la Rivelazione non scenda in blocco ma sia “distribuita” nel corso della storia): se Dio dice “Io sono Colui che sono”, si presuppone che possiamo intenderlo in qualche modo. Un certo livello di sapere metafisico è quindi necessario alla ricezione della teologia, ed è quindi giusto riproporre il tradizionale appellativo della metafisica come ancilla theologiae; ma tale rapporto di signoria e servitù sembra quasi rovesciarsi dialetticamente, dal momento che sembra essere il sapere metafisico a dettare le regole alla teologia e renderla possibile come scienza. Tale contraddizione mi pare comunque si risolva in maniera semplice dicendo che la teologia è prima in quanto scienza assolutamente certa dell’oggetto più eminente, mentre la metafisica è prima solo quoad nos (rispetto a noi), quanto al progredire della nostra conoscenza, ed in effetti è la teologia stessa ad insegnare che nella visione beatifica sarà possibile conoscere Dio come Egli è, quindi senza la mediazione della metafisica, che è scienza umana e non divina.

 

5) Comprese tutte queste distinzioni, si capisce allora come sia sbagliato far entrare Dio all’interno del discorso scientifico, contrariamente a quanto pretendono di fare i creazionisti all’americana (o magari pure qualche teologo cattolico ingenuo). Ma al tempo stesso si deve capire che Dio sta a fondamento del discorso scientifico stesso; sta a fondamento del fatto che ci sia qualcosa su cui discutere, che questo qualcosa sia intelligibile, che noi siamo in grado di farlo, che desideriamo farlo, che desideriamo conoscere. A fondamento di tutto c’è il Logos e noi vogliamo e possiamo conoscerlo.

Inoltre si sosteneva (mi riferisco al mio amico) che le vie di Tommaso non sarebbero sufficienti, altrimenti non ci sarebbero atei. Però, allora, mi vedo costretto a portare la mia testimonianza personale, perché senza Tommaso io mi crogiolerei nell’agnosticimo, ostentando indifferenza ed atarassia come un Eugenio Scalfari qualsiasi. Se io non sono caduto nel nichilismo è grazie a Tommaso. Certo, la metafisica non ci rivela il Dio della fede cristiana, bensì il Dio dei filosofi, ne sono perfettamente consapevole, e Tommaso stesso lo dice chiaramente; ma ci si tiene comunque ben lontani dall’ateismo.

 

6) Qualche parola sul principio di causa. La causalità è fondata sulla partecipazione, e di quest’ultima credo non possa proporsi definizione più chiara di quella data da Tommaso stesso: Est autem participare quasi partem capere, et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud, sicut homo dicitur participare animal, quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem; et eadem ratione Socrates participat hominem. Secondo l’esegesi del Fabro si devono distinguere due tipi di partecipazione, la partecipazione trascendentale, ossia la partecipazione dell’ente all’essere, e la partecipazione predicamentale, che è orizzontale, resta cioè sul piano dell’ente detto secondo le dieci categorie aristoteliche (o predicamenti appunto). La fondazione delle cause seconde richiede ovviamente entrambi i tipi di partecipazione. Riprendendo la lezione aristotelica si ricordi che l’atto del mobile e l’atto del motore sono un unico e medesimo atto, ovvero causa ed effetto partecipano di un’unica e medesima forma; è pertanto la partecipazione che fonda il nesso causale: quando una data forma è ricevuta per partecipazione in due enti distinti, allora o l’uno è causa dell’altro, oppure entrambi sono causati da un terzo agente. La causa formale-finale è sempre presente, infatti Tommaso definisce il fine come causa delle cause (causa causarum), perché ogni causa efficiente agisce secondo un ordine specifico (omne agens agit propter finem), seconda una certa direzionalità, ovvero secondo una forma-fine (li metto insieme perché tali sono negli agenti non intelligenti) che viene ricevuta per partecipazione dall’effetto. È perciò nella partecipazione che si riconosce il nesso causale, e si è così capaci di giustificare metafisicamente la nozione di causalità espressa dalle proposizioni controfattuali: il tale ente non si dà senza che si dia il tale altro ente. Duns Scoto, analitico ante litteram, nel Trattato sul Primo Principio, esprime tutto ciò sotto forma di teorema dimostrando una dopo l’altra le seguenti proposizioni: quod non est finitum (ovvero ordinato ad un fine) non est effectum,quod non est effectum non est finitum. Il “povero”Hume, erede di una filosofia che aveva ormai disconosciuto le cause formali e finali, si ritrovò con la sola causa efficiente, e cercò di trovarne il fondamento, ma ovviamente non poteva. Il principio di causalità viene abbandonato e con esso tutta la scienza: Hume finisce nello scetticismo

Non c’è bisogno di andare nei sistemi complessi per trovare le cause formali e finali. Esse sono sempre presenti affinché la stessa causa efficiente sia fondata. Basti pensare ad esempio come il principio di minima azione, così palesemente teleonomico, sia basilare praticamente per tutta la fisica oggi conosciuta.

 

7) Concludo dicendo che tutto quanto ho scritto fin qui non è chiaramente farina del mio sacco, ma semplice ripetizione di ciò che ho appreso leggendo tomisti autorevoli comeMaritain o Fabro. Ora io non nego che ci siano state e ci siano ancora semplificazioni e banalizzazioni del pensiero di Tommaso, ma questo non dimostra nulla contro Tommaso stesso. Molti, troppi tomisti hanno purtroppo reso un pessimo servizio al maestro, trasformando il suo luminoso pensiero in una serie di vuote formulette, incapaci di calarle nel reale e nella vita. Per esperienza personale se si vuole studiare Tommaso bisogna fare moltissima attenzione ai manuali, perché in genere lo presentano in maniera superficiale e fuorviante; è piuttosto preferibile leggere direttamente Tommaso guidati da tomisti di indubitabile preparazione e profondità di pensiero, come appunto il padre Fabro.

 

8) Una stoccata alla modernità è d’obbligo. Tutto questo chiaramente è metafisica, non scienza (nell’accezione moderna del termine). Ma è la metafisica a fornire i fondamenti teoretici sui quali è possibile edificare la scienza, e pensare di poter usare una teoria scientifica o delle evidenze empiriche (come pretendono certi moderni “pensatori”) per confutare delle tesi puramente metafisiche, quali sono quelle che ho esposto, è un’assurdità a sentire la quale Aristotele si rivolterebbe nella tomba, se mai le sue ossa siano ancora da qualche parte. Come diceva Koyré, senza la metafisica la scienza è morta. Buona parte dei filosofi moderni pensa che la metafisica sia inutile, se non addirittura priva di senso. Io sarò immodesto, ma penso che questi signori non abbiano capito nulla, e che un Aristotele o un Tommaso potrebbero papparseli in un boccone, ritornassero all’improvviso a vivere.

Io sono un fisico, e francamente delle speculazioni del circolo di Vienna ne faccio tranquillamente a meno. È grazie a Tommaso se posso comprendere i fondamenti del lavoro che faccio (ed ho la convinzione che gli scienziati siano per lo più degli aristotelici spontanei che non sanno di esserlo).

Credente
00martedì 22 gennaio 2019 11:33

Dimostrare l’esistenza di Dio. Si può?
E ha senso farlo?

Le prove dell’esistenza di Dio, secondo il filosofo cattolico Edward Feser. Non si tratta di assurde dimostrazioni scientifiche ma un’esposizione di cinque argomenti per i quali Dio è l’unica spiegazione possibile o, comunque, la più ragionevole.

 

Nessun credente è tale grazie ad un qualche argomento a dimostrazione dell’esistenza di Dio. La fede cristiana ha origine come cammino della ragione dalla percezione di un bisogno infinito all’incontro personale con una risposta ritenuta adeguata a tale sete di significato. Ma si può provare l’esistenza del Creatore a prescindere dalla fede?

Se per il cristiano Søren Kierkegaard ogni prova di Dio è, al più, «un canovaccio eccellente per una comica pazzesca», grandi pensatori cristiani -come Tommaso d’Aquino, Anselmo, Agostino, Plotino ecc. (e non cristiani, come Aristotele)- la pensavano diversamente e sono autori di numerose ed affascinanti “prove di Dio”, atte a convincere la persona non credente. Per quanto ci riguarda, non siamo così interessati a difendere e supportare questi sforzi intellettivi che, tuttalpiù, riteniamo utili come nutrimento per la fede dei credenti, nonché occasione di confronto con i non credenti.

 

“Cinque prove dell’esistenza di Dio”: il libro del filosofo tomista Edward Feser.

Per questo segnaliamo il recente e monumentale lavoro del filosofo tomista Edward Feser, docente presso il Pasadena City College, intitolato Five Proofs of the Existence of God (Ignatius Press 2017), esposizione dettaglia e aggiornata di cinque prove filosofiche a favore di Dio: la prova aristotelica, la prova neoplatonica, la prova agostiniana, la prova tomista e la prova razionale. Uno dei più interessanti lavori moderni sulla teologia naturaletradizionale, in cui si difendono le classiche dimostrazioni di Dio dalle varie critiche ricevute nella storia.

«Ci sono molti altri argomenti che ritengo essere convincenti ma che non ho inserito nel libro», ha spiegato Feser, «richiedevano troppe argomentazioni metafisiche». Feser ritiene che Dio si possa “dimostrare” in quanto la sua esistenza è «difendibile con argomenti che ogni persona razionale può trovare convincenti» e, ancor di più, «possiamo difendere» tali argomentazioni «con il metodo della ritorsione, che implica il mostrare che non si possono negare a causa di auto-contraddizione o incoerenza» (ovvero: la difesa di un’affermazione dimostrando che la sua negazione comporta una contraddizione).

 

Sono “prove” ma non dimostrazioni scientifiche.

Non si tratta di dimostrazioni matematiche o scientifiche da laboratorio, come chiedono retoricamente alcuni atei per poter essere convinti. Tuttavia, ha spiegato il filosofo, «rivendico la parola “prova”. Gli argomenti sono “prove” in quanto, in primo luogo, la conclusione segue deduttivamente le premesse, e le premesse sono ritenute essere conoscibili al di là di ogni ragionevole dubbio. Non sono semplici deduzioni probabilistiche, argomenti per la spiegazione migliore, o argomenti basati sul “Dio delle lacune”. Sostengo che tali argomenti mostrano non tanto che Dio è la spiegazione più probabile dei fatti asseriti nelle premesse degli argomenti, ma piuttosto che Dio è l’unica spiegazione possibile in principio di tali fatti. Questo tipo di argomentazione si adatta ad un uso tradizionale della parola “prova”».

Ovviamente, ha ulteriormente precisato, «ciò non implica che io pensi che ogni lettore sarà immediatamente convinto. Ciò che si intende indicare con “prova” è la natura della connessione tra i fatti descritti nelle premesse e il fatto descritto nella conclusione. È un’affermazione metafisica, non un’affermazione sociologica». «Naturalmente», ha proseguito Feser, «sono consapevole che alcune persone sfideranno comunque questi argomenti o rimarranno dubbiose. Ma questo è vero per qualunque argomento qualsiasi conclusione».

 

La ragione può giungere a Dio anche senza la fede.

La Chiesa si è espressa più volte a favore del raggiungimento dell’esistenza di Dio anche da parte di una ragione privata della fede. Pio IX e Paolo VIhanno affermato che «Dio può essere conosciuto con certezza col lume naturale dell’umana ragione dalle cose create» (Dei filius e Dei verbum) e lo stesso Catechismo precisa la distinzione già notata da Feser: «l’uomo che cerca Dio scopre alcune “vie” per arrivare alla conoscenza di Dio. Vengono anche chiamate “prove dell’esistenza di Dio”, non nel senso delle prove ricercate nel campo delle scienze naturali, ma nel senso di “argomenti convergenti e convincenti” che permettono di raggiungere vere certezze».

Se da una parte gli agnostici non dovrebbero ridurre la questione di Dio ad un qualsiasi fenomeno della natura indagabile scientificamente, come si trattasse di un oggetto, dall’altra i credenti devono evitare il “fideismo” emozionale, «che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede e tende a fare della lettura della Sacra Scrittura e della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo»(Giovanni Paolo II. Fides et ratio). Ma, in campo filosofico e teologico, si dovrebbe anche trattenersi dal ridurre completamente Dio ad una teoria o un’argomentazione, facendo scomparire la possibilità di farne esperienza. Egli si è fatto conoscere e si è reso familiare, accessibile a tutti. L’incontro con Lui è ciò che davvero porta ad un convincimento certo.

fonte: UCCR


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