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LE PROVE ONTOLOGICHE DELL'ESISTENZA DI DIO

Ultimo Aggiornamento: 22/01/2019 11:33
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13/02/2010 23:51
 
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Cartesio

Cartesio, attraverso i teologi scolastici, riprende l’argomento anselmiano in particolar modo nelle Meditationes de prima philosophia (Meditazioni metafisiche). Il termine prima filosofia è stato già usato da Aristotele per definire la teologia, quindi, anche Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche vuole riflettere su Dio. Infatti, afferma esplicitamente che vuole indagare la questione dell’anima e della sua immortalità, e l’esistenza di Dio.

Cartesio, nelle sue Meditazioni metafisiche (pubblicate nel 1641 in lingua latina), non parte, come Anselmo, dalla fede per portare intelligenza alla fede stessa, ma parte dal dubbio universale, pur restando il fine di dimostrare qualcosa di certo, indubitabile, ossia l’esistenza di Dio. Provare l’esistenza di Dio significa, per Cartesio, garantire la corrispondenza tra pensiero ed estensione, ossia tra idee della nostra mente e realtà esterna, posta precedentemente in dubbio. Dio è il punto fermo da cui dipende la certezza stessa (anche il cogito).

Ponendo in dubbio tutte le nostre credenze circa l’esistenza di una realtà a noi esterna, Cartesio riesce, al fine, a trovare una certezza: l’essere dubitante, ossia un io pensante che esiste,  riconoscendosi esistente proprio attraverso l’atto del dubitare. Scopre, così, l’esistenza di un io dubitante e pensate le idee. Cartesio distingue poi tre tipi di idee relativamente alla loro origine: le idee avventizie, fattizie e innate.

Le idee avventizie, sarebbero quelle idee che provengono dall’esperienza sensibile, quindi da ciò che è a noi esterno.

Le idee fattizie, sarebbero quelle idee prodotte in noi, a prescindere da una nostra esperienza sensibile, quindi solamente a partire dalla nostra mente.

Le idee innate, non provengono, invece, né da una realtà esterna a noi, né dalla produttività della nostra mente. Esse sono infatti presenti in noi a prescindere da una nostra esperienza sensibile  e a prescindere da una nostra creatività interiore, dunque le idee innate sono eterne. Da qui una ripresa dell’eternità delle idee platoniche come base dell’argomentazione dell’immortalità dell’anima: se riscontriamo idee che sono da sempre presenti nella nostra anima, poiché noi siamo mortali, la nostra anima sarà, invece, immortale e per questo motivo abbiamo in essa idee eternamente presenti.

Fatta questa tripartizione, Cartesio formula tre possibili diverse dimostrazioni a priori dell’esistenza di Dio: nella terza meditazione viene riscontrata la presenza, nella nostra mente, dell’idea di Dio come essere infinito. L’origine di una tale idea non è nella realtà esterna a questa idea, perché essa non è infinita come Dio: quindi tale idea non è avventizia.

Cartesio nega, inoltre, che una tale idea sia fattizia perché l’idea di un essere infinito non può giungere da un essere finito: l’uomo non può produrre fattiziamente una tale idea, in quanto è essere finito.

Cartesio afferma questo sulla base di un presupposto logico e gnoseologico, cioè afferma che la causa di una idea deve avere una realtà formale altrettanto grande quanto la realtà oggettiva presente nell’idea causata. Per formale dobbiamo pensare all’atto aristotelico, alla forma come ciò che è in atto. Per oggettivo dobbiamo pensare il contenuto dell’idea, ossia a ciò che è oggettivabile alla facoltà rappresentativa della nostra mente. Cartesio afferma che la causa formale, cioè in atto, deve avere almeno altrettanta realtà formale quanto l’idea causata ne abbia di realtà effettiva, cioè se noi abbiamo, nella nostra mente, l’idea di Dio come essere infinito, questa che per noi è una rappresentazione (realtà oggettiva) nella nostra mente, dovrà essere causata da una causa che contenga in atto (formalmente) almeno altrettanta realtà formale quanta realtà oggettivata nella nostra mente. Così Cartesio sventa l’ipotesi che l’idea di Dio sia fattizia, perché dimostra che in noi non c’è la causa formale del risultato rappresentativo di tale causalità, in noi c’è solo l’oggettività, la rappresentatività di Dio come essere infinito, ma non Dio nella sua forma.

Così l’idea di Dio non può essere prodotta da noi (non può essere fattizia) e non può giungerci da una realtà esterna, né può essere intesa come semplice negazione del finito, in quanto per Cartesio l’infinito precede il finito, così come il perfetto precede l’imperfetto, ma è idea innata. Nella terza meditazione, viene introdotta una definizione di Dio come infinita potestas, concependolo non solo come ente supremo, infinito, perfetto, ma anche come volontà, capacità. Cartesio vuole arrivare ad intendere Dio come continuo sostenitore della nostra esistenza finita, e dunque vuole dimostrarne l’effettiva esistenza a partire proprio dall’idea presente in noi.

Infine, nella quinta meditazione si stabilisce che nell’idea stessa di Dio si debba includere anche quella della perfezione della sua esistenza: se Dio è l’essere infinito, l’essere perfettissimo, nella sua stessa essenza, nelle sua stessa idea dobbiamo includere l’esistenza, perché l’esistenza è vista come perfezione. E’ proprio su quest’ultimo punto che Kant solleverà la sua critica a Cartesio, considerando l’esistenza come non essere una perfezione, ma piuttosto una posizione della cosa. La critica schellinghiana a Cartesio assumerà l’argomento cartesiano di Dio come quell’ente alla cui “essenza compete l’esistenza”, ma affermerà che “Dio è l’essere necessariamente esistente, se esiste”, cioè il fatto che Dio è necessariamente esistente è frutto di una definizione meramente logica, che noi possiamo ritenere a priori come valida, tuttavia l’effettivo darsi di questa perfezione logica avverrà solo se riusciremo a presupporre l’esistenza effettiva di Dio. In altri termini, con la definizione di Dio come l’essere necessariamente esistente avremmo soltanto l’idea di Dio,ma non ancora la sua effettiva esistenza.

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