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SINDONE : una sfida per la scienza

Ultimo Aggiornamento: 27/04/2024 18:28
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26/04/2015 23:26
 
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DIAVOLO E ACQUA SANTA A CONFRONTO SULLA SINDONE. DIALOGO TRA PIERGIORGIO ODIFREDDI E MONS. GIUSEPPE GHIBERTI


Da una parte il matematico irriverente, per il quale la Sindone è una ‘bufala’ che ‘come testimonianza storica vale tanto quanto il film di Gibson’. Dall’altra il monsignore presidente della Commissione per la sindone della diocesi di Torino, per il quale ‘la forza della Sindone’ sta proprio nella ‘povertà di certezze’ e nel suo ‘messaggio’. Un carteggio fra punti di vista opposti sulla più controversa e studiata reliquia della cristianità.

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Dialogo tra Piergiorgio Odifreddi e mons. Giuseppe Ghiberti,
da MicroMega 4/2010

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Caro don Ghiberti,
propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica.
Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medioevali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie.
Miracolosamente sopravvissute nei millenni, le memorie del Vecchio Testamento erano sorprendenti. La mensa di Abramo. La scure con cui Noè costruì l’arca, e il ramoscello d’ulivo riportato dalla colomba dopo il diluvio. Le tavole della legge e la verga di Mosè. La manna e l’arca della Santa Alleanza. Tre delle trombe con cui Giosuè fece crollare le mura di Gerico. Il trono di David eccetera.
Altrettanto incredibili erano i reperti del Nuovo Testamento. La mangiatoia di Betlemme. Ampolle col latte della Madonna, e l’ultimo respiro di San Giuseppe. Il cordone ombelicale e otto prepuzi di Gesù bambino. I suoi denti da latte, più vari frammenti di unghie e peli di barba. Le pietre sulle quali fu circonciso e battezzato. Le lettere che avrebbe scritto di proprio pugno. I dodici canestri della moltiplicazione dei pani. La coda dell’asino della Domenica delle Palme. Il famoso Santo Graal, cioè il calice dell’ultima cena. Il catino in cui Cristo lavò i piedi agli apostoli, e il panno con cui li asciugò. La clamide scarlatta, la corona di spine, lo scettro di canna, il flagello e le orme dei suoi piedi di fronte a Pilato. La Veronica col suo volto. La cenere del falò acceso dopo la rinnegazione di Pietro. Molti chiodi della croce, e un numero enorme di suoi frammenti di legno. In miracoloso contrasto con essi, la croce tutta intera, ritrovata nel 326 dalla madre di Costantino. La spugna, l’aceto, la canna e la punta della lancia del centurione. Il marmo su cui il corpo fu deposto, con i segni delle lacrime della Madonna. La candela che illuminava il sepolcro. Il dito che l’apostolo Tommaso mise nel costato. La pietra dell’assunzione al cielo eccetera.
Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella «miracolosa» di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della rivoluzione francese.
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al papa, dichiarando che il telo era stato «artificiosamente dipinto in modo ingegnoso», e che «fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto». Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di «dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario».
Alla testimonianza storica del pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore.
Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre.
Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani. Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa «maschera di Agamennone», che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone.
Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile. Non è naturalmente possibile sapere con certezza come si sia passati dall’uno all’altra, ma non è necessario scomodare i miracoli. Anzitutto, qualunque calco sarebbe automaticamente negativo e unidirezionale. Per quanto riguarda la tridimensionalità, ci sono due possibilità naturali.
La prima è stata riprodotta dall’anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino, che l’ha descritta in E l’uomo creò la Sindone (Dedalo, 2000). Basta scaldare un bassorilievo metallico a 220 gradi e appoggiarvi brevemente un telo, per ottenere un’immagine dal caratteristico colore giallastro della reliquia: lo stesso delle bruciature da ferro da stiro. La tridimensionalità è causata da una duplice trasmissione del calore: per contatto diretto in alcuni punti, e per convezione a distanza in altri. Le foto del libro mostrano come anche una rudimentale e brutta figura sia in grado di lasciare un’impronta sorprendentemente simile alla Sindone.
La seconda possibilità è descritta dal chimico Luigi Garlaschelli nel delizioso libretto Processo alla Sindone (Avverbi, 1998), e rende anche conto di due fatti aggiuntivi: sulla reliquia sono state trovate tracce di colore, e le riproduzioni antiche mostrano un’immagine più intensa di quella attuale. In questo caso l’impronta è ottenuta ponendo il telo sul bassorilievo e strofinandovi sopra dell’ocra in polvere, come si fa col carboncino sulla carta. Col tempo il colore si stacca e lascia un’impronta fantasma residua, come le foglie negli erbari.
A ciascuno dei fatti oggettivi che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracoloso non sussiste.
Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io.

Piergiorgio Odifreddi

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Caro professor Odifreddi,
vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono «quelli del gozzo» (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. Avremo qualche difficoltà, perché il nostro modo di rapportarci alla Sindone è dissimile; ma chi sa che non ci scopriamo meno distanti di quanto sembri.
Lei inizia il suo discorso con la lista delle stramberie medioevali e recenti in campo di reliquie e tra di esse pone la Sindone di Torino; quest’ultimo caso però è peggiore, perché, a differenza delle altre, questa continua a essere supervenerata. Poi descrive per sommi capi l’oggetto in questione e le sue vicende, per concludere che è un artefatto, portante un’impronta, che non può essere stata lasciata da un cadavere. L’enumerazione delle anomalie presenti nell’immagine non conclude a una identificazione del fenomeno, ma a una dichiarazione di simpatia per i tentativi operati da Delfino Pesce e da Garlaschelli nella riproduzione di quell’immagine. A fronte di questi fatti oggettivi lei enumera le opinioni soggettive dei favorevoli alla Sindone, che cercano il modo di ricondurre la ragione alla fede, ricorrendo magari alla risurrezione atomica di Cristo. Tutta la descrizione conclude per l’inesistenza del fatto miracoloso e quindi viene giustificata la sentenza: il caso è chiuso. Spero di averla riassunta fedelmente.
Ho l’impressione che quanto lei descrive della Sindone non abbia molto in comune con quanto io penso di questa realtà. So che si ricorre solitamente alla vicenda delle reliquie per spiegare la nascita della Sindone, ma al massimo questo potrebbe individuare la causa della contraffazione, non però la modalità della sua formazione. So che si dicono cose peregrine sull’origine dell’immagine, ma l’essenziale della realtà sindonica non è condizionato a esse. Io per primo non le condivido, come, d’altra parte, tanto meno condivido le proposte di Pesce e di Garlaschelli.
Devo cercare allora di dirle quali sono le mie convinzioni sulla Sindone, come cerco di esporle alla gente e come spero che coincidano, nella sostanza, con quelle che guidano la Chiesa nel proporre la Sindone alla venerazione dei credenti. A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazaret si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita.
Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescientifica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).
Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente dalla consistenza della sua natura (la scritta «senso unico» ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno.
Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù. Mi viene sempre spontaneo esemplificare con una mia vicenda personale. In una visita a mia mamma, una volta lei mi venne incontro con una sua fotografia, bella grande e ben incorniciata. Alla mia reazione di sorpresa lei rispose: «Ti servirà dopo». Il «dopo» arrivò presto, perché il Signore me la venne a prendere all’improvviso dopo pochi mesi. Cercando tra le sue cose, trovai una foto di gruppo dove il suo volto era ben visibile e molto naturale; chiesi al fotografo di evidenziarla e ottenni così una seconda fotografia, forse addirittura più naturale della prima. Delle due certamente mi è più cara la prima, che ha avuto un rapporto assai più diretto con lei; eppure tutte e due mi rimandano con molta fedeltà a lei, e tutte e due non sono lei, ma solo dei segni. Così è per la Sindone: non so con sicurezza se appartiene alla categoria della prima (come spero e mi sembra probabile) o della seconda fotografia, ma comunque mi rimanda con particolare forza a Gesù, e comunque non è Gesù.
Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri. Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dall’insegnamento del papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.
So che ora si aprono due argomenti enormi: quello appunto del messaggio e quello della discussione scientifica sui problemi della sindonologia. Vorrei però arrestarmi su quanto detto fin qui, perché mi sembra indispensabile per qualunque prosecuzione del discorso.

Giuseppe Ghiberti


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Caro don Ghiberti,

grazie per la sua risposta, e per il suo amichevole ricordo delle nostre comuni origini. Devo però dirle che lei non mi sembra affrontare per niente le obiezioni che ho sollevato.
Il suo atteggiamento nei confronti della Sindone è abbastanza tipico dei credenti coi quali ho, a varie riprese, discusso l’argomento. Se posso riassumerlo, mi sembra che consista, da un lato, nell’accantonare le critiche fattuali che vengono opposte al reperto, in quanto «non conclusive» e incapaci di spiegare le modalità della sua esecuzione. E, dall’altro lato, nel rivendicare comunque alla Sindone un valore di «segno» che punta alle vicende narrate dai vangeli.
Per quanto riguarda l’aspetto fattuale, lei dice che le «interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù». A me invece interesserebbe molto sapere in che modo questo sarebbe mai possibile! Mi sembra infatti ovvio che si possa falsificare la Sindone, ad esempio mediante la datazione al radiocarbonio. Anzi, non solo si può, ma è appunto già stato fatto, benché molti si rifiutino di accettare l’unanime responso dei tre laboratori indipendenti, accampando ogni genere di scuse per vanificarlo.
Ma mi sembra altrettanto ovvio che non sia invece possibile autenticare la Sindone. Anche una sua datazione agli inizi della nostra era, infatti, non significherebbe certo che essa ha avvolto il corpo di Gesù, ma solo che è che coeva agli avvenimenti narrati dai vangeli! Per questo i tentativi di retrodatazione sono inutili, anche se capisco che renderebbero un po’ meno anacronistica e imbarazzante la venerazione della reliquia.
Mi permetto comunque di far notare che i fedeli rifiutano la radiodatazione solo quando non si accorda coi loro desideri, come nel caso in questione. Non contestano invece il metodo quand’esso dà un responso «favorevole», come nel caso dei resti recentemente ritrovati sotto la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Infatti, da quella datazione a duemila anni fa Benedetto XVI ha immediatamente e solennemente dedotto l’autenticità delle reliquie dell’Apostolo delle Genti, compiendo un errore logico soprendente per un papa che si suppone «filosofo»!
Per finire con l’aspetto fattuale, non mi sembrano poi rilevanti le obiezioni alle critiche basate sull’osservazione che non è ancora stato soddisfacentemente spiegato come sia stata confezionata la reliquia. Nessuno lo nega, e anch’io non sono particolarmente impressionato dalle riproduzioni di Pesce Delfino o Garlaschelli. Ma si tratta di due aspetti completamente diversi e indipendenti: un conto è smascherare un falsario, un altro riuscire a emularlo! E una bufala che non si sa riprodurre, rimane pur sempre e comunque una bufala.
Passando all’aspetto simbolico della Sindone, capisco benissimo l’atteggiamento dei fedeli che credono alle narrazioni dei vangeli, e ritrovano nell’una e negli altri una vicendevole conferma. D’altronde, persino Giovanni Paolo II ha esclamato, dopo aver visto il polpettone di Mel Gibson sulla passione di Cristo: «È andata proprio così». Come se lui avesse potuto sapere com’erano andate le cose! E come se non fosse invece vero, semplicemente, che il film si era basato sulle narrazioni evangeliche. Lo stesso si può supporre anche per la Sindone, che come testimonianza storica vale tanto quanto il film di Gibson.
A proposito di vangeli, devo però confessare che, come non credente, ho su di loro dubbi ancora più radicali che sulla Sindone: non credo affatto che essi siano libri di storia, che riportano fatti veramente accaduti, e li considero piuttosto come testi letterari, che narrano storie inventate, né più né meno di un romanzo. D’altronde, immagino anche lei consideri allo stesso modo i testi sacri delle religioni diverse dalla sua: a meno che non creda, ad esempio, che le favole sul bambino Krishna sono vere tanto quanto quelle del bambino Gesù.
Per me, dunque, il problema di sapere se la Sindone abbia o no avvolto il cadavere di Gesù non si pone nemmeno. È il circo mediatico dell’ostensione, che mi dà fastidio. Non tanto, o non solo, perché considero la Sindone un falso. Ma anche, e soprattutto, perché essa costituisce uno dei tanti tasselli di un mosaico di superstizioni rudimentali e credulità popolari che la Chiesa cavalca, e che si compone di apparizioni e pianti della Madonna, di sangue di san Gennaro, di miracoli di Padre Pio e via dicendo.
Lei dice che, nel caso dell’ostensione, «il tono apologetico è stato evitato il più possibile», e che la visita di Giovanni Paolo II nel 1998 ha confermato questa impostazione. A me sembra esattamente il contrario: semmai, era la Chiesa del Trecento che evitava i toni apologetici, e che per bocca del vescovo di Troyes e di Clemente VII avvertiva esplicitamente i fedeli che la «reliquia» era un artefatto!
Oggi, sette secoli dopo, siamo costretti a rimpiangere il Medioevo, e a sentire il cardinal Poletto affermare che la Sindone è «probabilmente autentica». Io, di autentico, ci vedo soltanto il business: un business che è stato finanziato con quattro milioni di euro da due amministrazioni piemontesi (regionale e comunale) sedicenti «di sinistra», e con altri sei milioni di euro dalle locali fondazioni bancarie, le une e le altre sottoposte a un esplicito pressing da parte del cardinale.
Comunque sia, l’ostensione è ormai cominciata. Ed è cominciata nel peggiore dei modi: con la sfilata dei vip, dai politici locali agli industriali della Fiat, che hanno beneficiato di una giornata di ostensione privata per evitare di fare la coda e mescolarsi al popolo che governano e sfruttano. In queste occasioni, effettivamente mi piacerebbe avere la fede, per poter credere che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che uno di quei ricchi entri nel Regno dei Cieli».
Ma, se la fede non ce l’ho, è anche perché sono troppo abituato a vedere il cardinale ricevere quegli stessi potenti e ricchi sul sagrato del duomo, nell’attesa di essere sostituito nelle cerimonie da un papa ben più potente e ricco di loro. Un papa che farebbe meglio a dedicare un po’ meno attenzione a un falso lenzuolo di ieri, e un po’ di più ai veri scandali del clero di oggi. In fondo, non è stato proprio quello che lui crede essere l’uomo della Sindone, a dire che a coloro che danno scandalo ai bambini bisogna appendere una macina da mulino al collo e buttarli a mare?

Piergiorgio Odifreddi

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Caro professor Odifreddi,
la redazione di MicroMega mi dice che i tempi per la pubblicazione sono ristrettissimi e perciò mi devo accontentare di pochi cenni di risposta. Spero che questo non arresti il dialogo.
Non ho intenzione di accantonare le «critiche fattuali» opposte al reperto; soltanto le relativizzo per la funzione che rivestono nei confronti del nostro oggetto.
Inizio da un’osservazione marginale, per sgombrare il campo da un’obiezione che non mi sembra determinante: quello che è stato detto sull’attendibilità del referto radiocarbonista riguardante le ossa di san Paolo mi lascia abbastanza indifferente; ne prendo atto, ma nella consapevolezza della sua esile consistenza. Vedremo quel che diranno gli sviluppi futuri della verifica del metodo della datazione con il C14.
Sono d’accordo con lei che se le analisi del C14 nel 1988 avessero concluso per una datazione di epoca romana, non ne sarebbe derivata la certezza che quel lenzuolo abbia avvolto il corpo di Gesù deposto dalla croce; si avrebbe solo un indizio di possibilità da cui partire per la valutazione degli altri indizi.
Non riesco a seguirla nell’attribuzione della qualifica di bufala al reperto sindonico. Se per ora non sappiamo come si sia formata l’immagine sindonica, che cosa ci permette di dire che è opera di un falsario? Che cosa ha permesso di «smascherarlo»? Sarà forse perché comunque ho già deciso che quel reperto può solo avere quell’origine? A me sembra che questo fatto, senza portarmi a conclusioni precipitate, mi suggerisca un atteggiamento di disponibilità di fronte a conclusioni non scontate in partenza.
Passando a quello che lei chiama l’«aspetto simbolico» della Sindone, mi sembra che sia da impostare diversamente il discorso sull’attendibilità storica dei vangeli. L’attendibilità storica della crocifissione di Gesù non è messa in dubbio da nessuno, oggi, e la fonte principale di notizie su quell’evento è offerta dai vangeli. Si potrà discutere sull’intenzionalità storiografica di certi particolari, magari di certe scene, ma l’informazione globale è accettabile. Ora, nel nostro caso, constato due fatti: una descrizione letteraria della crocifissione e morte di Gesù e una descrizione per immagini dei particolari della tortura che ha portato a morte l’uomo della Sindone. Dal loro confronto nasce un’ulteriore costatazione: che i due racconti si corrispondono in una misura eccezionalmente fedele. Questa constatazione suscita quella reazione di interesse, che può assumere forme diverse a seconda del rapporto che l’osservatore ha nei confronti della persona di cui parlano i vangeli. Poi lui cercherà di seguire la pista, da una parte, della riflessione personale sulla sua vita e, dall’altra parte, della ricerca scientifica, unica competente per rispondere alle domande sulla datazione del reperto e sull’origine e modalità di formazione dell’immagine. Ma intanto la funzione di segno ha iniziato a operare, nel modo più legittimo.
Quanto al Medioevo da rimpiangere, forse ha ragione, per tanti motivi, non certo però per le affermazioni usate dal vescovo Pierre d’Arcy nel definire la Sindone, di cui aveva una conoscenza del tutto fantasiosa. Fra gli studi recenti in proposito sono determinanti quelli di Gian Maria Zaccone.
La responsabilità della definizione del business la lascio a lei. Le faccio solo osservare che nelle cifre è stato un po’ troppo… generoso: li avessimo avuto dieci milioni di euro! Ma a questo punto stiamo abbandonando il discorso vero e proprio della Sindone, per entrare nel comportamento della Chiesa. Alla fine lei dice che, «se la fede non ce l’ho, è anche perché…»: non so quanto questo «anche» incida in percentuale sulla decisione di fare la rinuncia alla fede, ma comunque è sempre una cosa dolorosa, di cui non finiremo mai di chiedere scusa.
Sono lieto per avere avuto questo piccolo scambio di opinioni. Lo concludo, in qualità di collega più anziano, con un cordiale augurio al collega più giovane.

Giuseppe Ghiberti

http://temi.repubblica.it/micromega-online/diavolo-e-acqua-santa-a-confronto-sulla-sindone-dialogo-tra-piergiordo-odifreddi-e-mons-giuseppe-ghiberti/
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