Danimarca e cristianesimo. Il ministro della Cultura ha reso pubblico il contratto di governo fino al 2023, spiegando che le emittenti statali dovranno sottolineare il valore fondante del cristianesimo per la società e la democrazia. Una scelta dovuta di fronte al secolarismo radicale che ha lacerato la società.
Da diversi anni giungono notizie che a Copenaghen gli ex terroristi islamici trovano aiuto, studi pagati e offerte di lavoro salvo poi, due anni dopo, apprendere che gli stessi hanno ringraziato prendendo di mira i locali pubblici, chiedendo loro il pizzo.
E poi ancora: gare pubbliche di auto-erotismo, abolizione del divieto di sesso con animali, aborto selettivo ai bambini con Sindrome di Down, guerra al Natale e alle feste cristiane, inverno demografico ecc. Insomma, quello che si dice un perfetto Paese progressista.
Questa premessa rende ancor più sorprendente la notizia che il Ministero della Cultura danese ha preso una decisione in forte contro-tendenza. Il 18 settembre scorso, in diretta su Danish Radio, ha infatti descritto quale sarà l’impegno del governo per il 2019-2023, annunciando che le emittenti pubbliche dovranno rafforzare il patrimonio culturale nativo della Danimarca e sottolineare il ruolo fondante del cristianesimo nella società danese. Radio e televisioni statali, quindi, avranno il compito di sottolineare che la società danese si basa sui principi della democrazia, che hanno le loro radici nel cristianesimo.
Ecco le parole del ministro Mette Bock: i media danesi «dovranno rafforzare la propria offerta per quanto riguarda i valori culturali, democratici e storici nella società danese, compresa una chiara diffusione della cultura danese e del patrimonio culturale danese. Dev’essere chiaro nei programmi e nelle piattaforme statali che la nostra società è radicata nel cristianesimo».
Di fronte ad una secolarizzazione pronunciata, un secolarismo radicale, un femminismo estremo, ed il conseguente lassismo dei valori sociali, sembra dunque che il governo cerchi di correre ai ripari, riscoprendo le proprie radici. La frase “kristne kulturarv”, traducibile come “eredità cristiana”, è ripetuta ben cinque volte nel contratto di governo, assieme a iniziative civiche come la conservazione della cultura e l’educazione pubblica.
In Danimarca dunque ci si vorrebbe ora difendere da una deriva che loro stessi hanno entusiasticamente abbracciato, volendo ricorrere all’eredità cristiana per contrastare il progressivismo distruttivo e l’islamizzazione della società che sta erodendo il carattere distintivo danese. Questa preoccupazione si riflette in gran parte dell’Europa, un continente che un tempo era ritenuto irreversibilmente laico e che ora, invece, pare voler riscoprire la cultura cristiana per mantenere l’unità nazionale e la stabilità sociale.
Siamo certamente favorevoli a questa ripresa culturale del cristianesimo ma, ben sappiamo, che una cristianità proclamata ma non vissuta ha poca credibilità ed è priva di quella vitalità e di quella novità che riesce a penetrare il radicato scetticismo. Proclamare un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo è proprio l’errore di molti conservatori attuali, che non sentono l’esigenza di convertire profondamente loro stessi all’eredità cristiana che tuttavia vorrebbero presente e viva nei loro Paesi. Per questo Giovanni Paolo II chiedeva il percorso inverso: è dalla fede che deve nascere la cultura, perché -disse- «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, aprile 1985).