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CANTICO SPIRITUALE (s.Giovanni della Croce)

Ultimo Aggiornamento: 02/08/2013 18:38
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02/08/2013 18:27
 
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SPIEGAZIONE DELLE DUE STROFE
3. Come nell’arca di Noè, stando a quanto narra la sacra Scrittura, c’erano molti scomparti, data la grande varietà di animali, e tutte le specie di cibo che si poteva mangiare (Gn 6,14-21), così l’anima, nel suo volo verso l’arca, cioè il petto di Dio, vede le molte dimore della casa del Padre, indicate dal Signore per bocca di san Giovanni (Gv 14,2). Non solo, ma essa vede e conosce lì tutti i diversi cibi, cioè tutte le grandezze che può gustare e che sono elencate nelle due strofe riferite sopra secondo un linguaggio comune. Sostanzialmente sono le seguenti.
4. In quest’unione divina l’anima vede e gusta un’abbondanza di ricchezze inestimabili; vi trova tutto il riposo e il sollievo che desidera; comprende segreti e straordinarie conoscenze di Dio, e questo è per lei uno dei cibi che assapora più di altri. Sente in Dio un tremendo potere e una terribile forza, superiori a qualsiasi altro potere o forza, e vi gusta una meravigliosa dolcezza e delizia spirituale. Qui ritrova il vero riposo e la luce divina. Gode profondamente della sapienza di Dio che risplende nell’armonia delle creature e nelle opere del Creatore. Si sente colma di beni, lontana e libera dal male e soprattutto comprende e gode l’inestimabile ristoro d’amore, che la conferma nell’amore. Questo sostanzialmente è il contenuto delle due strofe riportate sopra.
5. La sposa dice che il suo Amato è tutte queste cose in se stesso e per lei. Difatti, ciò che Dio suole comunicare in simili rapimenti fa conoscere all’anima la verità di quel detto di san Francesco: «Mio Dio e mio tutto!». Ora, poiché Dio è tutto per l’anima e il bene di tutte le cose, spiegherò come egli si comunichi in questi trasporti straordinari, applicando per similitudine la bontà delle creature menzionate nelle suddette strofe, delle quali illustrerò verso dopo verso. Resta inteso che le perfezioni di cui parlerò sono presenti in Dio in forma infinitamente eminente o, per meglio dire, ognuna di queste grandezze di cui si parla è Dio e tutte insieme sono Dio. Poiché l’anima in questo stato si unisce a Dio, sente che tutte le cose sono Dio, come percepì san Giovanni quando disse: Quod factum est, in ipso et vita erat, ossia: Ciò che fu fatto, in lui era vita (Gv 1,3.4). questa sensazione dell’anima non significa, però, che essa veda le cose nella luce della gloria ovvero le creature in Dio, ma che in quel possesso sente che Dio è per lei tutte le cose. Allo stesso modo, poiché l’anima sente di Dio, in modo sublime, ciò che sto dicendo, non si deve concludere che lo veda essenzialmente e chiaramente. Si tratta solo d’una intensa e sovrabbondante conoscenza di Dio, penombra di ciò che egli è in sé. L’anima sente allora la bontà racchiusa nelle creature tutte, come spiegherò nei versi che seguono: L’Amato le montagne.
6. Le montagne sono alte, immense, spaziose, belle, graziose, cosparse di fiori e profumate. Queste montagne per me sono il mio Amato. Le boschive valli solitarie.
7. Le valli solitarie sono quiete, amene, fresche, ombrose, ricche di acque dissetanti. La varietà dei boschi e il dolce canto degli uccelli provocano grande distensione e godimento ai sensi; la solitudine e il silenzio che vi regnano offrono refrigerio e riposo. Queste valli sono per me il mio Amato. Le isole inesplorate.
8. Le isole inesplorate, e perciò misteriose, sono circondate dal mare e sperdute negli oceani lontani, del tutto fuori mano e distanti dalle comunicazioni degli uomini. In esse nascono e crescono cose molto diverse da quelle delle nostre regioni, con forme strane e proprietà mai viste dagli uomini: suscitano grande sorpresa e ammirazione in chi le vede. A motivo, quindi, delle profonde, meravigliose, nuove e sorprendenti conoscenze, diverse da quelle comuni, che l’anima ritrova in Dio, lo paragona alle isole inesplorate. Inesplorata o misteriosa si dice, infatti, di una persona per due motivi: o perché è lontana, non «alla mano» delle altre persone, o perché è al di sopra di esse per l’eccellenza e la perfezione dei suoi atti e delle sue opere. Per questi due motivi qui l’anima dice che Dio è inesplorato: non solo perché è tutta la bellezza rara delle isole mai viste, ma anche perché le sue vie, i suoi consigli e le sue opere sono eccezionalmente straordinari, insoliti e ammirevoli per gli uomini. Non stupisce che Dio sia inesplorato per gli uomini, che non l’hanno mai visto, perché lo è anche per gli angeli e per le anime che lo contemplano. Difatti gli uni e le altre non possono e non potranno mai vederlo nella sua totalità. Fino all’ultimo giorno del giudizio scopriranno in lui, nella profondità dei suoi disegni e nelle opere della sua misericordia e giustizia, tante novità, che riusciranno sempre nuove e meravigliose per loro. Ecco perché non solo gli uomini ma anche gli angeli possono chiamarlo isola inesplorata. Solo per se stesso non è inesplorato e nemmeno nuovo. I fiumi gorgoglianti.
9. I fiumi hanno tre caratteristiche: anzitutto, inondando e sommergono tutto ciò che incontrano; in secondo luogo, riempiono tutte le cavità e le zone basse che trovano; infine, fanno un tale fragore da dominare e coprire qualsiasi altro rumore. Ora, poiché l’anima nella conoscenza di Dio percepisce in lui, con molta soavità, queste tre caratteristiche, dice che il suo Amato è i fiumi gorgoglianti. Quanto alla prima proprietà, di cui l’anima gode, ricordo che essa si sente investire dal torrente dello spirito di Dio, che s’impadronisce di lei con tanta forza da sembrarle di essere sommersa da tutti i fiumi del mondo. Sente allora che tutte le azioni e le passioni in cui prima si trovava sono come annegate. Ciò nonostante, la veemenza del torrente non è causa di sofferenza, perché questi sono fiumi di pace, come Dio stesso dà a intendere nelle parole di Isaia a proposito di questa inondazione nell’anima: Ecce ego declinabo super eam quasi fluvium pacis, et quasi torrentem inundantem gloriam: Ecco io farò scorrere verso di lei come un fiume di pace, come un torrente che ridonda gloria (Is 66,12). Questa inondazione di Dio nell’anima, come fiumi gorgoglianti, la colma tutta di pace e di gloria. La seconda proprietà, di cui l’anima gode, è che l’acqua divina in questo momento riempie i bassifondi della sua umiltà e colma i vuoti dei suoi desideri, come dice san Luca: Exaltavit humiles, esurientes implevit bonis: Ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati(Lc 1,52-53). La terza proprietà, che l’anima sente quando è sommersa da questi fiumi gorgoglianti del suo Amato, consiste in un rumore o voce spirituale che è superiore a qualsiasi altro suono o voce. La voce dell’Amato copre ogni altra voce e domina ogni altro suono del mondo. Per spiegare come avvenga questo, bisogna soffermarsi un po’.
10. Questa voce e questo suono rimbombante dei fiumi, di cui parla l’anima, sono una pienezza così abbondante di beni, una forza tanto vigorosa che s’impadroniscono di lei, da sembrarle non solo fragore di fiumi, ma piuttosto rombo di tuoni. Questa voce, però, è una voce spirituale, quindi non comporta rumori materiali né causa sofferenza o molestia. Indica, invece, la maestà, la forza, la potenza, la delizia e la gloria. È come una voce e un immenso suono interiore che rivestono l’anima di potenza e di forza. Tale è la voce spirituale, tale è il suono che echeggiò nello spirito degli apostoli quando lo Spirito Santo discese su di loro come un torrente impetuoso, come si narra nel libro degli Atti. Per far comprendere la voce spirituale che faceva loro sentire interiormente, egli produsse all’esterno quel rumore di forte vento (At 2,2), tale da essere udito da tutti quelli che si trovavano in Gerusalemme. Grazie ad esso, come dicevo, si capiva quello che gli apostoli ricevevano interiormente, cioè una pienezza di potenza e di forza. Anche quando il Signore Gesù pregava il Padre, come riferisce san Giovanni, nell’angoscia e nella sofferenza cagionategli dai suoi nemici, udì interiormente una voce dal cielo che lo rafforzava nella sua umanità. Il rumore percepito esteriormente dai giudei era così forte e veemente che alcuni dicevano che era stato un tuono. Altri dicevano: «Gli ha parlato un angelo» (Gv 12,29) dal cielo. In realtà quella voce udita esternamente significava la forza e il potere conferiti interiormente all’umanità di Cristo. Non per questo si deve concludere che l’anima non percepisca nell’intimo il suono della voce spirituale. Anzi si deve notare che la voce spirituale è l’effetto prodotto nell’anima, come la voce materiale percepita dall’udito indica ciò che significa allo spirito. Ciò è quanto intendeva dire Davide con le parole: Ecce dabit voci suae vocem virtutis, che significa: Ecco, tuona con voce potente(Sal 67, 34). Questa potenza è la voce interiore. Davide dice: Tuona con voce potente, cioè: alla voce che tuona all’esterno Dio darà voce di potenza che si senta interiormente. Dio, quindi, è potenza infinita e, quando si comunica all’anima nel modo che ho riferito, produce in essa l’effetto di una voce la cui potenza è immensa.
11. San Giovanni nell’Apocalisse udì questa voce. Dice che la voce venuta dal cielo erat tamquam vocem aquarum multarum et tamquam vocem tonitrui magni: La voce che udì era come la voce di molte acque e come voce di un forte tuono (Ap 14,2). E per evitare l’impressione che una voce così forte fosse penosa perché aspra, aggiunge subito che quella voce era talmente soave che erat sicut citharoedorum citharizantium in citharis suis: la voce che udì era come quella di suonatori d’arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Ezechiele, dal canto suo, dice che questo suono come di molte acque erat quasi sonum sublimis Dei, come il tuono dell’Onnipotente(Ez 1,24). Questo vuol dire che quella voce infinita gli si comunicava in modo sublime e con infinita dolcezza. Questa voce è infinita, perché, come sto dicendo, è Dio stesso che si comunica facendosi voce nell’anima. Ma adattando la sua potenza a ciascun’anima, si fa sentire con delizie inesprimibili e una sovrana grandezza. Per questo la sposa del Cantico dice: Sonet vox tua in auribus meis, vox enim tua dulcis: Fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave (Ct 2,14). Si commenta il verso: il sibilo dei venti innamorati.
12. In questo verso l’anima richiama l’attenzione su due cose: il sibilo e i venti. Per venti innamorati qui s’intendono le virtù e le grazie dell’Amato, le quali, in seguito all’unione con lo Sposo, investono l’anima comunicandole un amore profondo nelle fibre recondite della sua sostanza. Il sibilo di questi venti rappresenta l’altissima e soavissima conoscenza di Dio e delle sue virtù, che ridonda nell’intelletto, in seguito al tocco che queste virtù divine suscitano nella sostanza dell’anima. Questo è il diletto più elevato fra tutti quelli che l’anima possa gustare in questo stato.
13. Per meglio comprendere quanto detto, si ricordi che come nel vento si sentono due cose, cioè il tocco e il sibilo o suono, così anche in questa comunicazione dello Sposo si avvertono due cose, cioè una sensazione di piacere e la conoscenza delle delizie spirituali. Come il tocco del vento è percepito dal tatto e il suo sibilo dall’udito, così anche il tocco delle virtù dell’Amato si sente e si gode nel tatto dell’anima, cioè nella sua stessa sostanza; quanto alla conoscenza delle virtù di Dio, essa è percepita dall’udito dell’anima, cioè dall’intelletto. Spirano veramente i venti innamorati quando accarezzano soavemente, soddisfacendo il desiderio di tale refrigerio, perché il tatto prova allora piacere e sollievo. Assieme al tatto anche l’udito riceve un senso d’intensa delizia al suono o sibilo del vento, molto più che il tatto dal tocco del vento. Difatti il senso dell’udito è più spirituale, o meglio si avvicina di più a ciò che è spirituale, quindi il piacere che procura è più spirituale di quello causato dal tatto.
14. L’anima – poiché questo tocco divino le procura una profonda soddisfazione, colma di delizie la sua sostanza, appaga con soavità il desiderio di pervenire all’unione divina – chiama tale unione o tocchi venti innamorati. Difatti in quest’unione le vengono comunicate, molto amorosamente e dolcemente, le perfezioni dell’Amato, e ciò provoca nell’intelletto il soffio della comprensione. E lo chiama sibilo, soffio, perché come il soffio causato dal vento penetra acutamente nell’interno dell’orecchio, così questa sottilissima e delicata conoscenza penetra nell’intimo della sostanza con un diletto e una soavità straordinari, superiori a ogni altro piacere. Il motivo sta nel fatto che viene comunicato all’anima una sostanza già tutta compresa e libera da ogni accidente e fantasma; viene comunicata all’intelletto che i filosofi chiamano passivo o possibile, perché la riceve passivamente, senza far nulla da parte sua. Ciò costituisce la più grande gioia per l’anima, perché avviene nell’intelletto, sede della fruizione, come dicono i teologi, che consiste nel vedere Dio. Poiché questo sibilo rappresenta detta conoscenza, ricevuta nella sostanza dell’anima, alcuni teologi pensano che il nostro padre Elia abbia visto Dio nel mormorio di vento leggero sentito all’imboccatura della grotta sul monte (1Re 19,12). La Scrittura lo chiama mormorio di vento leggero perché dalla sottile e delicata comunicazione dello spirito il suo intelletto ricevette tale conoscenza. Qui l’anima lo chiama sibilo di venti innamorati, perché dall’amorosa comunicazione delle virtù del suo Amato si riversa nel suo intelletto; per questo, lo chiama sibilo di venti innamorati.
15. Questo soffio divino che entra attraverso l’udito dell’anima non solo è sostanza, come ho detto, tutta compresa, ma anche svelamento di verità sulla Divinità o rivelazione dei suoi segreti più reconditi. Infatti, ordinariamente, tutte le volte che nella sacra Scrittura si parla di qualche comunicazione di Dio, che passa attraverso l’udito, si tratta di manifestazione di queste verità nude all’intelletto o rivelazione di segreti di Dio; rivelazioni o visioni puramente spirituali, che vengono date esclusivamente all’anima senza il concorso e l’aiuto dei sensi. Ecco perché le conoscenze che Dio comunica all’anima attraverso l’udito interiore sono molto elevate e sicure. Per questo san Paolo, volendo farci comprendere la sublimità della sua rivelazione, non disse: Vidit arcana verba, e nemmeno: Gustavit arcana verba, ma: Audivit arcana verba, quae non licet homini loqui, cioè: Udì parole segrete che non è lecito all’uomo proferire (2Cor 12,4). Da questo si può arguire che anche lui, come il nostro padre Elia, abbia visto Dio nel soffio del vento. Perché come la fede, insegna ancora san Paolo (Rm 10,17), ci giunge attraverso l’udito fisico, così pure quanto ci dice la fede, cioè la sostanza stessa della verità, ci giunge attraverso l’udito spirituale. Ce lo fa capire molto bene Giobbe, quando parlando con Dio dopo che gli si era rivelato, dice: Auditu auris audivi te, nunc autem oculus meus videt te: Io ti avevo udito con il mio orecchio, ma ora il mio occhio ti vede(Gb 42,5 Volg.). Queste parole mostrano chiaramente che udire Dio con l’udito dell’anima significa vederlo con l’occhio dell’intelletto passivo. Per questo non dice: ti udii con le mie orecchie, ma: con il mio orecchio; e neppure ti vedo con i miei occhi, ma: con il mio occhio, che è l’intelletto. Di conseguenza, questo udire dell’anima è la stessa cosa che vedere con l’intelletto.
16. Il fatto che l’anima riceva questa conoscenza sostanziale spoglia di ogni accidente, non significa che essa possieda la fruizione di Dio perfetta e chiara come in cielo. Anche se spoglia di accidenti, non per questo è chiara, ma oscura, perché è una contemplazione, e la contemplazione, in questa vita, come dice san Dionigi, è raggio di tenebra. Possiamo, quindi, dire che essa è un raggio o un’immagine di fruizione, in quanto è nell’intelletto, ove ha luogo la fruizione. Questa sostanza ricevuta pienamente, e che l’anima qui chiama sibilo, corrisponde agli occhi desiderati: quando l’Amato glieli fece vedere, non riuscendo a sopportarli con i suoi sensi, esclamò: Distoglili, Amato!
17. Mi sembra calzi molto a proposito riportare qui un’affermazione di Giobbe, che conferma in gran parte ciò che ho detto su questo rapimento e fidanzamento. Voglio citarla, anche se dovrò dilungarmi un po’, spiegandone le parti che riguardano il nostro argomento. Riporterò dapprima tutto il testo in latino, poi in lingua volgare. Fatto questo, spiegherò brevemente quanto attiene al nostro argomento. Riprenderò poi la spiegazione dei versi dell’altra strofa. Elifaz il temanita, nel libro di Giobbe, prende la parole e dice: Porro ad me dictum est verbum absconditum et quasi suscepit auris mea venas susurri eius. In horrore visionis nocturnae, quando solet sopor occupare homines, pavor tenuit me et tremor, et omnia ossa mea perterrita sunt: et cum spiritus, me praesente, transiret, inhorruerunt pili carnis meae: stetti quidam, cuius non agnoscebam vultum, imago coram oculis meis, et vocem quasi aurae lenis audivi. Tradotto significa: A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, terrore mi prese e spavento e tutte le ossa mi fece tremare; un vento mi passò sulla faccia e il pelo si rizzò sulla mia carne… Stava lì ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi… un sussurro… e una voce mi si fece sentire…(Gb 4,12-16). In questo passo è contenuto quasi tutto ciò che ho detto finora sul rapimento, partendo dalla strofa 13 che dice: Distoglili, Amato! Qui, infatti, Elifaz il temanita dice che gli fu recata furtiva una parola; essa indica quella conoscenza nascosta, offerta all’anima. Non potendone, però, sopportare la grandezza dice. Distoglili, Amato!
18. Affermare che l’orecchio ne percepì il lieve sussurro equivale a dire che l’intelletto riceve la conoscenza pura e sostanziale di cui si è parlato. Lieve qui indica la sostanza interiore, mentre sussurro la comunicazione e il tocco di attributi divini con cui viene offerta all’intelletto la suddetta conoscenza. Qui la chiama sussurro, perché la comunicazione è molto soave, come altrove l’anima la chiama venti innamorati, perché s’infonde con grande amore. Dice che fu una comunicazione furtiva, perché era un segreto del tutto estraneo all’uomo, dal punto di vista naturale, e quindi ricevette qualcosa che non era della sua natura. E così non gli era lecito ricevere tale segreto, come neppure a san Paolo era lecito rivelare il suo segreto. Per questo un altro profeta ripete due volte: Il mio segreto è per me (Is 24,16 Volg.). E quando dice: Nei fantasmi, tra visioni notturne, quando grava sugli uomini il sonno, lascia intendere il timore e il tremore che si producono naturalmente nell’anima quando riceve, nell’estasi, quella conoscenza di cui sopra, visto che la sua natura non può sopportare la comunicazione dello spirito di Dio. Qui il profeta parla del momento in cui gli uomini si apprestano a dormire e vengono di solito assaliti e spaventati da visioni che chiamano incubi e che si presentano tra il sonno e la veglia, quando sta per arrivare il sonno. Allo stesso modo, al momento di questo passaggio spirituale dal sonno dell’ignoranza alla veglia della conoscenza soprannaturale, cioè all’inizio del rapimento o dell’estasi, la visione spirituale che allora si presenta incute timore e spavento.
19. E aggiunge: Tutte le ossa mi fece tremare. Come se dicesse che si scossero e si staccarono dalle giunture, volendo significare il grande slogamento di ossa che si soffre in questi momenti, come ho accennato. Ne parla anche Daniele quando vide l’angelo: Domine, in visione tua dissolutae sunt compages meae: Signore mio, al vederti le mie giunture si sono slogate (Dn 10,16 Volg.). subito dopo Elifaz continua dicendo: Un vento mi passò sulla faccia – cioè quand’esso trasportò il mio spirito fuori dei suoi limiti e vie naturali per collocarlo nel rapimento – il pelo si rizzò sulla mia carne. In questo trasporto il corpo rimane gelido e irrigidito, come se fosse morto.
20. E prosegue: Stava là ritto uno di cui non riconobbi l’aspetto, un fantasma stava davanti ai miei occhi. Quello di cui parla era Dio che si comunicava nel modo suddetto. E dice che non riconobbe il suo aspetto, per far capire che in quella comunicazione e visione, anche se altissima, non si conoscono né si vedono il volto e l’essenza di Dio. Dice però che quest’immagine o fantasma era davanti ai suoi occhi, perché, come ho detto, l’intelligenza di parole segrete era molto profonda, quale immagine e riflesso di Dio; ma questo non era vedere Dio nella sua essenza.
21. Infine conclude in questi termini: Un sussurro e una voce mi si fece sentire, in cui si riconosce il sibilo dei venti innamorati, che qui l’anima dice essere il suo Amato. Non dobbiamo pensare che queste visite generino sempre simili timori e sofferenze naturali. Come ho già detto, questo avviene solo per coloro che cominciano a entrare nello stato d’illuminazione e di perfezione e in questo genere di comunicazione, mentre negli altri avviene piuttosto con grande soavità. Continua la spiegazione: la quiete della notte.
22. In questo sonno spirituale che si gode sul petto dell’Amato, l’anima possiede e gusta tutta la tranquillità, il riposo e la quiete di una notte pacifica. Nello stesso tempo riceve una conoscenza estremamente profonda ma oscura di Dio. per questo dice che il suo Amato è per lei la quiete della notte vicina allo spuntar dell’aurora.
23. Questa quieta notte, dice, non è come la notte fonda, ma come la notte ormai vicina allo spuntar dell’aurora, cioè al sorgere del mattino. Questa tranquillità e questa quiete in Dio non sono, per l’anima, completamente buie, come la notte fonda, ma riposo e quiete nella luce divina, in una nuova conoscenza di Dio, in cui lo spirito gode di una dolcissima quiete, perché elevato alla luce divina. Giustamente qui chiama questa luce divina lo spuntar dell’aurora, cioè del mattino. Come il sorgere del mattino fuga le oscurità della notte e annuncia la luce del giorno, così questo spirito che gode della calma e della quiete in Dio viene elevato dalle tenebre della conoscenza naturale alla luce mattutina della conoscenza soprannaturale di Dio, non del tutto chiara, ma, come è stato detto, semioscura, simile allo spuntar dell’aurora. Difatti, come la notte vicina all’aurora non è del tutto notte né del tutto giorno, ma è, come si suol dire, tra due luci, così è per l’anima in questa solitudine e quiete che trova in Dio: non gode con tutta chiarezza della luce divina, ma ne partecipa in qualche modo.
24. In tale quiete l’intelletto si vede elevato, con sua grande sorpresa, al di sopra di ogni conoscenza naturale verso la luce divina. È simile a colui che, dopo un lungo sonno, apre gli occhi alla luce che non si aspettava. Di questa luce credo che intendesse parlare Davide quando diceva: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto: Mi svegliai, e divenni come un passero solitario sul tetto(Sal 101,8 Volg.). In altri termini: aprii gli occhi del mio intelletto e mi trovai al di sopra di tutte le conoscenze naturali, solitario, senza di esse, su un tetto, cioè al di sopra di tutte le cose di quaggiù. Il testo dice che è divenuto simile a un passero solitario, perché, nella contemplazione di cui si parla qui, lo spirito ha le stesse caratteristiche di quel passero, che sono cinque. Anzitutto, il passero abitualmente cerca i luoghi più alti. Così fa lo spirito in questo stato: si eleva fino ai più alti vertici della contemplazione. In secondo luogo, tiene sempre rivolto il becco verso la direzione donde viene il vento. Così fa lo spirito: volge il becco dell’affetto là donde gli viene lo spirito d’amore, che è Dio. In terzo luogo, il passero abitualmente se ne sta solo e non permette ad altri uccelli di avvicinarsi; anzi, se qualcuno gli si posa accanto, se ne va. Anche lo spirito, in questa contemplazione, si trova nella solitudine di tutte le cose, completamente spoglio, né consente in sé altra cosa che la solitudine. La quarta caratteristica del passero è quella di cantare in maniera molto dolce. Così pure fa lo spirito rivolto a Dio in questo stato: le lodi che innalza a Dio sono pregne di soavissimo amore, gustosissime per il medesimo spirito e molto preziose per Dio. La quinta caratteristica del passero è quella di non avere un colore ben definito. Anche lo spirito perfetto, in questo stato di estasi, non solo non nutre alcun affetto sensuale e amor proprio, ma rimane estraneo a qualsiasi riflessione su cose spirituali o terrene e non può parlare assolutamente di ciò che prova, perché, come ho detto, la conoscenza ch’egli possiede di Dio è tutta un abisso. Musica silenziosa.
25. Nella quiete e nel silenzio di questa notte, come anche nella conoscenza della luce divina, l’anima riesce alla fine a percepire le meravigliose convenienze e disposizioni della Sapienza, riflesse nella varietà di tutte le creature e di tutte le opere. Tutte e ciascuna, secondo la modalità propria, manifestano la loro dipendenza da Dio; ciascuna, a suo modo, canta ciò che Dio è in essa; così l’anima sembra udire l’armonia di una musica dolcissima, che trascende tutte le danze e le melodie del mondo. Dice che questa musica è silenziosa, perché è conoscenza serena e quieta, senza rumore di voci; in essa assapora la dolcezza della musica e la quiete del silenzio. E dice che il suo Amato è musica silenziosa, perché in lui conosce e gusta quest’armonia di musica spirituale. Non solo, ma la chiama anche solitudin sonora.
26. Questa è quasi come la musica silenziosa, perché quantunque quella musica sia silenziosa per i sensi e le facoltà naturali, è nondimeno solitudine sonora per le facoltà spirituali. Queste, infatti, essendo sole e vuote di tutte le forme e conoscenze naturali, possono ben ricevere il suo non spirituale che risuona in esse con tutta la sonorità per cantare quanto Dio è grande in sé e nelle sue creature, come aveva sentito san Giovanni nell’Apocalisse: La voce di suonatori d’arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe (Ap 14,2). Questo avveniva in spirito e non su arpe materiali. Si tratta di una conoscenza delle lodi che ciascun beato, secondo il suo grado di gloria, innalza incessantemente a Dio. Tutto questo è come una musica, perché, possedendo ciascuno doni diversi dagli altri, ognuno canta le proprie lodi in maniera diversa, ma formando tutti un’armonia d’amore, come avviene nei concerti.
27. Allo stesso modo, l’anima vede risplendere quella divina sapienza in tutte le creature, superiori e inferiori. Ognuna di esse, in base ai doni ricevuti da Dio, rende la sua testimonianza di ciò che Dio è, e ognuna a suo modo esalta Dio, secondo quanto la loro capacità permette di averlo in sé. E così tutte queste voci si fondono in un’unica voce che canta la grandezza di Dio, la sua sapienza e scienza straordinaria. Ciò è quanto volle dire lo Spirito Santo nel libro della Sapienza: Spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis: Lo spirito del Signore riempie l’universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce (Sap 1,7), cioè la solitudine sonora che, come dicevo, l’anima conosce in questo stato, e che è la testimonianza che tutte le creature danno a Dio. E poiché l’anima riceve questa musica sonora, nella solitudine e nel distacco da tutte le cose esteriori, la chiama musica silenziosa e solitudine sonora, dicendo che è il suo Amato. Egli è inoltre cena che ristora e innamora.
28. La cena per gli amanti è ricreazione, sazietà e amore. Poiché l’Amato produce questi tre effetti in questa comunicazione piena di soavità, l’anima la chiama qui cena che ristora e innamora. Occorre ricordare che nella sacra Scrittura il termine cena indica la visione divina. Difatti, come la cena è la conclusione del lavoro del giorno e inizio del riposo della notte, così questa conoscenza riposante, di cui ho parlato, fa sperimentare all’anima la fine certa dei suoi mali e il sicuro possesso dei beni; ragion per cui l’anima s’innamora di Dio ancora più di prima. Per questo l’Amato è per lei cena che ristora, mettendo fine ai suoi mali, e la fa innamorare, mettendola in possesso di tutti i beni.
29. Ma per meglio comprendere come sia per l’anima questa cena, che, come ho detto, è il suo Amato, si deve ricordare quello che lo stesso Sposo amato dice nell’Apocalisse, e cioè: Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me (Ap 3,20). È con se stesso – egli fa capire – che porta la cena, e questa non è altro che il suo stesso sapore e i diletti di cui egli stesso gode: unendosi all’anima glieli comunica e anch’essa ne gode. Questo vuol dire: Cenerò con lui ed egli con me. Con queste parole spiega l’effetto della meravigliosa unione dell’anima con Dio, nella quale i beni di Dio diventano anche beni della sposa, cui egli si comunica, ripeto, con immensa grazia e in abbondanza. Così egli stesso è per lei cena che ristora e innamora; la ristora con la sua abbondanza e la fa innamorare con la sua grazia.
AVVERTENZA
30. Prima di entrare nella spiegazione delle altre strofe è opportuno osservare che, sebbene abbia detto che in questo stato di fidanzamento l’anima gode di ogni tranquillità e che le viene comunicato il massimo che si possa avere in questa vita, tale tranquillità va intesa solo in riferimento alla parte superiore; la parte sensitiva, infatti, fino allo stato di matrimonio spirituale, non finisce mai di liberarsi dai suoi difetti nonché di assoggettare completamente le sue energie, come dirò più avanti. Quanto le viene dato è il massimo che possa essere comunicato nello stato di fidanzamento; nel matrimonio spirituale, invece, ci sono vantaggi ben superiori. Nel fidanzamento, anche se l’anima sposa in queste visite gode di molti beni, tuttavia soffre assenze, turbamenti e molestie provenienti dalla parte inferiore e dal demonio; tutto questo cessa nello stato di matrimonio.
Annotazione per la strofa seguente
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Stretta è la porta e angusta la Via che conduce alla Vita (Mt 7,14)
 
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