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CANTICO SPIRITUALE (s.Giovanni della Croce)

Ultimo Aggiornamento: 02/08/2013 18:38
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02/08/2013 18:25
 
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STROFA 7
E quanti intorno a te vagando,
di te infinite grazie raccontando,
ravvivan così le mie ferite,
e me spenta lascia non so cosa
ch’essi vanno appena balbettando.
SPIEGAZIONE
1. Nella strofa precedente l’anima ha mostrato di essere malata o ferita d’amore per lo Sposo a motivo di quanto di lui ha conosciuto attraverso le creature irrazionali. In questa strofa lascia intendere che è ferita d’amore a motivo di una conoscenza più alta che ha dell’Amato, per mezzo delle creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, che sono più nobili delle altre. Non dice soltanto questo, ma aggiunge anche che sta morendo d’amore a causa dell’immensità straordinaria che le si svela attraverso queste creature, senza riuscire a scoprirla del tutto; la chiama qui non so che, perché non sa dire cosa sia, ma è tale da farla morire d’amore.
2. Possiamo dedurre che in questo interscambio d’amore vi sono tre forme di sofferenza per l’Amato, a seconda delle tre forme di conoscenza che si possono avere di lui. La prima si chiama ferita. È la più superficiale e guarisce più in fretta, come una ferita, perché nasce dalla conoscenza che l’anima riceve dalle creature, appunto le opere inferiori di Dio. Di questa ferita, che si può anche chiamare malattia, ne parla la sposa del Cantico, quando dice: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis Dilectum meum ut nuntietis ei quia amore langueo: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio Diletto, ditegli che sono malata d’amore! (Ct 5,8). Per figlie di Gerusalemme intende le creature.
3. La seconda si chiama piaga: penetra nell’anima più della ferita e per questo dura di più, perché è come una ferita trasformata ormai in piaga, così che l’anima si sente veramente piagata d’amore. Questa piaga si forma nell’anima attraverso la conoscenza delle opere dell’incarnazione del Verbo e i misteri della fede. Sono queste le opere maggiori di Dio, le quali rispetto alle creature racchiudono in sé un amore più grande. Come tali producono nell’anima un effetto più profondo d’amore. La loro qualità è tale che, se la prima forma è come una ferita, questa seconda è come una piaga aperta, che dura a lungo. Parlando di essa, lo Sposo del Cantico dice all’anima: Tu mi hai piagato il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai piagato il cuore, con un solo tuo sguardo, con un solo capello del tuo collo! (Ct 4,9). Lo sguardo qui significa la fede nell’incarnazione dello Sposo e il capello l’amore per la stessa incarnazione.
4. La terza forma di sofferenza per amore è uguale al morire ed è come avere una piaga incancrenita nell’anima. Divenuta tutta una piaga purulenta, l’anima vive morendo fino a quando l’amore, uccidendola, la farà vivere della vita d’amore, trasformandola in amore. Questo morire d’amore avviene nell’anima mediante un tocco di somma conoscenza della Divinità, cioè quel non so cosa – di questa strofa – che vanno appena balbettando. Questo tocco non è continuo né intenso, perché altrimenti l’anima si separerebbe dal corpo, ma è brevissimo. In questo modo l’anima è sempre sul punto di morire, e tanto più muore quanto più si accorge di non morire d’amore. Questo si chiama amore impaziente. Se ne parla nella Genesi, dove la Scrittura dice che era tale il desiderio che Rachele aveva di concepire, da dire al suo sposo Giacobbe: Da mihi liberos, alioquin moriar: Dammi dei figli, se no io muoio! (Gn 6,8.9 Volg.).
5. Secondo la strofa, queste due forme di sofferenza d’amore, cioè la piaga e il morire, sono prodotte dalle creature razionali: la piaga, per il fatto che le vanno raccontando infinite grazie dell’Amato nei misteri e nella sapienza di Dio insegnati dalla fede; quanto al morire, esso è dovuto a ciò che, come riferisce la strofa, vanno appena balbettando, cioè il sentimento e la nozione della Divinità che alcune volte l’anima scopre in quello che sente raccontare di Dio. Dice allora: E quanti intorno a te vagando.
6. Con coloro che vagano qui intende, come ho detto, le creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, perché solo costoro fra tutte le creature si dedicano a Dio prestandogli attenzione; questo, infatti, vuol dire il termine vagano, che in latino sarebbe vacant. È come dire: tutti quanti attendono a Dio, gli uni contemplandolo in cielo e godendone, come gli angeli; gli altri amandolo e desiderandolo sulla terra, come gli uomini. Siccome attraverso queste creature razionali l’anima conosce più chiaramente Dio, sia considerandone la superiorità che esse hanno su tutte le cose create, sia per ciò che esse ci insegnano di Dio – gli angeli interiormente con ispirazioni segrete, gli uomini esteriormente per mezzo delle verità della Scrittura –, dice: di te infinite grazie raccontando.
7. Cioè: mi fanno capire cose stupende della tua grazia e della tua misericordia nell’opera della tua incarnazione e nelle verità di fede che mi parlano e mi riferiscono sempre più cose su di te, perché quanto più esse vorranno dirmi, tanto maggiori grazie potranno svelarmi di te. Ravvivan così le mie ferite.
8. Perché quanto più gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, tanto più mi fanno innamorare di te, e così tutti mi feriscono ancor più d’amore. e me spenta lascia non so cosa ch’essi vanno appena balbettando.
9. È come se dicesse: oltre al fatto che queste creature mi feriscono con le infinite grazie che di te mi fanno conoscere, rimane sempre un non so che, qualcosa che resta ancora da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso. È una sublime impronta di Dio che si svela all’anima, che dev’essere ancora indagata. È un’altissima conoscenza di Dio che non si sa esprimere e che l’anima chiama un non so che. Se ciò che comprendo mi piaga e mi ferisce d’amore, quello che non riesco a comprendere, ma che avverto in modo così sublime, mi uccide. Questo accade talvolta alle anime già progredite, che Dio favorisce concedendo loro, attraverso quello che sentono o vedono o intendono – a volte solo con l’una o con l’altra di queste percezioni –, una chiara conoscenza in cui fa comprendere e sentire la sua sublimità e grandezza. In tale esperienza l’anima sente Dio in modo tanto sublime da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere. Questo capire e sentire che la Divinità è talmente immensa da non poter essere compresa interamente, è una forma di conoscenza molto elevata. Uno dei grandi favori transitori che Dio concede in questa vita a un’anima è quello di farle comprendere e sentire Dio in modo tanto sublime che essa si rende chiaramente conto che non potrà mai comprenderlo o sentirlo del tutto. Questo, in un certo qual modo, è simile alla visione di Dio in cielo, dove quelli che più lo conoscono, comprendono più chiaramente l’infinito che devono ancora comprendere, mentre a quelli che lo vedono meno, non appare tanto distintamente – come a quelli che più lo vedono – ciò che resta loro da vedere.
10. Questo, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l’ha sperimentato. L’anima invece che lo sperimenta, vedendo quanto dista dal comprendere ciò che sente così intensamente, lo chiama un non so che, perché come non si comprende, così neppure si sa esprimere, anche se è possibile sentirlo. Per questo l’anima dice che le creature lo vanno appena balbettando, proprio perché non riescono a farlo comprendere. Balbettare – atto tipico dei bambini – significa infatti non riuscire a esprimere in modo comprensibile ciò che si ha da dire.
Annotazione per la strofa seguente
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