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SALITA DEL MONTE (S.Giovanni della Croce)

Ultimo Aggiornamento: 01/08/2013 19:19
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01/08/2013 19:10
 
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CAPITOLO 28
Ove si parla dei sette danni in cui può cadere la volontà quando ripone la gioia nei beni morali.
1. I danni principali che l’uomo può subire per la vana compiacenza nelle sue opere buone o nel suo comportamento sono sette e molto perniciosi, proprio perché spirituali. Di essi parlerò ora brevemente.
2. Il primo danno è la vanità, la superbia, la vanagloria e la presunzione. Difatti non ci si rallegra delle proprie azioni senza stimarle. Da qui nascono la millanteria e gli altri difetti di cui parla il vangelo a proposito del fariseo che pregava e ringraziava Dio, vantandosi di digiunare e di fare altre opere buone (Lc 18,12).
3. Il secondo danno normalmente è unito al precedente. Consiste nel giudicare gli altri cattivi e imperfetti in confronto a se stessi. Sembra che gli altri non agiscano e non si comportino così bene come noi; si ha poca stima di loro nel nostro cuore e talora la si esprime anche con le parole. Il fariseo della parabola aveva questo difetto, perché nelle sue preghiere diceva: O Dio, ti ringrazio che sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri (Lc 18,11). Con un sol gesto cadeva nei due difetti: sopravvalutava se stesso e disprezzava gli altri. È esattamente quanto al giorno d’oggi molta gente dice: «Non sono come Tizio, né agisco come Caio o Sempronio». Molte di queste persone sono peggiori del fariseo. Costui non solo disprezzava gli altri, ma in modo particolare ne disprezzava uno quando diceva: Non sono come questo pubblicano (ibid.). Le persone di cui stiamo parlando, invece, non si contentano di recitare l’una o l’altra parte. Addirittura si irritano e si lasciano prendere dall’invidia quando vedono che altri sono lodati, agiscono meglio o valgono più di loro.
4. Il terzo danno consiste in questo: poiché tali persone nelle opere cercano solo la loro soddisfazione, solitamente le compiono quando vedono che da esse può derivare piacere o lode, proprio come dice il Signore: fanno tutto ut videantur ab hominibus, per essere visti dagli uomini (Mt 23,5), non per il solo amore di Dio.
5. Il quarto danno deriva dal precedente. Consiste nella mancata ricompensa da parte di Dio, perché l’hanno voluta ricevere sin da questa vita: nella gioia, nelle consolazioni, negli onori o altri interessi che hanno cercato nelle loro opere. Per questo motivo il Salvatore dice che hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2). Così costoro rimangono soltanto con la fatica delle loro opere e confusi, senza ricompensa alcuna. Grande è la miseria che da questo danno si riversa sui figli degli uomini! Sono convinto che la maggior parte delle opere che fanno in pubblico sono viziate, inutili o imperfette agli occhi di Dio, perché non sono immuni da interessi e calcoli umani. Che giudizio si può emettere su coloro che compiono certe opere e innalzano monumenti commemorativi con il preciso intento di esternare in essi l’onore e la riconoscenza umana, frutto di una vita condotta nella vanità? Agiscono così per perpetuare in tali cose il loro nome, lignaggio o potere. Arrivano persino a lasciare i segni di questo potere, i loro nomi e blasoni nelle chiese, come se volessero mettersi a posto delle immagini in quei luoghi dove tutti piegano le ginocchia. In tutto questo non possiamo forse dire che alcune persone adorano più se stesse che Dio? Ed è proprio così, se compiono quelle opere unicamente per certi motivi, come ho detto. Ma lasciamo da parte questi casi, che sono i peggiori. Quante persone nei più svariati modi si attirano questo danno derivante dalle loro opere! Alcune, per esse, vogliono essere lodate, altre preferiscono la riconoscenza; altre, ancora, vogliono che si raccontino le loro opere e hanno piacere che le sappia Tizio e Caio e tutto il mondo; a volte fanno sì che le elemosine o altre opere buone passino attraverso terze persone, perché vengano conosciute; altri infine voglio tutte queste cose insieme. Ciò equivale a suonare la tromba, come dice il Signore nel vangelo; i vanitosi si comportano così, e per questo non riceveranno da Dio la ricompensa per le loro opere (Mt 6,2).
6. Per evitare un danno simile, essi devono nascondere le loro opere, affinché le veda solo Dio, non altri. Non soltanto devono nasconderle agli altri, ma anche a se stessi, cioè non devono compiacersene, né stimarle come se valessero qualcosa, né ricavarne la più piccola gioia. È in questo senso spirituale che va inteso quanto dice il Signore a tale proposito: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt 6,3), il che equivale a dire: non valutare con l’occhio terreno e carnale l’opera spirituale che fai. In questo modo la forza della volontà si concentra in Dio e l’opera che compie ha valore ai suoi occhi. Se non si agisce in questo modo, oltre a perdere il frutto delle buone opere, non se ne ricava alcun merito. In questo senso va interpretata quell’affermazione di Giobbe che dice: Se ho baciato la mia mano con la bocca, il che è iniquità e peccato grande, e il mio cuore si rallegrò segretamente (Gb 31,27-28 Volg.). Per «mano» Giobbe intende l’opera che si compie e per «bocca» la volontà che se ne compiace. Per esprimere la compiacenza in se stesso, Giobbe dice: Se si rallegrò in segreto il mio cuore, il che è iniquità grande e negazione di Dio (ibid.). È come se dicesse che non si compiacque né si rallegrò in segreto nel suo cuore.
7. Il quinto danno di queste persone consiste nel non fare progressi nel cammino della perfezione. Difatti si attaccano al gusto e alla consolazione derivanti dalle opere buone. Poiché nelle loro azioni e negli esercizi di pietà non trovano gusto e consolazione, come ordinariamente avviene quando Dio le vuol far progredire, ma dà loro il pane duro destinato ai perfetti e strappa loro il latte dei bambini, mette con ciò a prova le loro forze e purifica i loro desideri smodati ancora deboli. In breve, le vuole rendere capaci di gustare il cibo dei grandi. Ma esse il più delle volte si scoraggiano e non perseverano, poiché non trovano la suddetta dolcezza nelle loro buone opere. Al riguardo dobbiamo intendere spiritualmente quanto dice il Saggio: Le mosche morenti perdono la soavità dell’unguento (Qo 10,1 Volg.). Quando, infatti, si presenta a queste anime qualche mortificazione, non compiono più le loro buone opere, si scoraggiano e non gustano più la soavità e la consolazione interiore, racchiuse in queste opere.
8. Il sesto danno consiste nel fatto che tali anime generalmente s’ingannano quando giudicano le cose e le opere che piacciono a loro come migliori di quelle che non amano; lodano e stimano le une mentre disprezzano le altre. Al contrario, possiamo dire che in generale quelle opere nelle quali l’uomo si mortifica maggiormente, soprattutto quando non è avanzato nella perfezione, sono più accette e preziose agli occhi di Dio, a motivo dell’abnegazione di sé che l’uomo deve praticare in esse, che quelle in cui trova la sua consolazione, ove può più facilmente cercare se stesso. A questo proposito Michea dice: Malum manuum suarum dicunt bonum: Il male delle loro mani lo chiamano bene (Mic 7,3 Volg.). Questo deriva dal fatto che nelle loro azioni cercano la propria soddisfazione, non di piacere unicamente a Dio. Sarebbe lungo riferire in che misura questo danno è presente sia nelle persone spirituali che nella gente comune. A stento si può trovare qualcuno che si decide ad agire solo per Dio, senza mai attaccarsi a una consolazione, a una gioia o ad altri interessi del genere.
9. Il settimo danno consiste in questo: fin quando l’uomo non ha soffocato in sé la vana compiacenza proveniente dai beni d’ordine morale, si rifiuta sempre di ricevere buoni consigli e saggi suggerimenti sulle opere che dovrà compiere. Difatti questa fiacchezza che si riscontra nelle sue azioni, unita alla ricerca della vana compiacenza come suo bene proprio, l’incatena al punto di non ritenere migliore il consiglio degli altri o, anche se lo ritiene tale, di non volerlo seguire, non avendo in sé il coraggio di metterlo in pratica. Queste persone diventano molto deboli nell’amore per Dio e per il prossimo, perché l’amor proprio che nutrono per le loro opere li raffredda nella carità.
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Stretta è la porta e angusta la Via che conduce alla Vita (Mt 7,14)
 
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