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SALITA DEL MONTE (S.Giovanni della Croce)

Ultimo Aggiornamento: 01/08/2013 19:19
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01/08/2013 19:15
 
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CAPITOLO 39
Ove si parla di come ci si deve servire degli oratori e dei templi, considerandoli mezzi per elevare lo spirito a Dio.
1. Per elevare lo spirito a Dio attraverso gli oggetti di culto è opportuno ricordare che ai principianti è permesso, come del resto è anche utile, provare qualche gusto o piacere sensibile per le immagini, gli oratori e altri oggetti materiali di devozione. Essi, infatti, non hanno ancora perduto il gusto e non sono ancora distaccati dalle cose di questo mondo, così da poterlo sostituire con il gusto dell’altro. Si fa così anche con il bambino, per non farlo piangere: gli si toglie una cosa dalla mano dandogliene subito un’altra. La persona spirituale che vuole progredire deve ugualmente spogliarsi di tutti questi gusti e desideri smodati nei quali la volontà può trovare piacere. L’uomo veramente spirituale si attacca molto poco a tutti questi oggetti, perché è intento solo al raccoglimento interiore e alla conversazione intima con Dio. Se utilizza le immagini e gli oratori, lo fa solo di passaggio e subito fissa il suo spirito in Dio, dimenticando tutto ciò che è sensibile.
2. Pertanto, sebbene sia meglio pregare dove c’è maggior decoro, tuttavia, e malgrado ciò, va scelto il luogo dove i sensi siano meno attratti e lo spirito possa andare meglio a Dio. A questo proposito occorre qui ricordare quanto il Signore rispose alla samaritana, quando gli chiese quale fosse il posto migliore per pregare, se il tempio o il monte. Il Maestro le rispose che la vera preghiera non è legata né al monte né al tempio, ma che i veri adoratori graditi a Dio sono quelli che lo adorano in spirito e verità (Gv 4,23-24). Di conseguenza, se i templi e i luoghi appartati sono dedicati e adatti alla preghiera, perché il tempio non dev’essere usato per altri scopi, tuttavia, quando si tratta di una faccenda tanto intima come quella riguardante il rapporto con Dio, occorre scegliere il luogo che attira e cattura meno i sensi. Non dev’essere un luogo ameno e attraente per i sensi, come vogliono alcuni, perché, invece di raccogliersi in Dio, lo spirito si ferma nel diversivo piacevole e gustoso dei sensi. A tale scopo va bene un luogo solitario e impervio, dove lo spirito possa elevarsi sicuramente e direttamente a Dio, non impedito o trattenuto dalle cose visibili. Alcune volte queste aiutano lo spirito a elevarsi, ma solo quando vengono subito dimenticate per fissarsi in Dio. Per questo motivo il Signore di solito sceglieva luoghi appartati per pregare (Mt 14,23), e luoghi che non attraessero molto i sensi, per darci l’esempio. Preferiva luoghi che elevano l’anima a Dio, come i monti che si elevano da terra, generalmente brulli, senza possibilità di distrazione per i sensi (Lc 6,12).
3. La persona veramente spirituale, dunque, non si preoccupa se il luogo per pregare abbia un aspetto piuttosto che un altro, perché questo vorrebbe dire essere ancora legati ai sensi. Va in cerca solo del raccoglimento interiore, dimentica di tutte le altre cose, scegliendo quindi il luogo più spoglio di oggetti e di attrattive sensibili. Inoltre non presta attenzione alle cose esteriori, onde gustare meglio il suo Dio, lontana da tutte le creature. Desta meraviglia vedere persone spirituali che occupano tutto il loro tempo nell’adornare oratore e preparare angolini adatti al loro temperamento e alla loro inclinazione. Quanto, invece, al raccoglimento interiore, che è la cosa più importante, ne hanno molto poco e ne tengono poco conto; se l’avessero, non proverebbero soddisfazione, anzi si stancherebbero di tutti quegli ornamenti e decorazioni.
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01/08/2013 19:16
 
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CAPITOLO 40
Ove si continua a indirizzare lo spirito verso il raccoglimento interiore attraverso l’uso dei beni di cui si parla.
1. Il motivo per cui alcune persone spirituali non riescono mai ad entrare nella vera gioia dello spirito è perché non si decidono a staccarsi dal godimento che procurano le cose esteriori e visibili. Si ricordino che, se il luogo migliore e più adatto alla preghiera è il tempio o l’oratorio visibile, se l’immagine serve a questo scopo, non necessariamente si deve riservare il piacere e il godimento spirituale al tempio visibile o all’immagine, dimenticando di pregare nel tempio vivo, che è la parte più intima dell’anima. Questo è appunto quanto ci ricorda l’Apostolo quando dice: Non sapete che siete tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in voi? (1Cor 3,16). Questa riflessione ci riporta all’affermazione di Cristo, già citata: I veri adoratori devono adorare in spirito e verità (Gv 4,24). A Dio, infatti, interessano poco le tue preghiere e i tuoi luoghi ben adornati se, riponendo in queste cose il tuo piacere e la tua soddisfazione, non sei distaccato interiormente e non hai la povertà spirituale, la quale consiste nella rinuncia a tutte le cose che puoi possedere.
2. Per purificare la volontà dalla gioia e dalla vana soddisfazione che provi in queste cose e indirizzarla a Dio nella tua preghiera, devi fare in modo che la tua coscienza sia pura, la tua volontà sia rivolta interamente a Dio e la tua mente unicamente fissa in lui. Poi, come ho già detto, devi scegliere il luogo più appartato e solitario possibile per mettere tutta la gioia della volontà nel pregare e glorificare Dio. Quanto ai piccoli sentimenti di devozione, non farci caso, anzi cerca di respingerli. Se l’anima, infatti, si abitua al sapore della devozione sensibile, non riuscirà mai a possedere, attraverso il raccoglimento interiore, le forti dolcezze spirituali, che si trovano nella nudità dello spirito.
CAPITOLO 41
Ove si parla di alcuni danni ai quali si espongono coloro che si lasciano andare al gusto delle cose sensibili e dei luoghi di devozione di cui ho parlato.
1. Va incontro a molti inconvenienti, sia interiori che esteriori, la persona spirituale che corre dietro ai gusti sensibili per le cose suddette. Per quanto riguarda lo spazio interiore, l’anima non arriverà mai al raccoglimento dello spirito, che consiste nel fare a meno di tutti questi oggetti, dimenticare tutti i gusti sensibili, rifugiarsi nel suo intimo e acquisire virtù solide. Circa gli inconvenienti esteriori, risulta che non riesce a pregare in tutti i luoghi, ma solo in quelli di suo gusto, e così, molte volte, mancherà alla preghiera, perché, come si dice, sa leggere solo nel suo libro.
2. Oltre a ciò, tale attrazione per i gusti sensibili provoca nelle persone spirituali continui cambiamenti; appartengono a questa categoria di persone coloro che non sanno stare a lungo nello stesso posto e a volte non perseverano nella loro vocazione. Li vedrete oggi qua, domani là; ora scelgono un eremo, ora un altro; ora addobbano un oratorio, ora un altro. Vi sono anche di quelli che passano la vita a cambiare stato e modo di vivere. Conoscono solo quel fervore e quei gusti sensibili per le cose spirituali. Non si sono mai sforzati di arrivare al raccoglimento spirituale attraverso la rinuncia alla loro volontà e l’adattamento ai disagi. Ogni volta che vedono un luogo devoto di loro gradimento, o qualche forma di vita o stato che si addica al loro temperamento o inclinazione, vi corrono subito, abbandonando quello che prima avevano abbracciato. Ma poiché si lasciano muovere dall’attrazione sensibile, ben presto cercano qualcos’altro, perché l’attrazione sensibile non è costante, ma viene meno molto presto.
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01/08/2013 19:16
 
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CAPITOLO 42
Ove si parla di tre diversi luoghi di devozione e come deve comportarsi la volontà nei loro riguardi.
1. Credo che ci siano tre diversi tipi di luoghi per mezzo dei quali Dio è solito indurre la volontà alla devozione. Il primo tipo è caratterizzato dalla conformazione del suolo e della località. Il loro aspetto gradevole, la varietà del terreno e della vegetazione, la tranquilla solitudine risvegliano facilmente la devozione. È bene approfittare di questi luoghi, ma a condizione di dimenticarli subito per elevare la volontà verso Dio, perché chi vuole raggiungere il fine non deve fermarsi ai mezzi e alle cause. Se si cerca in essi un piacere e un profitto per i sensi, si troverà invece solo aridità e distrazione per lo spirito: la soddisfazione e la gioia dello spirito si trovano solo nel raccoglimento interiore.
2. Per questi motivi, quando si è in luogo di tal genere occorre, dimentichi di esso, cercare di stare intimamente con Dio, come se non si fosse in quel luogo. Se ci si ferma alla gioia e al piacere derivante dal luogo, si ricerca una ricreazione per i sensi e uno spazio all’instabilità dello spirito piuttosto che la pace interiore. Così facevano gli anacoreti e i santi eremiti, che nei vastissimi e affascinanti deserti occupavano meno terra possibile per costruirvi celle anguste e grotte dove isolarsi. San Benedetto rimase tre anni in una grotta; un altro, di nome san Simone, si legò con una corda per non andare oltre il limite fissato da questo legame. Così pure fecero molti altri che non finirei di ricordare. Quei santi avevano capito benissimo che se non avessero mortificato le loro tendenze sregolate e la bramosia di gioie e soddisfazioni spirituali, non avrebbero potuto raggiungere le gioie dello spirito né diventare spirituali.
3. Il secondo tipo di luogo che agevola la devozione è molto particolare, perché riguarda alcuni posti, non importa se deserti o meno, nei quali Dio è solito accordare ad alcune persone grazie spirituali assai piacevoli. Così, ordinariamente, accade che il cuore della persona favorita da Dio rimanga legato al luogo dove ha ricevuto la tal grazia e prova spesso il desiderio fortissimo di ritornarvi. Ma quando vi ritorna, non avverte più le stesse sensazioni di prima, perché non dipende da lei ricevere simili favori. È Dio, infatti, che concede queste grazie quando e come vuole, senza essere legato a un determinato luogo o momento e neppure alla volontà di colui al quale le accorda. Tuttavia è bene che la persona ritorni talvolta in quel luogo per pregare, a patto che sia distaccata da ogni cosa, per tre motivi: primo, perché se, come dicevo, Dio non è legato ad alcun luogo, sembra però che abbia voluto legarsi a quello lì per esservi lodato dall’anima alla quale ha concesso quella determinata grazia. Secondo, perché l’anima si dispone meglio a ringraziare Dio per il beneficio che ha ricevuto in quel luogo. Terzo, perché lì la devozione si risveglia di più, grazie al ricordo.
4. Questi sono i motivi per cui è bene che la persona ritorni in quel luogo, non ritenendo, però, che Dio sia obbligato a concederle favori proprio lì e non altrove. L’anima, infatti, è il posto più adatto a Dio di qualsiasi altro luogo terreno. Leggiamo nella sacra Scrittura che Abramo innalzò un altare dove Dio gli era apparso e lì invocò il suo nome; in seguito, di ritorno dall’Egitto, ripercorse la stessa strada, ritornò dove gli era apparso Dio e lo invocò di nuovo sullo stesso altare che aveva edificato (Gn 12,8; 13,4). Anche Giacobbe contrassegnò il luogo dove gli era apparso Dio in cima alla scala, elevandovi un pietra cosparsa di olio (Gn 28,13-18). E Agar, apprezzando molto il luogo dove le era apparso l’angelo, gli diede un nome dicendo: Qui dunque sono riuscita ancora a vedere, dopo la mia visione? (Gn 16,13).
5. Il terzo tipo di luogo che stimola la devozione è quello che Dio sceglie in particolar modo per esservi invocato, come il monte Sinai, dove diede la legge a Mosè (Es 24,12), o il luogo che indicò ad Abramo per sacrificarvi suo figlio (Gn 22,2). È altresì il monte Oreb, dove apparve al nostro padre Elia (1Re 19,8), e il monte Gargano – scelto da Dio per il suo servizio – dedicato a san Michele, che apparve al vescovo di Siponto, al quale rivelò di essere lui il custode di quel luogo e comandò di erigervi un oratorio in memoria degli angeli. Anche la gloriosa Vergine scelse a Roma, per mezzo del prodigio della neve, il luogo dove chiese a Patrizio di erigerle un tempio.
6. Solo Dio conosce il motivo per cui sceglie questi luoghi, invece di altri, per esservi lodato. A noi basti sapere che servono al nostro profitto spirituale e che Dio ascolta le nostre preghiere lì e ovunque lo preghiamo con fede viva. Tuttavia i luoghi consacrati al suo servizio sono un’occasione più propizia per essere esauditi, perché la Chiesa li ha segnalati e riservati a questo scopo.
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01/08/2013 19:17
 
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CAPITOLO 43
Ove si parla dei mezzi, costituiti da una grande varietà di cerimonie, a cui molte persone ricorrono per pregare.
1. Le gioie inutili e lo spirito imperfetto di attaccamento che molti nutrono per le cose di cui ho parlato, forse sono in parte tollerabili perché coltivati con una certa ingenuità. Quanto, invece, al forte attaccamento che alcuni mostrano per molte cerimonie introdotte da gente poco illuminata e priva della semplicità della fede, bisogna dire che esso è insopportabile. Lascio da parte, per ora, le pratiche di pietà ridondanti di paroloni o termini che non significano nulla e altre cose non sacre che persone ignoranti, grossolane e sospette sono solite mescolare alle loro preghiere. Qui non ne parlo perché sono chiaramente cattive ed è peccato servirsene; addirittura, in molti casi nascondono un patto occulto con il demonio. Così, anziché attirare la misericordia di Dio, suscitano la sua ira.
2. Qui voglio parlare solo di quelle pratiche che, pur essendo prive di ogni superstizione, vengono oggi usate da molte persone dalla devozione indiscreta. Esse credono ciecamente all’efficacia delle loro particolari devozioni e preghiere, sino a pensare che, se in esse manca qualcosa o non sono eseguite alla perfezione, non valgono nulla e Dio non le gradisce. In realtà ripongono più fiducia nelle loro pratiche e cerimonie che nella sostanza della preghiera, e ciò non senza irriverenza e offesa per il Signore. Così, per esempio, pretendono che la messa venga celebrata con un certo numero di candele, non di più né di meno; che il sacerdote la celebri in un modo ben preciso, a una determinata ora, né prima né dopo, in quel dato giorno e non prima; che le preghiere e le stazioni siano tante e tali e in giorni ben precisi e condotte con quelle specifiche cerimonie e non in altro modo; che la persona che le compie abbia determinate doti e caratteristiche. E sono convinti che, se manca qualcosa di quello che hanno deciso, non si fa nulla, e mille altre cose che si usano e si vedono fare.
3. Ma ciò che è peggio e intollerabile, è che alcuni vogliono provare in sé qualche effetto di quelle pratiche, veder realizzato ciò che chiedono, o sapere che lo scopo di quelle loro preghiere piene di cerimonie venga raggiunto. Tutto ciò equivale a tentare Dio e a dispiacergli profondamente. Così, spesso, Dio permette al demonio di trarre in inganno queste persone, di far loro sentire e conoscere cose molto opposte al profitto della loro anima. Meritano questo trattamento per lo spirito di attaccamento che mostrano nei riguardi delle loro pratiche di pietà: desiderano che si realizzi più quello che pretendono loro che quello che vuole Dio. Poiché non ripongono tutta la loro fiducia in Dio, non traggono mai alcun vantaggio da queste loro pratiche.
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01/08/2013 19:17
 
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CAPITOLO 44
Ove si dice quanto sia necessario attraverso queste devozioni indirizzare a Dio la gioia e la forza della volontà.
1. Le persone di cui sto parlando devono sapere che quanto più importanza annettono a queste cose e cerimonie, tanta minor fiducia hanno in Dio; così non otterranno mai da lui quanto desiderano. Alcune pregano più per conseguire quanto vogliono loro che per onorare Dio. Senza dubbio sanno che, se Dio vorrà, sicuramente concederà quella grazia che chiedono, altrimenti non la concederà; tuttavia per l’attaccamento alla loro volontà e la gioia vana che mostrano in tutto questo, moltiplicano troppo le preghiere per raggiungere il loro scopo. Forse sarebbe meglio se indirizzassero tali preghiere a cose più importanti, come ad esempio una vera purezza della loro coscienza, un impegno concreto per quanto riguarda la loro salvezza e la relativizzazione di tutto ciò che non tende a questo scopo primario. In questo modo otterranno non solo quanto è più importante per loro, ma sarà accordato anche tutto ciò che è utile. Pur senza chiederlo, otterranno quanto domandano molto meglio e di più che se avessero impiegato tutta la loro devozione.
2. Ciò è quanto il Signore promette allorché afferma nel vangelo: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,33). Questo è il desiderio, questa è la domanda che gli piace di più. Per ottenere le richieste che abbiamo nel nostro cuore non c’è mezzo migliore che riporre la forza della nostra preghiera in quelle cose che piacciono di più a Dio; in tal caso, infatti, ci concederà non solo ciò che chiediamo, cioè la salvezza, ma anche ciò che secondo lui è utile e buono per noi, anche se non glielo chiediamo. Ciò è quanto fa chiaramente capire Davide in un salmo, quando dice: Il Signore è vicino a quanto lo invocano con sincerità, che chiedono cose elevatissime, come quelle della salvezza eterna; di essi dice subito dopo: Appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva. Il Signore protegge quanti lo amano (Sal 144,18-20). Quando Davide dice che Dio è vicino, vuol significare che egli tiene ad esaudire i loro desideri e concedere anche ciò che essi non pensano di chiedere. Leggiamo nella Scrittura che, avendo Salomone chiesto a Dio una cosa che gli era gradita, cioè la sapienza per governare il suo popolo nella giustizia, Dio gli rispose: Poiché ti sta a cuore una cosa simile e poiché non hai domandato né ricchezze né beni né gloria né la vita dei tuoi nemici e neppure una lunga vita, ma hai domandato piuttosto saggezza e scienza per governare il mio popolo, su cui ti ho costituito re, saggezza e scienza ti saranno concesse. Inoltre io ti darò ricchezze, beni e gloria, quali non ebbero mai i re tuoi predecessori e non avranno mai i tuoi successori (2Cr 1,11-12). Dio mantenne la promessa. Difatti stabilì la pace tra lui e i suoi nemici, obbligandoli a pagargli il tributo e a non infastidirlo più. Un altro episodio simile lo troviamo nel libro della Genesi. Avendo Dio promesso ad Abramo di moltiplicare la discendenza del figlio legittimo come le stelle del cielo, come gli aveva chiesto, aggiunse: Moltiplicherò anche quella del figlio della schiava, perché è tuo figlio (Gn 21,13).
3. Tutto questo spiega perché, quando preghiamo, dobbiamo indirizzare a Dio tutta l’energia e la gioia della nostra volontà, senza andare in cerca di cerimonie nuove, non approvate né usate dalla Chiesa cattolica. Si lasci al sacerdote celebrare la messa secondo il rito proprio della Chiesa del luogo, perché da essa egli prende gli ordini e riceve i riti che deve seguire. Non si cerchi d’introdurre nuovi riti, quasi che si sappia più dello Spirito Santo e della sua Chiesa. Se Dio non esaudisce quando lo si prega in tutta semplicità, non si pensi che lo faccia davanti a tutte le nostre invenzioni! Dio, infatti, è tale che chi lo prende con le buone e alla sua maniera, ottiene da lui tutto ciò che vuole, ma se uno va a lui per interesse, allora è meglio che non gli parli nemmeno.
4. Quanto alle altre cerimonie riguardanti la preghiera o certe devozioni, non ci si attacchi a riti o modi di pregare diversi da quelli che ci ha insegnato Cristo (cfr. Lc 11,1-2). È fuori dubbio che, quando i discepoli chiesero al Signore che insegnasse loro a pregare, egli rivelò loro tutto quanto occorreva perché fossero ascoltati dal Padre eterno, di cui conosceva molto bene la volontà. In quell’occasione insegnò loro solo le sette domande del Padre nostro, che comprendono tutte le nostre necessità spirituali e temporali, e non già tantissime altre preghiere e cerimonie. Anzi, in un’altra circostanza, disse loro che, quando pregavano, non dovevano parlare molto, perché il Padre celeste sa molto bene ciò di cui hanno bisogno (Mt 6,7-8); soltanto raccomandò loro, insistentemente, di perseverare nella preghiera, cioè nel Padre nostro, dicendo che è necessario pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1). Non insegnò molte formule di domanda, ma raccomandò di ripetere spesso quelle sette, con fervore e attenzione; in esse, infatti, è racchiusa tutta la volontà di Dio e ciò che conviene a noi. Per questo, quando nostro Signore si rivolse tre volte al Padre eterno, sempre pregò con le stesse parole del Padre nostro, come osservano gli evangelisti: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! (Mt 26,39). Quanto alle condizioni da seguire nella preghiera, si possono ridurre all’una o all’altra di queste due seguenti: o isolarsi nel nascondimento della propria stanza, ove, lontani da ogni rumore e senza render conto a nessuno, possiamo pregare con tutta la purezza del cuore, come il Signore stesso ci raccomandò dicendo: Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto (Mt 6,7); oppure rifugiarsi in luoghi solitari, come faceva lui, per pregare nel tempo migliore e più silenzioso della notte (Lc 6,12). Non è quindi il caso di fissare tempi precisi in giorni precisi, né stabilire alcuni giorni più che altri per le nostre devozioni. Non dobbiamo neppure andare in cerca di formule, giochi di parole od orazioni diverse da quelle usati dalla Chiesa e secondo il rito di cui essa si serve, perché tutte le preghiere si riducono a quelle contenute nel Padre nostro.
5. Con questo non intendo condannare – anzi approvo – quei giorni che alcune persone stabiliscono per fare le loro devozioni, come novene, digiuni o cose del genere. Ciò che condanno, invece, è l’attaccamento a tale o tal altro esercizio di pietà o cerimonia determinata. A questo proposito si noti ciò che fece Giuditta. Rimproverò gli abitanti di Betulia perché avevano stabilito a Dio un tempo limitato entro cui si attendevano la sua misericordia, dicendo loro: Non pretendete di impegnare i piani del Signore. No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio (Gdt 8,11-12).
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01/08/2013 19:18
 
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CAPITOLO 45
Ove si tratta del secondo genere di beni distinti, cioè quelli provocativi, di cui la volontà può compiacersi inutilmente.
1. Il secondo genere di beni particolari e piacevoli, dei quali la volontà può vanamente godere, sono quelli che invitano o spingono a servire Dio: li chiamo provocativi. Tali sono le predicazioni, che possiamo considerare sotto due aspetti, cioè quello che riguarda gli stessi predicatori e quello che riguarda gli ascoltatori. Non è superfluo, infatti, dare dei consiglio agli uni e agli altri sul modo di elevare a Dio la gioia della loro volontà nel compimento di questa pratica.
2. Per quanto riguarda il primo, cioè il predicatore, per essere di giovamento ai fedeli e non lasciarsi andare a una vana compiacenza o alla presunzione, deve ricordare che la predicazione è un esercizio più spirituale che vocale. La forza e l’efficacia di persuasione dipendono unicamente dallo spirito interiore, anche se vanno espresse con le parole. Quindi, per quanto alta sia la dottrina predicata, brillante l’esposizione e sublime lo stile con cui la si porge, di solito produce un risultato proporzionato allo spirito interiore del predicatore. Sebbene, infatti, sia vero che la parola di Dio è di per se stessa efficace – come dice Davide: Egli tuona con voce potente (Sal 67,34) – tuttavia occorre anche ricordare che il fuoco ha la proprietà di bruciare, ma brucia solo quando il soggetto è in condizioni di ardere.
3. Ora, perché la predicazione produca il suo effetto, si devono realizzare due condizioni: una da parte di chi predica, e l’altra da parte di chi ascolta; ma abitualmente l’effetto desiderato dipende dalla disposizione di colui che predica. Per questo si dice: quale il maestro, tale il discepolo. Negli Atti degli Apostoli leggiamo che quando i sette figli di un sommo sacerdote giudeo presero a scongiurare i demoni con la stessa formula di san Paolo, il demonio s’infuriò contro di loro, esclamando: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete? (At 19,15). E scagliatosi contro di loro, li denudò e li coprì di botte. Questo accadde non perché Cristo non volesse che cacciassero i demoni in nome suo, ma perché essi non avevano le qualità richieste. Difatti nella Scrittura leggiamo che una volta gli apostoli trovarono un tale che, pur non essendo discepolo di Cristo, cacciava un demonio in suo nome. Intervennero per impedirglielo, ma il Signore li rimproverò dicendo: Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me (Mc 9,38). Il Signore si adira piuttosto con coloro che insegnano la legge di Dio e non la praticano, predicano la virtù ma non la posseggono. Per questo san Paolo dice: Come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? (Rm 2,21). E lo Spirito Santo dice per bocca di Davide: All’empio dice Dio: Perché vai ripetendo i miei decreti e hai sempre in bocca la mia alleanza, tu che detesti la disciplina e le mie parole te le getti alle spalle? (Sal 49,16-17). Questo c’insegna che il Signore non darà a tali persone i doni necessari per fare del bene.
4. Ordinariamente vediamo che, per quanto se ne può giudicare quaggiù, quanto più è santa la vita del predicatore, tanto più abbondante è il frutto che produce, anche se il suo stile è umile, la sua oratoria scarsa e la sua dottrina comune. Lo spirito di vita da cui è animato comunica fervore. Un altro, invece, darà poco frutto, nonostante che il suo stile e la sua dottrina siano elevati. È proprio vero che un buono stile, dei bei gesti, una dottrina solida e una perfetta esposizione toccano e fanno più effetto se accompagnati da una vita virtuosa. Senza questa, invece, anche se il sermone solletica i sensi e l’intelligenza, poco o niente giova alla volontà, che ordinariamente rimane molto fiacca e debole nella pratica della virtù, com’era prima. Sebbene il predicatore abbia detto cose meravigliose, meravigliosamente esposte, essere servono solo all’udito, come una musica armoniosa o il suono di campane. Ma l’anima non esce dal suo solco, si ritrova al punto di prima, poiché la voce non ha la virtù di risuscitare i morti e farli uscire dal loro sepolcro.
5. Poco importa udire una parola più bella di un’altra se non mi spinge alla pratica della virtù. Sebbene siano stato dette cose meravigliose, vengono subito dimenticate, perché non hanno acceso la volontà. Infatti, oltre a non produrre di per sé grande frutto, quell’impressione gradevole lasciata nei sensi da tali parole impedisce all’insegnamento di arrivare allo spirito. Ci si limita, così, solo all’apprezzamento della forma e delle cose secondarie di cui è rivestita la predicazione. Si loda tale o tal altra qualità del predicatore, seguendolo più per questi motivi che per la correzione che si ricava dalle sue prediche. Tale è la dottrina che san Paolo spiega con chiarezza ai corinzi, quando scrive: Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza… e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (1Cor 2,1-4). Certamente non è intenzione dell’Apostolo né mia condannare lo stile elegante, l’eloquenza e il linguaggio forbito, ché anzi sono molto utili alla predicazione, come a ogni altra funzione; una buona esposizione e uno stile avvincente, infatti, sollevano e guadagnano anche le cause perse o disperate, mentre un linguaggio non appropriato rovina e fa perdere anche quelle giuste.
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01/08/2013 19:18
 
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APPENDICE
CAPITOLO 46
Ove si tratta della prima affezione della volontà e si dice che nulla di quello che tocca l’appetito può essere mezzo proporzionato perché l’anima si unisca a Dio secondo la volontà.
1. La prima delle passioni dell’anima e degli affetti della volontà è la gioia. La volontà la provoca sempre nell’anima quando gli oggetti le si presentano come buoni, convenienti, amabili e gradevoli oppure perché sembrano belli, piacevoli e preziosi, ecc. Per questo motivo la volontà si porta verso di essi, li desidera, vi ripone la sua compiacenza quando li possiede, ha paura di perderli e soffre quando li perde, ecc. Così, dunque, l’anima si agita e s’inquieta secondo la passione della gioia.
2. Per frenare questa passione e liberarla da tutto ciò che non è Dio, occorre sapere che tutto quello di cui la volontà può godere in modo particolare, come ho detto, è per essa soave e piacevole, ma nessuna cosa soave e piacevole che essa possa gustare è Dio. Infatti, ripeto, Dio non può essere percepito da nessuna delle altre potenze, né tanto meno dalle tendenze e dai gusti della volontà. In questa vita, dunque, l’anima non può gustare Dio essenzialmente, e tutta la soavità e le delizie che eventualmente prova, per quanto elevate siano, non possono mai essere Dio. Anche tutto ciò che la volontà può gustare e desiderare in modo particolare è quello che l’intelletto conosce come suo oggetto specifico. Ora, non avendo la volontà assaporato mai Dio com’egli è né avendolo conosciuto attraverso qualche percezione delle sue potenze, non può sapere come sia né come gustarlo. Le sue potenze non possono gustare e desiderare Dio, che è al di sopra di ogni sua capacità.
3. È quindi chiaro che nessuna cosa particolare, fra tutte quelle di cui può godere la volontà, è Dio. Per giungere all’unione con Dio deve, quindi, fare il vuoto nelle sue potenze e distaccarsi da tutte le gioie particolari, per quanto soavi e piacevoli appaiano, indipendentemente dal fatto che siano terrene o celesti. Se in qualche modo la volontà può comprendere Dio e unirsi a lui, ciò avviene non attraverso qualche mezzo percepibile delle sue potenze, ma tramite l’amore. Se un diletto o una soavità o qualsiasi altra gioia provata dalla volontà non è amore, ne risulta chiaramente che nessuno di questi sentimenti piacevoli può essere mezzo adeguato per l’unione dell’anima con Dio. Occorre a tale scopo l’operazione della volontà, operazione molto diversa dal suo sentimento. Tramite l’operazione essa si unisce a Dio e si realizza in lui che è amore, non attraverso il sentimento o la percezione dei suoi appetiti, che si conclude nell’anima come fine e termine ultimo.
4. I sentimenti possono fungere solo da motivo o movente per amare – se la volontà vuole passare oltre – e niente più. Così, i sentimenti piacevoli, per loro natura, non indirizzano l’anima a Dio, ma piuttosto la fanno ripiegare su se stessa. Solo l’operazione della volontà, che è amore per Dio, colloca l’anima in Dio, lasciando dietro di sé tutte le cose create, così che essa ama Dio al di sopra di tutto. Di conseguenza, quando una persona si decide ad amare Dio non a motivo del piacere che prova, subito lascia dietro di sé la soavità che sente e ripone il suo amore in Dio che non sente. Se invece riponesse il suo amore nella soavità e nel gusto che prova, limitandosi ad essi, ciò significherebbe fermarsi alle creature o a ciò che le riguarda, facendo del mezzo un fine e un termine ultimo, e così l’opera della volontà sarebbe viziata. Poiché Dio è incomprensibile e inaccessibile, la volontà, onde mettere la sua operazione di amore in Dio, non deve fissarla su ciò che può toccare e percepire, ma in ciò che non può comprendere né raggiungere con l’appetito. In questo modo l’anima amerà sul serio proprio come vuole la fede, anche nel vuoto e nel buio dei suoi sentimenti, soprattutto quelli che essa può percepire attraverso le capacità della sua mente, credendo al di sopra di ciò che può comprendere.
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01/08/2013 19:19
 
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CAPITOLO 47
Ove si prosegue dicendo che per giungere all’unione con Dio è necessario che la volontà si spogli dei suoi appetiti naturali.
1. Avendo dimostrato che né la soavità né il piacere, ecc., che la volontà può provare in questa vita è Dio, sarebbe sciocco colui che, non provando soavità e delizie spirituali, pensasse per questo di non possedere Dio, oppure provandole si rallegrasse pensando per questo di possedere Dio. Costui sarebbe ancora più sciocco se cercasse queste soavità in Dio e si compiacesse in esse, perché non andrebbe in cerca del Dio inaccessibile con una volontà fondata nel vuoto della fede, ma sul gusto spirituale, cioè su qualcosa di creato, assecondando così i suoi appetiti. In questo modo egli non amerebbe in purezza di fede e sopra ogni cosa Dio, cioè riponendo in lui tutta la forza della volontà. Difatti, quando con i suoi desideri sregolati si attacca alle cose create, non si eleva al di sopra di esse per arrivare a Dio, che è inaccessibile. È impossibile che la volontà possa arrivare alle soavità e alle delizie della sublime unione con Dio, senza liberarsi da tutti gli appetiti per i piaceri particolari.
2. Ciò è quanto Dio voleva dire per bocca di Davide: Apri la tua bocca, la voglio riempire (Sal 80,11). L’appetito è come la bocca della volontà, che si apre quando non è ingombra di altri bocconi che le danno soddisfazione; quando invece l’appetito si ferma su qualcosa, allora si chiude, perché fuori di Dio tutto è angusto.
3. La volontà, dunque, deve tenere la sua bocca sempre aperta a Dio, libera da ogni boccone appetitoso, perché Dio possa riempirla con il suo amore e le sue dolcezze. Abbia sempre fame e sete di Dio solo, senza cercare altre soddisfazioni, perché quaggiù non possiamo gustare Dio com’è. Ciò che essa può gustare, se desidera qualcosa, sarebbe un ulteriore ostacolo all’amore divino. Ciò è quanto insegna Isaia con queste parole: O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente (Is 55,1). Ivi il profeta invita all’abbondanza delle acque divine dell’unione a tu per tu con Dio soltanto coloro che hanno sete di Dio solo e sono distaccati dai loro appetiti. Ora, poiché la gioia si sostiene attraverso la bocca della volontà che, come dicevo, è l’appetito, parlerò delle differenti specie di alimenti che essa può gustare e di come dobbiamo distaccarci da tutti. Occorre liberare la bocca della volontà da ogni nutrimento apprensibile, perché abbia fame solo della volontà di Dio, che è incomprensibile
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Stretta è la porta e angusta la Via che conduce alla Vita (Mt 7,14)
 
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