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ANNO DELLA FEDE - Pensiero del giorno - 15.1.2013‏

Ultimo Aggiornamento: 05/10/2013 13:03
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22/08/2013 10:31
 
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Presso il Giordano, Gesù si manifesta con una straordinaria umiltà, che richiama la povertà e la semplicità del Bambino deposto nella mangiatoia, e anticipa i sentimenti con i quali, al termine dei suoi giorni terreni, giungerà a lavare i piedi dei discepoli e subirà l'umiliazione terribile della croce. Il Figlio di Dio, Colui che è senza peccato, si pone tra i peccatori, mostra la vicinanza di Dio al cammino di conversione dell'uomo. Gesù prende sulle sue spalle il peso della colpa dell'intera umanità, inizia la sua missione mettendosi al posto dei peccatori, nella prospettiva della croce. Mentre, raccolto in preghiera, dopo il battesimo, esce dall'acqua, si aprono i cieli. È il momento atteso da schiere di profeti. "Se tu squarciassi i cieli e scendessi!", aveva invocato Isaia (63,19). In questo momento, sembra suggerire san Luca, tale preghiera viene esaudita. Infatti, "Il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo" (3,21-22); si udirono parole mai ascoltate prima: "Tu sei il Figlio mio, l'amato, in te ho posto il mio compiacimento" (v. 22). Gesù salendo dalle acque, come afferma san Gregorio Nazianzeno, "vede scindersi e aprirsi i cieli, quei cieli che Adamo aveva chiuso per sé e per tutta la sua discendenza" (Discorso 39 per il Battesimo del Signore, PG 36). Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo scendono tra gli uomini e ci rivelano il loro amore che salva. Se sono gli angeli a recare ai pastori l'annuncio della nascita del Salvatore, e la stella ai Magi venuti dall'Oriente, ora è la voce stessa del Padre che indica agli uomini la presenza nel mondo del suo Figlio e che invita a guardare alla risurrezione, alla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.

Omelia, Cappella Sistina, 10 gennaio 2010
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23/08/2013 10:37
 
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Siate “radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). La Lettera da cui è tratto questo invito, è stata scritta da san Paolo per rispondere a un bisogno preciso dei cristiani della città di Colossi. Quella comunità, infatti, era minacciata dall’influsso di certe tendenze culturali dell’epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo. Il nostro contesto culturale, […] ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c’è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un “paradiso” senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell’amore, in cui ciascuno viene rispettato nella sua dignità, cresce la comunione, con i frutti che essa porta. Vi sono però dei cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale. Ai fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo, l’apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana. Tutte le filosofie che lo ignorano, considerandolo “stoltezza” (1 Cor1,23), mostrano i loro limiti davanti alle grandi domande che abitano il cuore dell’uomo. Per questo anch’io, come Successore dell’apostolo Pietro, desidero confermarvi nella fede (cfr Lc22,32).

Messaggio per La XXVI Giornata Mondiale Della Gioventù, 2011
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24/08/2013 10:53
 
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Gesù si rivela, sulle rive del Giordano, a Giovanni e al popolo d'Israele. È la prima occasione in cui egli, da uomo maturo, entra nella scena pubblica, dopo aver lasciato Nazaret. Lo troviamo presso il Battista, da cui si reca un gran numero di gente, in una scena inconsueta. Nel brano evangelico, poc’anzi proclamato, san Luca osserva anzitutto che il popolo “era in attesa” (3,15). Egli sottolinea, così, l’attesa di Israele, coglie, in quelle persone che avevano lasciato le loro case e gli impegni abituali, il profondo desiderio di un mondo diverso e di parole nuove, che sembrano trovare risposta proprio nelle parole severe, impegnative, ma colme di speranza del Precursore. Il suo è un battesimo di penitenza, un segno che invita alla conversione, a cambiare vita, perché si avvicina Colui che “battezzerà in Spirito santo e fuoco” (3,16). Infatti, non si può aspirare ad un mondo nuovo rimanendo immersi nell’egoismo e nelle abitudini legate al peccato. Anche Gesù abbandona la casa e le consuete occupazioni per raggiungere il Giordano. Arriva in mezzo alla folla che sta ascoltando il Battista e si mette in fila come tutti, in attesa di essere battezzato. Giovanni, non appena lo vede avvicinarsi, intuisce che in quell’Uomo c’è qualcosa di unico, che è il misterioso Altro che attendeva e verso il quale era orientata tutta la sua vita. Comprende di trovarsi di fronte a Qualcuno di più grande di lui e di non essere degno neppure di sciogliergli i lacci dei sandali.

Omelia, Cappella Sistina, 10 gennaio 2010
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26/08/2013 11:45
 
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Una breve riflessione […] sulla questione centrale del tributo a Cesare. Gesù risponde con un sorprendente realismo politico, collegato con il teocentrismo della tradizione profetica. Il tributo a Cesare va pagato, perché l’immagine sulla moneta è la sua; ma l’uomo, ogni uomo, porta in sé un’altra immagine, quella di Dio, e pertanto è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza. I Padri della Chiesa, prendendo spunto dal fatto che Gesù fa riferimento all’immagine dell’Imperatore impressa sulla moneta del tributo, hanno interpretato questo passo alla luce del concetto fondamentale di uomo immagine di Dio, contenuto nel primo capitolo del Libro della Genesi. Un Autore anonimo scrive: “L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria” (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ivi, Salmo 4, 8).

Omelia, Basilica Vaticana, 16 ottobre 2011
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27/08/2013 12:20
 
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Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo. Dopo la parola sull’incamminarsi,Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta. Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo.

Omelia, Basilica Vaticana, 29 giugno 2011
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28/08/2013 12:15
 
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Gli interlocutori di Gesù – discepoli dei farisei ed erodiani – si rivolgono a Lui con un apprezzamento, dicendo: “Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno” (v. 16). E’ proprio questa affermazione, seppure mossa da ipocrisia, che deve attirare la nostra attenzione. I discepoli dei farisei e gli erodiani non credono in ciò che dicono. Lo affermano solo come una captatio benevolentiae per farsi ascoltare, ma il loro cuore è ben lontano da quella verità; anzi, essi vogliono attirare Gesù in una trappola per poterlo accusare. Per noi, invece, quell’espressione è preziosa e vera: Gesù, in effetti, è veritiero e insegna la via di Dio secondo verità, e non ha soggezione di alcuno. Egli stesso è questa “via di Dio”, che noi siamo chiamati a percorrere. Possiamo richiamare qui le parole di Gesù stesso, nel Vangelo di Giovanni: “Io sono la via, la verità e la vita” (14,6). E’ illuminante in proposito il commento di sant’Agostino: “Era necessario che Gesù dicesse: «Io sono la via, la verità e la vita», perché, una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta. La via conduceva alla verità, conduceva alla vita ... E noi dove andiamo, se non a Lui? E per quale via camminiamo, se non attraverso di Lui?” (In Ioh 69, 2). I nuovi evangelizzatori sono chiamati a camminare per primi in questa Via che è Cristo, per far conoscere agli altri la bellezza del Vangelo che dona la vita. E su questa Via non si cammina mai soli, ma in compagnia: un’esperienza di comunione e di fraternità che viene offerta a quanti incontriamo, per partecipare loro la nostra esperienza di Cristo e della sua Chiesa. Così, la testimonianza unita all’annuncio può aprire il cuore di quanti sono in ricerca della verità, affinché possano approdare al senso della propria vita.

Omelia, Basilica Vaticana, 16 ottobre 2011
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29/08/2013 10:03
 
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La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). […] l’apostolo Giovanni osserva: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all’amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il “perdere se stessi”, e proprio così ci rende felici.

Omelia, Basilica Vaticana, 1° novembre 2006
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30/08/2013 11:09
 
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Nel vasto mondo e per il vasto mondo, che in gran parte non conosceva Dio, Israele doveva essere come un santuario di Dio per la totalità, doveva esercitare una funzione sacerdotale per il mondo. Doveva portare il mondo verso Dio, aprirlo a Lui. San Pietro, nella sua grande catechesi battesimale, ha applicato tale privilegio e tale incarico di Israele all’intera comunità dei battezzati, proclamando: “Voi (invece) siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio” (1Pt 2,9s). Battesimo e Confermazione costituiscono l’ingresso in questo popolo di Dio, che abbraccia tutto il mondo; l’unzione nel Battesimo e nella Confermazione è un’unzione che introduce in questo ministero sacerdotale per l’umanità. I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto. È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: “Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!

Omelia, Basilica Vaticana, 21 aprile 2011
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31/08/2013 11:15
 
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Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. […]. Questo “rimanere-in-Cristo” segna l’intero discorso. Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore. Rimanere in Cristo significa, come abbiamo già visto, rimanere anche nella Chiesa. L’intera comunità dei credenti è saldamente compaginata in Cristo, la vite. In Cristo, tutti noi siamo uniti insieme. In questa comunità Egli ci sostiene e, allo stesso tempo, tutti i membri si sostengono a vicenda. Insieme resistiamo alle tempeste e offriamo protezione gli uni agli altri. Noi non crediamo da soli, crediamo con tutta la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, con la Chiesa che è in Cielo e sulla terra.

Omelia, Olympia tadion di Berlin, 22 settembre 2011
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01/09/2013 13:28
 
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“La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10,2). Questa parola dal Vangelo della Messa di oggi ci tocca particolarmente da vicino in quest’ora. […] “La messe è abbondante” – anche oggi, proprio oggi. Anche se può sembrare che grandi parti del mondo moderno, degliuomini di oggi, volgano le spalle a Dio e ritengano la fede una cosa del passato – esiste tuttavia l’anelito che finalmente vengano stabiliti la giustizia, l’amore, la pace, che povertà esofferenza vengano superate, che gli uomini trovino la gioia. Tutto questo anelito è presente nel mondo di oggi, l’anelito verso ciò che è grande, verso ciò che è buono. È la nostalgia del Redentore, di Dio stesso, anche lì dove Egli viene negato. Proprio in quest’ora il lavoro nel campo di Dio è particolarmente urgente e proprio in quest’ora sentiamo in modo particolarmente doloroso la verità della parola di Gesù: “Sono pochi gli operai”. Al tempo stesso il Signore ci lascia capire che non possiamo essere semplicemente noi da soli a mandare operai nella sua messe; che non è una questione di management, della nostra propria capacità organizzativa. Gli operai per il campo della sua messe li può mandare solo Dio stesso. Ma Egli li vuole mandare attraverso la porta della nostra preghiera.

Omelia, Basilica Vaticana, 5 febbraio 2011
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02/09/2013 12:11
 
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La vita cristiana deve misurarsi continuamente su Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), scrive san Paolo nell’introduzione all’inno cristologico. E qualche versetto prima, egli già ci esorta: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi” (Fil 2,1-2). Come Cristo era totalmente unito al Padre ed obbediente a Lui, così i suoi discepoli devono obbedire a Dio ed avere un medesimo sentire tra loro. Cari amici, con Paolo oso esortarvi: rendete piena la mia gioia con l’essere saldamente uniti in Cristo! […] Con l’esortazione all’unità, Paolo collega il richiamo all’umiltà. Egli dice: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). L’esistenza cristiana è una pro-esistenza: un esserci per l’altro, un impegno umile per il prossimo e per il bene comune. Cari fedeli, l’umiltà è una virtù che nel mondo di oggi e, in genere, di tutti i tempi, non gode di grande stima. Ma i discepoli del Signore sanno che questa virtù è, per così dire, l’olio che rende fecondi i processi di dialogo, possibile la collaborazione e cordiale l’unità. Humilitas, la parola latina per “umiltà”, ha a che fare con humus, cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Le persone umili stanno con ambedue i piedi sulla terra. Ma soprattutto ascoltano Cristo, la Parola di Dio, la quale rinnova ininterrottamente la Chiesa ed ogni suo membro.

Omelia, Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau, 25 settembre 2011
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03/09/2013 11:48
 
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«Con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità. E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.

Lectio Divina, Aula Paolo VI, 23 febbraio 2012
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04/09/2013 13:09
 
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“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).“Questa parola è dura!”; è dura perché spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà. È questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura e portando, paradossalmente, a rimpiangere le catene del passato: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto…” – dicevano gli ebrei nel deserto (Es 16,3), come abbiamo ascoltato. In realtà, solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli. “Questa parola è dura!”; è dura perché l’uomo cade spesso nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”. Dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia. La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane. Il pane, cari fratelli e sorelle, è “frutto del lavoro dell’uomo”, e in questa verità è racchiusa tutta la responsabilità affidata alle nostre mani e alla nostra ingegnosità; ma il pane è anche, e prima ancora, “frutto della terra”, che riceve dall’alto sole e pioggia: è dono da chiedere, che ci toglie ogni superbia e ci fa invocare con la fiducia degli umili: “Padre (…), dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).

Omelia, Cantiere Navale di Ancona, 11 settembre 2011
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05/09/2013 11:30
 
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Nella società attuale viviamo una situazione per certi versi precaria, caratterizzata dalla insicurezza e dalla frammentarietà delle scelte. Mancano spesso validi punti di riferimento a cui ispirare la propria esistenza. Diventa, pertanto, sempre più importante costruire l’edificio della vita e il complesso delle relazioni sociali sulla roccia stabile della Parola di Dio, lasciandosi guidare dal Magistero della Chiesa. Si comprende sempre più il valore determinante dell’affermazione di Gesù, che dice: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7, 24-25). Il Signore è con noi, agisce con la forza del suo Spirito. Ci invita a crescere nella fiducia e nell’abbandono alla sua volontà, nella fedeltà alla nostra vocazione e nell’impegno a diventare adulti nella fede, nellas peranza e nella carità. Adulto, secondo il Vangelo, non è colui che non è sottoposto a nessuno e non ha bisogno di nessuno. Adulto, cioè maturo e responsabile, può essere solo colui che si fa piccolo, umile e servo davanti a Dio, e che non segue semplicemente i venti del tempo. È necessario, perciò, formare le coscienze alla luce della Parola di Dio e così dare fermezza e vera maturità; Parola di Dio da cui trae senso e spinta ogni progetto ecclesiale e umano, anche per quanto concerne l’edificazione della città terrena (cfr Sal 127,1). Occorre rinnovare l’anima delle istituzioni e fecondare la storia con semi di vita nuova.

Discorso ai Partecipanti all’incontro promosso dal Rinnovamento nello Spirito Santo, Piazza San Pietro, 26 maggio 2012
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06/09/2013 12:13
 
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Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!

Omelia, Basilica Vaticana, 29 giugno 2011
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08/09/2013 10:29
 
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In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesùsemplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio. […] il nostro primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo. Gli uomini vivono di Dio, di Colui che spesso inconsapevolmente o solo a tentoni ricercano per dare pieno significato all’esistenza: noi abbiamo il compito di annunciarlo, di mostrarlo, di guidare all’incontro con Lui. Ma è sempre importante ricordarci che la prima condizione per parlare di Dio è parlare con Dio, diventare sempre più uomini di Dio, nutriti da un’intensa vita di preghiera e plasmati dalla sua Grazia. Sant’Agostino, dopo un cammino di affannosa, ma sincera ricerca della Verità era finalmente giunto a trovarla in Dio. Allora si rese conto di un aspetto singolare che riempì di stupore e di gioia il suo cuore: capì che lungo tutto il suo cammino era la Verità che lo stava cercando e che l’aveva trovato. Vorrei dire a ciascuno: lasciamoci trovare e afferrare da Dio, per aiutare ogni persona che incontriamo ad essere raggiunta dalla Verità. E’ dalla relazione con Lui che nasce la nostra comunione e viene generata la comunità ecclesiale, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi per costituire l’unico Popolo di Dio.

Discorso all'Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, Aula del Sinodo, 24 maggio 2012
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09/09/2013 09:47
 
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La razionalità scientifica e la cultura tecnica, infatti, non soltanto tendono ad uniformare ilmondo, ma spesso travalicano i rispettivi ambiti specifici, nella pretesa di delineare il perimetro delle certezze di ragione unicamente con il criterio empirico delle proprie conquiste. Così il potere delle capacità umane finisce per ritenersi la misura dell’agire, svincolato da ogni norma morale. Proprio in tale contesto non manca di riemergere, a volte in maniera confusa, una singolare e crescente domanda di spiritualità e di soprannaturale, segno di un’inquietudine che alberga nel cuore dell’uomo che non si apre all’orizzonte trascendente di Dio. Questa situazione di secolarismo caratterizza soprattutto le società di antica tradizione cristiana ed erode quel tessuto culturale che, fino a un recente passato, era un riferimento unificante, capace di abbracciare l’intera esistenza umana e di scandirne i momenti più significativi, dalla nascita al passaggio alla vita eterna. Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare deserto inospitale e il buon seme di venire soffocato, calpestato e perduto. Ne è un segno la diminuzione della pratica religiosa, visibile nella partecipazione alla Liturgia eucaristica e, ancora di più, al Sacramento della Penitenza. Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare prescindendo dalla mediazione ecclesiale. E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. Il Regno di Dio è dono che ci trascende. Come affermava il beato Giovanni Paolo II, «il regno non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio [7 dicembre 1990], 18).

Discorso all'Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, Aula del Sinodo, 24 maggio 2012
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10/09/2013 09:42
 
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Il nostro è un tempo in cui le scienze sperimentali hanno trasformato la visione del mondo e la stessa auto comprensione dell’uomo. Le molteplici scoperte, le tecnologie innovative che si susseguono a ritmo incalzante, sono ragione di motivato orgoglio, ma spesso non sono prive di inquietanti risvolti. Sullo sfondo, infatti, del diffuso ottimismo del sapere scientifico si protende l’ombra di una crisi del pensiero. Ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, l’uomo del nostro tempo vive spesso condizionato da riduzionismo e relativismo, che conducono a smarrire il significato delle cose; quasi abbagliato dall’efficacia tecnica, dimentica l’orizzonte fondamentale della domanda di senso, relegando così all’irrilevanza la dimensione trascendente. Su questo sfondo, il pensiero diventa debole e acquista terreno anche un impoverimento etico, che annebbia i riferimenti normativi di valore. Quella che è stata la feconda radice europea di cultura e di progresso sembra dimenticata. […] La ricerca scientifica e la domanda di senso, infatti, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia. Una mentalità fondamentalmente tecnopratica genera un rischioso squilibrio tra ciò che è possibile tecnicamente e ciò che è moralmente buono, con imprevedibili conseguenze. È importante allora che la cultura riscopra il vigore del significato e il dinamismo della trascendenza, in una parola, apra con decisione l’orizzonte del quaerere Deum. Viene in mente la celebre frase agostiniana «Ci hai creati per te [Signore], e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Le Confessioni, I, 1).

Discorso, Università Cattolica del Sacro Cuore, 3 maggio 2012
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12/09/2013 11:36
 
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Si può dire che lo stesso impulso alla ricerca scientifica scaturisce dalla nostalgia di Dio che abita il cuore umano: in fondo, l’uomo di scienza tende, anche inconsciamente, a raggiungere quella verità che può dare senso alla vita. Ma per quanto sia appassionata e tenace la ricerca umana, essa non è capace con le proprie forze di approdo sicuro, perché «l’uomo non è in grado di chiarire completamente la strana penombra che grava sulla questione delle realtà eterne... Dio deve prendere l’iniziativa di venire incontro e di rivolgerSi all’uomo» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Roma 2005, 124). Per restituire alla ragione la sua nativa, integrale dimensione bisogna allora riscoprire il luogo sorgivo che la ricerca scientifica condivide con la ricerca di fede, fides quaerens intellectum, secondo l’intuizione anselmiana. Scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una complementare esigenza dell’intelligenza del reale. Ma, paradossalmente, proprio la cultura positivista, escludendo la domanda su Dio dal dibattito scientifico, determina il declino del pensiero e l’indebolimento della capacità di intelligenza del reale. Ma il quaerere Deum dell’uomo si perderebbe in un groviglio di strade se non gli venisse incontro una via di illuminazione e di sicuro orientamento, che è quella di Dio stesso che si fa vicino all’uomo con immenso amore: “In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca.... E’ una ricerca che nasce nell’intimo di Dio e ha il suo punto culminante nell’incarnazione del Verbo” (Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente, 7).

Discorso, Università Cattolica del Sacro Cuore, 3 maggio 2012
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13/09/2013 10:29
 
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"Chi è per te Gesù di Nazaret ?”. La domanda la troviamo nel Vangelo odierno, là dove Gesù chiede ai suoi discepoli: “Voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29). La risposta di Pietro è netta e immediata: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia, il consacrato di Dio mandato a salvare il suo popolo. Pietro e gli altri apostoli, dunque, a differenza della maggior parte della gente, credono che Gesù non sia solo un grande maestro, o un profeta, ma molto di più. Hanno fede: credono che in Lui è presente e opera Dio. Subito dopo questa professione di fede, però, quando Gesù per la prima volta annuncia apertamente che dovrà patire ed essere ucciso, lo stesso Pietro si oppone alla prospettiva di sofferenza e di morte. Gesù allora deve rimproverarlo con forza, per fargli capire che non basta credere che Lui è Dio, ma spinti dalla carità bisogna seguirlo sulla sua stessa strada, quella della croce (cfr Mc 8,31-33). Gesù non è venuto a insegnarci una filosofia, ma a mostrarci una via, anzi, la via che conduce alla vita.

Angelus Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, 13 settembre 2009
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14/09/2013 13:32
 
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Religione del Logos, il Cristianesimo non relega la fede nell’ambito dell’irrazionale, ma attribuisce l’origine e il senso della realtà alla Ragione creatrice, che nel Dio crocifisso si è manifestata come amore e che invita a percorrere la strada del quaerere Deum: «Io sono lavia, la verità, la vita». Commenta qui san Tommaso d’Aquino: “Il punto di arrivo di questa via infatti è il fine del desiderio umano. Ora l’uomo desidera due cose principalmente: in primo luogo quella conoscenza della verità che è propria della sua natura. In secondo luogo la permanenza nell’essere, proprietà questa comune a tutte le cose. In Cristo si trova l’una e l’altra... Se dunque cerchi per dove passare, accogli Cristo perché egli è la via» (Esposizioni su Giovanni, cap. 14, lectio 2). Il Vangelo della vita illumina allora il cammino arduo dell’uomo, e davanti alla tentazione dell’autonomia assoluta, ricorda che «la vita dell’uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 39). Ed è proprio percorrendo il sentiero della fede che l’uomo è messo in grado di scorgere nelle stesse realtà di sofferenza e di morte, che attraversano la sua esistenza, una possibilità autentica di bene e di vita. Nella Croce di Cristo riconosce l’Albero della vita, rivelazione dell’amore appassionato di Dio per l’uomo. La cura di coloro che soffrono è allora incontro quotidiano con il volto di Cristo, e la dedizione dell’intelligenza e del cuore si fa segno della misericordia di Dio e della sua vittoria sulla morte. Vissuta nella sua integralità, la ricerca è illuminata da scienza e fede, e da queste due «ali» trae impulso e slancio, senza mai perdere la giusta umiltà, il senso del proprio limite. In tal modo la ricerca di Dio diventa feconda per l’intelligenza, fermento di cultura, promotrice di vero umanesimo, ricerca che non si arresta alla superficie.

Discorso, Università Cattolica del Sacro Cuore, 3 maggio 2012

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15/09/2013 19:29
 
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Lo Spirito Santo è Colui che ci fa riconoscere in Cristo il Signore, e ci fa pronunciare la professione di fede della Chiesa: “Gesù è Signore” (cfr 1 Cor 12,3b). Signore è il titolo attribuito a Dio nell’Antico Testamento, titolo che nella lettura della Bibbia prendeva il posto del suo impronunciabile nome. Il Credo della Chiesa è nient’altro che lo sviluppo di ciò che si dice con questa semplice affermazione: “Gesù è Signore”. Di questa professione di fede san Paolo ci dice che si tratta proprio della parola e dell’opera dello Spirito. Se vogliamo essere nello Spirito Santo, dobbiamo aderire a questo Credo. Facendolo nostro, accettandolo come nostra parola, accediamo all’opera dello Spirito Santo. L’espressione “Gesù è Signore” si può leggere nei due sensi. Significa: Gesù è Dio, e contemporaneamente: Dio è Gesù. Lo Spirito Santo illumina questa reciprocità: Gesù ha dignità divina, e Dio ha il volto umano di Gesù. Dio si mostra in Gesù e con ciò ci dona laverità su noi stessi. Lasciarsi illuminare nel profondo da questa parola è l’evento dellaPentecoste.

Omelia,Basilica Vaticana, 12 giugno 2011

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16/09/2013 08:08
 
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Annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia. Lamissione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli. Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori (cfr At 2,1-4), è lo stesso Spirito che muove oggi laChiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo. Sant’Agostino afferma che non si deve pensare che la grazia dell’evangelizzazione si sia estesa fino agli Apostoli e con loro quella sorgente di grazia si sia esaurita, ma “questa sorgente si palesa quando fluisce, non quando cessa di versare. E fu in tal modo che la grazia tramite gli Apostoli raggiunse anche altri, che vennero inviati ad annunciare il Vangelo… anzi, ha continuato a chiamare fino a questi ultimi giorni l’intero corpo del suo Figlio Unigenito, cioè la sua Chiesa diffusa su tutta la terra” (Sermo 239,1). La grazia della missione ha sempre bisogno di nuovi evangelizzatori capaci di accoglierla, perché l’annuncio salvifico dellaParola di Dio non venga mai meno, nelle mutevoli condizioni della storia.

Discorso ai Partecipanti all'Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Sala Clementina, 30 maggio 2011

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17/09/2013 11:02
 
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Dopo avere istruito per l’ultima volta i suoi discepoli, Gesù sale al cielo (cfr Mc 16,19). Egli, però, «non si è separato dalla nostra condizione» (cfr Prefazio); infatti, nella sua umanità, ha assunto con sé gli uomini nell’intimità del Padre e così ha rivelato la destinazione finale del nostro pellegrinaggio terreno. Come per noi è disceso dal Cielo, e per noi ha patito ed è morto sulla croce, così per noi è risorto ed è risalito a Dio, che perciò non è più lontano. SanLeone Magno spiega che con questo mistero «viene proclamata non solo l’immortalità dell’anima, ma anche quella della carne. Oggi, infatti, non solo siamo confermati possessori del paradiso, ma siamo anche penetrati in Cristo nelle altezze del cielo » (De Ascensione Domini, Tractatus 73, 2.4: CCL 138 A, 451.453). Per questo i discepoli, quando videro ilMaestro sollevarsi da terra e innalzarsi verso l’alto, non furono presi dallo sconforto, come si potrebbe pensare anzi, provarono una grande gioia e si sentirono spinti a proclamare la vittoria di Cristo sulla morte (cfr Mc 16,20). E il Signore risorto operava con loro, distribuendo a ciascuno un carisma proprio.

Regina Cæli, 20 maggio 2012
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18/09/2013 09:51
 
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La santità non è un lusso, non è un privilegio per pochi, un traguardo impossibile per unuomo normale; essa, in realtà, è il destino comune di tutti gli uomini chiamati ad essere figlidi Dio, la vocazione universale di tutti i battezzati. La santità è offerta a tutti; naturalmente non tutti i santi sono uguali: sono infatti, come ho detto, lo spettro della luce divina. E non necessariamente è grande santo colui che possiede carismi straordinari. Ce ne sono infatti moltissimi i cui nomi sono noti soltanto a Dio, perché sulla terra hanno condotto un’esistenza apparentemente normalissima. E proprio questi santi "normali" sono i santi abitualmente voluti da Dio. Il loro esempio testimonia che, soltanto quando si è a contatto con il Signore, ci si riempie della sua pace e della sua gioia e si è in grado di diffondere dappertutto serenità, speranza e ottimismo. Considerando proprio la varietà dei loro carismi, Bernanos, grande scrittore francese che fu sempre affascinato dall’idea dei santi - ne cita molti nei suoi romanzi - nota che “ogni vita di santo è come una nuova fioritura di primavera”. Che ciò avvenga anche per noi! Lasciamoci per questo attrarre dal soprannaturale fascino della santità! Ci ottenga questa grazia Maria, la Regina di tutti i Santi,Madre e Rifugio dei peccatori!

Udienza generale, Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, 20 agosto 2008
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19/09/2013 11:17
 
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È indispensabile rimanere sempre uniti a Gesù, dipendere da Lui, perché senza di Lui non possiamo far nulla (cfr Gv 15,5). In una lettera scritta a Giovanni il Profeta, vissuto nel deserto di Gaza nel V secolo, un fedele pone la seguente domanda: Come è possibile tenere insieme la libertà dell’uomo e il non poter far nulla senza Dio? E il monaco risponde: Se l’uomo inclina il suo cuore verso il bene e chiede a Dio l’aiuto, ne riceve la forza necessaria per compiere la propria opera. Perciò la libertà dell’uomo e la potenza di Dio procedono insieme. Questo è possibile perché il bene viene dal Signore, ma esso è compiuto grazie ai suoi fedeli (cfr Ep. 763, SC 468, Paris 2002, 206). Il vero «rimanere» in Cristo garantisce l’efficacia della preghiera, […] ognuno di noi è come un tralcio, che vive solo se fa crescere ogni giorno nella preghiera, nella partecipazione ai Sacramenti, nella carità, la sua unione con il Signore. E chi ama Gesù, vera vite, produce frutti di fede per un abbondante raccolto spirituale. Supplichiamo la Madre di Dio perché rimaniamo saldamente innestati in Gesù e ogni nostra azione abbia in Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento.

Regina Cæli, 6 maggio 2012
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20/09/2013 09:06
 
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Nella liturgia della Pentecoste, al racconto degli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa(cfr At 2,1-11), corrisponde il salmo 103 che abbiamo ascoltato: una lode dell’intera creazione, che esalta lo Spirito Creatore il quale ha fatto tutto con sapienza: «Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature…Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere» (Sal 103,24.31). […] Recitando il Credo, noi entriamo nel mistero della prima Pentecoste: dallo scompiglio di Babele, da quelle voci che strepitano una contro l’altra, avviene una radicale trasformazione: la molteplicità si fa multiforme unità, dal potere unificatore della Verità cresce la comprensione. Nel Credo che ci unisce da tutti gli angoli della Terra, che, mediante loSpirito Santo, fa in modo che ci si comprenda pur nella diversità delle lingue, attraverso lafede, la speranza e l’amore, si forma la nuova comunità della Chiesa di Dio.

Omelia,Basilica Vaticana, 12 giugno 2011
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21/09/2013 13:09
 
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Ogni anno, celebrando la Pasqua, noi riviviamo l’esperienza dei primi discepoli di Gesù, l’esperienza dell’incontro con Lui risorto: racconta il Vangelo di Giovanni che essi lo videro apparire in mezzo a loro, nel cenacolo, la sera del giorno stesso della Risurrezione, «il primo della settimana», e poi «otto giorni dopo» (cfr Gv 20,19.26). Quel giorno, chiamato poi «domenica», “Giorno del Signore”, è il giorno dell’assemblea, della comunità cristiana che si riunisce per il suo culto proprio, cioè l’Eucaristia, culto nuovo e distinto fin dall’inizio da quello giudaico del sabato. In effetti, la celebrazione del Giorno del Signore è una prova molto forte della Risurrezione di Cristo, perché solo un avvenimento straordinario e sconvolgente poteva indurre i primi cristiani a iniziare un culto diverso rispetto al sabato ebraico. Allora come oggi, il culto cristiano non è solo una commemorazione di eventi passati, e nemmeno una particolare esperienza mistica, interiore, ma essenzialmente un incontro con il Signore risorto, che vive nella dimensione di Dio, al di là del tempo e dello spazio, e tuttavia si rende realmente presente in mezzo alla comunità, ci parla nelle SacreScritture e spezza per noi il Pane di vita eterna. Attraverso questi segni noi viviamo ciò che sperimentarono i discepoli, cioè il fatto di vedere Gesù e nello stesso tempo di non riconoscerlo; di toccare il suo corpo, un corpo vero, eppure libero dai legami terreni.

Regina Cæli, 15 aprile 2012
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22/09/2013 19:41
 
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L’avvenimento della risurrezione in quanto tale non viene descritto dagli Evangelisti: esso rimane misterioso, non nel senso di meno reale, ma di nascosto, al di là della portata della nostra conoscenza: come una luce così abbagliante che non si può osservare con gli occhi, altrimenti li accecherebbe. Le narrazioni incominciano invece da quando, all’alba del giorno dopo il sabato, le donne si recarono al sepolcro e lo trovarono aperto e vuoto. San Matteoparla anche di un terremoto e di un angelo sfolgorante che rotolò la grande pietra tombale e vi si sedette sopra (cfr Mt 28,2). Ricevuto dall’angelo l’annuncio della risurrezione, le donne, piene di timore e di gioia, corsero a dare la notizia ai discepoli, e proprio in quel momento incontrarono Gesù, si prostrarono ai suoi piedi e lo adorarono; ed Egli disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno (Mt28,10). In tutti i Vangeli, le donne hanno un grande spazio nei racconti delle apparizioni di Gesù risorto, come del resto è anche in quelli della passione e della morte di Gesù. A quei tempi, in Israele, la testimonianza delle donne non poteva avere valore ufficiale, giuridico, ma le donne hanno vissuto un’esperienza di legame speciale con il Signore, che è fondamentale per la vita concreta della comunità cristiana, e questo sempre, in ogni epoca, non solo all’inizio del cammino della Chiesa.

Regina Cæli, Castel Gandolfo, 9 aprile 2012
23/09/2013 10:19
 
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Il mistero della Trasfigurazione non va staccato dal contesto del cammino che Gesù sta percorrendo. Egli si è ormai decisamente diretto verso il compimento della sua missione, ben sapendo che, per giungere alla risurrezione, dovrà passare attraverso la passione e la morte di croce. Di questo ha parlato apertamente ai discepoli, i quali però non hanno capito, anzi, hanno rifiutato questa prospettiva, perché non ragionano secondo Dio, ma secondo gli uomini (cfr Mt 16,23). Per questo Gesù porta con sé tre di loro sulla montagna e rivela la sua gloria divina, splendore di Verità e d’Amore. Gesù vuole che questa luce possa illuminare i loro cuori quando attraverseranno il buio fitto della sua passione e morte, quando lo scandalo della croce sarà per loro insopportabile. Dio è luce, e Gesù vuole donare ai suoi amici più intimi l’esperienza di questa luce, che dimora in Lui. Così, dopo questo avvenimento, Egli sarà in loro luce interiore, capace di proteggerli dagli assalti delle tenebre. Anche nella notte più oscura, Gesù è la lampada che non si spegne mai. Sant’Agostino riassume questo mistero con una espressione bellissima, dice: «Ciò che per gli occhi del corpo è il sole che vediamo, lo è [Cristo] per gli occhi del cuore» (Sermo 78, 2: PL 38, 490).

Angelus, Piazza San Pietro, 4 marzo 2012
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QUELLO CHE AVETE UDITO, VOI ANNUNCIATELO DAI TETTI (Mt 10,27)
 
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