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08/01/2013 20:45 | |
III. Gli Apostoli e la successione apostolica nella storia
I documenti del Nuovo Testamento mostrano una diversità nell’organizzazione delle comunità al principio della Chiesa, ancor viventi gli Apostoli, ma egualmente una tendenza del ministero di insegnamento e di direzione ad affermarsi e a rafforzarsi nel periodo successivo.
Gli uomini che dirigevano le comunità quando gli Apostoli erano ancora vivi o dopo la loro morte portano nei testi del Nuovo Testamento diversi nomi: presbytèroi-episkopoi, e sono descritti come poimènes, hégoumenoi, proistamenoi, kyberneseis. Ciò che caratterizza questi presbytèroi-episkopoi per rapporto al resto della Chiesa è il loro ministero apostolico d’insegnamento e di direzione. Quale che sia la maniera con cui sono stati scelti, per autorità o in dipendenza dai Dodici o da Paolo, essi partecipano all’autorità degli Apostoli istituiti da Cristo, i quali conservano per sempre la loro caratteristica unica.
Nel corso del tempo questo ministero ha conosciuto uno sviluppo, prodottosi in forza d’una conseguenza e di una necessità interne, e favorito da fattori esterni, soprattutto la difesa contro gli errori e la mancanza di unità fra le comunità. Ma quando le comunità furono private della presenza degli Apostoli e tuttavia vollero continuare a riferirsi alla loro autorità, fu necessario che venissero mantenute e continuate in maniera adeguata le funzioni degli Apostoli in seno a tali comunità e di fronte ad esse.
Già negli scritti neotestamentari che riflettono il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica si delinea uno sviluppo che, nel secondo secolo, porta alla stabilizzazione e al riconoscimento generale del ministero del vescovo. Le tappe di questo sviluppo si scorgono negli ultimi scritti del corpus paolino e in altri testi che si riallacciano all’autorità degli Apostoli. Ciò che gli Apostoli avevano rappresentato per le comunità al tempo della fondazione della Chiesa, venne riconosciuto come essenziale per la struttura della Chiesa o per le comunità particolari, attraverso la riflessione del tempo post-apostolico al suo inizio. Il principio dell’apostolicità della Chiesa, acquisito in questa riflessione, portò con sé il riconoscimento del ministero d’insegnamento e di direzione come istituzione derivata da Cristo attraverso e mediante gli Apostoli. La Chiesa vive nella certezza che, prima di lasciare questo mondo, Gesù ha mandato gli Undici in missione universale, con la promessa di rimanere con loro tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28, 10-20). Il tempo della Chiesa, tempo di questa missione universale, resta dunque esso stesso compreso in questa presenza di Cristo, che è la medesima nel tempo apostolico e in quello post-apostolico, e che prende la forma d’un unico ministero apostolico.
Le tensioni tra comunità e soggetto d’un ministero d’autorità non possono essere totalmente evitate, come si vede già negli scritti del Nuovo Testamento. Paolo s’è applicato, da un lato, a comprendere il Vangelo con e nella comunità, e a trovare norme di vita cristiana; d’altro lato, però, egli si poneva di fronte ad essa col suo potere apostolico, quando trattavasi della verità del Vangelo (cf. Gal) e dei principi insostituibili di vita cristiana (cf. 1 Cor 7, ecc.). Similmente, il ministero di direzione non deve mai tagliarsi fuori dalla comunità ed elevarsi al disopra di essa, ma deve compiere il proprio servizio in seno ad essa e per essa. Tuttavia ricevendo la direzione apostolica — quella degli Apostoli medesimi o quella dei ministri che ad essi succedono — le comunità neotestamentarie si sottomettono alla direzione del ministero, riferito — per loro tramite — all’autorità del Signore stesso.
La scarsità di documenti non permette di precisare come si vorrebbe i passaggi operatisi. La fine del primo secolo ha conosciuto una situazione in cui gli Apostoli, i loro collaboratori immediati e infine i loro successori danno vita a collegi locali di presbytèroi e di episkopoi. Al principio del secondo secolo l’immagine del vescovo unico a capo delle comunità appare vigorosamente nelle lettere di sant’Ignazio, il quale afferma ancora che tale istituzione si trova stabilita «fino ai confini della terra» (Ad Ephesios, 3,2). Durante il secondo secolo questa istituzione è riconosciuta in maniera esplicita, nel solco della lettera di Clemente, come veicolo della successione apostolica. L’ordinazione con l’imposizione delle mani, attestata dalle Lettere pastorali, appare all’interno del processo di chiarificazione come un passo importante per la tutela della tradizione apostolica e per la garanzia della successione nel ministero. I documenti del terzo secolo (Tradizione d’Ippolito) mostrano che essa era specificamente acquisita, e considerata come istituzione necessaria.
Clemente e Ireneo sviluppano una dottrina del governo pastorale e della Parola, facendo derivare dall’unità della Parola, della missione e del ministero l’idea della successione apostolica, divenuta base permanente della maniera con cui la Chiesa cattolica comprende se stessa.
IV. Aspetto spirituale della successione apostolica
Se, dopo questo prospetto storico, cerchiamo di comprendere la dimensione spirituale della successione apostolica, bisogna anzitutto sottolineare che, pur rappresentando con autorità il Vangelo e manifestandosi fondamentalmente come un servizio verso la Chiesa nella sua totalità (2 Cor 4, 5), il ministero ordinato esige dal ministro che egli renda presente Cristo umiliato (2 Cor 6, 4 ss.) e crocifisso (cf. Gal 2, 19 s.; 16, 14; 1 Cor 4, 9 ss.).
La Chiesa che egli serve è, nella sua totalità come in ciascuno dei suoi membri, animata e mossa dallo Spirito, giacché ogni battezzato è «ammaestrato dallo Spirito» (1 Thess 4, 9; cf. Hebr 8, 11 ss.; Ier 31, 33 ss.; 1 Io 2, 20; Io 6, 45). Il ministero sacerdotale, quindi, non potrà se non ricordargli con autorità quanto incoativamente è già incluso nella sua fede battesimale, ma la cui pienezza egli non potrà mai esaurire quaggiù. Allo stesso modo il fedele dovrà nutrire la propria fede e la propria vita cristiana con la mediazione sacramentale della vita divina. La norma della fede — che nel suo carattere formale noi designiamo come «regola di fede» — è a lui immanente per l’azione dello Spirito, pur rimanendo trascendente per rapporto all’uomo, poiché non può mai essere puramente individuale essendo essenzialmente ecclesiale e cattolica.
In questa regola di fede l’immediatezza dello Spirito divino ad ogni persona è quindi necessariamente legata alla forma comunitaria di questa fede. L’affermazione di San Paolo, che «nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3) è sempre valida: senza la conversione che solo lo Spirito accorda ai cuori, nessuno è in grado di riconoscere Gesù nella sua qualità di Figlio di Dio, e solo chi lo conosce come Figlio conoscerà veramente colui che egli chiama «Padre» (cf. Io 14, 7; 8, 19; ecc.). Dunque, poiché lo Spirito ci comunica la conoscenza del Padre mediante Gesù, la fede cristiana è trinitaria: la sua forma pneumatica include necessariamente questo contenuto, che si esprime e si realizza in maniera sacramentale nel battesimo trinitario.
La regola di fede, cioè il tipo della catechesi battesimale nella quale si estrinseca il contenuto trinitario, costituisce, in quanto unione della forma e del contenuto, il perno permanente dell’apostolicità e della cattolicità della Chiesa. Essa realizza l’apostolicità in quanto lega gli araldi della fede alla regola cristo-pneumatologica: essi non parlano in nome proprio, ma testimoniano ciò che hanno ascoltato (cf. Io 7, 18; 16, 13 ss.; ecc.).
Gesù Cristo si rivela come Figlio in quanto annunzia ciò che viene dal Padre. Lo Spirito si rivela come lo Spirito del Padre e del Figlio perché non prende del suo, ma li rivela e richiama quanto viene dal Figlio (Io 16, 13 s.). Ciò diventa, nel prolungamento del Signore e del suo Spirito, il carattere distintivo della successione apostolica. Il Magistero della Chiesa si distingue tanto da un puro magistero di dottori quanto da un potere autoritario. Qualora il magistero della fede passasse ai professori, la fede sarebbe legata ai lumi individuali, e così assoggettata in gran parte allo spirito del tempo. E qualora la fede dipendesse dal potere dispotico di certe persone individuali o collettive, chiunque di loro fosse a decretare ciò che è normativo, la verità sarebbe rimpiazzata da un potere arbitrario. Al contrario, il vero magistero apostolico è legato alla Parola del Signore e così introduce nella libertà di lui quanti l’ascoltano.
Nulla, nella Chiesa, sfugge alla mediazione apostolica: né i pastori né il gregge, né gli enunziati di fede né le norme di vita cristiana. Il ministero ordinato si trova anche doppiamente riferito a tale mediazione, essendo esso stesso sottoposto da una parte alla regola delle origini cristiane, e dall’altra — come dice Agostino — obbligato a lasciarsi istruire dalla comunità dei credenti che lui stesso ha l’obbligo di istruire.
Da quanto fin qui detto ricaveremo due conclusioni:
1. Nessun predicatore del Vangelo ha il diritto di escogitare un piano di annunzio evangelico secondo le proprie ipotesi. Egli annunzia la fede della Chiesa apostolica e non la propria personalità o le proprie esperienze religiose. Ciò comporta che ai due elementi menzionati della regola di fede — forme e contenuto — viene ad aggiungersene un terzo: la regola di fede esige un testimone inviato, che non s’autorizzi da se stesso e che nessuna comunità particolare è capace di autorizzare, e ciò in forza della trascendenza della Parola. L’autorizzazione non può venirgli se non sacramentalmente attraverso quelli che sono già inviati. Certo, lo Spirito suscita sempre liberamente nella Chiesa differenti carismi di evangelizzazione e di servizio, animando tutti i cristiani alla testimonianza della loro fede, ma queste attività devono essere esercitate in riferimento ai tre elementi della regola di fede ora menzionati (cf. Lumen Gentium, n. 12).
2. La missione che in tal modo — ancora una volta secondo il principio trinitario — fa parte della regola di fede, si riferisce alla cattolicità della fede, che è una conseguenza della sua apostolicità e al tempo stesso la condizione della sua permanenza. Nessun individuo e nessuna comunità isolata, infatti, hanno il potere di inviare. Solo il legame al tutto (kat’holon) — la cattolicità nello spazio e nel tempo — garantisce la permanenza nella missione. Così la cattolicità spiega ancora che il fedele, in quanto membro della Chiesa, è introdotto alla partecipazione immediata della vita trinitaria attraverso la mediazione non solo dell’Uomo-Dio, ma anche della Chiesa, a lui intimamente associata.
Questa mediazione della Chiesa deve, in virtù della dimensione cattolica della sua verità e della sua vita, effettuarsi in maniera normativa, cioè mediante un ministero che le è conferito come forma costitutiva. Questo non dovrà soltanto riferirsi a un’epoca storicamente finita (rappresentata eventualmente da una serie di documenti); ma in questo riferimento dev’essere munito del potere di rappresentare esso stesso l’origine, il Cristo vivente, mediante un annunzio del Vangelo ufficialmente autorizzato e mediante la celebrazione, con autorità, di atti sacramentali, prima di tutto dell’Eucaristia
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