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Catechismo quotidiano

Ultimo Aggiornamento: 13/01/2013 14:39
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04/12/2012 15:30
 
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Il desiderio inestinguibile di Dio
 
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«Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio» (Catechismo, 27). Quando, in occasione del suo secondo viaggio missionario, san Paolo giunge ad Atene osserva, tra l'altro, un'iscrizione d'altare dedicata «al Dio ignoto» (Atti 17,23). L'iscrizione gli offre l'opportunità di annunciare nell'Areopago la fede nell'unico Dio di Gesù Cristo. Prima però di predicare la sua fede nella risurrezione riconosce la religiosità degli Ateniesi, il loro intimo desiderio di conoscere Dio. Nella ricerca dell'Assoluto l'uomo si trova in un labirinto, avvolto da una luce fioca. Per questo avanza a tentoni alla ricerca della strada migliore che gli permetta di attraversare il Castello (Franz Kafka) o il Deserto dei Tartari (Dino Buzzati). Spesso ci si illude che progredendo nella tecnica e nelle scienze regredisca nel cuore umano il desiderio di Dio; e invece cresce a dismisura assumendo nuove forme di religiosità, che sconfinano spesso nella divinazione. La storia umana è costante ricerca di Dio poiché «in Lui, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28). Le vie dell'universo, del creato e della sua bellezza, della scienza, dell'amore umano, della Cognizione del dolore (Carlo Emilio Gadda) e dell'arte si dischiudono affinché ognuno le attraversi nella ricerca di Dio. In particolare il creato, con le sue diverse espressioni, rimanda al Creatore, giacché «dalla creazione del mondo in poi le perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da Lui compiute, come la Sua eterna potenza e divinità» (Romani 1,20). Tuttavia spesso l'uomo confonde il Creatore con la creatura e si ferma a metà strada, o la smarrisce del tutto. Due eccessi polarizzano la ricerca umana di Dio: la sicumera di chi s'illude di possederlo, o la rimozione con cui si cerca di tacitare il naturale desiderio di Lui. Entrambe sono forme di oltraggio e di tracotanza che riducono Dio in forme di idoli a disposizione o, ancor peggio, che scelgono l'uomo come misura di tutte le cose. Fra questi eccessi, s'inerpica il sentiero del Castello interiore (Teresa d'Avila) dove si scopre che Dio è più intimo di quanto sia l'uomo a se stesso (Agostino d'Ippona).
avvenire
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06/12/2012 13:08
 
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I quattro sensi della Scrittura
 
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«La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza» (Catechismo, 115). Spesso il Medioevo è ingiustamente considerato come periodo oscuro nella storia della civiltà occidentale. A questo cliché hanno contribuito non poco Il nome della rosa di Umberto Eco e Mistero buffo di Dario Fo. Eppure è l'epoca che ha visto la fioritura di giganti della letteratura come Dante Alighieri, Boccaccio e Petrarca, del pensiero teologico come Tommaso d'Aquino, e della santità come Domenico di Guzman e Francesco d'Assisi. Le imponenti cattedrali romaniche e gotiche, sparse per l'Europa, testimoniano, contro tutti i pregiudizi e le strumentalizzazioni storiche, lo splendore del Medioevo. Tra l'altro i quattro sensi della Scrittura, rivalutati da Henri De Lubac con la monumentale Esegesi medievale, sono di quell'epoca e sintetizzano le relazioni tra il senso letterale e quello spirituale della Scrittura: «La lettera insegna i fatti, l'allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare, e l'anagogia dove tendere». Quanto più si approfondisce la storia, tanto più si è in grado di cogliere lo Spirito nella Scrittura. Altrimenti la lettura biblica è lasciata al sentimentalismo e all'arbitrio di chiunque. La lettera contiene lo Spirito che la «trascende» (Benedetto XVI, Verbum Domini) e conduce verso gli altri tre sensi che generano la fede, la carità e la speranza. Attraversare il senso letterale per giungere a quello allegorico della fede è ciò che lo Spirito realizza nel cuore dei credenti. Ma non basta il senso allegorico o superiore; è necessario giungere a quello etico dell'amore, altrimenti la fede senza le opere muore. Ed è il senso etico che produce quello anagogico, o della salita verso la speranza. I quattro sensi della Scrittura non sono un'invenzione medievale, ma affondano le radici nel Nuovo Testamento. Per questo Paolo ringrazia il Signore per la fede operosa, la carità faticosa e la perseverante speranza che si sono diffuse fra i Tessalonicesi (1 Tessalonicesi 1,3). L'itinerario delle virtù è autentico quanto la Parola di Dio annunciata è accolta non come parola di uomini ma com'è veramente: Parola di Dio che opera nel cuore dei credenti (1 Tessalonicesi 2,13).

avvenire
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08/12/2012 14:38
 
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Quell'alleanza mai revocata
 
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«L'Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore perenne poiché l'Antica Alleanza non è mai stata revocata» (Catechismo, 121). Quando nel 1980 Giovanni Paolo II tenne il discorso a Mainz sul popolo ebraico e l'alleanza mai revocata, suscitò un vivo dibattito sul rapporto tra l'Antica e la Nuova Alleanza e, di conseguenza, tra Antico e Nuovo Testamento. Non per concessione, né per una forma di pentimento, dopo la terribile ora della Shoah, il Pontefice ha riconosciuto come irrevocabile l'Antica Alleanza. Paolo di Tarso che di Antico Testamento se ne intendeva, in quanto proveniva dalle file dei farisei, affronta le relazioni tra l'antica e la nuova alleanza. Nella Seconda Lettera ai Corinzi precisa da una parte che «la nostra capacità viene da Dio che ci ha resi degni di essere ministri della nuova alleanza" (2Corinzi 3,6) e dall'altra che «fino ad oggi quel medesimo velo rimane non rimosso, quando si legge l'antica alleanza, perché è in Cristo che esso viene eliminato» (2Corinzi 3,14). Dunque quanto è in fase di rimozione non è l'antica alleanza, bensì il velo che è tolto per quanti sono e credono in Cristo. Ancora più chiara è la prospettiva con cui Paolo ricorda i privilegi d'Israele nella Lettera ai Romani: «Essi sono Israeliti, hanno l'adozione filiale, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Gesù secondo la carne» (Romani 9,4-5). I doni elencati restano per sempre perché è in gioco l'amore di Dio che non dipende dalle risposte umane, ma dalla sua fedeltà all'alleanza. Per questo «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Romani 11,29). Irrevocabili sono le alleanze della storia biblica, come irrevocabile è l'umanità ebraica di Gesù. Qui sta la differenza tra l'antica e la nuova alleanza. L'antica diventa nuova in Cristo e non è né vecchia, né abrogata. E la nuova alleanza fa rivivere l'antica perché è realizzata con il sangue di Cristo: «Questo calice è la nuova alleanza con il mio sangue versato per voi» (Luca 22,20). Precisa bene Agostino d'Ippona: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico, mentre l'Antico è svelato nel Nuovo».
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09/12/2012 12:43
 
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Nei Vangeli c'è il nostro nome
 
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«I Vangeli sono il cuore di tutte le Scritture "in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore"» (Dei Verbum 20; Catechismo, 125). Prima dei Vangeli, che raccontano la vita di Gesù e dei suoi discepoli, il termine euanghélion designava una notizia breve, positiva e nuova; e non era neanche un termine religioso, bensì sociale e profano. Euanghélion è la nascita dell'imperatore che inaugura un'epoca di pace o l'intervento del messia che porterà la lieta notizia ai poveri (Isaia 61,1-2). Si deve a Marco il passaggio dall'annuncio breve al Vangelo che racconta la vita di Gesù. Nel suo solco, Matteo ha raccontato il Vangelo dell'Emmanuele o del Dio con noi, Luca quello della salvezza nell'oggi dell'incontro con Gesù e Giovanni della Parola fatta carne che ha posto la sua tenda fra noi. Prima però di essere raccontato dai quattro evangelisti Gesù ha fatto dell'evangelo il cuore della sua missione. Ha portato il regno dei cieli sulla terra, chiedendo la conversione del cuore e la fede nel suo evangelo (Marco 1,14-15). Ha proclamato il messaggio rivoluzionario delle Beatitudini per i poveri e i perseguitati nel suo nome (Matteo 5,1-12). Durante una liturgia in sinagoga ha commentato l'oracolo di Isaia che abbiamo evocato: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Luca 4,21). E ai discepoli di Giovanni Battista, che gli chiedono dove abitasse, ha risposto di andare con lui per vedere dove il Verbo ha posto la sua tenda (Giovanni 1,39). La nuova evangelizzazione è tale non se è capace d'inventarsi qualcosa di nuovo per gli uomini e le donne del nostro tempo ma se conduce chiunque a incontrare Gesù per seguirlo. Non c'è bene più prezioso dei Vangeli perché più di qualsiasi altro scritto continuano a rivelare il volto umano di Dio. Non il Gesù dimezzato dei vangeli gnostici, che nasconde la sua umanità per esaltare la sua divinità, ma l'esatto contrario. Il Gesù che redime l'uomo con la sua passione per tutti: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito affinché chiunque crede in lui non si perda, ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3,16). Il pronome indefinito «chiunque» è capace di contenere il nome personale di ognuno, perché l'amore di Dio è per tutti e per ciascuno.
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11/12/2012 13:09
 
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La Parola, come un sacramento
 
 
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«La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore; in ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (Dei Verbum 21; Catechismo 141). Uno dei frutti più ricchi della primavera dello Spirito che è il Concilio Vaticano II è la consegna della Sacra Scrittura nelle mani dei credenti. Prima del Concilio la Scrittura era letta in Chiesa, ma era proclamata in latino e non era compresa (con tutto il rispetto per il latino). La frequentazione della lectio divina o della lettura spirituale della Scrittura ha valicato le soglie dei monasteri per entrare in quelle delle comunità parrocchiali e fra i gruppi giovanili. Il rapporto tra la Parola di Dio e il Corpo eucaristico di Gesù è stato approfondito in uno dei passi più significativi della Verbum Domini di Benedetto XVI: «La sacramentalità della Parola» (n.56). Non che s'intendesse creare un nuovo sacramento, da aggiungere a quelli già riconosciuti, ma la dimensione sacramentale della Parola di Dio si trova all'origine della sua venerazione nella vita della Chiesa.
Purtroppo a questa venerazione della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura, non si è ancora formati. Per rendersi conto che la sacramentalità della Parola non segue il passo di quella dell'Eucaristia basta pensare ai luoghi occasionali dove si pongono i lezionari per la liturgia della Parola di Dio, alle scelte estemporanee dei lettori durante la Messa e alle modalità con cui la Scrittura è proclamata. Naturalmente non mancano eccezioni degne di merito! Serva da insegnamento il ritorno del popolo ebraico dall'esilio babilonese nel 538 a.C., raccontato nel Libro di Neemia. Il popolo si raduna nella piazza, e dopo che Esdra apre il libro tutti si alzano, si inginocchiano e si prostrano con la faccia a terra dinanzi al Signore (Neemia 8,1-6). Ecco la sacramentalità della Parola di Dio che cementa un popolo, come un solo uomo, in adorazione
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12/12/2012 13:03
 
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Nei Vangeli la verità all'opera
 
 
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«Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (Dei Verbum, 21; Catechismo, 107). Il numero della Dei Verbum citato e ripreso dal Catechismo è di capitale importanza sulla questione della verità biblica poiché la rapporta, in modo chiaro, alla nostra salvezza. In gioco non è soltanto la storicità dei Vangeli, bensì la loro finalità. Più innanzi il Catechismo distingue molto bene le tre fasi che nella composizione storica dei Vangeli: la vita e la predicazione di Gesù; la tradizione orale delle prime comunità cristiane; e i Vangeli scritti (n.126). Ignorare queste tre tappe significa creare pericolosi cortocircuiti sulla verità storica dei Vangeli. Non c'è episodio dei Vangeli che non rifletta le tre fasi menzionate, per cui appigliarsi sulle discordanze dei Vangeli sullo stesso episodio significa banalizzarli e strumentalizzare le fatiche della secolare ricerca esegetica.
Che poi Benedetto XVI sia contrario al metodo storico-critico, come sostengono alcuni, è un pregiudizio infondato. Basta soffermarsi sulla Verbum Domini, n.19, per accorgersene: «Certamente la riflessione teologica ha sempre considerato ispirazione e verità come due concetti chiave per un'ermeneutica ecclesiale delle Sacre Scritture. Tuttavia, si deve riconoscere l'odierna necessità di un approfondimento adeguato di queste realtà, così da poter rispondere meglio alle esigenze riguardanti l'interpretazione dei testi sacri secondo la loro natura. In tale prospettiva formulo il vivo auspicio che la ricerca in questo campo possa progredire e porti frutto per la scienza biblica e per la vita spirituale dei fedeli». L'attuale Pontefice non ha mai delegittimato il metodo storico-critico, bensì ne ha riconosciuto l'importanza e, nello stesso tempo, i limiti (che sono naturali). Tirare in ballo gli studiosi del Nuovo Testamento per contrastare i volumi di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret è poco rispettoso, anche nei loro confronti.
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13/12/2012 11:37
 
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Abramo, nostro padre nella fede
 
 
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«Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» ( Eb 11,8; Catechismo, 145). Nell'elogio della fede, La Lettera agli Ebrei insiste in particolar modo su Abramo: attraversa tutta la sua vita, sino al sacrificio d'Isacco. Prima di Abramo non si parla della fede in Genesi e, a giusto titolo, è considerato nostro padre nella fede. In lui le tre grandi religioni monoteistiche – l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam – trovano la comune radice della fede intesa come obbedienza che nasce dall'ascolto. La storia della fede inizia con Abramo e giunge sino a coloro che, come lui, si fidano senza condizioni di Dio. La sua fede granitica inizia con la richiesta di abbandonare le sicurezze del suo paese per diventare nomade in terra straniera. Questa è stata messa a dura prova quando, di fronte alla promessa di una discendenza innumerevole, non ha ancora il figlio della promessa. E allorché riceve Isacco, gli è chiesto di offrirlo in sacrificio. Sbalordisce la fede di Abramo, disposto a sacrificare l'unico figlio della promessa fatta da Dio. Grandi filosofi e teologi si sono soffermati sull'obbedienza di Abramo poiché la normale fede non giunge a un gesto così estremo. Naturale è che qualsiasi genitore cerchi di tranquillizzare il figlio o la figlia che lo interroghino sul sacrificio d'Isacco, rispondendo che non li avrebbe mai sacrificati in nome della fede. Ma la risposta più profonda è di Origene: «Per noi avviciniamo le parole dell'Apostolo, dove dice di Dio: Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma per noi tutti lo ha consegnato (Romani 8,32). Vedi come Dio gareggia magnificamente in generosità con gli uomini: Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale, senza che questi morisse; Dio ha consegnato alla morte il Figlio immortale per gli uomini». Il sacrificio d'Isacco anticipa quello della croce di Cristo, dove qualsiasi sacrificio umano è sorpassato da quello del Figlio di Dio. Sulla croce Gesù non è il semplice capro espiatorio che sostituisce i sacrifici umani o di animali, ma è il Figlio che dona se stesso per la salvezza del mondo. Questo è il mistero della croce. Qualsiasi altra risposta è meglio non darla per non banalizzare la fede di Abramo!
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14/12/2012 11:18
 
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La fede come incontro
 
 
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«Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (Gen 15,6; Rm 4,3; Catechismo, 146). Prima di essere risposta dell'uomo a Dio, la fede è incontro. Purtroppo spesso bypassiamo questo dato centrale e riduciamo la fede alla convinzione che ognuno si costruisce secondo il proprio modo di pensare. Così emerge l'accezione tipicamente occidentale della pístis, ovvero della fede come persuasione o convinzione. L'episodio evocato dall'espressione di Genesi 15,6 sposta invece l'attenzione su un'altra visione della fede intesa come emunáh, ossia come fiducia, affidabilità, fedeltà, credibilità e affidamento. La fede di Abramo nasce dall'incontro che Dio stabilisce con lui nella prima alleanza. Al centro dell'alleanza c'è, da una parte, la fedeltà di Dio e, dall'altra, la fede fiduciale di Dio. Sino a Genesi 15 Abramo aveva ricevuto soltanto la promessa per una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Finalmente con l'alleanza che il Signore gli propone, Abramo esprime la propria fede nel Signore. Questa fiducia gli è accreditata come giustizia, nel senso che, compromettendosi con lui, il Signore si dichiara in debito con la promessa fattagli. Conseguenza dell'incontro tra la fedeltà di Dio e la fede di Abramo è la giustizia, da intendere però non come "dare a ciascuno il suo", secondo la definizione giuridica di Ulpiano, bensì come giustificazione e azione gratuita del Signore nel confronti di Abramo. Così la fede di Abramo nasce dalla parola promessa dal Signore e approda nella certezza che Egli non viene mai meno alle sue promesse. Per secoli si è pensato che il Giudaismo fosse religione della Legge e delle opere, mentre il Cristianesimo religione della grazia e della fede. L'assunto è semplicemente infondato poiché Abramo non ebbe bisogno della Legge per credere nel Signore; e quando questa giunge con annulla la promessa fondata sulla fedeltà della Parola di Dio, ma rientra sempre nell'alleanza stabilita con Abramo. A una fede reclinata su se stessi come persuasione personale, Abramo testimonia la fede come espressione dell'incontro tra la fedeltà di Dio che si compromette e la fiducia dell'uomo che aderisce all'alleanza mai revocata. Gesù Cristo è l'incontro definitivo tra la fedeltà di Dio e la fiducia dell'uomo.
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16/12/2012 21:18
 
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Così si presenta il Dio dei viventi
 
 
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«Dio chiama Mosè dal mezzo di un roveto che brucia senza consumarsi, e gli dice: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe"» (Es 3,6; Catechismo 205). La vocazione di Mosè, raccontata in Esodo 3,1-4,16, è la più combattuta di tutta la Sacra Scrittura: tra il Signore che si rivela nel roveto ardente e Mosè che non è disposto a partire per condurre il popolo d'Israele verso la liberazione dall'Egitto. L'incontro tra il Signore e Mosè sul monte Oreb è un intercalarsi di rivelazioni e di obiezioni. All'inizio del dialogo, Mosè invitato a togliersi i sandali per restare a piedi nudi perché il luogo che sta calpestando è santo. Il profeta comprende e si copre il volto perché il Signore non si può vedere faccia a faccia. Da una parte il Dio dei patriarchi, dall'altra Mosè che gli chiede il Nome. A un certo punto il Signore sembra accontentarlo e gli dice «Io sono Colui che sono». Ma Mosè intuisce il gioco perché "Io sono colui che sono" significa tutto e niente: "Colui che è", "che diviene", "che giunge", "che è presente". Durante l'interminabile dialogo, il Signore consegna a Mosè alcuni segni che garantiscono la sua Presenza in mezzo al suo popolo. Ma Mosè è ostinato e non vuol partire; si arrende soltanto quando il Signore gli mostra la sua collera. In occasione della discussione con i sadducei sulla risurrezione dei morti, Gesù torna sull'evento del roveto per sostenere che «il Dio di Abramo, d'Isacco e Giacobbe è non dei morti, ma dei viventi perché tutto vivono per Lui» (Luca 20,27-38). Credere nel Dio dei patriarchi conduce alla fede nella risurrezione perché Egli è il Vivente. Soltanto in Gesù Cristo il velo di Mosè è finalmente tolto, poiché i credenti in lui riconoscono che la Gloria di Dio si riflette nel volto di Cristo (2 Corinzi 4,5-6). All'episodio del roveto allude anche il Memoriale che Pascal portò cucito sul suo abito fino alla morte e che fu scoperto, in seguito, dal suo domestico: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo».
 
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18/12/2012 12:28
 
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Il dramma e la meraviglia della fede
«Con Giobbe, il giusto, noi confessiamo: "Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te"" (Gb 42,2; Catechismo, 275).
Il dramma di Giobbe è una delle perle più preziose della Sacra Scrittura. Riflette la storia di un uomo, messo a dura prova per la sua fede in Dio. Giobbe perde tutti i suoi beni e i familiari restando senza nulla e colpito dalla malattia. I suoi amici cercano di giustificare le sue sventure ricorrendo al principio della retribuzione divina per i peccati di ognuno. Ma Giobbe non ha peccato e chiama in causa Dio stesso. Finalmente Dio si rivela in modo misterioso e instaura con Giobbe un dialogo di altissimo lirismo sui disegni imperscrutabili della sua volontà. Il libro culmina con la confessione di Giobbe, ripresa dal Catechismo, che prosegue: «Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me che non comprendo… Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Giobbe 42,4-5). La letteratura di tutti i tempi si è ispirata al libro di Giobbe e l'ha riscritto attualizzandolo nelle situazioni più drammatiche. Lo ha riscritto J. Roth con Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. Più drammatica è la riscrittura compiuta da Zvi Kolitz con il suo Yossl Rakover si rivolge a Dio, nel contesto del ghetto di Varsavia. Anche Yossl chiama in causa Dio per la sventura della Shoah che ha colpito la sua famiglia. Questa volta però il testo si chiude non con la ricompensa terrena, bensì con la una terribile contestazione di Dio: «Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un'incrollabile fede in Te». Ai cristiani è affidata la profonda riflessione della Lettera agli Ebrei 5,7 sulla passione di Gesù: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva salvarlo dalla morte, e fu esaudito per la sua pietà». Il Padre ha esaudito il Figlio non evitandogli la passione e la morte, ma per la sua pietà intesa come affidamento totale alla Sua volontà. Attraverso la morte di croce il Padre ha risposto con la risurrezione, ma il grido del Figlio resta con tutto il suo interrogativo e si fa carico di ogni nostra incomprensione. Spesso la fede è fatta più di domande che di risposte scontate.

18/12/2012 15:16
 
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tutti noi abbiamo il desiderio di Dio, è il nostro padre celeste,io provo un grande amore per nostro signore, tutti vogliamo conoscerlo e la chiesa ci aiuta tramite i suoi insegnamenti a conoscerlo meglio.
[Modificato da ladymira 18/12/2012 15:16]
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19/12/2012 13:14
 
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Ascoltare la Parola. E obbedire
 
 
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«La Vergine Maria realizza nel modo più perfetto l'obbedienza della fede» (Catechismo, 148). Tra la fede di Abramo e quella di Maria c'è un legame profondo, stabilito dall'annuncio che a entrambi è dato di una nascita incredibile. In occasione della visita dei tre angeli alle querce di Mamre è promessa la nascita di un figlio, nonostante la vecchiaia di Abramo e Sara: «C'è forse qualcosa d'impossibile per il Signore?» (Genesi 18,14). La stessa affermazione è detta dall'angelo Gabriele a Maria: «Nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). L'Annunciazione a Maria è il momento della sua vocazione e della sua rivelazione che vede l'intrecciarsi di tutta la storia della salvezza, segnata dall'impossibile possibilità di Dio. I contatti più sostanziali si verificano tra l'annunzio a Gedeone e quello a Maria: entrambi sono visitati dal saluto dell'angelo, sono turbati, replicano per la loro piccolezza, diventano strumenti della salvezza d'Israele e sono assicurati da un segno inviato dal Signore (cf. Giudici 6,11-24; Luca 1,26-38). Ma mentre Gedeone è salutato come uomo forte, Maria è riconosciuta come piena di grazia. E la risposta di Maria è incredibile, come la proposta dell'angelo: «Ecco la schiava (e non semplicemente "la serva") del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Luca 1,38).
La fede di Maria, nasce dall'ascolto della Parola e approda nell'obbedienza: un'obbedienza qualificata o avvolta dalla fede. Purtroppo spesso la nostra fede non soltanto s'identifica con il nostro modo di pensare e non di ascoltare, ma non sfocia nell'obbedienza. Uno dei commenti più appropriati alla fede di Abramo e di Maria è di Kierkegaard in Timore e Tremore: «Maria non ha bisogno dell'ammirazione del mondo, così come Abramo non ha bisogno delle lacrime: perché ella non è un'eroina, né egli un eroe. Ma ambedue divennero ancor più grandi degli eroi non col fuggire la sofferenza, le pene, il paradosso, bensì per via di essi». Per accostarsi alla fede obbediente di Maria, andrebbe riscoperto L'annuncio a Maria di Paul Claudel, dopo la sua conversione: «Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire? Così Violaine, tutta pronta, segue la mano che prende la sua».
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20/12/2012 11:50
 
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Beata colei che ha creduto
 
 
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Elisabetta la salutò così: «Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Per questa fede tutte le generazioni la chiameranno beata (Cf Lc 1,48; Catechismo, 148). Prima che all'inizio della sua vita pubblica Gesù pronunziasse le Beatitudini per i poveri, gli affamati, coloro che piangono e sono disprezzati a causa sua (cf. Luca 6,20-23), quella fede della Madre è la chiave di volta di tutte le beatitudini. Purtroppo talvolta le Beatitudini sono state viste come l'oppio dei popoli, il narcotismo della fede che lascia gli uomini in condizione di passività o di sottomissione sociale. Al contrario, le Beatitudini sono la carta più rivoluzionaria che sia stata dettata nella storia umana, poiché sospingono i destinatari ad andare avanti nonostante gli ostacoli che incontrano. Dio è dalla loro parte e si prende cura delle loro povertà, a condizione che non perdano la fede nella realizzazione della sua Parola. Senza la prima beatitudine di Maria, le altre Beatitudini rischiano di appiattirsi sul sociale, mentre nascono dalla fede e sono capaci di trasformare le sorti degli uomini. Tutte le generazioni continuano a chiamarla beata perché il Signore ha guardato l'umiltà della sua schiava (cf. Luca 1,48). Il Magnificat cantato da Maria anticipa il rovesciamento che Dio realizza nella storia umana: Egli disperde i superbi, rovescia i potenti dai troni, rimanda a mani vuote i ricchi, mentre innalza gli umili e ricolma di beni gli affamati (cf. Luca 1,46-55). La vita di Maria è una costante testimonianza dei capovolgimenti che Dio realizza nella storia umana, perché le Beatitudini non riguardano un futuro lontano ma si realizzano nell'oggi di quanti, contro tutte avversità, sentono che Dio è dalla loro parte. Nel 1979 la Conferenza episcopale latinoamericana, riunita a Puebla, stilò un documento capace di accogliere le istanze dell'Evangeli nuntiandi di Paolo VI: «Il Magnificat è lo specchio dell'anima di Maria. In questo poema raggiunge il suo punto culminante la spiritualità dei poveri di Jhvh e il profetismo dell'Antica Alleanza. È il cantico che annuncia il nuovo vangelo di Cristo, è il preludio del Discorso della Montagna».
20/12/2012 14:59
 
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Ascoltiamo Maria, il signore ha fatto grandi cose in lei
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21/12/2012 15:10
 
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21/12/2012 15:10








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#15


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La fede semplice dei pastori

«L'angelo ha annunziato ai pastori la nascita di Gesù come quella del Messia promesso a Israele: "Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore che è il Cristo Signore"» (Lc 2,11; Catechismo, 437).
Il mistero dell'Annunciazione, che ha messo a dura prova la fede di Maria, si ripercuote per i pastori in occasione della nascita di Gesù. Non sono degli sprovveduti i pastori che ricevono per primi la notizia del Salvatore, ma persone che, raggiunte dalla gloria di Dio, discutono prima di mettersi in viaggio. Tipici del vangelo di Luca sono gli avverbi "oggi" e "senza indugio" o "in fretta". L'oggi s'impone per l'adempimento della Scrittura realizzato da Gesù nella sinagoga di Nazaret, in occasione dell'incontro con Zaccheo a Gerico (Luca 19,5.9) e della salvezza assicurata al buon ladrone (Luca 23,43). Ogni incontro con lui è carico di salvezza che si realizza nell'oggi hic et nunc e non domani. A sua volta, la risposta umana è caratterizzata dal "senza indugio". In fretta i pastori si recano a Betlemme per verificare quanto è stato annunciato dall'angelo, come in fretta Maria si è recata da Elisabetta (Luca 1,39) e "prontamente" Zaccheo risponde alla salvezza offertagli da Gesù (Luca 19,6). Una volta giunti a Betlemme i pastori constatano il segno: un bambino avvolto in fasce nella mangiatoia. La fede non è soltanto dono di grazia, ma anche dono semplice. Purtroppo tutte le cose più semplici sono anche le più difficili da trovare. Naturalmente, la semplicità di cui parliamo non va confusa con l'ingenuità, né con la superficialità. In tutta la ricerca affannosa della fede bisogna conservare un cuore semplice, altrimenti si nasconde e non si trova mai. Così i pastori possono tornare alle loro greggi glorificando e lodando Dio. La meraviglia per le piccole cose accompagna la loro fede. Quando Gesù sarà adulto loderà Dio, Padre Signore del cielo e della terra perché ai piccoli rivela i segreti del Regno, mentre li nasconde ai sapienti e ai dotti (Matteo 11,25-26). Detto in modo inverso: i sapienti che non sanno farsi piccoli non s'accorgono delle piccole cose che osservano i pastori. In questione non è il fanciullino di pascoliana memoria, ma Il Dio delle piccole cose di Arundathy Roy (Booker Price 1997).
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22/12/2012 11:13
 
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La fede dei Magi in cammino

«In questi "Magi", che rappresentano le religioni pagane circostanti, il Vangelo vede le primizie delle nazioni che nell'Incarnazione accolgono la Buona Novella della salvezza» (Catechismo, 528).
La fede è anzitutto dono che Dio offre a chi, dove e quando vuole: non può essere rinchiusa nel recinto di un gruppo etnico o religioso. Per questo spesso si verifica che chi cerca la fede non la trovi, come Erode, mentre chi non la cerca la trova, come i Magi. Mentre si discute sulla loro identità, i nome e le origine, interroghiamoci sull'importanza che nel Vangelo di Matteo è data ai Magi (Matteo 2,1-12). I Magi sono stranieri che non conoscono la Sacra Scrittura, né hanno mai sentito parlare di Betlemme. Tuttavia, con loro si realizzano le profezie dell'Antico Testamento: «Una stella spunta da Giacobbe» (Numeri 24,17); «Uno stuolo di cammelli t'invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclameranno le glorie del Signore» (Isaia 60,6). Nello stesso tempo l'episodio dei Magi anticipa l'inizio della vita pubblica di Gesù, quando andando ad abitare a Cafarnao, nella «Galilea delle Genti», «il popolo che cammina nelle tenebre vede una grande luce, per quelli che abitano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Matteo 4,15-16). Quella raccontata da Matteo non è una fiaba per bambini, bensì realizza e anticipa l'universalismo della salvezza che passa non soltanto per Israele, ma si estende a tutti gli uomini del mondo. Bisogna raggiungere il secondo miracolo compiuto da Gesù verso il servo del centurione, per rendersi conto del dramma che l'episodio veicola: «Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori...» (Matteo 8,11). L'universalismo della salvezza passa non soltanto per la divinità (l'incenso), la regalità (l'oro) di Gesù, ma necessariamente per la mirra, utilizzata per imbalsamare i defunti. Nell'orizzonte si stagliano la morte e la sepoltura di Gesù con cui la salvezza universale è aperta a tutti. La comunità di Matteo ha vissuto questo prodigio della fede che passa attraverso la terra d'Israele ma, nello stesso tempo, li sopravanza.

22/12/2012 14:52
 
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Anche i magi hanno adorato nostro signore, tutti dobbiamo adorarlo e festeggiare la sua nascita
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23/12/2012 14:05
 
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Serbare tutto nel proprio cuore
«Maria e Giuseppe "non compresero" queste parole, ma le accolsero nella fede, e Maria "serbava tutte queste cose nel suo cuore" ( Lc 2,51 )» (Catechismo, 534).
Con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si compie la propria professione di fede per ottenere la salvezza (cf. Romani 10,10). Anzitutto il cuore, poiché mentre l'uomo è ammaliato dall'aspetto, Dio conosce e guarda il cuore. L'atteggiamento che più di tutti caratterizza Maria, durante l'infanzia di Gesù, coinvolge il suo cuore. In occasione della visita dei pastori, Maria custodisce tutte le cose che dicono del figlio, meditandole nel suo cuore (cf. Luca 2,19). E mentre vede il figlio crescere in sapienza e grazia, lei continua a custodire tutto nel cuore (cf. Luca 2,51). Il cuore non è semplicemente la sede dei sentimenti, ma della meditazione e della custodia di quanto si verifica ogni giorno nella propria vita. Più che altrove, nel cuore si compiono le scelte più intime che soltanto Dio conosce e vaglia. La fede nasce da uno cuore docile, aperto alla volontà di Dio e capace di scegliere. Che il cuore non si riduca a sentimenti, ma orienti verso le scelte da compiere lo rivela il vecchio Simeone a Maria: «Ecco egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l'anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2,34-35). Nel momento più drammatico della sua esistenza, la fede di Maria resta incrollabile: ai piedi della croce la spada trafigge la sua anima, ma il suo cuore resta indiviso. Un cuore capace di meditare e di custodire è la porta interiore della fede. Per questo la più grande tentazione è la sfiducia nella Parola di Dio, quando satana cerca di strapparla dal cuore dei credenti: «I semi lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, affinché non avvenga che, credendo, siano salvati» (Luca 8,12). Al tentatore non interessa più di tanto il corpo dei credenti, ma il cuore dove la Parola spera di attecchire per produrre il frutto.
23/12/2012 15:29
 
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Credere sempre è la nostra salvezza godiamoci questa festa in cui è nato nostro signore
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27/12/2012 14:35
 
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Maria, nella pienezza del tempo

«Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4-5; Catechismo, 422).
Nelle sue lettere Paolo non menziona mai il nome della Madre di Gesù, ma nella proposizione di Galati 4,4-5 è condensato il contenuto centrale della fede cristiana. Per questo il Catechismo colloca la citazione paolina all'inizio della sezione dedicata alla fede nell'unico Figlio di Dio e torna più volte sulla pienezza del tempo.
In epoca antica non erano stati ancora inventati gli orologi a muro o da polso. Il tempo era calcolato mediante il riempimento di anfore che, una volta giunte fino all'orlo, venivano svuotate per scandire le ore e i giorni. A questa realtà quotidiana allude Paolo quando parla della pienezza del tempo.
Per rendere l'idea si osservi, per il tempo che occorre, una clessidra. Progressivamente la parte superiore si svuota sino all'ultimo granello di sabbia; poi una volta capovolta ricomincia d'accapo. Restando nella metafora, l'ultimo granello è occupato da Maria che porta in grembo il Figlio di Dio: lei è l'ultimo e il primo granello della clessidra. Con la sua fede, Maria occupa l'ultimo e il primo posto nella scansione del tempo perché senza il suo grembo Dio non avrebbe, di fatto, inviato il suo unico Figlio nel mondo e, con lui, lo Spirito del Figlio che grida nei nostri cuori: «Abba, Padre» (Gal 4,6). Qui sta tutto il mistero della fede nella Maternità verginale di Maria che la Chiesa celebra all'inizio di ogni anno. Maria è la theotókos: colei che nel tempo genera il Figlio di Dio permettendo all'eternità di farsi tempo e di scandirlo. Il commento più appropriato al passo di San Paolo lo propone, da par suo, Martin Lutero: «Non è stata la pienezza del tempo a causare l'invio del Figlio, ma al contrario è stato l'invio del Figlio a causare la pienezza del tempo». Di questa pienezza dei giorni, dei mesi e degli anni, Maria entra a far parte perché, per vocazione, è piena di grazia.

[Modificato da ulisseitaca 27/12/2012 14:36]
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28/12/2012 10:43
 
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Qualunque cosa vi dica, fatela!

«La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce l'unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia». (Catechismo, 970).
Secondo il vangelo di Giovanni, il primo segno (e non soltanto il primo miracolo), compiuto da Gesù, è quello di Cana, dov'è invitato con la Madre e i suoi discepoli a una festa nuziale. A un certo punto viene a mancare il vino e le nozze rischiano di finire in malo modo. Quando la Madre osserva che il vino scarseggia, Gesù replica che la questione non li riguarda: «Che cosa (interessa) a me e a te? Non è ancora giunta la mia ora» (Giovanni 2,4).
Come andò a finire la storia è nota a tutti, ma il cambiamento dell'acqua in vino è causato dalla Madre di Gesù: «Qualunque cosa vi dica, fatela!». Nell'occasione Maria svolge il ruolo di mediatrice fra i servi che riempiono le sei idrie d'acqua e Gesù. Tuttavia, la sua mediazione non è di una Dea, né tanto meno di una semidea che s'interpone tra Dio e gli uomini. Piuttosto è la mediazione di una madre che, come tutte le madri, s'accorge che qualcosa non va per il verso giusto nella vita degli uomini. Ma più di qualsiasi madre, soltanto lei può e riesce a ottenere che il Figlio anticipi la sua ora rispetto alla scadenza prevista nel disegno di Dio, che è quella della passione.
L'ora di cui stiamo parlando non è di una giornata qualsiasi, ma è l'ora della salvezza e della rivelazione definitiva dell'amore di Gesù per gli uomini: quella che inizia prima della festa di Pasqua e si chiude con la simultanea morte di croce e la consegna dello Spirito (Giovanni 19,30): «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Giovanni 13,1).
Alle sei idrie d'acqua, riempite fino all'orlo dai servi delle nozze di Cana, manca una perché raggiungano il numero perfetto: quella della pienezza del tempo di cui Maria fa parte (cf. Galati 4,4) e che Gesù identifica come l'ora della fine e del compimento.

[Modificato da ulisseitaca 28/12/2012 10:44]
28/12/2012 14:11
 
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Maria è nostra mediatrice, che intercede per noi presso Gesu e Dio, è la nostra mediatrice, il miracolo di Cana è avvenuto perchè Maria lo ha chiesto
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29/12/2012 13:26
 
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Giuseppe, l'uomo giusto
«Giuseppe è stato chiamato da Dio a "prendere" con sé "Maria" sua "sposa", incinta di "quel che è generato in lei... dallo Spirito Santo» (Mt 1,20), affinché Gesù, "chiamato Cristo", nasca dalla sposa di Giuseppe nella discendenza messianica di Davide» (Catechismo, 437).
Tutt'altro che giusto, nel senso abituale del termine, è Giuseppe, lo sposo di Maria. Giusto sarebbe piuttosto chi, in osservanza della Legge mosaica, espone la propria donna alla pubblica condanna se è incinta di qualcun Altro. Eppure Giuseppe è definito giusto con un significato ben più profondo. Giusto è nel vangelo di Matteo chi cerca la volontà di Dio in qualsiasi situazione, soprattutto quando non riesce a decifrarla. Nella ricerca della giustizia così intesa, Giuseppe è il gigante della fede che si lascia guidare in sogno dall'angelo senza profferire parola, né obiezioni di sorta. Tuttavia per cercare la volontà o la giustizia di Dio c'è un segreto che vale per tutti i tempi: il silenzio. E di Giuseppe non abbiamo una parola nel Nuovo Testamento, tale è la sua ricerca della giustizia di Dio. Il rischio che corre Giuseppe è, in certo senso, maggiore di quello di Maria, soprattutto in una società, come quella giudaica del tempo in cui i diritti e i doveri maschili sono più gravosi di quelli femminili. Guidato dai sogni, Giuseppe interpreta la volontà di Dio per sé e la sua sposa. Nulla di più labile o non verificabile con la ragione, tant'è che oggi i sogni sono diventati fonti di lucro per i numeri a lotto. Ma nella Scrittura il sogno è il momento privilegiato in cui Dio si lascia cercare. Per questo grande è la fede di Giuseppe che si accontenta dei sogni per cercare e trovare la giustizia di Dio. Sarebbe l'ora di smetterla sull'età senile di Giuseppe per sostenere la verginità di Maria: non c'è un luogo del Nuovo Testamento in cui Giuseppe è presentato come vecchio. Naturale è piuttosto che si debba pensare a un giovane che ha anteposto la giustizia e la volontà di Dio alla sua, mettendo a repentaglio la propria credibilità. Uomo giusto non è chi osserva con scrupolo la legge, ma chi cerca per mezzo di essa la volontà di Dio che la sovrasta.
29/12/2012 15:58
 
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Giuseppe è il marito di Maria e padre adottivo di Gesù , rivolgiamoci a Maria , Gesù e Giuseppe e Maria, sempre siano lodati,lui accettò la volontà del padre che lui badasse e crescesse Gesù nella sua infanzia
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30/12/2012 14:25
 
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Maranatha, venuta nella carne

«"Maran atha" (Il Signore viene!"), oppure "Marana tha" (Vieni, Signore!") (1Cor 16,22), "Amen, vieni, Signore Gesù!" (Ap 22,20)" (Catechismo, 451).
Nella conclusione di 1Corinzi Paolo riporta forse la più antica confessione di fede delle prime comunità cristiane: maranatha. L'espressione può essere resa in due modi: "Il Signore nostro è venuto (maran atha)" oppure "Signore nostro, vieni" (marana tha). Entrambe si richiamano a vicenda poiché il Signore è venuto (riconoscimento) ed è così invocato nelle prime comunità cristiane (attesa). Comunque la confessione aramaica conduce all'ambiente delle prime comunità cristiane palestinesi (anni 35-40 d.C.) per diffondersi, in pochi anni, fra tutte le comunità cristiane e paoline. Gesù non è diventato Signore con l'inculturazione del cristianesimo in ambiente ellenistico, come si pensava nella prima parte del secolo scorso, ma è riconosciuto come tale già nelle comunità palestinesi. Indicativo è che a differenza ad esempio di "abba, Padre", maranatha non è tradotto, ma è semplicemente traslitterato in greco, data l'immediata diffusione. L'ambiente in cui la brevissima formula di fede sorge è quello liturgico e in particolare della celebrazione eucaristica. Non è fortuito che proprio in 1Corinzi, quando Paolo ricorda le parole di Gesù, durante la cena, richiami in chiusura la stessa professione e l'invocazione della fede: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26). La stessa invocazione sarà rivolta dallo Spirito e la Sposa (la Chiesa), a chiusura dell'Apocalisse: "Vieni!" (Apocalisse 22,17). E torna nella Didaché (fine I sec. d.C.) come professione di fede, subito dopo l'insegnamento sulla cena eucaristica: «Se uno è santo, venga; se uno non lo è, si converta. Maranatha. Amen» (10,6). Ogni volta che i cristiani celebrano l'eucarestia, partecipano al pasto del Signore Gesù e non a un ricordo del passato, né a un comune banchetto fra amici. Con la loro fede attendono colui che è già venuto nella carne. Questo il contenuto centrale della fede per l'Avvento e il Natale che celebriamo ogni anno. Purtroppo questa tensione della fede ci manca, ma ci è sempre ricordata quando partecipiamo alla cena del Signore.
01/01/2013 13:53
 
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Invochiamo sempre lo spirito santo, lui ci saprà guidare
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02/01/2013 12:09
 
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Il Battista, testimone della Verità

«Precedendo Gesù "con lo spirito e la forza di Elia" (Lc 1,17), gli rende testimonianza con la sua predicazione, il suo battesimo di conversione ed infine con il suo martirio (Cf Mc 6,17-29)» (Catechismo, 523).
Ogni evangelista ritrae Giovanni Battista con prospettive diverse che ne approfondiscono la grandezza. Il Battista è il precursore che chiede la conversione del cuore per il perdono dei peccati (Marco); il precursore che si limita a domandare la conversione perché soltanto Gesù può rimettere i peccati (Matteo); l'ultimo e più grande profeta della storia della salvezza (Luca); l'amico dello Sposo che gioisce per l'incontro tra Gesù e la Sposa (Giovanni). Tutti però evidenziano la sua testimonianza della fede che non è autoreferenziale, ma rinvia a Gesù. Il Battista aveva tutte le carte in regola per farsi acclamare come Messia, ma ogni volta ha declinato la richiesta della folla. La sua testimonianza alla verità giunge sino all'effusione del sangue. A riguardo vale la pena riportare quanto Flavio Giuseppe riporta nelle Antichità Giudaiche 18,117 su Giovanni Battista: «Erode infatti aveva ucciso quest'uomo buono che esortava i Giudei a una vita virtuosa, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo». I martiri della fede s'impongono con la loro vita spesa per la verità e non semplicemente per il loro coraggio. Dei ritratti segnalati il più originale è del Quarto vangelo, che presenta il Battista come l'amico dello Sposo (Giovanni 3,29-30). A questi spetta non tradire mai la fiducia dello Sposo e preparare al meglio la festa nuziale. Quando poi la festa si chiude nel miglior modo, la sua gioia è grande. Non sostituirsi mai alla fede degli altri, ma accompagnarla nell'incontro con lo Sposo, è una responsabilità ardua da svolgere; ma il Battista è rimasto fedele al compito affidatogli. La fede ha bisogno di testimoni per essere trasmessa; ma di testimoni che non si sostituiscono alla ricerca faticosa di ognuno. Guardare al Battista significa essere rimandati altrove: verso l'agnello che toglie i peccati del mondo. Diminuirsi per lasciare il posto a chi deve crescere è di chi non possiede la verità, ma ne indica la strada perché ha visto e ha testimoniato: «E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Giovanni 1,34).

02/01/2013 16:10
 
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Giovanni battista fu uno dei primi martiri se non il primo in assoluto che mori per testimoniare Gesù, invochiamolo per intercedere contro i persecutori di questo mondo, che ci protegga da loro che Gesù illumini i cuori di questi persecutori, s.Giovanni battista prega per noi porta le nostre preghiere A Gesù a cui tu sei stato molto legato e a Dio
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03/01/2013 12:34
 
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L'inizio del Vangelo: la conversione

«Ecco la Buona Novella riguardante "Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Mc 1,1 )» (Catechismo, 422).
L'incipit del Vangelo di Marco è lapidario e, a prima vista, sembra dire tutto di Gesù: è il Messia e il Figlio di Dio. In realtà, quell'inizio condensa una serie di domande che Marco intende approfondire con il suo Vangelo. In che senso Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio? Dove e quando egli è il Cristo? E dove e quando è il Figlio di Dio? Quali sono gli eventi che ne rivelano la duplice identità? Prima di Marco il termine "vangelo" aveva connotati diversi: una notizia bella o buona, breve e verbale. Il termine non era neanche di tipo religioso, bensì profano: "vangelo" è la nascita di un figlio insperato, di una liberazione attesa da anni o di una guarigione. Si deve a Marco se il termine ha assunto forme e contenuti diversi: raccontare Gesù Cristo che ha fatto del "vangelo" la sua missione, sino a identificarsi con esso. Prima di essere predicato nei Vangeli, Gesù ha predicato il vangelo. Quell'inizio è come la chiave d'accesso che progressivamente dischiude un mondo di relazioni tra Gesù e il vangelo. E conduce verso un altro inizio: quello della vita pubblica di Gesù, posto dopo gli antefatti del Battesimo e delle tentazioni nel deserto. Gesù si reca in Galilea e dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel vangelo» (Marco 1,14-15). Con Gesù si compiono i tempi delle attese e si avvicina non un regno umano o politico, bensì di Dio. Le due richieste per chiunque sono la conversione e la fede nel vangelo che Gesù inizia a rivelare. Convertirsi non è disgiunto dal credere, bensì gli è vincolato senza soluzione di continuità. Non convertirsi per poi credere nel vangelo; in tal caso Gesù resterebbe ancora ad aspettare! Piuttosto convertirsi è, nello stesso tempo, credere nel Vangelo: fidarsi che incontrare lui significa imbattersi nella notizia più vera e bella che sia stata data agli uomini. In fondo l'espressione "nuova evangelizzazione", che stiamo approfondendo nell'anno della fede, è un'urgente ripetizione, poiché il Vangelo o è nuovo o non è, punto!
[Modificato da ulisseitaca 03/01/2013 12:34]
03/01/2013 14:20
 
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si, Gesù è figlio di Dio, quello che siede alla sua destra come dice il credo,tutti siamo figli dello stesso Dio, ma Gesù è il messia quello che siede alla sua destra, Dobbiamo convertirci e credere nel vangelo, come dice Gesù non sapremo nè il giorno nè l'ora, lodato sia Gesù
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QUELLO CHE AVETE UDITO, VOI ANNUNCIATELO DAI TETTI (Mt 10,27)
 
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