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CONOSCIBILITA' DI DIO

Ultimo Aggiornamento: 26/01/2019 11:15
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05/09/2012 13:49
 
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Oggi ci si interroga spesso sul senso del “progresso” talora in toni entusiastici, talora in termini catastrofisti … talaltra si cerca di fare una riflessione pacata, ma – se possibile – profonda. A nostro avviso sarebbe opportuno pensare – accanto al progresso “tecnico” – ad un un “progresso spirituale” in ragione del progredire del senso di responsabilità degli uomini (gli uni verso gli altri e nei confronti dell’intero genere umano). In tale prospettiva un nodo cruciale da sciogliere sarà quello delle modalità con cui si configura il rapporto tra scienza ed etica.

Il nodo del rapporto tra scienza ed etica: diverse prospettive a confronto

Proponiamo in modo sintetico tre paradigmi culturali di riferimento, che – a nostro avviso – coprono nel loro complesso una superficie culturale abbastanza ampia:

Una visione sostanzialmente “positivista”, per cui il rapporto tra etica e scienza si pone in termini “interni” ai parametri culturali della scienza stessa (Monod);

Una visione “sistemica” che considera l’interazione “di fatto” delle variabili culturali che sono “date” in una determinata epoca (Evandro Agazzi);

Una visione “classica” per cui il rapporto tra scienza ed etica si pone in seno alla riflessione sull’agire morale dell’uomo (S. Tommaso, Maritain, ecc).

Vogliamo dedicare un’attenzione significativa – pur esponendola per sommi capi - alla posizione di Monod che si scaglia contro la possibilità di fondare valori tali da collocarsi al di là del regno della libertà umana, sia che si basino su elaborazioni mitologiche, sia che si fondino su ragionamenti filosofici, sia che si riferiscano ad un credo religioso (che surrettiziamente Monod pone sullo stesso piano delle mitologie):

«praticamente in tutti i sistemi mitici, religiosi o filosofici, l'esistenza dell'uomo acquista un significato per il fatto che la si considera parte di un qualche disegno generale che spiega il complesso della natura e della creazione. Il "significato" può essere ingenuamente attribuito a un mitico eroe fondatore oppure, in modo più pomposo (ma meno poetico) a una qualche intenzione divina astratta; o si può anche pensare che le "leggi della natura" siano tali che l'universo, nella sua evoluzione, doveva necessariamente arrivare a produrre l'uomo e la sua storia, la quale alla fine porta inevitabilmente a una società senza classi. [...] Tutti ipotizzano fra l'uomo e l'universo, fra la cosmologia e la storia, una continuità ininterrotta, un'alleanza immanente e profonda, in cui l'uomo e la natura servono insieme alla realizzazione del disegno universale oppure procedono insieme verso la conclusione inevitabile di tutto il creato»[1].

La scienza, per il nostro autore, avrebbe distrutto in radice la possibilità di una siffatta visione del cosmo e dell'uomo: progressivamente l'eliminazione di ogni forma di "vitalismo animistico" si sarebbe estesa dal mondo della natura inorganica a quello vivente, a quello animale (si pensi alla teoria evoluzionista) e, infine, all'uomo. In ogni caso andrebbe escluso ogni intervento "finalistico" in tutto questo processo, perché sarebbe contrario alle leggi fondamentali delle mutazioni in campo biologico[2].

Posto questo crollerebbe ogni possibilità di "fondare" valori assoluti basati su leggi eterne o su legislatori divini: unica vera legge ineluttabile sarebbe quella della "casualità", a cui nessuno, uomo in testa, potrebbe sottrarsi. Bisogna ammettere - sostiene Monod - che è l'uomo a creare i valori, ponendoli alla base di un sistema assiomatico di cui lui stesso sceglierà il fondamento. I valori basilari, fondamento supremo di tale etica assiomatica, dovrebbero essere, per Monod, l'arte e la scienza[3].

La conoscenza oggettiva e scientifica, infatti, è il frutto più maturo della progressiva "emergenza" che ha portato progressivamente alla nascita degli esseri viventi, degli animali e dell'uomo. Essa si è imposta in forza di una "selezione naturale" determinata (a suo vantaggio) dall'immenso potere pratico che mette nelle mani degli uomini; ne deriva un'"etica della conoscenza" che, per il nostro autore, pare l'unica in grado di soddisfare le complesse esigenze di una visione dell'uomo fondata interamente sui dati che la scienza biologica (il cui modello conoscitivo ed i cui risultati in un determinato campo vengono assolutizzati come unico "punto di vista") avrebbe fornito sull'essere umano:

«L'etica della conoscenza è radicalmente diversa dai sistemi religiosi o utilitaristici che vedono nella conoscenza non il fine, ma un mezzo per raggiungerlo. Il solo scopo, il valore supremo, il "sommo bene", nell'etica della conoscenza, non è, confessiamolo, la felicità degli uomini [...]: è la pura e semplice conoscenza oggettiva. Io penso che sia giusto dirlo; che si debba sistematizzare questa etica, che si debba farne scaturire tutte le implicazioni morali, sociali e politiche, che si debba diffonderla e insegnarla, perché, avendo creato il mondo moderno, è la sola compatibile con esso. [...] E' un'etica che insegnerà di conseguenza il fermo rifiuto della violenza e del dominio temporale; un'etica della libertà personale e politica, dato che la contestazione, la critica, la costante rimessa in questione vi trovano posto non solo come diritto, ma come dovere; un'etica sociale, poiché la conoscenza oggettiva può essere stabilita come tale solo all'interno di una comunità che ne riconosce le norme»[4].

L'esito finale della speculazione etica di Monod, per cui "sommo bene" non sarebbe la felicità degli uomini ma «la pura e semplice conoscenza oggettiva», non deve sembrare una soggettiva "intemperanza" dell'autore, una sorta di eccessiva concessione ai sogni di uno scientismo radicale. A nostro avviso l'identificazione del sommo bene, per l'uomo, con la pura e semplice conoscenza oggettiva è la conseguenza più radicale, ma coerente, della presupposizione iniziale (condivisa non solo da Monod) per cui i criteri di un'etica della scienza dovrebbero sorgere dall'interno della scienza medesima: dopo avere scacciato "dalla porta" ogni sorta di finalismo non è più possibile farlo rientrare "dalla finestra" in alcun modo. O si ammette che l'attività scientifica come tale (in quanto attività umana) è già sotto il dominio dell'etica, per cui deve rispondere fin dal principio della liceità o illiceità dei suoi atti, oppure non sarà più possibile reintrodurre, nell'attività scientifica, finalità diverse da quelle della scienza come tale (ovvero «la pura e semplice conoscenza oggettiva» di cui parla Monod).

Un interessante ampliamento di prospettiva rispetto alla posizione di Monod consisterebbe nel tentativo, da parte di alcuni autori, di esplicitare le potenzialità che implicitamente si trovano all'interno delle varie discipline scientifiche, nel quadro di una collaborazione teorica transdisciplinare, per realizzare la quale non bastano, però, alcuni superficiali contatti giustappositivi, ma bisogna riuscire a creare un nuovo paradigma epistemologico[5] in grado di rendere tra loro "comunicanti" aree scientifiche oggi avviate ad una sempre più radicale separazione. Questo significa che anche l'etica potrebbe venire reinserita all'interno di un unico paradigma epistemologico comprendente anche le varie discipline scientifiche:

«L'antica scienza aveva separato il regno della scienza da quello dell'etica, la scienza nuova deve integrare nella ricerca scientifica, come suo oggetto proprio, l'antropologia e l'etica. In altri termini la questione etica, inserita negli obiettivi della ricerca scientifica, viene a costituire un nuovo punto di vista - appunto quello della complessità - per il costituirsi stesso dell'oggetto scientifico»[6].

Tale posizione si innesta nel complesso dibattito circa il problema della "oggettività" e "neutralità" della scienza, che ha ormai chiaramente messo in luce tanto i profondi legami del mondo della ricerca scientifica con il più ampio contesto storico-sociale in cui si inserisce, quanto i legittimi spazi di autonomia che rimangono propri della ricerca scientifica in quanto intimamente protesa alla ricerca del "vero" individuato entro i parametri di un'oggettività garantita dal rigore formale e dalla verifica intersoggettiva degli asserti[7]. Il dato di fatto su cui si basa tale intuizione è sotto gli occhi di tutti e consiste nelle profonde e reciproche interazioni tra il mondo della ricerca scientifica e quello della realtà storico-sociale:

«La ricerca scientifica, insomma, viene fatta da uomini in un preciso ambiente socio-economico: e questi uomini non si riducono alle loro teorie scientifiche. Come uomini sono sempre qualcosa di più che ricercatori. Ed anche la loro ricerca (scientifica ed oggettiva) si svolge, lo si voglia o meno, lo si sappia o meno, all'interno di una fitta trama di valori extrascientifici [...]. Decidere di fare ricerca scientifica e di interessarsi di certi problemi invece che di altri sono decisioni intrise di valori extrascientifici; come, parimenti, sono intrise di valori extrascientifici le decisioni di usare una scoperta in un senso o nell'altro. I condizionamenti socio-economici da parte degli stati, dei privati e degli eserciti si fanno, specie per precisi ambiti della ricerca odierna (fisica, chimica, biologica e matematica) sempre più massicci ed imprescindibili»[8].

La stessa esistenza di tale fitta trama di rapporti tra interessi propriamente scientifici ed interessi extrascientifici pone automaticamente il problema del tipo di atteggiamento che la comunità scientifica o i singoli scienziati possono assumere al riguardo, a motivo della particolare competenza con cui essi esercitano il proprio ruolo all'interno di una determinata realtà sociale. A motivo dell'alto valore delle sue conoscenze derivano allo scienziato obblighi e responsabilità sociali di alto rango: «Ognuno ha una responsabilità speciale nel campo in cui possiede un potere o una conoscenza speciale. Ne deriva che solo gli scienziati possono giudicare le implicazioni delle loro scoperte. Il laico, il politico, non sanno abbastanza (...) E' l'accesso potenziale alla conoscenza che crea l'obbligazione»[9].

Si potrebbe facilmente obiettare[10] che lo scienziato non può prevedere tutte le possibili conseguenze di una sua determinata scoperta, ma a tal riguardo ci si consenta di precisare che, intanto, può prevederne alcune o anche molte e rispetto a quelle ha la precisa responsabilità di avvisare gli altri ricercatori (in primo luogo) e (più in generale) la società degli uomini di cui fa parte; inoltre, oggi come oggi, una determinata scoperta non esce mai del tutto dalla comunità scientifica: quando il "ricercatore puro" ha terminato il suo lavoro esso viene affidato a dei "tecnici" che si occupano di studiarne le varie applicazioni possibili, ma essi sono a loro volta degli scienziati, a loro volta responsabili del tipo di ricerca che svolgono e di avvisare dei possibili usi che essa potrebbe avere. Quando una determinata scoperta esce dai laboratori per entrare (ad esempio) nelle fabbriche, l'ultimo degli scienziati che vi ha lavorato sopra sa benissimo il tipo di uso per cui (in ultima analisi) l'ha preparata e, se si tratta di un uso intrinsecamente negativo, ne porta tutta la responsabilità (a meno che non abbia fatto tutto quello che era in suo potere per dissuadere i colleghi, gli industriali, i politici, l'opinione pubblica, da ogni possibile cattivo uso dei frutti della sua ricerca).

A questo problema si collegano alcune riflessioni di Evandro Agazzi, che si interroga esplicitamente sul tema della responsabilità della scienza nella società contemporanea, a partire dalla constatazione della ricorrente tentazione[11], da parte degli scienziati, di "disinteressarsi" del problema dell'uso dei risultati delle proprie ricerche (come se non li riguardasse più):

«In realtà, bisogna saper tenere distinto il "valore conoscitivo" delle affermazioni scientifiche (il quale sta o cade in base a criteri oggettivi, che nulla hanno a che fare con gli interessi e i condizionamenti extrascientifici che possono cercare di sfruttarlo o di ostacolarlo), dal contesto sociale e politico in cui "si fa" scienza, e nel quale invece tutti i possibili tipi di "interessi" (nobili e meno nobili) hanno pieno campo d'azione. In quanto "forma di sapere", la scienza è e deve essere "neutrale", ma ciò non ci impedisce di riconoscere che non sono affatto "neutrali" le scelte che condizionano il concreto indirizzarsi della ricerca scientifica e le diverse utilizzazioni che degli esiti di tale ricerca possono venire compiute. Il problema si presenta allora come quello di riuscire a conciliare la "neutralità" della scienza sul primo piano con la sua "non-neutralità" sull'altro piano»[12].

Pur facendo tutte le debite distinzioni, se ci poniamo in questa ottica, non pare più possibile escludere il riferimento ad una dimensione valoriale dalla concreta prassi scientifica: non tanto sul versante del contenuto di verità di ciò che scopre e afferma, quanto sul versante delle finalità e dei motivi che comunque orientano in modo reale e massiccio la direzione delle ricerche. Infatti, secondo Agazzi, «il sistema scientifico-tecnologico è appunto un sistema, ma nello stesso tempo non è il sistema globale. Soltanto facendo riferimento ad altri sistemi, pertanto, può essere possibile intraprenderne una valutazione e prospettarne un orientamento e un controllo, tuttavia senza mai cadere nell'illusione che si tratti soltanto di uno "strumento": in quanto sistema, esso possiede una propria identità ed autonomia, interagisce con gli altri sistemi, ha la tendenza ad imporsi e fagocitare, ma non può neppure sottrarsi agli influssi che provengono dall'esterno»[13].



Abbiamo sommariamente analizzato due diverse impostazioni del rapporto tra conoscenza scientifica e responsabilità degli scienziati, entrambe fondate sul comune presupposto di muoversi sostanzialmente "all'interno" degli spazi concettuali disegnati dalla mentalità scientifica in quanto tale. Per Monod tale mentalità scientifica non è soltanto disgregatrice delle varie impostazioni teologico-mitologico-metafisiche del problema etico, ma è essa stessa la fonte unica dei valori umani, in piena sintonia con quanto affermavano i più rigidi positivisti del secolo scorso, appiattendo tutta l'esistenza umana al livello di ciò che è scientificamente indagabile. Per Morin, Agazzi e i fautori dell'"epistemologia della complessità" il riferimento ai valori morali emerge per esigenza intrinseca dell'operare degli scienziati, a patto che non consideriamo il sistema scientifico come un sistema chiuso, ma lo consideriamo un sistema aperto, tendenzialmente "adattivo" e quindi condizionato e condizionante rispetto alla realtà storico-sociale in cui si inserisce, incluso il riferimento alla dimensione dei valori. Resta comunque da chiarire come determinare tali valori e come stabilire dei "criteri di controllo" rispetto ad essi (pena una totale "anarchia" etica).



Tralasciando la gratuita affermazione di Monod, per cui fine ultimo dell'esistenza umana sarebbe semplicemente l'acquisizione delle verità scientifiche (per cui la vita di tutti coloro che non sono scienziati sarebbe, semplicemente, priva di senso), merita attenta considerazione il tentativo operato da Evandro Agazzi sulla via di una fondazione "sistemica" dell'etica della ricerca scientifica. Egli innanzitutto definisce il sistema scientifico (SS) come "un sistema adattivo aperto, il cui specifico obiettivo globale è quello di produrre una forma di conoscenza oggettiva e rigorosa e di diffonderla nel contesto sociale a scopi conoscitivi e pratici"[14]. Nel tentativo di massimizzare la realizzazione dei propri scopi il sistema scientifico si incontra con istanze di vario genere e natura (politico, economico, sociologico, ... e anche etico):

«L'etica entra a fare parte di questo processo non perché abbia diritto di censura o supervisione su SS, ma perché anche il "sistema morale" o "sistema etico" fa parte dell'ambiente di SS, vale a dire che influisce su SS e ne viene al tempo stesso influenzato. Ma questo significa pure che il raggiungimento degli obiettivi di SS va armonizzato, in particolare, anche con le esigenze del sistema morale»[15].

Agazzi passa poi ad analizzare i meccanismi di input (richieste, appoggi e ostacoli) e di output (secondo i noti meccanismi di feedback) che regolerebbero i rapporti tra il sistema scientifico e il sistema etico: il sistema scientifico, per raggiungere i suoi fini propri (massimizzazione delle attività miranti a produrre conoscenze oggettive e a realizzare scopi pratici) non può non tener conto degli inputs di carattere etico che gli provengono dall'ambiente in cui si trova ad operare. «Così intesa, la responsabilità diventa dunque parte integrante della ricerca scientifica in quanto tale, sebbene in maniera in certo qual modo indiretta»[16]. La funzione dell'etica, in tale prospettiva, si ridurrebbe al ruolo di coadiutrice nel suddetto processo di ottimizzazione dei rapporti reciproci tra i due sistemi: il sistema scientifico non deve venire ostacolato al punto da scendere al di sotto di una certa soglia nella realizzazione dei suoi obiettivi propri, il sistema etico non deve, a sua volta, scendere al di sotto di una sua "soglia"[17] nella realizzazione dei propri. Agazzi, in altri termini, sostiene che non esistono valori assoluti (che sarebbero fonte di conflitti insolubili tra posizioni tra loro irriducibili), ma che tutti i valori possono e debbono entrare in tale meccanismo di ottimizzazione.

Tale analisi, finché si mantiene sul piano descrittivo dei rapporti "di fatto" esistenti tra "sistema scientifico", "sistema etico", "sistema politico", ecc., ha una notevole efficacia e può costituire un ottimo punto di partenza per porre (non per risolvere) il nostro problema, oltre ad offrire utili indicazioni concrete per chi desideri contribuire ad un migliore "assestamento" dell'odierna cultura scientifica rispetto alle esigenze del mondo dei valori. In questo modo, però, il problema da cui eravamo partiti viene solamente spostato: come si può stabilire tale "soglia", al di sotto della quale il "sistema etico" perde totalmente la sua identità e la propria ragion d'essere? Ovvero come identificare quei valori basilari, che dovrebbero risultare normativi per l'uomo in genere e per lo scienziato in particolare? Il nostro autore suggerisce una sorta di "confronto dialettico", che non presuppone nessun valore assoluto, ma è disposto a far sì che tutte le diverse impostazioni etiche possano trovare il loro spazio:

«si tratta di instaurare un confronto dialettico tra le varie scelte, per giudicare spassionatamente e razionalmente come, nella situazione effettiva, si comporti il rapporto reciproco tra i valori e i doveri, e attenersi alla condotta che assicuri l'ottimizzazione, rimanendo consapevoli che nessun valore sarà completamente soddisfatto, che alcuni risulteranno sacrificati più di altri, ma nel complesso la soluzione scelta sarà la migliore possibile»[18]

Questa fiducia nelle possibilità di un'etica affidata totalmente al "libero" (non condizionato da "valori assoluti") dialogo di coloro che sono coinvolti nelle varie decisioni da prendere, lascia già intravvedere la proposta di "regolamentazione" della ricerca scientifica avanzata da Agazzi soltanto nelle ultime quattro pagine del suo libro: non è sufficiente un'autoregolamentazione degli scienziati, perché tale impostazione tratta il sistema scientifico-tecnologico come un sistema chiuso; la comunità dei dialoganti deve coinvolgere tutti, perché tutti sono corresponsabili della gestione di ciò che riguarda tutti.

Di fronte alle visioni sopra delineate non perde il suo vigore la prospettiva che potremmo definire “classica”, per cui è possibile ribadire le responsabilità morali personali degli scienziati (in quanto uomini) rispetto ai motivi per cui determinano il fine delle proprie ricerche e rispetto alla liceità delle metodologie da loro utilizzate. Le teorie scientifiche sono divenute un punto di riferimento nella formazione della coscienza pubblica e possono dunque avere effetti morali e politici inaspettati. I doveri dello scienziato circa le modalità della comunicazione delle proprie scoperte si fanno dunque sempre più raffinati. Una particolare responsabilità deriva inoltre allo scienziato dall'autorevolezza che, nella nostra mentalità di oggi, viene attribuita alla cultura scientifica, anche al di là e oltre le proprie competenze specifiche. Sulla medesima linea ci si può spingere ancora oltre, affermando che la dimensione etica è intrinseca al sapere tecnico-scientifico in quanto sapere "umano":

«Mai come in questi anni la tensione tra etica e scienza/tecnica si è data tanto acuta, poiché mai nei secoli passati la scienza e la tecnica hanno visto crescere la loro capacità e ampliarvi i loro confini nella misura presente. Il conflitto, tuttavia, nasce da un errato modo di concepire il rapporto tra l'etica e la scienza/tecnica come se fossero estrinseche l'una dall'altra, al punto che lo scienziato vede nel moralista una sorta di nemico che vorrebbe tenere in soggezione la sua attività e limitarne la libertà di ricerca o di sperimentazione o di applicazione. Il rapporto invece è intrinseco, nel senso che la dimensione etica è interna alla scienza e alla tecnica, al punto che è proprio la dimensione etica a preservare l'una e l'altra dalla loro stessa corruzione»[19].

Se è vero quanto appena affermato, se ne può coerentemente dedurre che nessuna scienza è del tutto "neutrale" (nel senso dato al termine nel contesto del dibattito a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente) e che l'autonomia della scienza (rispetto a imposizioni coercitive esterne) non deve tradursi in una sorta di pretesa "autonomia dall'etica"[20], che non può assolutamente venire paragonata ad una sorta di estrinseco ed illegittimo coercitore.

Una "mappa problematica" per orientarsi

Mettendo tra parentesi il dibattito sui fondamenti di un’etica della scienza, proponiamo una mappa schematica dei principali livelli di problemi che si potrebbero porre, con alcune idee per orientarsi all’interno di essi. Tale mappa non vuole avere un carattere esaustivo, ma si propone di sollecitare una riflessione che – a nostro avviso – merita di essere approfondita.

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