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COMMENTO ALL'APOCALISSE

Ultimo Aggiornamento: 13/12/2011 13:22
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13/12/2011 13:15
 
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LE SETTE TROMBE
(8,2–11,19)

LE PRIME QUATTRO TROMBE

2 Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe.
Le preghiere dei santi affrettano la venuta del grande giorno
3 Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. 4 E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi. 5 Poi l'angelo prese l'incensiere, lo riempì del fuoco preso dall'altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto.
6 I sette angeli che avevano le sette trombe si accinsero a suonarle.
7 Appena il primo suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra. Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.
8 Il secondo angelo suonò la tromba: come una gran montagna di fuoco fu scagliata nel mare. Un terzo del mare divenne sangue, 9 un terzo delle creature che vivono nel mare morì e un terzo delle navi andò distrutto.
10 Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. 11 La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare.
12 Il quarto angelo suonò la tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente.
13 Vidi poi e udii un'aquila che volava nell'alto del cielo e gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare!».

Le sette trombe ripetono, in una sorta di parallelismo, lo stesso movimento dei sette sigilli. Anche il contenuto è molto simile. Ma non è pura ripetizione: le immagini variano e le sciagure sembrano aumentare d’intensità. È come se ci avvicinassimo, a spirale, verso un centro che continua ad allontanarsi. Infatti il settimo sigillo, il più atteso, anziché offrirci la soluzione del mistero, si apre su una sequenza di sette quadri (le sette trombe).

Le prime quattro trombe (come l’apertura dei primi quattro sigilli) suonano in rapida successione, e la narrazione è veloce e scattante. Man mano che ci si avvicina alla fine il movimento rallenta: le narrazioni che seguono il suono della quinta e della sesta tromba sono più distese, e prima della settima tromba ci sono ampie pause. I simboli che Giovanni usa nel cap. 8 (le prime quattro trombe) sono piuttosto semplici.

Secondo la tradizione ebraica sette angeli stanno in piedi davanti a Dio: "lo sono Raffaele, uno dei sette angeli, che stanno sempre alla presenza della maestà di Dio" si legge nel libro di Tobia 12,15. La tromba è un personaggio frequente nei passi escatologici ed apocalittici: "Suonate la tromba in Sion, perché è vicino il giorno del Signore" (Gl 2,1); "Il Signore, in persona, al comando, al grido dell’arcangelo, allo squillo della tromba divina, scenderà dal cielo" (1Ts 4,16). Il profumo dell’incenso che sale verso il Signore e poi il fuoco disceso sulla terra, significano che le preghiere dei giusti perseguitati sono state esaudite. Giovanni si riferisce certamente alla preghiera riportata in 6,9-11: "Fino a quando, Signore, tu che sei santo e fedele, non farai giustizia vendicando il nostro sangue". I flagelli che si scatenano corrispondono, a grandi linee, alle piaghe d’Egitto (Es 7-12): i riferimenti sono però fatti con molta libertà. Non riguardano soltanto un popolo, ma il mondo intero. Gli uomini capiranno la lezione e sapranno approfittarne? È questo l’interrogativo, per ora sotteso, ma che più avanti diventerà esplicito, che il lettore deve porsi.

Il castigo è tremendo, ma non ancora totale: solo la "terza parte" della terra, del cielo e delle acque è colpita. Negli scritti rabbinici "un terzo" denota una limitazione. All’apertura del quarto sigillo si parlava di una distruzione destinata a colpire la quarta parte della terra: "Fu dato loro il potere di sterminare la quarta parte della terra con la spada, la fame, la peste e con le fiere" (6,8).

Le ultime tre trombe sono annunciate da un’aquila che grida tre volte "guai!". Con questo nuovo simbolo, Giovanni ottiene due effetti: ritardare il suono delle ultime trombe e creare l’impressione che i flagelli che stanno per venire saranno ancora peggiori. I flagelli che si abbattono sulla terra non sono dovuti al caso, né hanno come protagonisti solo gli uomini: sono l’esecuzione dei divini decreti, sono un giudizio e un avvertimento. Il senso profondo di ciò che sta per accadere è questo: le preghiere dei giusti sono esaudite e nel mondo, finalmente, sta per giungere il momento del rendiconto.

*****

vv. 2–6. I sette arcangeli ricevono le sette trombe per convocare tutti a giudizio. Appena essi si preparano a suonare le trombe viene annunziato l’avvicinarsi della fine. Ma prima che ciò avvenga un altro angelo si avvicina all’altare celeste degli incensi. L’angelo riceve molti profumi per bruciarli a favore di tutti i santi (5,8). Secondo Tb 12,12 gli arcangeli portano in alto, a Dio, le preghiere; questa funzione sacerdotale è compiuta qui da quest’altro angelo. Il profumo che sale a Dio annuncia simbolicamente che le suppliche dei santi, della chiesa oppressa e perseguitata, si innalzano fino a Dio. Lo stesso angelo che ha portato a Dio la preghiera ora prende l’incensiere, lo riempie di carboni ardenti presi dall’altare e li rovescia sulla terra (Ez 10,2), affinché questa sia colpita da tremende catastrofi: ciò significa che le preghiere dei santi che salivano a Dio gli chiedevano appunto di affrettare la fine e di effettuare presto il giudizio (6,9-11).

Gli orrori che precorrono il giudizio universale si riversano sulla terra producendovi una terribile desolazione, ma nulla di tutto ciò recherà danno ai giusti; le loro preghiere giungono al trono di Dio e sono esaudite.

vv. 7–12. Gli angeli suonano le loro trombe uno dopo l’altro per dare inizio a nuovi avvenimenti. La morte, che aveva cominciato a imperversare all’apertura dei sigilli, esercita già il suo dominio su un quarto della terra (6,8); ma ora gli orrori apocalittici si aggravano e colpiscono rispettivamente un terzo della terra, del mare, dei fiumi e delle sorgenti, e delle stelle. Le piaghe che seguono sono ancora peggiori delle precedenti, ma le devastazioni non hanno ancora distrutto ogni cosa e quindi non si è ancora giunti alla fine degli orrori. In queste immagini è evidente il riferimento alle piaghe d’Egitto (Es 7–10). Le tremende calamità naturali riusciranno a condurre gli uomini alla conversione o ne provocheranno solo l’ostinata impenitenza, come un tempo fece il faraone d’Egitto?

Dopo che il primo angelo ha suonato la tromba cadono sulla terra grandine e fuoco misti a sangue. Si allude alla settima piaga d’Egitto (Es 9,23-26). Questa orrenda pioggia cade su tutta la terra come un preannuncio della fine (GI 3,3-4) e devasta un terzo della terra e degli alberi. Gli incendi distruggono i frutti della terra, di cui gli uomini hanno assoluto bisogno per vivere. Nella seconda visione una stella incandescente precipita dal cielo sprofondando nel mare, cambiandone la terza parte in sangue (cf. la prima piaga d’Egitto, Es 7,20–21). Di conseguenza perisce un terzo degli esseri umani che vivono nell’acqua, e un terzo delle navi è distrutto. La terza visione non si ricollega alle piaghe d’Egitto. Dal cielo cade sulla terra la stella Assenzio. Questo nome indica l’effetto che essa produce. L’assenzio qui, come già in Ger 9,14-15 e Lam 3,19, è considerato un liquido velenoso; perciò molta gente dovrà morire a causa delle acque amare (Es 15,23-24). Nei tempi tremendi della fine la natura rifiuta all’uomo persino la bevanda. La quarta visione è piuttosto strana: gli astri perdono un terzo della loro luminosità. Sono come fiaccole che si consumano più rapidamente e quindi il giorno e la notte sono privati di un terzo della loro luce. Questa riduzione sottrae all’uomo un terzo della luce senza della quale è impossibile la vita. Queste quattro calamità, che si susseguono rapidamente, gettano l’intero cosmo nel caos.

v. 13. Dal punto più alto del cielo un’aquila dà un triplice annuncio di guai, che risuona per tutto il cosmo. Nella sua qualità di messaggero celeste, l’aquila annunzia che stanno per prodursi cose ancora più tremende di tutte quelle accadute fino a quel momento, e colpiranno gli abitanti della terra, cioè l’umanità incredula (3,10) che sarà raggiunta dal giudizio di Dio. Quando i tre ultimi angeli suoneranno, la rovina cadrà sugli uomini.

 

 

LA QUINTA E LA SESTA TROMBA

1 Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; 2 egli aprì il pozzo dell'Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l'atmosfera. 3 Dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra. 4 E fu detto loro di non danneggiare né erba né arbusti né alberi, ma soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. 5 Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi, e il tormento è come il tormento dello scorpione quando punge un uomo. 6 In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; brameranno morire, ma la morte li fuggirà.
7 Queste cavallette avevano l'aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d'oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. 8 Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano come quelli dei leoni. 9 Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto. 10 Avevano code come gli scorpioni, e aculei. Nelle loro code il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi. 11 Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore.
12 Il primo «guai» è passato. Rimangono ancora due «guai» dopo queste cose.
13 Il sesto angelo suonò la tromba. Allora udii una voce dai lati dell'altare d'oro che si trova dinanzi a Dio. 14 E diceva al sesto angelo che aveva la tromba: «Sciogli i quattro angeli incatenati sul gran fiume Eufràte». 15 Furono sciolti i quattro angeli pronti per l'ora, il giorno, il mese e l'anno per sterminare un terzo dell'umanità. 16 Il numero delle truppe di cavalleria era duecento milioni; ne intesi il numero. 17 Così mi apparvero i cavalli e i cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto, di zolfo. Le teste dei cavalli erano come le teste dei leoni e dalla loro bocca usciva fuoco, fumo e zolfo. 18 Da questo triplice flagello, dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo che usciva dalla loro bocca, fu ucciso un terzo dell'umanità. 19 La potenza dei cavalli infatti sta nella loro bocca e nelle loro code; le loro code sono simili a serpenti, hanno teste e con esse nuociono.
20 Il resto dell'umanità che non perì a causa di questi flagelli, non rinunziò alle opere delle sue mani; non cessò di prestar culto ai demòni e agli idoli d'oro, d'argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; 21 non rinunziò nemmeno agli omicidi, né alle stregonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie.

La quinta e la sesta tromba sviluppano due quadri molto simili. Nel primo, la visione di una voragine da cui escono fumo e un numero sterminato di cavallette. Loro compito è di tormentare gli uomini che non hanno impresso sulla fronte il sigillo di Dio. Ma subito le immagini si complicano e si sovrappongono. Le cavallette non sono più cavallette, ma cavalli pronti all’assalto, e poi uomini dalle lunghe chiome, feroci come leoni. L’impressione complessiva è di un immenso squadrone di cavalleria lanciato al galoppo.

Nel secondo quadro, la visione di quattro angeli sterminatori, ai quali è affidato il compito di sterminare un terzo degli uomini. Anche qui le immagini mutano rapidamente e si sovrappongono. L’impressione globale è la medesima: l’arrivo di un immenso esercito di cavalleria che incute terrore e semina morte.

Nonostante le molte differenze di dettaglio, le due visioni sono talmente simili da sembrare un doppione. L’autore vuole imprimerci a fondo una sensazione, ribadendola due volte.

Con le due visioni e la loro sovrapposizione, probabilmente, Giovanni ha voluto rivestire di immagini gli eserciti dei barbari che premevano ai confini dell’impero e che seminavano lutti e rovine in intere regioni (forse gli eserciti dei Parti). La cavalleria dei Parti diventa l’incarnazione delle forze distruttive, che gli uomini hanno scatenato con le loro idolatrie, e, da un altro punto di vista, lo strumento del giudizio di Dio. Inoltre, grazie appunto alla trasfigurazione che ha subito, la cavalleria dei Parti perde i suoi contorni storici precisi e circoscritti e diventa uno "schema" in grado di esprimere le distruzioni (e il loro significato di "giudizio di Dio") di tutte le guerre che accompagnano la storia.

Lo specifico però delle due visioni è racchiuso nella conclusione, sulla quale cade il peso di tutta la narrazione: gli uomini, scampati allo sterminio, non rinunciarono ad adorare i loro idoli, e non si convertirono dalle loro malvagità (vv. 20-21).

La prima cosa che si deduce da questa conclusione è che i disastri che accadono non sono una fatalità, ma hanno precise responsabilità da parte degli uomini. La seconda è che lo scopo di questi avvenimenti dolorosi è aiutare gli uomini a capire e a convertirsi a Dio. È proprio e solo in vista di questo scopo che i castighi si intensificano, si precisano, si fanno incalzanti e sempre più eloquenti, ma non distruggono totalmente e non chiudono tutte le possibilità.

Ma gli uomini, nonostante i molti richiami, restano ciechi e chiusi. Constatando le conseguenze a cui il loro vivere porta, gli uomini dovrebbero comprendere. E invece no. È una cecità sorprendente. La sottolineatura di questa ostinata cecità ritornerà ancora più avanti (16,9-11): anziché ravvedersi, gli uomini, addirittura, si ribelleranno e bestemmieranno il nome di Dio. Danno la colpa a Dio, non alle loro idolatrie. Si direbbe che più la luce è chiara e più gli uomini la rifiutano. Cecità ostinata e sorprendente, ma in realtà esperienza universale e quotidiana. Già Isaia l’aveva colta in tutta la sua ampiezza. Il profeta ricorda in apertura del suo libro (1,4-9) che l’abbandono della via di Dio richiama il castigo, e un castigo severo. Dio è costretto a punire un popolo che si regge sull’ingiustizia; ma nonostante il castigo il popolo non si ravvede. Tutto il paese è devastato, come il corpo di un uomo ferito dalla testa ai piedi; ma il popolo ancora non comprende.

Ragione dei flagelli, dalla quale gli uomini stupidamente non vogliono ritirarsi, sono l’idolatria e le opere malvagie. L’idolatria è la radice, le opere malvagie ne sono i frutti.

L’idolatria presuppone sempre due convinzioni: che l’uomo ha sempre un "signore", o Dio o l’idolo; e che l’idolatria non mette semplicemente in gioco l’onore di Dio, ma anche la salvezza dell’uomo. Dal riconoscimento del vero Dio vengono la libertà e la fraternità; dall’idolatria la violenza e l’oppressione.

Per la Bibbia l’idolatria non consiste soltanto nell’abbandonare il Signore, unico Dio, per una pluralità di dei. È anche questione di tipo di Dio. Idolatria è anche credere in un dio diverso da quello vero o ridurre il vero Dio a un dio falso. Nel deserto il popolo si fece un toro d’oro, dicendo: "Facciamo un dio che vada innanzi a noi", cioè un dio strumentalizzabile e manovrabile, a nostro servizio e garante dei nostri progetti. Idolatria è ridurre il vero Dio a livello del dio dei pagani.

L’idolatria può dunque manifestarsi in due modi: nel rifiuto di Dio e nella degradazione di Dio. La prima forma trova la sua radice nel desiderio di indipendenza e nella pretesa di fare da sé (l’uomo che vuole mettersi al posto di Dio).

La seconda forma consiste nel degradare l’idea di Dio, costruendola a nostra immagine, a servizio di quei falsi valori (potere, successo, partito, ideologia, denaro, strutture ...) che diventano appunto i veri signori della nostra vita, il dio per cui viviamo.

Tutte e due queste forme di idolatria sono essenzialmente uguali, anche se in superficie sembrano molto diverse: atea la prima e religiosa la seconda. Sia negando Dio che degradandolo si finisce con l’erigere gli "idoli muti" a valori supremi, a cui l’uomo sacrifica se stesso e gli altri.

A questo punto è anche facile comprendere il legame tra idolatria e opere malvagie (omicidi, magie, dissolutezza e furti). Ne sono la logica conseguenza. Perché l’idolatria consiste nel mettere al di sopra dell’uomo "l’opera delle sue mani", cioè i beni, il potere, la ragion di Stato... Sono le forme dell’idolatria di sempre, che già i profeti avevano individuato. Solo Dio invece è al di sopra dell’uomo: nient’altro. Se questo viene dimenticato, allora l’uomo viene sottomesso alle cose o agli altri uomini. In altre parole, l’adorazione degli idoli scatena le forze distruttive della divisione, dell’oppressione e della violenza.

*****

vv. 1–12. Con la quinta tromba appare davanti agli occhi di Giovanni l’immagine di una terribile invasione di cavallette, che richiama alla mente l’ottava piaga d’Egitto (Es 10,1ss), ma che assume caratteri demoniaci (Gl 1-2). Una stella precipita dal cielo sulla terra. Secondo l’opinione generale di allora, la stella è immaginata come un angelo, che deve portare a compimento le istruzioni divine. Le viene data una chiave per aprire il pozzo dell’abisso. Si tratta del luogo dove sono imprigionati gli spiriti maligni. Si apre la porta al mondo degli inferi e ne esce il fumo del fuoco che arde nelle sue profondità, e la terra ne rimane oscurata. Ne escono anche le potenze infernali per essere usate come strumenti del giudizio di Dio. Alla fine, però, saranno anch’esse sottoposte al giudizio (20,13). Dalle zaffate di fumo escono le cavallette che si spargono su tutta la terra. Non divorano la vegetazione, ma si gettano sugli uomini che non hanno sulla fronte il sigillo di Dio (7,1-8). Tutti gli increduli sono esposti ai tormenti che esse infliggono. Queste cavallette infatti Pungono come scorpioni il cui veleno non mette in pericolo la vita dell’uomo, ma gli produce intensissime sofferenze. Per cinque mesi gli uomini devono subire questa piaga. I cinque mesi corrispondono alla durata della vita di una cavalletta, che è compresa tra la primavera e la fine dell’estate. Una frase di tono profetico fa comprendere quanto saranno terribili gli effetti del morso delle cavallette sugli uomini: essi desidereranno la morte per sfuggire alle sofferenze, ma la morte si allontanerà da loro. La spaventosa apparizione delle cavallette è tratteggiata seguendo in parte la descrizione che ne dà il libro del profeta Gioele. Gli sciami di cavallette che salgono dal pozzo dell’abisso si precipitano in avanti come un potente esercito, guidati da un essere demoniaco, che è l’angelo dell’abisso. Il suo nome è citato in ebraico e in greco. Abaddòn significa luogo della perdizione (Gb 26,6; Sal 88,12), ma può essere presentato anche come una personificazione (Gb 28,22; Ap 6,8). In greco il suo nome suona Apollúon, ossia "il distruttore". Questo nome assomiglia ad Apollo, che già Eschilo chiamava "distruttore", in quanto era il dio della pestilenza e l’angelo sterminatore. Con questo nome Giovanni intende descrivere il capo degli sciami demoniaci delle cavallette, come una figura di distruttore, senza forse voler fare alcun riferimento alla storia contemporanea. Egli infatti contempla una catastrofe che investe il mondo intero e causa tanta paura e tali sofferenze da togliere agli uomini ogni coraggio di vivere.

Termina così una delle piaghe, ma altre due devono ancora venire. Il culmine del terrore non è ancora raggiunto.

vv. 13–21. Con la sesta tromba appare un’immagine terrificante, di cui le scene precedenti costituiscono solo un preludio. La morte stende la sua mano inesorabile sull’umanità incredula (v. 18) e ne porta via una terza parte (6,8; 8,7). Dopo che l’angelo ha suonato la tromba riceve un nuovo ordine da una voce proveniente esattamente dallo stesso luogo da cui le preghiere dei santi erano salite a Dio (8,3-4). Ciò che accade ora si presenta quindi come una risposta del cielo all’invocazione dei credenti che sollecitano l’intervento di Dio. L’angelo della sesta tromba deve mettere in libertà i quattro angeli che sono legati sul grande fiume Eufrate. Gli angeli che attendono sull’Eufrate l’ordine di muoversi sono spiriti maligni che comandano le schiere demoniache. Questa concezione di angeli in grado di chiamare a raccolta poderosi eserciti si trova già nella letteratura apocalittica giudaica, per es. in Apoc. Hen 56,5-6, dove si legge: "In quei giorni gli angeli si raduneranno e andranno a oriente, presso i Parti e i Medi, per sollevare i loro re, in modo che uno spirito inquieto li invada e li cacci dal trono e li faccia uscire come leoni dai loro accampamenti... per calpestare la terra dei suoi eletti (la Palestina)". Stanno per essere lasciati in libertà gli angeli sterminatori che sono pronti a intervenire per portare la morte. Queste potenze distruttrici possono agire soltanto dopo aver ricevuto l’ordine da Dio. Il fatto che queste potenze provengano dall’Eufrate è un segno del timore da cui era preso tutto l’impero romano nei confronti degli eserciti dei Parti che lo assalivano dall’oriente (6,1-2). Si descrive qui un esercito innumerevole di guerrieri demoniaci che si abbatte sull’umanità intera. Cavallo e cavaliere si fondono quasi in un unico essere e sono contraddistinti dagli stessi colori: i colori dell’inferno. Infatti lo zolfo sale dall’inferno (14,10; 19,20; 21,8); i mostri infernali sputano fuoco e fumo (Gb 41,11ss.). Gli uomini che sopravvivono a questo orrendo flagello dovrebbero intenderlo come un appello alla conversione: ma essi si rinchiudono nella loro impenitenza e rimangono nella loro empietà. Per mostrare l’insensatezza dell’idolatria si elencano, secondo uno schema tradizionale, le varie sostanze di cui sono fatti gli idoli (Is 44,6ss.; ecc.). Gli idoli non sono altro che materia alla quale ha dato forma la mano dell’uomo: essi non hanno forza divina. Perciò chi li venera si chiude al vero Dio. La superstizione dei pagani produce sempre una condotta peccatrice (Rm 1,23ss.). La menzione dei peccati contro il quinto, il sesto e il settimo comandamento serve a descrivere la loro vita cattiva. In questo elenco sono inclusi anche gli incantesimi, che compaiono regolarmente tra i peccati dei pagani. Gli uomini non credenti perseverano nel male, senza permettere che le tremende esperienze per cui devono passare li inducano alla conversione (16,9.11.21). La mancanza di fede e la disobbedienza continuano a dominare sui pagani.

 

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