MEDITIAMO LE SCRITTURE (anno A)

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Coordin.
00giovedì 27 febbraio 2014 07:17
Eremo San Biagio
Commento su Mc 9,43-47

"Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. [ 44] 45E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. [ 46] 47E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna"
Mc 9,43-47

Come vivere questa Parola?

A tutta prima questa radicalità della parola di Gesù può impressionare. Eppure esprime tutto il vigore di chi, conoscendo "che cosa c'è nell'uomo", vuol metterlo al riparo della sua debolezza. Davvero, come dice l'autore della lettera agli ebrei, "la Parola di Dio è viva, efficace, è più tagliente di una spada a doppio taglio". Si, Gesù usa la spada della Parola forte esigente, come il chirurgo usa il bisturi per liberare il malato dal tumore. E, nella vita di chi si dice credente è pericoloso tumore la vigliaccheria, quello scendere a compromesso. Se la mano ti scandalizza, significa l'opera che fai, il tuo lavoro. Ebbene, se il tuo lavoro ti "seduce", proponendoti la disonestà, devi tagliar corto, rinunciare a guadagni illeciti. Se il tuo piede ti scandalizza, cioè vuol portarti là dove tradiresti il Signore e la tua coscienza (per esempio frequentando certi ambienti), guardati dall'andarvi. Quanto all'occhio, pensa come, anche a detta di psicologi, può essere causa di desideri cattivi, se ti abitui a indugiare su certe trasmissioni TV, e altre fonti di immagini deteriori che in questa nostra società consumista, bombardano l'uomo dappertutto.

Mi farò persuadere a fondo dallo Spirito Santo che fuggire le occasioni seduttrici, e dominarsi, non è viltà, mancanza di audacia o di ardore. Al contrario, solo se ho il coraggio della radicalità proposta oggi da Gesù, potrò accedere al sapore, al gusto della vita vera, che è armonia e pace dentro ogni scelta di bene, pure a prezzo di rinunce.

La voce di una mistica del XX secolo

Beati noi vivi, quando prendiamo coscienza, nelle nostre giornate, di essere infinitamente amati da Dio e visitati da Lui specialmente nella persona dei poveri.
Maddalena di Spello
Coordin.
00venerdì 28 febbraio 2014 07:22
a cura dei Carmelitani
Commento Marco 10,1-12

1) Preghiera

Il tuo aiuto, Padre misericordioso,
ci renda sempre attenti alla voce dello Spirito,
perché possiamo conoscere
ciò che è conforme alla tua volontà
e attuarlo nelle parole e nelle opere.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco 10,1-12
In quel tempo, Gesù, partito da Cafarnao, si recò nel territorio della Giudea e oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava, come era solito fare. E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: "È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?" Ma egli rispose loro: "Che cosa vi ha ordinato Mosè?" Dissero: "Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla".
Gesù disse loro: "Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto".
Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: "Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio".


3) Riflessione

? Il vangelo di ieri indicava i consigli di Gesù sulla relazione tra adulti e bambini, tra i grandi e i piccoli della società. Il vangelo di oggi consiglia su come deve essere la relazione tra uomo e donna, tra moglie e marito.
? Marco 10,1-2: La domanda dei farisei: "E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?" La domanda è maliziosa. Vuole mettere Gesù alla prova: "E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?" Segno che Gesù aveva un'opinione diversa, poiché se non fosse stato così i farisei non l'avrebbero interrogato su questa faccenda. Non chiedono se è lecito che la moglie ripudi il marito. Ciò non passava per la loro testa. Segno chiaro del forte dominio maschilista e dell'emarginazione della donna nella società di quel tempo.
? Marco 10,3-9: La risposta di Gesù: l'uomo non può ripudiare la moglie. Invece di rispondere, Gesù chiede: "Cosa vi ha ordinato Mosè?" La legge permetteva all'uomo di scrivere una lettera di divorzio e di ripudiare sua moglie. Questo permesso rivela il machismo imperante. L'uomo poteva ripudiare sua moglie, ma la moglie non aveva lo stesso diritto. Gesù spiega che Mosè agì così per la durezza di cuore della gente, ma che l'intenzione di Dio era diversa quando creò l'essere umano. Gesù ritorna al progetto del Creatore e nega all'uomo il diritto di ripudiare sua moglie. Lui toglie il privilegio dell'uomo nei confronti della moglie e chiede la massima uguaglianza tra i due.
? Marco 10,10-12: Uguaglianza uomo e donna. In casa, i discepoli fanno domande su questo punto. Gesù trae le conclusioni e riafferma l'uguaglianza di diritti e di doveri tra uomo e donna. Propone un nuovo tipo di relazione tra i due. Non permette il matrimonio in cui l'uomo può comandare la donna come vuole, né viceversa. Il vangelo di Matteo aggiunge un commento dei discepoli su questo punto. Dicono: "Se la situazione dell'uomo con la donna è così, allora meglio non sposarsi" (Mt 19,10). Preferiscono non sposarsi, piuttosto che sposarsi senza il privilegio di poter continuare a comandare sulla donna e senza il diritto di poter chiedere il divorzio nel caso in cui la donna non piaccia più. Gesù va fino in fondo alla questione e dice che ci sono solo tre casi in cui si permette ad una persona di non sposarsi: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono altri che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca" (Mt 19,11-12). I tre casi sono: (a) impotenza, (b) castrazione e (c) per il Regno. Non sposarsi solo perché l'uomo non vuole perdere il dominio sulla donna, questo, la Nuova Legge dell'Amore non lo permette! Sia il matrimonio che il celibato, devono stare al servizio del Regno e non al servizio di interessi egoistici. Nessuno dei due può essere motivo per mantenere il dominio maschilista dell'uomo sulla donna. Gesù cambiò la relazione uomo-donna, moglie-marito.


4) Per un confronto personale

? Nella mia vita personale, come vivo la relazione uomo-donna?
? Nella vita della mia famiglia e della mia comunità, come avviene la relazione uomo-donna?


5) Preghiera finale

Buono e pietoso è il Signore,
lento all'ira e grande nell'amore.
Egli non continua a contestare
e non conserva per sempre il suo sdegno. (Sal 102)
Coordin.
00sabato 1 marzo 2014 10:50
Riccardo Ripoli
Lasciate che i bambini vengano a me

Un bambino è disarmante, nella sua purezza e dolce ingenuità è un piccolo uomo o una piccola donna in miniatura che non ha le scarpe sporche di fango, non affaticato da un lungo percorso, privo di cicatrici per le battaglie, inconsapevole dei mali che ci affliggono, incapace di fare del male o mancare di rispetto al prossimo e alla natura.
A volte stimoliamo i bimbi a prendere esempio da noi adulti, ma dovremmo invece esser noi a prendere esempio da loro.
Una nostra bimba di sette anni è innamoratissima di me. Non fa altro che scrivermi biglietti di amore, donarmi disegni, ripetermi di avermi sognato, dire a tutti che "domani" ci sposeremo. Mi guarda ogni momento con gli occhi sognanti di un'innamorata e a tavola vuole sempre alzarsi per venire a darmi un bacio. Ogni tanto per scherzare le dico "sei brutta" e lei mi risponde "sei bello". Ecco, questo è il vero amore, quello che va oltre l'offesa, oltre il muro, oltre le apparenze, gli usi, l'orgoglio. E' amore semplice, puro che tutti noi dovremmo avere. Confessare il proprio amore senza vergogna, senza reticenza alla persona che si ama, indipendentemente da quello che l'altro pensi, o da quello che la gente possa pensare. Purtroppo noi adulti siamo complicati, giochiamo un ruolo come su un palcoscenico, tanto da essere presi dalla nostra parte e immedesimarsi in essa tralasciando ciò che sentiamo per mostrare ciò che dobbiamo far vedere.
Non è solo nel rapporto di coppia, ma in qualsiasi relazione umana, che ciò che abbiamo dentro deve essere tirato fuori, altrimenti è come non averlo. Essere generosi, aoler aiutare tutti, ma poi non farlo per timore, per poco tempo o per non deludere qualcuno è come non avere quella qualità. Ma chi è lo stolto che compra una bella macchina e poi la tiene in garage? I bambini quando hanno un gioco che gli piace lo usano fino a che non si disintegra, noi teniamo la macchina in garage per paura di sciuparla, ed alla fine non ce la godiamo ed impediamo ad altri di poterne usufruire.



Coordin.
00domenica 2 marzo 2014 07:27
don Roberto Rossi
Il Signore: più di una mamma col suo bambino

Nella Liturgia di oggi c'è una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l'ha donata mediante la penna del profeta Isaia, il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai". Questo invito alla fiducia nell'infinito amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità. Così si esprime il Gesù: "Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno".

Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d'amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà. E ciò è proprio il contrario del fatalismo o della rassegnazione. La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall'affanno per le cose e dalla paura del domani. E' chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l'assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù. E' proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.

Vogliamo imparare a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nel lavoro di ogni giorno e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia.

Coordin.
00lunedì 3 marzo 2014 07:38
Dalla Parola del giorno
Gesù fissò lo sguardo su di lui...

Come vivere questa Parola?
Chissà che emozione incrociare lo sguardo di Gesù, lasciarsi penetrare dai suoi occhi, sentirsi illuminare della sua luce!
E chissà quante volte, di fronte a questo brano, qualcuno di noi non ha pensato che se fosse stato al posto del giovane ricco, non si sarebbe fatto scappare l'occasione di seguire il maestro: costi quel che costi! Un bravo cristiano non avrebbe fatto che questo, no?
Eppure il prezzo è sembrato troppo alto a quell'uomo, che aspirava alla perfezione. Era anche lui un ?bravo cristiano'!
Anche a noi spesso il prezzo da pagare sembra troppo alto e ci chiediamo come possa Dio pretendere tanto da noi. Ci dimentichiamo che non noi, ma Lui ci rende capaci di corrispondere alla chiamata, di riamarlo come lui ci ha amato.
Se gli permettessimo di guardarci e non ci vergognassimo di farci guarire o ripulire da tutto ciò che deturpa l'immagine divina in noi riflessa!
Convertirsi è un partire, dividere, separarsi da qualcosa.
Partire dalla nostra povertà, dalla consapevolezza che l'unica vera ricchezza è Gesù, figlio di Dio, venuto a donarci lo Spirito per avere un tesoro in cielo.
Dalle parole di Gesù appare chiaro che non saremo giudicati sul male fatto, ma sul bene che abbiamo trascurato di fare.

Oggi nel mio rientro al cuore lascio che lo sguardo di Gesù scenda nelle profondità del mio essere, in quella ?dimora' Egli avrà un invito tutto personale per me.

Donami, Signore Gesù, un cuore semplice e fiducioso. Mi fido di Te.

La voce del santo dei giovani
Per essere cari a Maria Ausiliatrice, bisogna onorare il Figlio, e vi indico alcuni mezzi per farlo. Per essere a Lei cari bisogna accostarsi con frequenza ai santi sacramenti, ricevere il più sovente possibile la Santa Comunione e non potendo riceverla, fare le comunioni spirituali; poi ascoltare la Santa Messa, fare visite a Gesù Sacramentato: assistere alla benedizione, compiere opere di carità in onore di N.S.J.C, perché al Signore piace che si pratichi la carità.
Don Bosco
Coordin.
00martedì 4 marzo 2014 09:13
Monaci Benedettini Silvestrini
Chi mi vuol seguire

Il mistero della salvezza eterna, adombrato ieri dal giovane ricco, è riproposto oggi da S. Pietro. Egli invita i fedeli rileggere la storia dei profeti, non tanto come avvenimenti passati, quanto come realtà vissute oggi dai discepoli del Signore, che per primo ha adempiuto quanto le Scritture avevano profetizzato di lui. Non fermare quindi l'attenzione su ciò che è transitorio, come le prove e la sofferenza, ma su quello che è eterno: La gloria della risurrezione. Occorre quindi rivestirsi di una mentalità nuova, che sa dare alle realtà umane il loro vero valore. Il brano del vangelo conferma la necessità della sequela del Signore. Pietro si rivolge a Gesù: Noi che abbiamo lasciato tutto... che ci siamo liberati dai vincoli del possesso... dalla mentalità del mondo... che cosa avremo? La risposta del Signore è quanto mai consolante: Avrete cento volte tanto insieme a persecuzioni... e nel futuro la vita eterna... E' una promessa esplicita per le anime consacrate e non solo... Ma attenzione agli inganni del demonio. I Padri di spiritualità ci ripetono: Non hai lasciato nulla se non lasci te stesso! E questo lasciare noi stessi, il nostro egoismo, non è facile... ma d'altra parte costituisce una esigenza evangelica nella sequela di Gesù: Chi mi vuol seguire... E' quindi una meta proposta alle anime consacrate che vogliono seguire più da vicino il Signore, ma anche a tutti i fedeli. Tutti infatti siamo chiamati a morire a noi stessi per far trionfare la grazia dello Spirito.
Coordin.
00martedì 4 marzo 2014 10:00
Marco 10,28-31 Riceverete in questo tempo cento volte tanto insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.

Pietro chiede al Signore: a lui e ai suoi compagni che "hanno lasciato tutto" per seguirlo che cosa sarà dato? La risposta è quanto mai allettante: chi, distaccato dai beni terreni, segui Lui e si dedica all'instaurarsi del Regno di Dio, avrà cento volte tanto quel che ha lasciato e, in più, la vita eterna.
Ecco, credo che valga la pena di approfondire un po', nel nostro oggi, che cosa significa quel "cento volte tanto" in case, fratelli sorelle e campi. Ovviamente non possono essere prese alla lettera queste parole!
Il significato riguarda piuttosto quell'essere educati all'interiorità da Gesù e dalla Sua Parola. se vivo con Lui, libera in leggerezza di passi sul cammino della vita, io sono in grado di godere veramente la vita. Il centuplo che il Signore mi da' non sono le cose, il denaro e roba del genere, ma piuttosto la possibilità di essere consapevole che tutto è dono e va ogni giorno riscoperto. Il Signore mi regala ogni giorno un pezzo di cielo su cui spaziare con lo sguardo, un pezzo di case dove abitare. In Lui e per Lui sono i miei fiori del mandorlo e del ciliegio, i ciuffi di violette campestri, l'aria ripulita dalle piogge, il volto delle persone care, le espressioni di gioia o di dolore di quelle che incontro in strada.
Coordin.
00mercoledì 5 marzo 2014 08:55
padre Gian Franco Scarpitta
Salita, semplicità e vittoria

La salita e la semplicità sono luoghi caratteristici del cammino penitenziale di Quaresima. Entrambe sono consequenziali l'una all'altra e sfociano nell'unico obiettivo della gioia.
Osserviamo infatti Elia mentre si incammina verso il monte Oreb, lo stesso in cui Mosè aveva ricevuto la rivelazione divina e la vocazione di liberatore del popolo dall'Egitto (Es 3, 1 - 4. 17) e vi era anche salito per ricevere da Dio le tavole della Legge (Es 19, 10 ess.): Elia vi è giunto dopo un cammino di 40 giorni e di 40 notti e dopo avervi percorso il difficilissimo percorso in salita (1Re 19, 9). Il monte Oreb (detto anche Sinai) ancora oggi è caratterizzato da un faticoso itinerario definito dei "passi della penitenza", che prevede un percorso di salita irta e assai faticosa, a piedi e in compagnia dei beduini.
Anche Mosè vi era salito, come pure altri profeti interessati dai monti (luoghi della manifestazione divina) avevano affrontato il cammino in salita sul monte. il Tabor è la dimensione geografica nella quale Pietro, Giacomo e Giovanni fanno esperienza della divinità di Cristo nel fenomeno della trasfigurazione, mentre l'annuncio delle Beatitudini secondo la versione matteana scaturisce dalla cima di una montagna. Dappertutto il monte è luogo della manifestazione del divino all'umano, nel quale Dio, rivelandosi, svela anche all'uomo la realtà di se stesso, tuttavia comporta sempre un ripido e sacrificato itinerario. Che Elia lo abbia percorso dopo 40 giorni e 40 notti di cammino (tempo simbolico di attesa e di privazione) sottende alla realtà della fatica umana e della rinuncia, del deserto morale e della privazione anche fisica, della pena e del sacrificio a cui tutti siamo soggetti.
Alla pari di Elia, ciascuno di noi è chiamato a percorrere la propria ascesa verso il Signore, combattendo contro se stesso e contro ogni sorta di sfida e di provocazione propinata dall'oggi.
Anche le prove e le tentazioni costituiscono il nostro cammino in salita verso il Signore e le devianze spirituali sono all'ordine del giorno nell'itinerario della nostra comunione con Dio.
La prima iniziativa della chiamata è sempre quella di Dio, che ci invita alla comunione con sé e non si arrende alle nostre reticenze e alle nostre refrattarietà: lui ci chiama a conversione e realizza il suo appello semplicemente amandoci e auto comunicando se stesso con noi. Amos e Osea ci ragguagliano rispettivamente della realtà che Dio è Giustizia e Amore nei nostri confronti e allo stesso tempo del fatto che queste Virtù vengono da lui esercitate gratuitamente, in un rapporto di estrema confidenza e spontaneità in cui Egli stesso si propone per primo. Ciò nondimeno la risposta umana all'appello di conversione è sempre un cammino ostile e tormentato, che dà l'idea della salita ripida e tortuosa.
Ciò tuttavia non dev'essere per noi motivo di disanimo e di scoraggiamento, perché il Signore ci dona sempre lo stesso sostegno alimentare di cui al ginepro di Elia: se per noi il cammino è molto lungo, ci viene alleviato dal sostanziale alimento del pane, che per nostro singolare privilegio è anche pane vivo disceso dal Cielo, lo stesso Dio che entra nella storia per farsi nostro alimento: Eucarestia. Con la forza di questo cibo e di tanti elementi di grazia, siamo sostenuti nel percorso del monte, siamo avvinti dalla perenne nube divina che ci avvolge mostrandoci motivi di sicurezza e di costanza.
La vicenda di Elia non si esaurisce infatti nella sola salita del monte, ma nell'incontro con Dio che gli si manifesta e che lui vede faccia a faccia, speditamente e senza ostacoli o impedimenti. E l'incontro avviene non già in episodi sproporzionati e immensi, non in fatti eclatanti o in avvenimenti sensazionali, ma nelle piccole circostanze della vita, quali "il mormorio di un vento leggero". Certo, chiunque sarebbe propenso a percepire la presenza di Dio in eventi vorticosi e rilevanti: di fronte alla straordinaria potenza di un vento impetuoso capace di distruggere perfino le rocce, o di un terremoto improvviso, o ancora di un fuoco dirompente, chi non penserebbe immediatamente ad una manifestazione insolita da parte di Dio? Da aggiungersi peraltro che nella Scrittura fuoco, vento e terremoto sono elementi costitutivi della manifestazione straordinaria del divino (Cfr per esempio At 2, 1 -6) e pertanto per il nostro profeta sarebbe stato del tutto legittimo e comprensivo riscontrare il Signore in uno di questi fenomeni. Eppure Egli non si manifesta nel vento, nel fuoco o nel terremoto, bensì in una folata di vento leggero, che indica la semplicità della familiarità con il Signore che egli stesso ci comunica e che a noi non resta che cogliere a piene mani come dono dal valore inestimabile.
La semplicità con cui è possibile incontrare Dio nella nostra vita è molto più fruttuosa di agognati miracoli ed eventi straordinari perché il Dio di Gesù Cristo è il Dio della vita e per ciò stesso della concretezza dei rapporti e delle relazioni. Il Dio che ha vissuto nell'Incarnazione l'elemento umiliazione salendo egli stesso carico della croce sul Golgota per essere sottoposto al vituperio del personale del dolore e della morte è il Dio che manifesta la sua forza proprio in ciò che noi consideriamo debolezze e impassibilità (1Cor 1, 25).
Se il nostro itinerario quaresimale è caratterizzato da continui percorsi in salita e da apparenti sconfitte, non ci abbandona il sostegno di Dio Padre che in Cristo rafforza e alimenta il nostro cammino, per conseguirci la gloria e la ricompensa di una vita piena nella gioia del Risorto. La Quaresima possa essere allora per tutti una grande opportunità di vittoria.
Coordin.
00giovedì 6 marzo 2014 09:19
mons. Roberto Brunelli
Ricordando un uomo modello di umiltà

Prima domenica di quaresima, il tempo previsto perché i cristiani si preparino alla festa più importante dell'anno, la festa del innovamento, della rigenerazione. Per rinnovarsi, occorre anzitutto avere coscienza di che cosa ci sia da cambiare: di qui la prima lettura (Genesi 2,7-9; 3,1-7), che ricorda il peccato originale; tutti siamo nati con l'inclinazione a fare ciò che piace a noi, anche quando contrasta con ciò che è giusto e buono agli occhi di Dio. L'andare contro la sua volontà ci terrebbe separati da lui, se egli non avesse spalancato le porte della sua misericordia, per i meriti del suo Figlio. Lo ricorda la seconda lettura (Romani 5,12-19), con un parallelo tra Adamo e Cristo: "Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti".
Quel Figlio obbediente al Padre e solidale con noi, se lo vogliamo ci toglie dalla palude delle nostre miserie, dalle quali da soli non sappiamo uscire; è lui, soltanto lui che può rigenerarci; se lo vogliamo, egli ci consente di cominciare una vita nuova. Tornerà, e magari spesso, l'impulso a riprendere le vecchie abitudini, cioè rimarranno le tentazioni; ma esse sono superabili, come ha dimostrato lo stesso Gesù. Lo espone il vangelo (Matteo 4,1-11): anche Gesù è stato tentato, e ha resistito. Nelle sue tentazioni si concentrano tutte quelle cui l'uomo va soggetto: la soddisfazione dei piaceri corporali disordinati; la voglia di fare quel che ci pare, con la pretesa che Dio intervenga a nostro sostegno; la brama di potere e successo.
Quest'ultima ricorda per contrasto quanto è avvenuto nella Chiesa un anno fa', con la rinuncia del papa Benedetto XVI. In un mondo in cui molti farebbero carte false pur di diventare ?qualcuno', lui che ?qualcuno' di certo era, vi ha liberamente rinunciato; con un gesto di straordinaria umiltà, ha riconosciuto di non essere più in grado di svolgere il compito che gli era stato affidato. Come riconoscimento del suo esempio, come omaggio rivolto a un vero uomo di Dio, riporto qui di seguito alcune sue parole, scelte tra quelle adatte a questa domenica perché pronunciate all'inizio della quaresima (nell'anno 2010). Il mercoledì delle ceneri, il sacerdote accompagna l'imposizione delle ceneri sul capo dei fedeli con l'espressione "Convertitevi e credete al vangelo". Il papa quel giorno le ha spiegate così.
"Il primo richiamo è alla ?conversione', parola da prendersi nella sua straordinaria serietà, cogliendo la sorprendente novità che essa sprigiona. L'appello alla conversione, infatti, mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere. Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la corrente è lo stile di vita superficiale, incoerente e illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. ?Convertirsi' e ?credere al vangelo' non sono due cose diverse o soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. La conversione è il ?sì' totale di chi consegna la propria esistenza al vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all'uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. (...) Il ?convertitevi e credete al vangelo' non sta solo all'inizio della vita cristiana, ma ne accompagna tutti i passi, permane rinnovandosi e si diffonde ramificandosi in tutte le sue espressioni. Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita, a imparare da Lui l'amore vero, a seguirlo nel compimento quotidiano della volontà del Padre, l'unica grande legge di vita".
Coordin.
00venerdì 7 marzo 2014 07:31
Eremo San Biagio
Commento su Isaia 58,6-7

Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?
Is 58,6-7

Come vivere questa Parola?

Attraverso la parola di Isaia, Dio torna a farci riflettere sul digiuno, pratica che si inserisce nel cammino quaresimale e che non può ridursi a una semplice astensione dal cibo.

Ma attenzione a non farne una realtà talmente spiritualizzata da vanificarla. Anche il privarsi, almeno due volte all'anno, di ciò di cui abitualmente ci nutriamo, ha il suo valore: si impara ad apprezzare ciò che abbiamo, ma soprattutto si capiscono meglio le difficoltà in cui si trovano tanti nostri fratelli e si diventa più solidali. Il devolvere a loro favore il relativo risparmio è un dare non del nostro superfluo, ma qualcosa di cui ci priviamo, un gesto d'amore, quindi, non quantificabile, ma infinitamente superiore a qualunque elemosina. Ci si esercita, poi, nel dominio di se stessi: sono io a comandare in casa mia e non le pulsioni, sia pur buone, di cui prendo coscienza e a cui rispondo con consapevolezza ed equilibrio.

Il digiuno che la quaresima prospetta rientra in un processo più complesso di conversione, cioè in un radicale decentramento che fa passare dall'io a Dio. Ma per cedersi, è necessario possedersi!

In questo cammino, i miei interessi cedono il passo a quelli di Dio. E l'orizzonte si spalanca sulla vastità del mondo, e ai fratelli viene restituito il posto che loro compete. Un digiuno più radicale si impone: quello che mette a tacere l'avidità del possesso, la smodata bramosia di primeggiare di imporsi, o anche quell'innato bisogno di farsi giustizia.

Non si tratta allora di mantenere vuoto lo stomaco, ma di svuotare il cuore da quanto lo rende impraticabile agli altri.

Il verbo digiunare si coniuga sul verbo amare: solo così la materialità dell'atto acquista senso e spessore, perché ricondotto al suo movente e al suo fine.

Insegnami, Signore, a coniugare tutta la vita sul verbo amare e allora più nulla mi sarà di peso e il digiuno diverrà ala per spaziare nel tuo orizzonte.

La voce di un dottore della Chiesa

Quantunque ingentilisca il cuore, purifichi la carne, sradichi i vizi, semini le virtù, il digiunatore non coglie frutti se non farà scorrere fiumi di misericordia.
San Pietro Crisologo
Coordin.
00sabato 8 marzo 2014 07:21
padre Lino Pedron


L'essenza del cristianesimo non è una dottrina, ma la persona di Gesù. Egli rivolge ad ogni uomo l'invito: "Seguimi" (v. 27).
Levi lascia tutto e segue Gesù. Non è un atto di rinuncia fine a se stesso. E' il gesto di uno che ha scoperto il vero tesoro nel campo della sua vita, di chi ha trovato la perla preziosa (cfr Mt 13).
Gesù mangia con Levi e i suoi amici. Dio diventa nostro commensale e noi diventiamo un'unica famiglia con lui. Egli chiama a questo banchetto gli esclusi e i peccatori. La sua cena non è riservata ai "puri". Proprio per questo essi rifiutano di parteciparvi e brontolano.
Gesù si immerge nel mondo dei peccatori per far sorgere in esso la conversione. La sua missione è di salvare i peccatori, come quella del medico è di guarire i malati.
Il guaio dei farisei di tutti i tempi è di non voler capire che la salvezza è dono dell'amore di Dio e non merito dell'uomo. Ciò che salva l'uomo non è il suo amore per Dio, ma l'amore gratuito di Dio per lui.
Coordin.
00domenica 9 marzo 2014 09:20
don Roberto Rossi
Lottiamo con Cristo contro il male per divenire partecipi della sua vittoria

Questa è la Prima Domenica di Quaresima, il Tempo liturgico di quaranta giorni che costituisce nella Chiesa un itinerario spirituale di preparazione alla Pasqua. Si tratta di seguire Gesù che si dirige decisamente verso la Croce, culmine della sua missione di salvezza. Se ci domandiamo: perché la Quaresima? perché la Croce?, la risposta, in termini radicali, è questa: perché esiste il male, anzi, il peccato, che secondo le Scritture è la causa profonda di ogni male. Ma questa affermazione non è affatto scontata, e la stessa parola "peccato" da molti non è accettata, perché presuppone una visione religiosa del mondo e dell'uomo. In effetti è vero: se si elimina Dio dall'orizzonte del mondo, non si può parlare di peccato. Come quando si nasconde il sole, spariscono le ombre; l'ombra appare solo se c'è il sole; così l'eclissi di Dio comporta necessariamente l'eclissi del peccato. Perciò il senso del peccato - che è cosa diversa dal "senso di colpa" - si acquista riscoprendo il senso di Dio.
Di fronte al male, l'atteggiamento di Dio è quello di opporsi al peccato e salvare il peccatore. Dio non tollera il male, perché è Amore, Giustizia, Fedeltà; e proprio per questo non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Per salvare l'umanità, Dio interviene: lo vediamo in tutta la storia del popolo ebraico, a partire dalla liberazione dall'Egitto. Dio è determinato a liberare i suoi figli dalla schiavitù per condurli alla libertà. E la schiavitù più grave e più profonda è proprio quella del peccato. Per questo Dio ha mandato il suo Figlio nel mondo: per liberare gli uomini dal dominio di Satana, "origine e causa di ogni peccato". Lo ha mandato nella nostra carne mortale perché diventasse vittima di espiazione, morendo per noi sulla croce. Contro questo piano di salvezza definitivo e universale, il Diavolo si è opposto con tutte le forze, come dimostra in particolare il momento delle tentazioni di Gesù nel deserto.
Il vangelo ci riporta queste tentazioni che Gesù subisce dal maligno, nei quaranta giorni di preghiera nel deserto. Gesù è un esempio nella sua lotta contro il maligno.Anche la nostra vita è piena di tentazioni che vogliono allontanarci da Dio per farci prendere una direzione sbagliata. Le tentazioni esprimono la situazione dell'uomo: ogni uomo vive la fragilità, la debolezza, la tentazione; ogni uomo deve lottare contro il male; ogni uomo con Cristo può vincere il male che è in lui e attorno a lui. Cristo ci aiuta sempre a prendere la direzione giusta.
Il cristiano è colui che lotta contro il male e il peccato e, unito a Cristo, ottiene la vittoria. Questa è la grazia del nostro battesimo. Oggi l'accento è posto sulla lotta, a Pasqua sarà posto sulla vittoria di Cristo e dei redenti. Come S. Paolo che era stato un grande peccatore, ma che ora può testimoniare che la grazia vince, perché la grazia è più grande di ogni peccato.
Le tre tentazioni non sono tre prove qualsiasi, ma sono rappresentative di tutte le tentazioni o prove cui Gesù si è sottoposto nella sua vita e specialmente di quelle che lo colpiranno sulla croce. Sono anche il modello di tutte le tentazioni alle quali è sottoposto il credente.
La prima tentazione riguarda il pane, cioè i problemi della sussistenza quotidiana: il cibo, gli affetti, il lavoro. Gesù viene tentato di vivere la figliolanza di Dio in modo egoistico, usandola come potenza che risolve miracolosamente i problemi quotidiani. E' la tentazione a fare meno di Dio, come era stato per Adamo. Ma Gesù vive un'esistenza in cui non c'è altro cibo che fare la volontà del Padre.
La seconda tentazione è nella Città Santa e il diavolo si serve di una parola di Dio, interpretata a suo modo. Si propone una manifestazione spettacolare che pieghi Dio ai desideri dell'uomo, anziché far intraprendere il cammino della vera fede, quella che si affida al Dio fedele, rimanendo saldi nella prova.
La terza tentazione riguarda la sete di potere. La risposta di Gesù è il suo stile di vita in cui veramente serve Dio solo. Egli che dichiarerà che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita.
Il vangelo mostra le tentazioni più radicali dell'uomo e soprattutto quella di non voler essere figlio di Dio nel modo in cui lo è Gesù. Voler vivere senza Dio, negandolo o deformandone il volto, spezzare la relazione amorosa con Lui, non affidarsi alla sua paternità, arrogandosi i suoi diritti e progetti.

Vivere il Tempo liturgico della quaresima significa ogni volta schierarsi con Cristo contro il peccato, affrontare - sia come singoli, sia come Chiesa - il combattimento spirituale contro lo spirito del male e seguirlo nella sua vita e nella sua missione.
Coordin.
00lunedì 10 marzo 2014 07:08
Cristo ha bisogno di noi

Lettura
Il messaggio paradossale del brano evangelico di oggi è che Cristo ha bisogno di noi. Egli si fa presente nel povero, in chi ha bisogno, e il giudizio finale riguarderà proprio l'amore fattivo e operoso verso chi ha fame, chi ha sete, chi è nudo, chi è forestiero, chi è malato, chi è incarcerato... La semplicità di queste parole può essere facilmente fraintesa, ma va mantenuta nella sua forza devastante, che abbatte i nostri pregiudizi e le barriere protettive che costruiamo attorno alla nostra vita comoda.

Meditazione
Con una vivace rappresentazione del giudizio finale, veniamo, oggi, sollecitati a prendere in considerazione la serietà del momento presente. Un "allora" introduce le varie parti del discorso, proiettandoci in un futuro che sarà decisivo e definitivo. Un "quando" ci riporta alla densità del presente, in cui concretamente si gioca tutto. Quell'"allora" si costruisce oggi, nell'impegno quotidiano, nel "sì" o nel "no" pronunciati qui ora. Una minaccia incombente? Tutt'altro! È il riscatto della vita dal "non senso", dal "vuoto". Ogni istante si carica di eternità e, in tal modo, viene sottratto all'inesorabile fluire del tempo che tutto vanifica. Non solo! Ci si rende conto, con gioioso stupore, che esso è gravido di Dio. Sì, è nel tempo, in questo tempo che ci è dato di vivere, che possiamo incontrarlo. Egli ci viene incontro negli eventi più comuni. Possiamo riconoscerlo, servirlo, amarlo nell'umile sembiante di chi ci passa accanto. E che cosa c'è di più grande, di più esaltante? Altro che vivere con la paura del giudizio! Dio mi ama tanto che non attende l'ora dell'incontro finale: entra nella nostra vita già oggi. Fissa i suoi appuntamenti là dove viviamo ordinariamente e vuole che nessun frammento della nostra esistenza vada perduto. La sfida che oggi questo Vangelo propone è: vivere una carità consapevole, personale, in un ambito di comunità. Anche in forme associative, anche in forme politiche. Una carità credibile comporta certamente uno slancio personale, l'adesione a forme di volontariato, la spontaneità e l'immediatezza. Ma comporta anche la consapevolezza dei problemi, la capacità di progettare, la capacità di coinvolgere, la capacità di fare giustizia, senza limitarsi all'elemosina.

Preghiera
«Ti siano gradite le parole della mia bocca, davanti a te i pensieri del mio cuore. Signore, mia rupe e mio redentore» (dal Sal 18).

Agire
Nulla della mia vita è insignificante agli occhi di Dio. Chiedo nella preghiera di averne la serena certezza e cercherò di vivere ogni frammento della mia esistenza, trasformandolo in un'appassionata ricerca del volto del Signore.

Commento a cura di Cristoforo Donadio - P. Antonio Izquierdo, LC
Coordin.
00martedì 11 marzo 2014 07:55
padre Lino Pedron


Gesù ci insegna la preghiera cristiana, che si contrappone alla preghiera dei farisei e dei pagani: il Padre nostro.
E' un testo di grande importanza che ci aiuta a comprendere chi è il cristiano. Il Padre nostro è una parola di Dio rivolta a noi, più che una nostra preghiera rivolta a lui. E' il riassunto di tutto il vangelo. Non è Dio che deve convertirsi, sollecitato dalle nostre preghiere: siamo noi che dobbiamo convertirci a lui.
Il contenuto di questa preghiera è unico: il regno di Dio. Ciò è in perfetta consonanza con l'insegnamento di Gesù: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (Mt 6,33).
Padre nostro. Il discepolo ha diritto di pregare come figlio. E sta in questo nuovo rapporto l'originalità cristiana (cfr Gal 4,6; Rm 8,15). La familiarità nel rapporto con Dio, che nasce dalla consapevolezza di essere figli amati dal Padre, è espressa nel Nuovo Testamento con il termine parresìa che può essere tradotto familiarità disinvolta e confidente (cfr Ef 3,11-12). L'aggettivo nostro esprime l'aspetto comunitario della preghiera. Quando uno prega il Padre, tutti pregano in lui e con lui.
L'espressione che sei nei cieli richiama la trascendenza e la signoria di Dio: egli è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Il sapere che Dio è Padre porta alla fiducia, all'ottimismo, al senso della provvidenza (cfr Mt 6,26-33).
Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Il verbo della prima invocazione è al passivo: ciò significa che il protagonista è Dio, non l'uomo. La santificazione del nome è opera di Dio. La preghiera è semplicemente un atteggiamento che fa spazio all'azione di Dio, una disponibilità. L'espressione santificare il nome dev'essere intesa alla luce dell'Antico Testamento, in particolare di Ez 36,22-29. Essa indica un permettere a Dio di svelare il suo volto nella storia della salvezza e nella comunità credente. Il discepolo prega perché la comunità diventi un involucro trasparente che lasci intravedere la presenza del Padre.
La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e attende tutto questo. Ma la sua preghiera implica contemporaneamente un'assunzione di responsabilità: egli attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio per costruirlo. La volontà di Dio è il disegno di salvezza che deve realizzarsi nella storia.
Come in cielo, così in terra. Bisogna anticipare qui in terra la vita del mondo che verrà. La città terrestre deve costruirsi a imitazione della città di Dio.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Il nostro pane è frutto della terra e del lavoro dell'uomo, ma è anche, e soprattutto, dono del Padre. Nell'espressione c'è il senso della comunitarietà (il nostro pane) e un senso di sobrietà (il pane per oggi). Il Regno è al primo posto: il resto in funzione del Regno.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Anche queste tre ultime domande riguardano il regno di Dio, ma dentro di noi. Il Regno è innanzitutto l'avvento della misericordia.
Questa preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno. L'uomo è nel mezzo, conteso e sollecitato da entrambi. Nessun pessimismo, però. Il discepolo sa che niente e nessuno lo può separare dall'amore di Dio e strappare dalle mani del Padre.
Matteo commenta il Padre nostro su un solo punto, rimetti a noi i nostri debiti.... Ecco il commento: "Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi...".
Nel capitolo precedente Matteo aveva messo in luce l'amore per tutti. Ora mette in luce la sua concreta manifestazione: il perdono.

Coordin.
00mercoledì 12 marzo 2014 07:16
padre Lino Pedron


Non dobbiamo invidiare la generazione dei contemporanei di Gesù. Egli stesso la definisce "generazione malvagia" perché è ancora sotto lo spirito del maligno e chiede dei segni invece di convertirsi all'annuncio della sua parola. Egli si rifiuta di dare dei segni "fuorché il segno di Giona". Gesù sarà il segno della misericordia di Dio per tutti. Invece di chiedergli segni, bisogna convertirsi all'annuncio della sua morte e risurrezione. Se la fede è obbedire a Dio, il contrario della fede è la pretesa che Dio obbedisca a noi. E questo avviene quando si instaura con Dio un rapporto di ricatto, chiedendo sempre prove nuove e più grandi, senza decidersi a credere al suo amore. Dio ci concede dei segni per farci arrivare alla fede. Ma chi ne cerca ancora dopo essere arrivato alla fede, instaura con Dio un rapporto di ricatto invece che di fiducia. I segni che Dio ci dà rispettano sempre la nostra libertà, ossia non ci costringono mai a credere. Tutti i segni che Dio concede in Gesù si riassumono nel segno di Giona: egli fu segno di un Dio misericordioso e clemente, di grande amore, che si lascia impietosire (Gio 4,2).
Gesù è il maestro di sapienza al quale i credenti possono rivolgersi sicuri di trovare maggior conforto di quanto ne ebbe la regina di Saba nell'ascoltare i responsi di Salomone. La salvezza dipende dalla nostra risposta all'annuncio di misericordia di colui che è più di Salomone e di Giona, al di sopra dei sapienti e dei profeti.
Coordin.
00giovedì 13 marzo 2014 12:45
padre Lino Pedron


Il cristiano è colui che vuole essere come Cristo. Nella preghiera la vita di Dio diventa la nostra vita. L'unica condizione per riceverla è volerla e chiederla.
San Giacomo scrive: "Se qualcuno manca di sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento, e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni" (Gc 1,5-8). E aggiunge: "Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male" (Gc 4,2-3).
La preghiera è infallibile se chiediamo ciò che è conforme alla volontà di Dio, con una fiducia che desidera tutto e non ritiene impossibile nulla, con un'umiltà che tutto attende e nulla pretende.
La preghiera non è un importunare Dio per estorcergli ciò che vogliamo, ma l'atteggiamento di un figlio che chiede ciò che il Padre vuole donare.
Chiedete, cercate, bussate sono degli imperativi presenti che ci comandano di continuare a chiedere, a cercare e a bussare, senza stancarci mai (cfr Lc 18,1).
La condizione dell'efficacia della preghiera non è solo la fede dell'uomo, ma soprattutto la bontà di Dio. Dio è molto migliore di qualsiasi padre. Ciò che vale tra padre e figlio, vale incomparabilmente di più tra Dio e l'uomo che lo invoca.
Il v. 12 è chiamato solitamente "la regola d'oro". Gesù afferma che la perfezione cristiana consiste nella perfezione dell'amore del prossimo. Tutto l'insegnamento evangelico si riassume nel servizio prestato all'altro, anche a prezzo del proprio interesse, perché l'altro è il proprio fratello. L'imperativo "fate" richiede un amore concreto e operoso.
L'amore cristiano è più di una semplice comprensione o benevolenza verso i bisognosi e i deboli: è considerare l'altro come parte integrante del proprio essere. Per questo il peccato più grande è l'egocentrismo, e la virtù più importante è l'impegno sociale e comunitario.
La "regola d'oro" consiste soprattutto nella "regola dell'immedesimazione" o, più prosaicamente, "nel sapersi mettere nei panni degli altri", nella capacità di trasferirsi con amore e fantasia nella situazione dell'altro (anche del nemico). La mancanza di fantasia è mancanza d'amore.
Nel processo di Majdanek risultò evidente che questa mancanza di immedesimazione negli altri può avere conseguenze disastrose. Gli accusati di questo orribile campo di concentramento dimostrarono la quasi totale incapacità di trasferirsi nella situazione delle loro vittime.
Coordin.
00venerdì 14 marzo 2014 07:42
padre Lino Pedron


La concezione della giustizia secondo Matteo non può essere confusa con quella di Paolo. Per Paolo la giustizia è la giustificazione di Dio concessa per grazia all'uomo; per Matteo è il retto agire richiesto da Dio all'uomo.
Gesù ha rimesso in vigore la Legge come legge di Dio e documento dell'alleanza, ripulita da tutte le storture e le aggiunte delle tradizioni umane e delle incrostazioni depositate dai secoli.
La migliore giustizia, che deve superare quella degli scribi e dei farisei, richiesta da Cristo ai suoi discepoli sta anche nel fatto che Gesù ha ricondotto i singoli precetti a un principio dominante: l'esigenza dell'amore di Dio e del prossimo, da cui dipendono la Legge e i Profeti.
Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro in Mt 5,17: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento".
Gesù parla con autorità pari a quella di Dio che diede i Dieci Comandamenti. "Ma io vi dico" non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce, lo modifica in ciò che suona concessione, e passa dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui tutto promana.
"Ma io vi dico" non è un'antitesi, ma un completamento: l'uccisione fisica viene da un'uccisione interna dell'altro: dall'ira, dal disprezzo, dalla rottura della fraternità nei suoi confronti. L'ira è l'uccisione dell'altro nel proprio cuore. Il disprezzo è l'uccisione interiore che prepara e permette quella esteriore.
Tutte le guerre sono precedute da una campagna denigratoria del nemico, considerato indegno di vivere e meritevole della morte: di conseguenza, ucciderlo è un dovere; anzi, è un'opera gradita a Dio, come ci ha detto Gesù: "Verrà l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (Gv 16,2).
Il comandamento dell'amore del prossimo è superiore anche a quello del culto. La pace con il fratello è condizione indispensabile per la pace e l'incontro con il Padre. Ciò che impedisce il contatto con i fratelli impedisce anche il contatto con Dio.
Non solo chi ha offeso, ma anche chi è stato offeso, deve riconciliarsi col fratello prima di prendere parte a un atto di culto. Non è questione di ragione o di torto; quando c'è qualcosa che divide due membri della stessa comunità, tale ostacolo deve scomparire per poter comunicare con Dio.
La vita è un cammino di riconciliazione con gli altri. Non importa se si ha torto o ragione: se non si va d'accordo con i fratelli, non si è figli di Dio. La realtà di figli di Dio si manifesta necessariamente nel vivere da fratelli in Cristo.
Se non si passa dalla logica del debito a quella del dono e del perdono, si perde la vita di figli del Padre (cfr Mt 18,21-35).
Coordin.
00sabato 15 marzo 2014 09:01
padre Lino Pedron


Il comandamento dell'amore, esteso indistintamente a tutti, è il supremo completamento della Legge (v. 17). A questa conclusione Gesù è arrivato lentamente dopo aver parlato dell'astensione dall'ira e dell'immediata riconciliazione (vv. 21-26), del rispetto verso la donna (vv. 27-30) e la propria moglie (vv. 31-32), della verità e sincerità nei rapporti interpersonali (vv. 33-37), fino alla rinuncia alla vendetta e alle rivendicazioni (vv. 38-42).
Il principio dell'amore del prossimo è illustrato con due esemplificazioni pratiche: pregare per i nemici e salutare tutti senza discriminazione. La più grande sincerità di amore è chiedere a Dio benedizioni e grazie per il nemico. Questo vertice dell'ideale evangelico si può comprendere solo alla luce dell'esempio di Cristo (cfr Lc 23,34) e dei suoi discepoli (cfr At 7,60). Colui che prega per il suo nemico viene a congiungersi con lui davanti a Dio. In senso cristiano la preghiera è la ricompensa che il nemico riceve in cambio del male che ha fatto.
Il precetto della carità non tiene conto delle antipatie personali e dei comportamenti altrui. Il prossimo di qualsiasi colore, buono o cattivo, benevolo o ingrato dev'essere amato. Il nemico è colui che ha maggiormente bisogno di aiuto: per questo Gesù ci comanda di offrirgli il nostro soccorso.
Il comandamento dell'amore dei nemici rivoluziona i comportamenti tradizionali dell'uomo. La benevolenza cristiana non è filantropia ma partecipazione all'amore di Dio. La sua universalità si giustifica solo in questa luce: "affinché siate figli del Padre vostro (v. 45), e "siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli" (v 48). Il cristiano esprime nel modo più sicuro e più vero la sua parentela con Dio amando indistintamente tutti.
L'amore del nemico è l'essenza del cristianesimo. Sant'Agostino ci insegna che "la misura dell'amore è amare senza misura", ossia infinitamente, come ama Dio.
In quanto figli di Dio i cristiani devono assomigliare al loro Padre nel modo di essere, di sentire e di agire. L'amore verso i nemici è la via per raggiungere la sua stessa perfezione.
La perfezione di cui parla Matteo è l'imitazione dell'amore misericordioso di Dio verso tutti gli uomini, anche se ingiusti e malvagi. Il cristiano è una nuova creatura (cfr 2Cor 5,17) e non può più agire secondo i suoi istinti e capricci, ma conformemente alla vita nuova in cui è stato rigenerato.
Gesù pone come termine della perfezione l'agire del Padre, che è un punto inarrivabile. L'imitazione del Padre, e conseguentemente di Gesù, è l'unica norma dell'agire cristiano, l'unica via per superare la morale farisaica. Essere perfetti come il Padre è in concreto imitare Cristo nella sua piena ed eroica obbedienza alla volontà del Padre, e nella sua dedizione ai fratelli. E' perciò diventando perfetti imitatori di Cristo, che si diventa perfetti imitatori del Padre.
Coordin.
00domenica 16 marzo 2014 07:21
don Roberto Rossi
E' bello per noi stare qui

Seconda di Quaresima, domenica della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, "prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce". Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un tempo breve, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza.
Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, "apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui"; Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". Il Padre stesso proclama: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo". Gesù nel suo essere uno con il Padre, è Luce da Luce". Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce. Dice un antico inno: "Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre".
Partecipiamo anche noi di questa visione e di questo dono soprannaturale, dando spazio alla preghiera e all'ascolto della Parola di Dio.

Nel brano della Trasfigurazione ci sono tanti aspetti che ci dicono il grande dono della vita nuova che Dio vuole fare ai suoi discepoli. Il monte: nella Bibbia è il luogo della manifestazione di Dio, dove si sale per ascoltare la sua parola (come Mosè), per fare esperienza della sua presenza (come Elia). La Luce: Dio è Luce e in Lui non ci sono tenebre, Gesù è Luce. La nube: la presenza di Dio in mezzo al suo popolo nell'esodo. Una vera esperienza di Dio ci mette nel cuore gli stessi desideri di Pietro: rimaniamo qui, Signore, si sta proprio bene, "è bello per noi stare qui"... i problemi sembrano lontani...
Chiediamoci: E' bello per noi stare con il Signore? Nei momenti di preghiera, nella Messa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera? Ho il desiderio di imparare a pregare?
Una parola chiave è "ascoltatelo". È un imperativo assoluto, fino a escludere tutte le altre voci. Solo il Figlio di Dio merita ascolto. Ci sono tutte le nostre tentazioni, le nostre fughe, nell'illusione che le altre voci ci diano più gioia, nel pensare che seguire la mentalità mondana sia più facile, più bello.
Sono tante le voci che risuonano nel nostro orecchio, c'è il maligno con i suoi suggerimenti, pensieri che ci buttano su un'altra strada, ci sono i nostri pensieri che non sono quelli di Dio, ci sono i nostri desideri, le nostre preoccupazioni con la vita, la famiglia, il mondo, voci che spesso ascoltiamo e così andiamo per le nostre strade personali. La voce del Padre dice: Ascoltatelo! Ma, dobbiamo ascoltare uno che è morto in croce, uno che parla di sofferenza, ma no! Si ascoltano i vincenti, coloro che si mostrano arrivati nella vita, chi ha successo nei suoi affari. Chi è bello, intelligente, furbo, il migliore...
Seguendo questa logica, ascoltando i suggerimenti della mentalità comune, della moda, della pubblicità, riempiendoci di cose, pensando che la vita felice stia nel fare tutto ciò che sento di fare, pian piano, forse senza neanche renderci conto ci mettiamo contro Dio. Gesù conosce profondamente il cuore dell'uomo e sa cosa passa dentro di noi. Possiamo dire che, fa fare l'esperienza del Tabor, della Trasfigurazione ai suoi discepoli perché possano continuare ad ascoltarlo, anche se deve affrontare la croce, la morte, anche se deve sembrare uno sconfitto. L'esperienza della gloria di Dio sul Tabor, lo stare alla presenza di Dio, ascoltare la sua Parola, ci mette nel cuore la forza per affrontare le avversità della vita, anche le sofferenze più grandi come la morte.
Indicazioni di vita: Salire sul monte con Gesù, gustare la sua presenza (è bello per noi stare qui), ritornare nel mondo e vivere l'amore, che è il comando di Gesù, la volontà del Padre.
Coordin.
00lunedì 17 marzo 2014 07:15
padre Lino Pedron


Dio è il punto di riferimento dell'agire cristiano. Tutta la preoccupazione del credente è ripetere nella propria vita i suoi comportamenti.
Gesù tenta di levarci dalla testa un Dio che siede come giudice in un tribunale, per sostituirlo con un Padre che siede in casa con i suoi figli ai quali non cessa di voler bene e di usare con essi tutta la sua comprensione paterna. Lo sforzo del giudice è quello di arrivare a una sentenza di condanna, quello del padre, così come quello del cristiano, a una assoluzione totale. Il cristiano è chiamato a ricopiare l'atteggiamento paterno di Dio verso tutti indistintamente.
L'amore dei nemici è una grazia che ci fa misericordiosi come il Padre.
Gesù ci insegna come dobbiamo comportarci nei confronti di quelli che non ci amano: non giudicate, non condannate, perdonate, date. E questi quattro comandamenti vanno praticati con una generosità sovrabbondante, smisurata, perché con la misura con la quale misuriamo, sarà misurato a noi in cambio da Dio.
Il desiderio dell'uomo è "diventare come Dio" (Gen 3, 5). Ora, dopo la rivelazione del vero volto di Dio in Gesù, è possibile capire la via per diventare Dio. L'essenza di Dio è la misericordia: "Poiché, quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia" (Sir 2,18).
La nostra esperienza fondamentale di Dio, dal momento che siamo nel peccato e nel male, è quella della misericordia che perdona e che salva. Questo amore di misericordia è l'unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto.
Se l'amore si esprime nel dono, la misericordia si esprime nel perdono, che significa super-dono, in modo che "dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20).
L'aggettivo che Luca usa qui per dire "misericordioso" è oiktìrmon, che indica l'espressione esterna della misericordia, sia come compassione che come intervento. Questo aggettivo, applicato a Dio, è usato solo due volte in tutto il Nuovo Testamento: qui e nella Lettera di Giacomo 5, 11. Nella traduzione detta dei Settanta oiktìrmon traduce l'ebraico rahamin, che indica l'utero. Questo significa che Dio misericordioso ci è presentato come padre, ma ancor più come madre. A questo proposito è prezioso quanto ha scritto san Clemente di Alessandria: "Per la sua misteriosa divinità Dio è Padre. Ma la tenerezza (sympathés) che ha per noi lo fa diventare madre. Amando, il Padre diventa femminile" (Quis dives salvetur, 37,2).
La prima immagine che l'uomo ha di Dio è di uno che giudica. E l'immagine di un Dio che giudica con severità è l'ultimo idolo che Gesù riesce a togliere, facendoci vedere che il nostro male lo porta lui sulla croce: "Ecco l'Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo" (Gv 1,29).
La croce di Cristo è l'unico giudizio possibile al Padre della misericordia che giustifica tutti. Dunque, chiunque giudica un altro sbaglia sempre. E l'errore non sta nel fatto che il giudizio dell'uomo è fallace, ma proprio nel fatto stesso del giudicare perché è usurpare il potere a Dio e soprattutto perché Dio non giudica ma giustifica, non condanna ma condona.
Il giudizio finale di salvezza o di perdizione non è operato da Dio, ma da me; non in un tempo indeterminato o nascosto, ma ora nel rapporto quotidiano con i fratelli. Questa è la misericordia di Dio: lascia a noi il giudizio su noi stessi, ed è lo stesso giudizio che pronunciamo sugli altri. Se non giudichiamo gli altri, Dio non giudica noi. Se perdoniamo agli altri, Dio perdona a noi.
Nella misura in cui si dà al fratello, si riceve da Dio. L'unico metro di misura del dono che riceviamo è la nostra capacità di donare. Dio rinuncia a misurare come rinuncia a giudicare. Siamo misurati e giudicati da noi stessi, secondo il nostro amore verso gli altri.
Dio non conosce misura nel donarsi. L'unica limitazione alla misericordia di Dio è data dal nostro grembo, cioè dalle nostre viscere di misericordia.
Coordin.
00martedì 18 marzo 2014 07:00
padre Lino Pedron


Ogni pagina del vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e farisei siamo noi, invitati a riconoscerci in loro. Il problema presentato da questo brano è sempre lo stesso: al centro di tutto poniamo Dio o il nostro io?
Gesù critica gli scribi e i farisei, e noi con loro, perché fanno tutto per essere visti e lodati: "Fanno tutte le loro opere per essere visti dagli uomini" (v. 5). Si preoccupano di recitare la parte dell'uomo pio e devoto più che di vivere un sincero rapporto con Dio.
La falsità è abbinata ovviamente a una buona dose di vanità e di orgoglio. In un mondo in cui la religione è tenuta in considerazione le persone religiose acquistano automaticamente la massima reputazione. Esse occupano, quasi per convenzione comune, il posto di onore dovuto a Dio. Difatti gli scribi e i farisei con la loro pietà simulata hanno posti di riguardo nelle sinagoghe e nei conviti, e quando appaiono in pubblico ricevono da ogni parte inchini, ossequi e saluti nei quali vengono scanditi con esattezza i loro titoli onorifici.
Anche i discepoli di Gesù sono esortati a rifuggire da questi comportamenti segnalati nei farisei e negli scribi. I titoli onorifici e le rivendicazioni di potere sono fuori luogo perché essi sono tutti fratelli, figli dello stesso Padre (v. 8) e sono guidati dallo stesso Cristo presente in loro (v. 10).
Nella comunità cristiana i più grandi sono gli ultimi e l'unico primato che conta è quello dell'abbassamento e del servizio (v. 11). In essa non devono nemmeno circolare gli appellativi che indicano distinzione e discriminazione che mettono in evidenza un preteso diritto di controllo e di dominio di alcuni sugli altri. Spesso succede che il nostro Signore, al quale diamo del tu, è predicato da signori ai quali diamo del lei.
Alla fine Gesù deve ricorrere ai comandi (sia vostro servo: v. 11) e alle minacce per abbassare chi si era elevato al di sopra degli altri (v. 12).
Matteo sta mettendo a confronto due immagini di Chiesa. L'una farisaica, pomposa, appariscente e vuota, dominata da capi avidi di onore e di potere; l'altra cristiana, costituita da amici e da fratelli. Quest'ultima non è anarchica, perché è guidata direttamente da Cristo e dal Padre, di cui tutti sono ugualmente figli. Coloro che vi esercitano funzioni o incarichi sono chiamati a testimoniare con le opere più che con le parole (cfr v. 3) la presenza invisibile del Padre, non a sostituirla. Perché egli non è mai assente.
La Chiesa di Cristo è una comunità di uguali, una fraternità che ha come criterio di discernimento il servizio. In essa esiste una diversità di ruoli e di responsabilità, che però devono essere svolti come servizio. Questo stile ha come modello Gesù stesso, il quale è venuto per servire (cfr Mt 20,26).
La logica dei rapporti che deve regolare la comunità cristiana è quella dell'umiltà. La condizione dettata da Gesù: "se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3) è l'atteggiamento esattamente opposto a quello dell'autoesaltazione degli scribi e dei farisei.
Coordin.
00mercoledì 19 marzo 2014 07:28
padre Lino Pedron


Questa genealogia [di Gesù] si ispira al primo libro delle Cronache 1,34; 2,1-15; 3,1-18; e al libro di Rut 4,18-22. Per l'ebreo la storia si esprime in termini di genesi, di generazione. Nella Bibbia c'è una sola storia, quella di una promessa fatta da Dio ad Abramo, padre dei credenti (cf. Is 51,1-2), manifestatasi nel re Davide (cf. Is 9,6; 11,1-9) e adempiuta in Gesù (cfr Gal 3,28-29).
Il primo versetto di questo brano è il titolo della genealogia, ma può essere contemporaneamente il titolo di tutto il vangelo. L'espressione "libro della genesi" richiama il titolo del primo libro della Bibbia e suggerisce che il vangelo è il racconto della nuova creazione. L'evangelista Giovanni si pone sulla stessa linea mettendo all'inizio del suo vangelo le parole "in principio", riprese direttamente dal libro della Genesi 1,1.
Come figlio di Davide, Gesù porta a pieno compimento le promesse che Dio aveva fatto per mezzo dei profeti (2Sam 7,1ss; Is 7,14ss). Come figlio di Abramo realizza perfettamente la promessa fatta al capostipite del popolo di Dio: "In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra... Ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei
re" (Gen 17,6; cf. Gal 3,8-29).
La genealogia mette in evidenza la continuità tra la storia d'Israele e la missione di Gesù e ci prepara a capire il vangelo, secondo il quale la Chiesa fondata da Gesù (Mt 16,18) è il vero Israele di Dio e l'erede di tutte le sue promesse. Al versetto 16 la struttura dell'albero genealogico bruscamente si spezza. Stando al susseguirsi delle generazioni precedenti, avremmo
dovuto leggere: Giacobbe generò Giuseppe e Giuseppe generò Gesù. Leggiamo invece:" Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato (da Dio) Gesù chiamato il Cristo". Questo verbo in forma passiva "fu generato" (in
greco eghennethe) esprime l'azione di Dio, che verrà richiamata esplicitamente nel brano seguente:" Quel che è generato in lei viene dallo Spirito santo" (Mt 1,20).
Nel versetto 17 Matteo attribuisce una grande importanza al numero 14. Questo numero è la somma di valori numerici delle tre lettere dell'alfabeto ebraico che formano il nome di Davide (daleth, waw, daleth = 4+6+4). Questo versetto esprime una tesi teologica: sottolineando la cifra di Davide moltiplicata per tre (la cifra tre è simbolica: esprime la realtà dell'uomo nella sua continuità, nel suo permanere nell'essere), Matteo pone l'accento su Davide e sulla continuità della sua discendenza, argomento che svilupperà nel brano seguente.
Nella genealogia di Gesù Cristo, Matteo ci ha dato una visione teologica del susseguirsi delle generazioni. Ora prosegue questa sua concezione presentando il ruolo e la missione di Giuseppe dal punto di vista di Dio. Giuseppe è un uomo giusto (v. 19). Il suo problema non è principalmente la situazione nuova che si è creata con la sua promessa sposa Maria, ma il suo rapporto con questo bambino che sta per nascere e la responsabilità che egli sente verso di lui. Giuseppe è detto giusto perché sintetizza nella sua persona l'atteggiamento dei giusti dell'Antico Testamento e in particolare quello di Abramo (cf. Mt 1,20-21 con Gen 17,19).
La giustizia di Giuseppe non è quella "secondo la legge" che autorizza a ripudiare la propria moglie, ma quella "secondo la fede" che chiede a Giuseppe di accettare in Maria l'opera di Dio e del suo Spirito e gli impedisce di attribuirsi i meriti dell'azione di Dio.Di sua iniziativa Giuseppe non ritiene di poter prendere con sé una persona che Dio si è riservata. Egli si ritira di fronte a Dio, senza contendere, e rinuncia a diventare lo sposo di Maria e il padre del bambino che sta per nascere;
per questo decide di rinviare segretamente Maria alla sua famiglia.
Giuseppe è giusto di una giustizia che scopriremo nel seguito del vangelo, quella che si esprime nell'amore dato senza discriminazioni a chi lo merita e a chi non lo merita (Mt 5,44-48) ed è riassunto nella "regola d'oro": "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Mt 7,12). L'uomo giusto è misericordioso come Dio è misericordioso.
La crisi di Giuseppe ha lo stesso significato dell'obiezione di Maria in Luca 1,29. Maria era turbata perché non sapeva che cosa significasse il saluto dell'angelo. Giuseppe è incerto perché non sa spiegarsi ciò che è avvenuto in Maria. Maria può chiedere la spiegazione all'angelo, ma Giuseppe non sa a chi rivolgersi; per questo decide di mettersi in disparte aspettando che qualcuno venga a liberarlo dalle sue perplessità.
Matteo mette in rilievo l'identità messianica di Gesù affermando la sua discendenza da Davide, al quale Dio aveva promesso un discendente che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe (cf. Lc 1,33; 2Sam 7,16). Quindi, secondo la genealogia, Gesù è il discendente di Davide non in virtù di Maria, ma di Giuseppe (v. 16). E' per questo che Matteo presenta Giuseppe come destinatario dell'annuncio con il quale gli viene dato l'ordine di prendere Maria con sé e di dare il nome a Gesù. Giuseppe, riconoscendo legalmente Gesù come figlio, lo rende a tutti gli effetti discendente di Davide. Gesù verrà così riconosciuto come figlio di Davide (Mt 1,1; 9,27; 20,30-31; 21,9; 22,42).
Il nome di Gesù significa "Dio salva". La promessa di salvezza contenuta nel nome di Gesù viene presentata in termini spirituali come salvezza dai peccati (v. 21). Anche per Luca la salvezza portata da Gesù consiste nella remissione dei peccati (Lc 1,17). In queste parole c'è il netto rifiuto di un messianismo terreno: Gesù non è venuto a conquistare il regno d'Israele o a liberare la sua nazione dalla dominazione straniera.
La singolarità dell'apparizione dell'angelo consiste nel fatto che essa avviene in sogno. Matteo forse presenta Giuseppe secondo il modello del patriarca Giuseppe, viceré d'Egitto (Gen 37,5ss). La cosa importante è che l'apparizione dell'angelo chiarisce con sicurezza che la direttiva viene da Dio.
Nel versetto 22 troviamo la prima citazione dell'Antico Testamento. Questa è preceduta dalla formula introduttiva: "Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta". Con questa espressione Matteo vuol darci l'idea del compimento delle intenzioni di Dio contenute nella Scrittura. E' importante notare che attraverso il profeta ha parlato Dio.
Con la citazione di Isaia 7,14 Matteo presenta la generazione di Gesù come un parto verginale. Gesù quale Emmanuele, Dio con noi, costituisce un motivo centrale del vangelo di Matteo. Questa citazione di Isaia forma un'inclusione con l'ultima frase del vangelo: "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
Giuseppe, uomo giusto, si desta dal sonno e agisce. L'esecuzione descrive la sua obbedienza. Pur prendendo con sé Maria, egli non la conosce. Il conoscere indica già in Gen 4,1 il rapporto sessuale. L'imposizione del nome di Gesù ad opera di Giuseppe assicura di fronte alla legge la discendenza davidica del figlio di Maria.
Coordin.
00giovedì 20 marzo 2014 07:18
padre Lino Pedron


Questo brano illustra in forma negativa Lc 16,9: "Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne". E' un ammonimento a usare giustamente l'ingiusta ricchezza.
La vita terrena è un ponte gettato sull'abisso tra la perdizione e la salvezza. Lo si attraversa indenni esercitando la misericordia verso i bisognosi.
L'alleanza con il Signore passa sempre attraverso l'amore per il fratello povero (cfr Es 2,20-26; 23,6-11; Lv 5,1-17; ecc.). La Lettera di Giacomo la sintetizza così: "Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo" (1,27).
Il ricco nella Bibbia è l'ateo pratico che ha fatto di sé il centro di tutto e si è messo al posto di Dio. Il povero è colui che attende l'aiuto di Dio: Lazzaro significa "Dio aiuta". Egli non desidera ciò che è necessario al ricco, ma il superfluo. I cani sono più compassionevoli dei ricchi.
La comunità cristiana a cui si rivolgeva Luca aveva bisogno dell'ammonimento che anche Giacomo aveva rivolto ai cristiani: "Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? ... Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio" (2,5-7.12-13).
In questa parabola le scene si susseguono come in un film. Le situazioni del povero e del ricco si capovolgono al momento della morte. Essa non livella tutti, come la falce pareggia le erbe del prato, ma li distingue e li divide: il ricco diventa povero e il povero ricco.
Nell'altra vita il ricco diventa mendicante, e le sue richieste rimangono inascoltate come erano rimaste inascoltate da lui quelle di Lazzaro. Egli che mangiava e beveva a piacimento, non dispone neppure di una goccia d'acqua. Al posto dei vari piaceri di cui era ricolma la sua vita, ha il cruccio di un fuoco che lo divora senza ucciderlo.
I "beni" sono stati per lui occasione di rovina, come per Lazzaro i "mali" sono stati motivo di salvezza. L'unica preoccupazione del ricco era concentrata su se stesso, e per questo aveva lasciato da parte Dio e il prossimo. La ricchezza, che è sempre un dono di Dio all'uomo, può diventare occasione di male. Al contrario la povertà è un bene, perché tiene lontano l'animo dall'egoismo e dai piaceri distrattivi della vita.
L'intento della parabola non è quello di terrorizzare i ricchi senza misericordia e gli atei, ma di esortarli alla misericordia mentre sono ancora in questa vita. La Legge e i Profeti si sintetizzano nel comandamento dell'amore del prossimo (cfr Rm 13,10). Il vero problema è quindi credere alla parola di Dio. Finché siamo vivi siamo chiamati ad ascoltare seriamente il Cristo (cfr Lc 9,35) e ad evitare il comportamento dei farisei che erano attaccati al denaro e ascoltando tutte queste cose si beffavano di Gesù (cfr Lc 16,14).
Solo la parola di Dio che penetra nel profondo dell'uomo ci fa discernere se siamo dei poveri-beati o dei ricchi-infelici.
Coordin.
00venerdì 21 marzo 2014 08:01
padre Lino Pedron


Gesù interpella di nuovo i capi del popolo facendo loro capire che è il momento dei frutti, il momento nel quale Dio chiede conto della sua vigna. L'applicazione è chiara: dopo aver rifiutato i profeti, i responsabili d'Israele possono ancora cogliere l'ultima occasione per pentirsi: accogliere il Figlio, l'erede. La parabola presenta la morte del Figlio come un crimine premeditato.
Dopo aver chiesto ai suoi interlocutori di tirare essi stessi le conclusioni della parabola (nel senso di Is 5,5-7), Gesù rende esplicito il loro giudizio. A chi sarà tolto il regno di Dio? Non a Israele, rappresentato dalla vigna, ma ai sommi sacerdoti e ai farisei, i quali "capirono che parlava di loro" (v. 45). E a chi sarà dato questo regno? "A un popolo che lo farà fruttificare" (v. 43). Per Matteo si tratta ancora di Israele, ma trasfigurato attraverso la presenza del Cristo risuscitato che adempie l'alleanza di Dio con gli uomini e fa loro produrre i suoi frutti.
I servitori mandati dal padrone della vigna sono i profeti. Ricordiamo due passi dell'Antico Testamento: "Il Signore inviò loro profeti perché li facessero ritornare a lui. Essi comunicarono loro il proprio messaggio, ma non furono ascoltati" (2Cr 24,19); "Da quando i vostri padri uscirono dal paese d'Egitto fino ad oggi, ho mandato a voi in continuazione tutti i servitori, i profeti. Ma non fui ascoltato e non mi si prestò orecchio; anzi rimasero ostinati e agirono peggio dei loro padri" (Ger 7,25-26). Neemia 9,26 constata in sintesi: "I tuoi profeti li ammonirono, ma essi li uccisero e commisero grandi iniquità".
Il Messia umiliato e ucciso diventerà, dal giorno della sua risurrezione, la pietra angolare della Chiesa, il suo fondamento incrollabile.
Fin dall'inizio la parabola ha richiamato la nostra attenzione sui frutti. I frutti del regno di Dio coincidono con la fedeltà nell'amore attivo, che è la sintesi della volontà di Dio. Alla fine il giudizio sarà in base ai frutti dell'amore fedele e attivo e non sull'appartenenza a Israele o alla Chiesa.

Coordin.
00sabato 22 marzo 2014 07:14
padre Lino Pedron


Questa parabola rivela il centro del vangelo: Dio come Padre di tenerezza e di misericordia. Egli prova una gioia infinita quando vede tornare a casa il figlio da lontano, e invita tutti a gioire con lui.
Gesù fin dall'inizio mangia con i peccatori (cfr Lc 5,27-32). Ora invita anche i giusti. Attaccato da essi con cattiveria, li contrattacca con la sua bontà, perché vuole convertirli. Ma la loro conversione è più difficile di quella dei peccatori. Non vogliono accettare il comportamento di Dio Padre che ama gratuitamente e necessariamente tutti i suoi figli: la sua misericordia non è proporzionata ai meriti, ma alla miseria. I peccatori a causa della loro miseria sentono la necessità della misericordia. I giusti, che credono di essere privi di miseria, non accolgono la misericordia.
Questo brano è rivolto al giusto perché occupi il suo posto alla mensa del Padre: deve partecipare alla festa che egli fa per il proprio figlio perduto e ritrovato. Questa parabola non parla della conversione del peccatore alla giustizia, ma del giusto alla misericordia.
La grazia che Dio ha usato verso di noi, suoi nemici, deve rispecchiarsi nel nostro atteggiamento verso i nemici (cfr Lc 6,27-36) e verso i fratelli peccatori (cfr Lc 6,36-38). Il Padre non esclude dal suo cuore nessun figlio. Si esclude da lui solo chi esclude il fratello. Ma Gesù si preoccupa di ricuperare anche colui che, escludendo il fratello, si esclude dal Padre.
Nel mondo ci sono due categorie di persone: i peccatori e quelli che si credono giusti. I peccatori, ritenendosi senza diritti, hanno trovato il vero titolo per accostarsi a Dio. Egli infatti è pietà, tenerezza e grazia: per sua natura egli ama l'uomo non in proporzione dei suoi meriti, ma del suo bisogno.
I destinatari della parabola sono gli scribi e i farisei, che si credono giusti. Gesù li invita a convertirsi dalla propria giustizia che condanna i peccatori, alla misericordia del Padre che li giustifica. Mentre il peccatore sente il bisogno della misericordia di Dio, il giusto non la vuole né per sé né per gli altri, anzi, come Giona (4,9), si irrita grandemente con Dio perché usa misericordia.
La conversione è scoprire il volto di tenerezza del Padre, che Gesù ci rivela, volgersi dall'io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato, o dalla presunzione della propria giustizia, alla gioia di esser figli del Padre.
Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre: e questa opinione è comune ai due figli. Il più giovane, per liberarsi del Padre, si allontana da lui con le degradazioni della ribellione, della dimenticanza, dell'alienazione atea e del nihilismo. L'altro, per imbonirselo, diventa servile.
Ateismo e religione servile, dissolutezza e legalismo, nihilismo e vittimismo scaturiscono da un'unica fonte: la non conoscenza di Dio. Questi due figli, che rappresentano l'intera umanità, hanno un'idea sbagliata sul conto del Padre: lo ritengono un padre-padrone.
Questa parabola ha come primo intento di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Questa scoperta è una gioia immensa per il peccatore e una sconfitta mortale per il giusto. E' la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio. La conversione consiste nel rivolgersi al Padre che è tutto rivolto a noi e nel fare esperienza del suo amore per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Per accettare il Padre bisogna convertirsi al fratello.
Coordin.
00domenica 23 marzo 2014 08:49
Gaetano Salvati


La Parola di oggi racconta che l'uomo ha sete, è desideroso di una speranza e di una giustizia più grandi delle disperazioni degli eventi della storia. Nella prima lettura, infatti, gli israeliti hanno sete: mormorano contro Mosè perche li ha condotti nel deserto per morire (Es 17,3); contro Dio perché, disperati, non sanno più se Lui è in mezzo a loro o no (v.7). Ma il Signore interviene (v.5), placa le ansie del futuro e disseta i cuori inariditi: dona gratuitamente l'acqua agli assetati di ogni tempo e di ogni luogo.
La Parola narra anche della sete di Dio, la sete d'amore per ogni uomo. Nella lunga scena del vangelo non è la donna a chiedere l'acqua, è Dio che dice: "Dammi da bere" (Gv 4,7). Ora, il Signore potente si fa debole, bisognoso di cure per permettere ad ognuno di lasciarsi aiutare dalla fonte dell'incontro con Lui, quella "che zampilla per la vita eterna" (v.14), cioè sempre disponibile per ridare speranza e pace.
Ma perché Dio ci chiede da bere? La risposta va ricercata nel dialogo con la samaritana.
Dopo che il Signore ha detto che la Sua sorgente è per la vita eterna, la donna chiede quest'acqua (v.15). Egli, invece, sposta il discorso sul piano personale: conosce le profondità, le debolezze e le paure della donna (v.18), non è ignaro neppure delle nostre storie ed è al corrente dei nostri drammi; tuttavia ci chiede una mano per farci scoprire quanto ci ami perché deboli. Rivelando il Suo amore, mostra alla donna e a noi che l'acqua invocata da tutti è Lui stesso: il Cristo, che raggiunge gli uomini con la Sua grazia e verità (v.23). Nella Sua dolce iniziativa e nel discernimento dei nostri limiti, noi riconosciamo il viandante assetato, il nostro Salvatore.
La medesima grazia donata dal Signore, quella che ci permette di adorare "il Padre in spirito e verità" (v.23), va elargita a tutti quei deboli per i quali "Cristo mori" (Rm 5,6). Come cristiani, difatti, siamo chiamati a dare speranza ad ogni uomo che vive nel deserto della solitudine; non a tormentare, con le nostre fissazioni talvolta religiose, i fratelli che hanno sete di Cristo. Allora, come il viaggiatore giudeo che ha rotto gli schemi religiosi dell'epoca perché ha chiesto nutrimento ad una samaritana, ad una "eretica", così anche noi, per essere chiesa fedele, militante, obbediente e umile, non dobbiamo crederci migliori di chi non è cristiano, di chi vive in situazioni "scandalose", ma abbracciare chiunque e togliere i pesi del peccato, testimoniando l'amore di Cristo. Amen.
Coordin.
00lunedì 24 marzo 2014 08:02
Il profeta e la sua patria

Lettura
La lebbra è una realtà tristemente presente in Israele e nei paesi attorno. È anche uno dei simboli più forti del peccato. Per guarire dalla lebbra, Eliseo indica a Naaman un mezzo efficace: lavarsi per sette volte nelle acque del Giordano (prima lettura). Per purificarsi dal peccato Gesù segnala ai suoi concittadini di accettarlo come profeta (Vangelo). Naaman ubbidì e la sua carne "divenne come la carne di un giovinetto". I nazareni, pieni di sdegno, lo volevano gettare giù da un precipizio. Per questo non furono guariti dal loro peccato di incredulità.

Meditazione
Gesù è molto realistico: "Nessun profeta è bene accetto in patria". Il profeta vuol guarire i suoi concittadini, ma essi non lo accettano. È stato così con il profeta Elia, come ricorda Gesù nel Vangelo: c'erano molte vedove bisognose in Israele, ma Elia fu mandato ad aiutare una vedova di Sidone. Lo stesso è accaduto al profeta Eliseo: erano molti i lebbrosi in Israele, ma Eliseo risanò solo Naaman, il Siro. Questo realismo di Gesù rattrista, ma ci deve far riflettere. Con le sue parole Gesù offre agli ebrei un'occasione per riflettere: perché, per essendo Gesù uno di loro, molti suoi concittadini non l'hanno accettato? È un invito alla riflessione che vale anche per noi cristiani: perché tanti fra noi, che si dicono cristiani, vivono invece come pagani? Bisogna cambiare, essere consapevoli che la "metanoia", il cambiamento di mentalità, non riguarda solo gli altri, ma soprattutto noi stessi. Naaman il Siro ha dovuto cambiare atteggiamento, ha ascoltato la voce dei suoi servi, ha ubbidito. La vedova di Zarepta, a sua volta, ha ascoltato ed eseguito quello che il profeta le diceva. Ma non sempre gli uomini sono pronti a cambiare idee, stile di vita, comportamento, convinzioni. Più facile sfogarsi contro il profeta e farlo sparire, per seguitare nella nostra mediocrità e conservare la comoda abitudine di vita. Il risultato però è che la lebbra così non guarisce, il peccato non viene purificato. Quale occasione perduta! Vogliamo davvero continuare così, anno dopo anno, quaresima dopo quaresima?

Preghiera
"Purifica, o Padre, e rafforza la tua Chiesa". Purifica e rafforza ognuno di noi fratelli del tuo Figlio e membri della tua Chiesa. Fa' che sulle orme di Naaman, il Siro, andiamo a bagnarci nelle acque del sacramento della riconciliazione e della penitenza. Facci sentire la gioia di essere purificati dai nostri peccati e di sperimentare il tuo abbraccio di Padre. Amen.

Agire
Inviterò qualcuno, a casa, in ufficio, ad accostarsi alla confessione per riconciliarsi con Dio e con i fratelli.

Commento a cura di Cristoforo Donadio
Coordin.
00martedì 25 marzo 2014 07:17
La donna della nuova alleanza

Ecco, concepirai e darai alla luce un figlio

Linguaggio chiaro e semplice, messaggio ricco e profondo: l'evangelista Luca non si smentisce mai. Ma c'è una domanda che forse ci intriga: chissà cosa deve aver pensato l'illustre Teofilo nel leggere per la prima volta questa pagina che l'amico e fratello Luca gli ha dedicato con l'obiettivo generale, dichiarato nella dedica premessa a tutt'e due i suoi volumi: perché, anche attraverso la pagina dell'annunciazione, Teofilo "si rendesse conto della solidità degli insegnamenti ricevuti". Quale messaggio - si sarà chiesto il nostro Teofilo - voleva indirizzargli l'evangelista attraverso quel racconto, a primo colpo d'occhio così candido, quasi naif: informarlo?, edificarlo?, commuoverlo? Ormai fin dalle prime righe di quel libro a lui dedicato, Teofilo deve aver capito che quanto più una pagina gli sembrava semplice e trasparente ad una 1ª lettura, tanto più doveva rileggerla daccapo più e più volte per non fermarsi alla "buccia" del linguaggio e arrivare alla "polpa" del messaggio. Due chiavi devono aver dato a Teofilo la possibilità di accesso nel "vangelo" dell'annunciazione: la prima l'avrà certamente trovata andando "dietro" al brano, l'altra andandoci "intorno". Sono due chiavi che possono aiutare anche noi.

1. Cosa c'è dunque dietro a questo brano? Il saluto dell'angelo a Maria fa un po' da spia a tutto l'episodio. Normalmente il greco chaire viene tradotto con "ave" o "ti saluto", ma letteralmente suona come un imperativo: "rallègrati! gioisci!". Non deve trattarsi del comune saluto del mondo greco. Nel saluto di Gabriele si coglie invece l'eco degli annunci di salvezza rivolti alla figlia di Sion, quali si trovano, ad esempio, nel profeta Sofonia: "Prorompi in grida di gioia, figlia di Sion! Rallegrati, gioisci con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha annientato i tuoi nemici, tu non temerai più annuncio di sventura" (Sof 3,14s). È da notare che il saluto dell'angelo è l'unico in tutta la Bibbia che inizia così, con questo invito alla gioia, mentre in genere le prime parole usate da Dio o dal suo messaggero sono: "non temere". A Maria dunque viene rivolto lo stesso lieto annuncio (lett. "vangelo") che alla figlia di Sion. E come questa giovane rappresenta simbolicamente l'intero Israele, così Maria viene chiamata ad impersonare tutta la nuova comunità messianica, il nuovo Israele scelto per rinnnovare l'alleanza con Dio.
In effetti nel racconto dell'annunciazione si riscontrano i due elementi del formulario tipico dell'alleanza: il mediatore - Gabriele, come nell'alleanza al Sinai, Mosè - e il popolo, impersonato da Maria. Due sono gli elementi fondamentali dell'alleanza: il messaggero espone le esigenze di Dio, la comunità esprime il proprio assenso di fede. Attraverso questo genere letterario si vuole dire che Maria è chiamata nientemeno che a concludere la nuova alleanza con Dio, e qui noi riscontriamo un elemento di forte discontinuità rispetto all'AT, dove a concludere l'alleanza a nome del popolo era sempre un uomo. Ora invece Dio fa alleanza con il nuovo popolo, rappresentato da una donna.
Il ruolo rappresentativo di Maria fu già intuito da s. Tommaso, secondo il quale Maria aveva dato il consenso al volere di Dio a nome e al posto di tutta l'umanità ("loco totius humanae naturae"). La cosa è insinuata anche in Mulieris dignitatem 4,1, dove, commentando proprio questo brano dell'annunciazione, Giovanni Paolo II affermava: "Da questo punto di vista la ?donna' è la rappresentante e l'archetipo di tutto il genere umano: rappresenta l'umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne". Attraverso l'angelo da una parte e Maria dall'altra, Dio e l'umanità ritornano a parlarsi. Dio riprende l'iniziativa, e "parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé" (DV 2). La storia della salvezza riparte: grazie alla promessa di Dio e alla risposta di Maria, la Parola si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi.

2. Ma per entrare a fondo nel dialogo tra l'angelo e Maria, il nostro amico Teofilo, dopo aver letto questa pagina, deve essere ritornato a quella immediatamente precedente, dove l'amico evangelista Luca aveva appena raccontato la scena parallela dell'annunciazione a Zaccaria. Andando quindi intorno al brano dell'annuncio a Maria e ricomponendo il suggestivo dittico delle due scene che riportano le due annunciazioni, anche noi possiamo stabilire un confronto tra le due pagine, e riscontriamo così molte somiglianze: nell'una e nell'altra risultano identici il messaggero, la promessa di un figlio, il linguaggio ricco di riferimenti all'AT, diversi tratti della struttura del racconto stesso.
Ma sono ancora più numerose e significative le differenze. Il primo quadro presenta Zaccaria ed Elisabetta come "giusti davanti a Dio" e rigorosi osservanti di tutte le leggi del Signore. Si tratta di un racconto edificante, per dimostrare che qui viene premiato un comportamento giusto e timorato di Dio. Nel secondo racconto, sorprendentemente, non si fa alcun accenno alle virtù di Maria, né alla sua preghiera, né alla sua attesa. Tutto viene dall'alto, tutto parte da Dio, tutto è dono, pura grazia. Lo scenario del primo quadro è grandioso, solenne: l'evento ha luogo nel tempio, durante una liturgia; al centro, un sacerdote nell'esercizio della sua funzione; sullo sfondo, il popolo in attesa. Il secondo quadro è privo di ogni scenario: non ci si dice dov'è che "entra" l'angelo, né che cosa stia facendo Maria.
Inoltre, di fronte alla promessa di un figlio, Zaccaria resta incredulo e chiede una garanzia; la risposta dell'angelo è al tempo stesso un segno dell'efficacia della parola di Dio e un castigo per la poca fede dell'uomo. Maria invece non dubita della promessa di Dio, ma chiede una spiegazione sulle sue modalità di realizzazione: "Come avverrà questo?". Non chiede un segno, e proprio per questo le sarà dato. Andando "intorno" al nostro brano, attraverso il confronto con l'annunciazione a Zaccaria, possiamo cogliere ciò che fa la differenza: "Da una parte l'uomo che entra nella casa di Dio, dall'altra Dio che entra nella casa dell'uomo. Nel primo quadro è l'osservanza della legge che viene premiata, nel secondo è la grazia che viene proclamata" (Maggioni).

3. Questo è quanto accade quando Dio e l'uomo riprendono a parlarsi: "accade" la grazia. Comincia l'aurora della salvezza: da una parte Dio riprende l'iniziativa, dall'altra Maria dà l'umile e libera risposta della fede. Perché se Dio non parla, l'uomo ritorna nella polvere: come con una sua parola Dio lo ha creato, così solo la sua parola può ricrearlo e salvarlo, insomma: non farlo morire. Nella sua parola infatti noi veniamo creati e poi rigenerati. Ma dall'altra parte occorre la libera risposta della fede, come quella di Maria, che non dice semplicemente: "si faccia secondo la tua parola", ma "oh, sì, avvenga, avvenga presto quello che hai detto". Infatti la forma ottativa del verbo contiene una sfumatura di gioioso desiderio. L'obbedienza di Maria mette in gioco l'intera persona ("di me"), non soltanto un gesto o un compito. Questa è appunto la fede, "con cui l'uomo si consegna a Dio liberamente e totalmente" (DV 5).
Alla luce di queste osservazioni, la figura di Maria si dilata, divenendo l'immagine della Chiesa e di ogni uomo, la figura più luminosa del "vangelo", la lieta notizia della grazia. Se il "parlare" di Dio a noi è frutto del suo amore, il nostro "rispondere" a lui è frutto della fede. Non possiamo dare il nostro consenso a Dio se non crediamo nella vita e nella gioia che egli ci promette. Maria ha creduto e perciò ha detto il suo sì "con tutto il suo io, umano, femminile" (Giovanni Paolo II). Dio ci parla perché vuole salvarci: anche noi vogliamo essere "uditori della Parola"; vogliamo collaborare con lui perché il mondo si salvi, e abbia la vita e la vita in abbondanza.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Anno C
Ave, Roma 2009
Coordin.
00mercoledì 26 marzo 2014 08:02
Riccardo Ripoli
Sono venuto per dare compimento

Se facciamo un dono a nostro figlio pensiamo alla cosa più bella che possa essergli utile e nel contempo fargli piacere. Giriamo vari negozi, guardiamo su internet, parliamo con lui per capire meglio senza farci scoprire, scriviamo un biglietto mettendoci il cuore, prepariamo una confezione regalo che dia subito la gioia del dono e poi? Poi gli consegniamo il dono, aspettiamo che lo apra, speriamo che gli piaccia, che ne capisca l'utilità e che ci ringrazi. Mi sembra legittimo e normale.
Ma tutto ciò da solo non basta e non sempre il dono è gradito o capito.
Da buon genitore si deve essere vicino al figlio per insegnargli ad apprezzare il dono che ha ricevuto e saperlo utilizzare al meglio senza che lo rovini o si faccia male. Non sarebbe da buon papà o buona mamma consegnare e poi dire "se ti piace bene, altrimenti chi se ne importa". Ed allora con pazienza, talvolta con fatica dopo una giornata di duro lavoro, ci si mette a giocare con lui, si usano termini a lui conosciuti per spiegargli la bellezza del dono che ha ricevuto, ed ogni volta che fa un passo nella direzione giusta per noi è un momento di grande gioia, ma quando sbaglia sappiamo che per riuscire dovrà tentare e ritentare più volte, cadere per poi rialzarsi, magari ferirsi e spetterà a noi medicarlo ed incoraggiarlo a ritentare, anche quando lo sconforto avrà preso su di lui il sopravvento.
Non fa così Dio con noi?
Ci ha fatto un grandissimo dono, la vita eterna ed il Suo desiderio più grande è quello di vederci felici in Paradiso con Lui, ma per poterci arrivare bisogna capire le regole della vita su questa terra, i principi che ci ha insegnato, le regole del gioco.
Dopo averci fatto il dono della vita ci ha scritto un bellissimo biglietto pieno di amore, la Bibbia, per dirci quanto siamo importanti per Lui. Poi ha confezionato il tutto con una bellissima carta regalo dandoci un mondo intero pieno di colori, suoni, odori, gusti da assaporare.
Ma tutto questo non bastava perché noi potessimo assaporare in pieno il dono che ci aveva fatto, così è venuto in mezzo a noi per spiegarci i valori ed i principi su cui si basa il gioco della vita. Da allora non ci ha mai abbandonato, ci è sempre stato vicino, ci ha dato con il Vangelo il manuale di istruzioni da seguire e meditare, pronto a rispondere a tutte le nostre domande e i nostri dubbi durante la partita. Il bello di questo gioco è che tutti possiamo vincere, ogni persona che arriva al traguardo è un vincitore e merita lo stesso premio di tutti gli altri, ma purtroppo non tutti vinciamo, qualcuno perde di vista lo scopo del gioco e pensa che la carta regalo sia il dono, pensa che le cose terrene siano le uniche cose che possano dare la felicità e si inebria del luccichio di quella bellissima carta regalo, senza accorgersi poi che l'uomo ha provveduto a sciuparla e a sostituirla con una carta che all'apparenza può sembrare ugualmente bella, ma che è viscida, oleosa, nociva. Sono i piaceri della vita costruiti dall'uomo per l'uomo: la droga, il sesso, il potere, il denaro.
Ritroviamo nel cassetto la carta regalo che ci ha donato Dio, la natura, il profumo del mare, la gioia di un refolo di vento primaverile e gioiamo del grande dono della vita che il Signore ci ha fatto mettendocela tutta per vincere, senza sopravanzare nessuno, ma con la certezza di un bellissimo premio se arriveremo puliti alla fine del percorso, fiduciosi nel Padre che ci aiuterà a rialzarci e ripulirci se cadremo, anche se ciò accadesse mille e mille volte.
Coordin.
00giovedì 27 marzo 2014 07:17
padre Lino Pedron


E' lo Spirito Santo che ci libera dallo spirito maligno. Nel capitolo quarto del vangelo di Luca avevamo letto: "Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo... Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per tornare al tempo fissato" (Lc 4,1.13). La lotta che Gesù condusse contro satana nel deserto, ora continua. La sua forza è lo Spirito del Padre. Di fronte a questi due contendenti, ognuno deve schierarsi. Non è possibile rimanere neutrali (cfr v. 23).
Le tentazioni che Gesù subì nel deserto ritornano continuamente durante la sua vita. Il diavolo e i suoi amici chiedono sempre e monotonamente la stessa cosa: un segno dal cielo (v. 16). E Dio dà i suoi segni: non quelli della potenza, ma quelli dell'umiltà. Il segno di Dio è il segno della Croce. Non può darne uno più grande. Là infatti dona tutto se stesso e si rivela come amore infinito e incondizionato per noi.
Vincere lo spirito del male è il primo obiettivo della missione di Gesù (cfr Lc 10,18) per donare all'uomo il suo Spirito di Figlio. Ogni vittoria sullo spirito di menzogna e di egoismo si ottiene solo con la forza dello Spirito di verità e di vita (cfr Lc 9,49-50).
Satana ha vinto ogni uomo nel primo uomo, Adamo. Da allora egli è "l'uomo forte, bene armato" (v. 21) che fa la guardia ai suoi possedimenti, che sono tutti i regni della terra (cfr Lc 4,6). Gesù è "il più forte" (cfr Lc 3,16) preannunciato da Giovanni il Battista. Egli viene dall'alto come sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte (cfr Lc 1,78-79). La sua vittoria è automatica, come quella della luce sull'oscurità. Ad essa può sottrarsi solo chi chiude gli occhi nella cecità volontaria (cfr Gv 9,41). Gesù spoglia satana di tutte le sue armi, che sono quelle dell'avere, del potere e dell'apparire, quando more, spogliato di tutto, sulla croce. In questo modo restituisce all'uomo ciò che il demonio gli aveva tolto: la sua vera identità di immagine di Dio e la sua realtà di figlio di Dio.
Lo stare con Gesù è la caratteristica della nostra vita presente (cfr Lc 8,2; Mc 3,4) e della nostra vita futura (cfr 1Ts 4,17). Chi non è con Gesù è con il diavolo. Non esiste una terza posizione, una terza possibilità.
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