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La Bibbia è credibile?

Ultimo Aggiornamento: 30/06/2018 00:33
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16/02/2011 21:56
 
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É verosimile la storia del pesce che inghiottì GIONA?
Articolo tratto dal periodico "LE CEP" n° 17
Il "segno" del profeta Giona e le sue conferme moderne.

Poche storie della Bibbia sono state oggetto di critiche ostili quanto quella di Giona e della "balena". Nella sua
franca ingenuità, la si legge come una favola. Il solo pensiero che un uomo potrebbe essere inghiottito da un
pesce e sopravvivere è così inverosimile alla nostra esperienza quotidiana che sembra un´assurdità contro cui
siamo sempre pronti ad accogliere delle prove. Ma c´è probabilmente anche un´altra ragione, più sottile.
Quando Thomas Hobbes di Malmesbury, che tentò di fondare tutte le virtù sull´egoismo, afferma che la pietà
consiste nell´immaginare ciò che noi stessi sentiremmo se fossimo nella situazione di suscitare pietà, egli tocca
un istinto naturale indubitabile. Pietà a parte, noi non possiamo evitare di metterci al posto di Giona, in quella
situazione orribile anche per l´immaginazione. Di conseguenza, la storia è sovente ridotta allo statuto di mito
pedagogico, o, per i più credenti, ad un miracolo verificatosi una volta grazie all´intervento divino e che,
speriamo, non si riprodurrà mai più.
Questi punti di vista richiedono una valutazione. Se il Modernismo esige che la Rivelazione sia testata
scientificamente, è evidente che la scienza utilizzata dovrebbe anch´essa essere al di sopra di ogni sospetto.
Quando una tale avventura è registrata in un testo serio come un fatto inserito tra una serie di avvenimenti
storici, essa merita d´essere trattata seriamente; non affidandosi alle impressioni o al sentimento, ma ricorrendo
ai testi razionali della fisiologia e della storia. Scopo di questo articolo, è di valutare l´avventura di Giona in
questo modo.
Ma prima bisogna, per chiarezza, esaminare più da vicino l´obiezione abituale che si tratta di un avvenimento
miracoloso, dunque impossibile. Con ciò, si vuol senza dubbio dare ad intendere che esso era dovuto a un
intervento divino che violava le leggi della natura. Questo richiede una distinzione che sarà bene tenere a
mente. Se il miracolo, nel suo senso comune, presuppone l´intervento divino -il che è indispensabile se esso è
veramente scritturale- questo intervento divino può nondimeno esercitarsi in due maniere differenti. Non c´è
forzatamente violazione delle leggi naturali. Esso può utilizzare sia delle leggi naturali ancora ignote o, se sono
conosciute, che restano al di fuori della portata dei poteri umani, sia delle leggi di Dio che trascendono le leggi
naturali che Lui ha promulgato.
La rivolta moderna contro il miracoloso è probabilmente diretta soprattutto contro l´intervento divino contrario
alla natura. Da là questa tendenza a spiegare il miracoloso con l´impiego di forze naturali sconosciute all´uomo
-ed è evidente che ne esistono molte- o inaccessibili ai suoi poteri. Ma bisogna pur comprendere che ogni
tentativo di includere questi miracoli, questi "segni" o "poteri" nei limiti delle leggi naturali e di trattarli come
degli interventi provvidenziali non esclude affatto il miracolo nel senso specifico di un intervento divino diretto.
La Scrittura riconosce chiaramente i due casi.
Sembra qui che si abbia a che fare con un miracolo in senso largo. Quando in un linguaggio adattato per la sua
semplicità ai lettori di queste prime testimonianze, il racconto biblico dice "il Signore ha preparato un grande
pesce"; "il Signore ha parlato al pesce", esso ignora le cause seconde e attribuisce al Creatore un controllo
diretto -in questo senso miracoloso- sulle sue creature marine.
Ciò è in armonia con i diversi esempi nel Vangelo che mostrano Nostro Signore esercitare un potere simile sui
pesci. Nei due casi, sono chiaramente delle forze naturali ad essere messe in opera, ma in un modo miracoloso
giacché sfuggono totalmente ai poteri umani.
Passiamo ora all´applicazione dei due test già menzionati cominciando da quello fisiologico.
Il grosso pesce in questione doveva essere un capodoglio, una specie che abita le acque meridionali in cui
Giona viaggiava e che si incontra in tutti i mari tropicali e subtropicali, che d´estate può risalire fino alle
Shetland ed anche in Islanda. Il capodoglio si distingue dalla balena o dal misticeto dei mari settentrionali per i
denti sulla sua mascella inferiore (in luogo di un fanone) che si adattano agli alveoli della mascella superiore.
Esso raggiunge una taglia enorme che può raggiungere i 15-24 metri di lunghezza. La grossa testa appare tronca
verticalmente, e raggiunge il terzo della lunghezza del corpo.
È dunque ragionevole, in accordo con Sir John Bland Sutton, supporre per Giona un capodoglio di 18 metri
(2,70m. in meno dell´esemplare del Museo di South Kensington) con una bocca lunga 6 metri, alta 4,60 e larga
2,70. Comparata a una stanza d´abitazione, si può essere inclini ad accettare la sua stima che "una tale camera
potrebbe facilmente contenere 20 Giona in piedi". Al che è stato obiettato che un capodoglio "ha anche un
´enorme lingua". Ma questa idea viene dalla confusione abituale tra il capodoglio e la balena. È quest´ultima
che ha una lingua enorme. Herman Melville, pescatore di balene, che aveva una conoscenza unica e minuziosa
della cetologia pratica, sottolinea che il capodoglio non ha lingua o quantomeno che è molto piccola, qualcosa
che rassomiglia appena ad una lingua, molto piccola per un animale così grosso. Essa è quasi incapace di
movimento, un po´ come nell´uccello.
In ogni modo Giona non ebbe l´occasione di sperimentare la stazione eretta giacché passò rapidamente nel
ventre della balena.
È qui che si incontrano le critiche più abituali al racconto. Ancora e sempre si adduce l´impossibilità per la
semplice ragione che "l´esofago o la bocca sono troppo stretti".
Questo errore proviene ancora da una confusione con la balena che "ha una piccolissima gola e si nutre di
piccoli animaletti", "di piccoli crostacei e molluschi" che abbondano nei mari àrtici. Ma i biologi ci dicono che
generalmente "la bocca dei pesci è piccola, corta, larga... ed estensibile". Sir John Bland Sutton, nella sua
conferenza, mostra "il mangiatore nero" (Chiasmodon nigrum) "mentre mangia un pesce più grosso di lui", così
come il boa costrittore mangerà facilmente un capretto più grande della sua bocca non distesa. La balena non ha
nessuna ragione di allargare il suo esofago. Il capodoglio, invece, ha una ragione permanente: "Egli nuota con
la sua mascella inferiore pendente e la sua enorme bocca beante come una caverna sottomarina". Nulla di più
facile che esserne ingoiato!
Comunque sia, non si tratta di possibilità calcolate ma di fatti sperimentati. Il capodoglio vive essenzialmente di
polipi "i cui corpi, ben più grandi di un corpo umano, sono stati ritrovati interi nel suo stomaco". "Grandi
masse di sostanza semitrasparente, di taglia gigantesca e di forma irregolare, pezzi di seppia, blocchi massicci,
tentacoli o parti spesse come un corpo d´uomo robusto". "Balena capace di divorare grossi animali", "delle
seppie quasi elefantesche". Franck I. Bullen ha dato testimonianze visive drammatiche di battaglie titaniche
"quando un capodoglio incontra una seppia di dimensioni quasi uguali". Il gestore di una stazione baleniera
dell´estremo nord dell´Inghilterra ha dichiarato che la cosa più grossa che avevano trovato in un cetaceo era "lo
scheletro di uno squalo lungo circa 5 metri". L´obiezione della difficoltà dovuta all´esofago lo fece sorridere e
spiegò che la gola di un capodoglio può inghiottire dei bocconi di 2 metri e 40 di diametro. Alla domanda se
credeva alla storia di Giona e della balena rispose: "Certamente. È certo un miracolo che Giona sia rimasto
vivo, ma sulla possibilità che abbia potuto essere inghiottito, non può esserci alcun dubbio... Si può
ragionevolmente dubitare della sopravvivenza del profeta dopo esser stato inghiottito, ma non c´è alcun dubbio
che certe specie di cetacei possano inghiottire un uomo senza il minimo inconveniente per loro".
Ma allora, c´è stato comunque un miracolo? Ecco il nuovo punto da studiare: può un uomo sopravvivere in una
balena? La risposta sembra essere che lo può, anche se alquanto scomodo. Aveva dell´aria per respirare -un
certo tipo d´aria- che è indispensabile per permettere al cetaceo di galleggiare. Il calore doveva essere
soffocante: 40°, secondo l´opinione di un esperto, situazione dovuta "al suo strato di grasso, sovente molto
spesso ma necessario perché possa resistere al freddo dell´oceano e si senta a suo agio in ogni tempo, in tutti i
mari, epoche e maree. È per la stessa ragione che un uomo che vuole attraversare la Manica si ricopre di
grasso". Questa temperatura di forte febbre, per un essere umano, non è tuttavia fatale per la vita umana.
Ugualmente il succo gastrico doveva essere molto sgradevole, ma non mortale. L´animale non può digerire
della materia vivente, altrimenti digerirebbe il proprio stomaco.
Ma allora, quanto tempo poteva sopravvivere? "Fino alla morte per fame", stima James Bartley, opinione
fondata, come vedremo, sulla sua esperienza pratica. Questo per il test fisiologico.
Vediamo ora il secondo test, quello storico. Un´avventura così strana come quella di Giona, quasi
universalmente ritenuta unica, anche se si dimostra che non contraddice le leggi naturali, sarebbe fortemente
corroborata e chiarita se potesse essere comparata ad una situazione simile. É appunto il caso di James Bartley,
non più tardi del 1891, come lo espone Sir Francis Fox nel suo libro "Sixty-Three Years of Engineering". Ma
prima di fornire i dettagli, bisogna sottolineare che tutta la storia è stata accuratamente esaminata non solo da
Sir Francis Fox, ma da due studiosi francesi, di cui uno era M. De Parville, l´editore scientifico del "Journal
des Débats" a Parigi, "uno degli studiosi più coscienziosi e meticolosi d´Europa".
Egli conclude la sua inchiesta affermando la sua convinzione che il racconto del capitano dell´equipaggio della
baleniera inglese era degno di fede. "Esistono numerosi esempi di balene che, nella furia della loro agonia,
hanno inghiottito degli esseri umani. Ma questo è la primo esempio contemporaneo dove la vittima è uscita
sana e salva".
In seguito a questa illustrazione recente, egli dichiara: "Ho finito per credere che Giona è realmente uscito vivo
dalla balena, come dice la Bibbia".
Il miglior modo per dare le grandi linee della storia è di citare il racconto di Sir Francis Fox, con la sua
benevola autorizzazione. Nel febbraio 1891, la baleniera "Stella d´Oriente" si trovava nei pressi delle isole
Falkland quando la vedetta avvistò un grande capodoglio a 5 Km di distanza. Due scialuppe furono messe in
mare e rapidamente uno dei marinai riuscì ad arpionare l´animale. La seconda scialuppa attaccò ma fu
rovesciata da un colpo di coda e i marinai gettati in mare. Uno annegò e l´altro, James Bartley, scomparve e non
poté essere ritrovato. Il capodoglio fu ucciso e nel giro di qualche ora era issato lungo il battello dove l
´equipaggio si affaccendava, armato di asce e badili, a recuperare il grasso. Lavorarono tutto il giorno e una
parte della notte. L´indomani mattina, con un paranco, lo stomaco fu issato sul ponte. I marinai furono attirati
da qualcosa che all´interno dava spasmodici segni di vita e vi trovarono il marinaio scomparso piegato in due ed
incosciente. Egli fu allungato sul ponte e un buon secchio d´acqua lo rianimò rapidamente... Per due settimane
restò come un pazzo furioso... Alla fine della terza settimana aveva totalmente superato lo choc e riprese il suo
lavoro.
Ma lasciamolo rievocare la sua esperienza in quella circostanza. Bartley afferma che avrebbe senza dubbio
potuto vivere nella sua casa di carne fino a morire di fame, giacché egli svenne per paura e non per mancanza d
´aria. Ricorda di essere stato ribaltato dal canotto nel mare... Fu allora avvolto da una grande oscurità e sentì
che scivolava lungo un passaggio liscio che sembrava farlo avanzare. La sensazione durò poco e realizzò che
aveva molto spazio. Tastò attorno e le sue mani entrarono in contatto con una sostanza vischiosa, molle, che
sembrava contrarsi al suo tocco.
Gli venne infine in mente di essere stato inghiottito dal capodoglio... Poteva facilmente respirare, ma il caldo
era terribile. Non era tale da bruciare nè da soffocare, ma sembrava aprire i pori della sua pelle ed estrarne la
vitalità...
Le parti della pelle esposte all´azione del succo gastrico: il viso, il collo e le mani, presero una tinta da pallore
mortuario e l´apparenza della pergamena... (e) non ripresero mai più il loro aspetto naturale, (ma) per il resto,
la sua salute non parve colpita da questa terribile esperienza.
Il realismo stupefacente di questi dettagli sembra avere il sigillo della verità, anche al di fuori della verifica
dovuta all´esame scientifico meticoloso di De Parville. Ma ecco una nuova conferma con l´incidente riportato
da Sir John Bland Sutton e capitato un secolo prima a Marshall Jenkins nei mari del Sud. Il giornale "The
Boston Post Boy" del 14 ottobre 1771 riporta -"secondo una fonte incontestabile", dice- che una baleniera di
Edgartown (USA), dopo avere colpito una balena, ebbe uno dei suoi canotti morso e rotto in due dall´animale
"che prese Jenkins nella sua bocca e si immerse con lui". Tornando in superficie, la balena lo aveva espulso con
i resti del canotto rotto, "pieno di contusioni ma senza ferite serie".
Da ciascuno di questi racconti si può trarre un parallelismo almeno parziale con l´avventura di Giona. Nell
´ultimo esempio, fu la balena che restituì la sua vittima. Nel primo, c´è una similitudine cronologica molto
interessante. Bisogna osservare in questo racconto che la detenzione di James Bartley "nel capodoglio" fu
-come quella di Giona- di un giorno completo tra due notti e due parti di giorno. Cosa dice il testo? "Passarono
molte ore dopo che la balena fu stivata"; ma una parte del giorno precedente e una parte della notte erano già
state occupate a uccidere e stivare l´animale. Dopo ciò, all´alba del secondo giorno, ricominciò il lavoro. "Per
tutta una giornata e una parte della notte (la seconda notte) essi lavorarono con le loro asce e badili" al loro
compito principale. Poi, dopo questa seconda notte, "l´indomani mattina", procedettero alla tappa successiva
che portò alla liberazione dell´uomo.
Così il testo storico sembra ampliamente soddisfatto dai due casi simili, ma più recenti, di James Bartley e
Marshall Jenkins. Sussisterebbe tuttavia ancora un ostacolo alla realtà storica dell´avventura di Giona.
Adesso che l´avvenimento è confermato in maniera scientifica come del tutto possibile in sé, il racconto della
Bibbia prende il suo posto come un racconto storico ordinario che richiede d´essere sottomesso ai testi abituali
della Storia. C´è tuttavia un argomento della critica moderna che lo rigetta affermando che il Libro di Giona è
stato scritto circa 700 anni dopo i fatti. Di ciò non esiste alcuna prova, è una pura congettura. Tuttavia, poiché
questo argomento verte non solo su questo caso ma su numerose questioni di storia del passato lontano, vale la
pena di esaminare attentamente in capo a quanto tempo il trascorrere degli anni tende a viziare la verità dei
racconti storici.
Vi sono due sorgenti a partire dalle quali un autore tardivo può trarre i fatti del suo racconto: a) gli archivi
pubblici, b) la tradizione. Nei due casi la conservazione della storia sarà proporzionale alla natura sorprendente
dell´avvenimento.
a) Per quel che concerne l´esistenza di archivi primitivi, ben prima dell´epoca di Giona, la dichiarazione del
Professor A. H. Sayce, il celebre egittologo, basterà come prova. Egli scriveva, il 7 luglio 1927: "L´ipotesi
´critica´ sulla data tardiva delle opere letterarie e dei codici giuridici nell´antico Oriente è morta da tempo.
Oltre al grande codice babilonese di Hammourabi pur fondato su delle leggi sumeriche anteriori, noi abbiamo 
ora i codici siriano ed ittita, sotto le due forme primitiva e più tardiva, quest´ultima datante di circa 1400 anni
avanti Cristo.
Quanto alla letteratura, sia donne che uomini scrivevano sui loro affari quotidiani ben prima del periodo di
Abramo. Le principali città dell´Asia Minore possedevano le loro biblioteche pubbliche, e delle "cronache"
comparabili a quelle del Libro dei Re (o della Genesi) erano state compilate per i lettori "popolari" a partire
dagli annali primitivi.
Ho appena finito di tradurre alcune lettere scritte da dei membri di una "società" rappresentanti una delle
firme di Babilonia che gestiva le miniere d´argento, di rame e di piombo del Taurus, 2300 anni a.C.. Esse
provenivano dalle sponde del fiume Halys, non lontano da Cesarea in Cappadocia, ed avrebbero potuto essere
scritte oggi secondo il loro stile e il genere dei loro argomenti".
b) Anche la tradizione offre un argomento affascinante. Può una tradizione sopravvivere 700 anni? Una
generazione media, di padre in figlio, è di circa 30 anni; la generazione per i bisogni della tradizione, da nonno
a nipote, è dunque di 60 anni. Bastano dunque 12 generazioni successive per trasmettere per 700 anni qualsiasi
tradizione degna di memoria. Se l´avvenimento è sufficientemente eccezionale, la tendenza universale è di
perpetuarlo così lungo le generazioni, anche se si tratta di un fatto locale. Senza dubbio basterà un esempio
tipico.
Al limite della foresta di New Forest, nello Hampshire, esiste un "guado di Tyrrell" sul fiume Avon, e lì vicino
il villaggio di Avon Tyrrell. Pochi avvenimenti nella storia d´Inghilterra fecero più scalpore all´epoca della
morte improvvisa, accidentale (?), di Guillaume II il Rosso, nel bel mezzo della tirannia che lui stesso e il suo
padre conquistatore esercitavano. Che sia giusta o meno la credenza popolare sulla mano che scoccò la freccia,
la tradizione che era quella di Walter Tyrrell sopravvive ancora nei nomi e nelle menti della gente benché siano
trascorsi 827 anni.
Riassumiamo. Il racconto di Giona si presenta nella letteratura e nella tradizione ebraiche come un fatto storico.
Non si può contestare che i controlli ai quali è sottoposto devono essere, giustamente, i più rigorosi, esatti e
imparziali che la scienza e la storia possano offrire. Ora i test fisiologici smentiscono la pretesa impossibilità di
questa avventura. Lo studio della morfologia del capodoglio e della sua configurazione dimostra perfettamente
possibile che un uomo sia inghiottito vivo e rigettato dopo un certo tempo, e che possa sopravvivere per due o
tre giorni all´interno del cetaceo. La Storia ha mostrato che un fatto simile si è prodotto successivamente
almeno una volta. D´altronde è del tutto possibile che se ne sia conservata una memoria autentica, anche per un
periodo superiore ai 700 anni.
È evidente che tutto questo affare concerne direttamente la Cristologia. Il nostro Salvatore vi si riferisce nel
corso del Suo insegnamento più solenne. Se non era vero, allora a quale titolo lo utilizzava? Lo considerava un
´invenzione o no?
Tutto il comportamento di questo Maestro, secondo il parere di tutti, denota un rispetto assoluto della verità. È
totalmente inverosimile che Egli abbia potuto indossare una storia così unica e improbabile senza un´accurata
verifica. "Ma che sia per ignoranza o per errore" -dichiara l´argomento corrente- "che differenza fa? Egli
utilizzava questa storia ben nota semplicemente come una parabola!" Se la storia fosse impossibile, l
´argomentazione sarebbe valida. Ma una volta scartata l´impossibilità, la sua utilizzazione dal Maestro nel suo
insegnamento richiede ovviamente una ricerca più seria e profonda. Se si trattava di una parabola, quale lezione
avrebbe voluto dare? La follia della rivolta contro Dio? Il dovere del sacrificio di sé per l´avanzamento del Suo
regno? No, giacché gli scritti dell´Antico Testamento pullulano di avvertimenti su un soggetto così elementare.
In realtà, Egli stesso dichiara ciò che ha in vista. Non era una parabola ma un parallelo profetico. L´inumazione
marina e la risurrezione di Giona, avvenimento veramente unico, prefigurava un altro avvenimento ancora più
unico e capitale: "come Giona... così il Figlio dell´uomo...". Come l´avventura di Giona sotto la mano di Dio
era per i niniviti la garanzia della sua missione divina, così la risurrezione del suo grande "Controtipo" fonda il
potere e l´attrattiva del Suo Vangelo di salvezza... Quale solennità non avrà avuto il Salvatore quando
annunciava il momento cruciale della salvezza del mondo e che, con l´evocazione di un avvenimento passato,
ne garantiva uno a venire! É il metodo di questa garanzia che deve attirare tutta la nostra attenzione. Il legame
tra i due è il periodo di "tre giorni".
Nostro Signore l´ha utilizzato a più riprese come un elemento essenziale della Sua profezia sulla sorte che lo
attendeva. "In tre giorni", "il terzo giorno". Ma può essere sfuggito all´attenzione degli esegeti del Nuovo
Testamento greco che ogni menzione di questa durata è marcata da solennità come per una durata del più grave
significato. Essendo il Maestro che era, sembra inconcepibile che abbia utilizzato per un tale insegnamento
quello che sapeva non essere che un mito o una favola.
Che pensare allora dell´altra ipotesi, quella della Sua ignoranza?
Per rispondere è bene rovesciare il processo normale del ragionamento. Egli aveva in Sé una tale sovrumana
perspicacia che, profeticamente, seppe predire la Sua stessa morte e resurrezione. Come questa perspicacia
avrebbe potuto venirGli meno nel giudicare la verità della storia passata di Giona?
Altra obiezione corrente viene avanzata contro la precisione della stima di "tre giorni e notti". Si sbagliava in
questo, trattandosi di Sé? Ma se conosceva in anticipo i Giorni del suo soggiorno "nelle viscere della terra",
sarebbe follia rifiutarGli un´uguale conoscenza delle ore della sua durata, tanto più che questa era interamente
sotto il Suo Volere in quanto aveva il "potere" "di deporla e di riprenderla". Tuttavia, espresso nello stile
comprensivo dell´Oriente, Egli identifica l´imprigionamento di Giona nel passato al Suo proprio nel futuro,
tanto che, qualunque sia il numero delle ore implicato in un caso, questo numero lo è ugualmente nell´altro. L
´arma si ritorce così nelle mani del critico. L´esempio di Giona evocato da Cristo non apporta nessuna prova
della Sua ignoranza ma, al contrario, facendo il parallelo storico, Egli "parlava di ciò che conosceva e
testimoniava di ciò che aveva visto", avendo davanti a Sé la visione del passato e del futuro e conoscendo i
segreti della Natura e quelli degli ìnferi. Veramente possiamo dire che quest´uomo non era un rozzo ignorante.
In verità, Egli era il Figlio di Dio!
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[1] Professore al Queen´s College di Oxford, Ambrose J. Wilson aveva pubblicato questo articolo nel 1927 sul
Princeton Theological Rewiew (t. 25, p.630-642).
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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