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LA TORTURA DELLA CROCIFISSIONE

Nel racconto dei Vangeli si sorvola sui particolari della crocifissione di Gesù. Questa forma di tortura, nota ai lettori dei Vangeli, è censurata nei testi dell’ambiente greco-romano. Solo nelle satire di Orazio e nelle commedie di Plauto, o in alcuni testi giuridici e astrologici si parla in modo realistico della morte in croce.

In un testo oratorio, Cicerone, senza esagerare, chiama la croce il supplizio “più crudele e atroce”, “il massimo e vertice delle pene inflitte ad un condannato a morte” (Cicerone, In Verrem 11,5 [165.168.169]).
Nel discorso in difesa del senatore romano Gaio Rabirio, nel 63 a.C., Cicerone riesce a strappare il consenso popolare a favore del suo protetto, presentando in tutta la sua crudezza la tortura e l’infamia della croce, indegna di un cittadino romano e uomo libero. Cicerone chiede che le sofferenze della crocifissione e il nome stesso della croce «siano tenuti lontani non solo dal corpo dei cittadini romani, ma perfino dai loro pensieri, dai loro occhi e orecchie» (Cicerone, Pro C. Rabirio V,16).