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Lo sviluppo del primato in Occidente

Dal IV sec. assistiamo a un grande sviluppo della dottrina del primato in Occidente, in una misura sconosciuta in Africa e ancor più in Oriente. Alla diversa evoluzione contribuirono le circostanze storiche e politiche. A Roma, nell'assenza ormai dell'imperatore, si tende a identificare il vescovo della città con Pietro, di cui è successore e vicario: Pietro vive, parla, presiede e giudica per mezzo suo; il papa si sente l'erede di tutti i poteri concessi a Pietro; a lui spetta la sollecitudine di tutte le chiese, perché è il pastore di tutto il gregge del Signore. Sostenuti da questa consapevolezza, i vescovi di Roma accolgono da ogni parte appelli e consultazioni su questioni di fede e di disciplina ecclesiastica e incominciano a esercitare una giurisdizione diretta e immediata fuori di Roma: dapprima nella provincia suburbicaria e metropolitana, poi in tutta l'Italia e infine, a poco a poco, in tutto l'Occidente. Ricordiamo qualche tappa di tali sviluppi. Una chiara affermazione del primato è fatta da papa Giulio nel 341. Egli protesta contro la deposizione del patriarca alessandrino Atanasio, fatta senza interpellare la chiesa di Roma e contro la tradizione di sottomettere tali cause al giudizio del successore di Pietro[22]. Un'altra chiara affermazione del primato si ebbe nel concilio di Sardica(343), che però contava molti vescovi occidentali e pochi orientali. I vescovi ritenevano "ottima cosa e assolutamente conveniente che i sacerdoti del Signore riferissero al capo, cioè alla Sede dell'apostolo Pietro, dalle singole province"[23]. La politica filoariana dell'imperatore Costanzo produsse un momentaneo appannamento del ruolo del vescovo di Roma. Nel 380 però Teodosio, nel proclamare il cristianesimo religione dello stato, invitava tutti i popoli dell'impero a professare "la religione trasmessa dall'apostolo Pietro ai romani e che è continuata fino ai nostri giorni nella regione che segue il pontefice Damaso e il vescovo Pietro d'Alessandria"[24]. Superato lo scisma di Ursino con l'aiuto imperiale, il papa Damaso diede un grande impulso all'organizzazione e all'attività della sua chiesa, accrescendone prestigio e autorità. A Roma si rivolgono vescovi dalla Spagna e dalla Gallia, per ottenere risposte a questioni di fede o di prassi ecclesiale. Nelle risposte di Siricio, dette decretali, si coglie la piena consapevolezza dei doveri pastorali del papa di Roma verso la chiesa universale: "Portiamo il peso di tutti quelli che sono gravati; piuttosto li porta in noi il beato apostolo Pietro, che, come confidiamo, ci protegge e ci difende, quali eredi della sua amministrazione"[25]. I papi del V secolo sono tutti impegnati a far riconoscere e a estendere l'autorità di Roma. Nell'Illirico assegnano al vescovo di Tessalonica l'incarico di loro rappresentante: egli deve informare Roma di tutto e intervenire a suo nome. I papi sono pronti a ricevere da ogni parte appelli e ricorsi, comportandosi da supremo tribunale. L'autorità dei singoli vescovi, quali successori degli Apostoli, e dei loro sinodi non viene messa in discussione. Ma essi, pur avendo tutti la stessa dignità(honor), non hanno gli stessi diritti (potestas). Per Leone magno il vescovo di Roma è"il principe di tutta la chiesa"[26], perché è il successore e l'erede di Pietro; "solo Pietro è messo alla testa di tutti gli apostoli e di tutti i padri della chiesa... a Pietro spetta la guida di tutti coloro che sono sotto la guida suprema di Cristo"[27].
Di fatto il magistero dei papi e i loro interventi disciplinari si restringono quasi unicamente alle regioni occidentali e dell'Illirico e sono limitati alle cause più importanti riguardanti le contese di elezioni o deposizioni episcopali. Per di più tali interventi di arbitrato sono spesso giustificati con la consuetudine e i canoni conciliari, di cui si professano custodi.