00 30/10/2012 14:09

II. AUTO-CRITICA DEL METODO STORICO-CRITICO
SUL PARADIGMA METODOLOGICO
DI MARTIN DIBELIUS E RUDOLPH BULTMANN


1. I principali elementi del metodo e i loro presupposti

Per non rimanere soltanto nell'astrazione di regole genera1i, vorrei tentare di illustrare con un esempio ciò che sono venuto dicendo sin qui. Seguirò la tesi di dottorato scritta da Reiner Blank all'Università di Basilea e intitolata "Analisi e critica degli studi di storia delle forme di Martin Dibelius e Rudolph Bultmann" (
12), Questo libro mi sembra un eccellente esempio della suddetta autocritica del metodo storico-critico. Una esegesi auto-critica cessa di accumulare "conclusioni" su conclusioni, di elaborare e di contestare ipotesi. Esamina piuttosto il suo cammino per identificare i propri fondamenti, e per purificarsi, grazie ad una riflessione su questi fondamenti. ciò non vuol dire che si sopprime da sé. Al contrario, insieme con la sua autolimitazione trova il suo giusto ambito. Non è necessario aggiungere che nel frattempo i lavori di Dibelius e Bultmann sulla storia delle forme sono stati superati in più di un aspetto, e in singoli punti fatti oggetto di correzioni. Ma è ugualmente vero che i loro orientamenti metodologici fondamentali determinano ancor oggi la metodologia ed il percorso dell'esegesi moderna. I loro elementi essenziali costituiscono sempre il fondamento dei suoi giudizi storici e teologici; ed inoltre hanno acquisito un'autorità addirittura dogmatica.
Per Dibelius, come per Bultmann, si trattava di superare il modo arbitrario con cui, nella fase precedente dell'esegesi critica - quella che veniva chiamata la "teologia liberale" - si era arrivati a giudicare ciò che era "storico" e "non storico". Ciascuno dei nostri due studiosi ha dunque cercato di stabilire criteri letterari rigorosi, destinati a mettere in luce con sicurezza il processo, secondo il quale i testi si sono formati, e a fornire cosi un quadro fedele della tradizione. È su questa base che l'uno e l'altro cercavano la "forma pura" e le leggi che hanno condotto, a partire da queste forme iniziali, sino ai testi quali si presentano a noi oggi. Dibelius partiva dell'idea per lui ovvia che il mistero della storia si svela a mano a mano che si mette in luce il suo divenire (
13). Ma come si arriva all'inizio che è postulato e alle leggi di sviluppo dell'evoluzione successiva? Malgrado tutte le loro differenze nei dettagli, si può qui scoprire una serie di presupposti di fondo comuni a Dibelius e Bultmann, presupposti che entrambi consideravano, senza discuterli, come sicuri. L'uno e l'altro partono dalla priorità della predicazione rispetto all'evento: "in principio era la parola". Tutto, nella Bibbia, muove a partire dalla predicazione. Bultmann spinge questa tesi tanto lontano che per lui solo la parola può essere originaria: la parola produce la scena (14), Tutto quanto è evento è pertanto secondario, elaborazione mitica.
Con ciò è già stato posto un assioma che a partire da Dibelius e Bultmann è rimasto costitutivo per l'esegesi moderna l'idea della discontinuità. Non solo non vi è alcuna continuità tra la tradizione pre-pasquale e post-pasquale, tra il Gesù pre-pasquale e la Chiesa che si sta formando, ma addirittura vige discontinuità in tutte le fasi della tradizione. Ciò è talmente vero che R. Blank ha potuto dire: "Bultmann ha cercato la discontinuità ad ogni costo" (
15). Vi era certamente un vantaggio in tale teoria: il problema del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, in questo modo di vedere, diventava irrilevante. Infatti, se c'è già discontinuità all'interno della tradizione neotestamentaria, la discontinuità rispetto all'Antico non fa più problema. Cosi allora la continuità tra i due Testamenti, affermata dai testi del Nuovo, fa parte di quegli elementi mistificanti che lo storico mette a nudo, e con i quali la comunità posteriore si è costruita la propria abitazione. Nel medesimo tempo ci si accorge come in un lampo quanto, attraverso questo ricorso ad elementi sedicenti originari, ci si allontani dal messaggio concreto del Nuovo Testamento. Infatti, per quest'ultimo, è costitutivo sapersi in unità con tutta la testimonianza dell'Antico, il quale solo adesso si comprende come un'unità e come una totalità significativa. Ogni interpretazione del Nuovo Testamento infatti deve essere giudicata attraverso questo criterio: se è capace o no di accordarsi con questa convinzione fondamentale. Se ciò non è possibile, è esclusa fin da principio una comprensione conseguente della logica interna degli scritti del Nuovo Testamento.
Ma torniamo a Dibelius e a Bultmann.
Alla tesi del carattere originario della semplice parola e a quella della discontinuità tra le singole fasi del suo sviluppo, si aggiunge la convinzione che solo ciò che è semplice è primitivo; ciò che è complesso è necessariamente tardivo. Questa idea fornisce un parametro di facile utilizzazione per determinare le tappe di una evoluzione: più un testo è teologicamente elaborato e complesso, più è recente; e viceversa, più una cosa è semplice, più è facile attribuirla all'origine (
16), Ma il criterio che permette di giudicare se una cosa è più o meno sviluppata, non è cosi evidente come sembra di primo acchito. Infatti, il giudizio su questo punto dipende essenzialmente dai criteri di valutazione teologica propri dell'esegeta; è lasciato qui un ampio spazio all'arbitrarietà.
Ma prima di tutto, occorre contestare l'idea fondamentale qui presupposta, la quale riposa su un modo semplicista di trasporre il modello evoluzionista della scienza alla storia dello spirito. I processi della vita dello spirito non seguono la legge dell'evoluzione che vale nel regno animale. In realtà, accade qui spesso il contrario; dopo una grande innovazione possono sopraggiungere delle generazioni di epigoni che riducono l'audacia di un nuovo inizio alla banalità di una scolastica; la seppelliscono; la ricoprono di detriti sino a che, finalmente, attraverso numerose diramazioni, questa scoperta possa nuovamente farsi valere.
Attraverso alcuni esempi si vedrà con facilità quanto siano discutibili questi criteri. Chi potrebbe sostenere che Clemente Romano sia più "evoluto" o più "complesso" di Paolo? O che Giacomo determini un avanzamento rispetto alla lettera ai Romani? O che la Didachè vada più lontano delle Lettere pastorali? Consideriamo le epoche posteriori: intere generazioni di discepoli di S. Tommaso sono stati incapaci di conservare la grandezza del suo pensiero; l'ortodossia luterana è molto plU "medioevale" di Lutero stesso. E persino tra i grandi è impossible mantenere un tale schema evolutivo: Gregorio Magno, per esemplo, scrive molto dopo Agostino, e lo conosce; ora, in Gregorio l'audace visione agostiniana si trova tradotta nella semplicità della comprensione della fede. Altro esempio: quale norma permette di decidere se Pascal debba essere classificato innanzi o dietro Descartes? Quale delle loro filosofare deve essere giudicata più evoluta? E di tali esempi se ne potrebbero fornire lungo tutta la storia. Ogni giudizio basato sulla teoria della discontinuità nella tradizione e sul principio evoluzionista della priorità del "semplice" sul "complesso", può dunque essere a priori messo in questione come senza fondamento.
Ma ci resta ora da spiegare, in maniera ancora più concreta, a partire da quali norme si cercherà di determinare ciò che e "semplice". Riguardo a questo, vi sono dei criteri sia per la forma che per il contenuto. Dal punto di vista formale, si sono ricercate le forme originarie. Dibelius le trovava nel "paradigma", il racconto esemplare trasmesso oralmente, che si lascerebbe ricostruire a partire dalla predicazione. Più tardivi del paradigma sarebbero l'"aneddoto", la "leggenda", le collezioni di materiali narrativi ed il "mito" (
17).
Bultmann vede la forma pura nell'"apoftegma": "il frammento originario doveva essere ben tornito, conciso. L'interesse doveva concentrarsi sulla parola di Gesù alla fine di ogni scena; descrizioni dettagliate di una situazione dovevano essere estranee a questa sorta di forma; Gesù non compariva mai come l'iniziatore... Tutto ciò che non corrispondeva a questa forma, Bultmann l'attribuiva all'evoluzione successiva" (
18).
Il carattere arbitrario di tali asserzioni che segnano ancor oggi con la loro impronta le teorie dello sviluppo e i giudizi di autenticità, salta agli occhi. Certamente, per essere giusti, bisogna aggiungere che queste teorie non sono cosi arbitrarie come sembrerebbe di primo acchito. La definizione di "forma pura" si fonda infatti sull'idea che ci si fa riguardo a ciò che per il contenuto è primitivo; idea che dobbiamo ora mettere alla prova.
Un primo elemento di questa idea è quello che abbiamo già incontrato: la tesi, cioè, della priorità della parola sull'evento. Ma questa tesi nasconde due altre coppie di contrari: la contrapposizione tra la parola e il culto e quella tra escatologia e apocalittica. In stretta relazione con queste sta inoltre l'antitesi tra ciò che è giudaico e ciò che è ellenistico. Secondo Bultmann, per esempio, erano ellenistici: l'idea del cosmo, il culto mistico della divinità e la pietà cultuale. La conseguenza è semplice: ciò che è ellenistico non può essere palestinese, e non può quindi essere originario. Tutto ciò che concerne il culto, il cosmo o "la mistica" deve essere rifiutato come formazione posteriore. Il rifiuto dell' "apocalittica", il presunto contrario dell'escatologia, conduce ad un altro elemento: il presunto antagonismo che oppone il profetico al "legale", e dunque anche a ciò che è cosmico e cultuale. Ne consegue che l'etica è ritenuta incompatibile con l'escatologia e la profezia. In principio non ci sarebbe stata un'"etica", ma semplicemente un "ethos" (
19)
Si fanno ancora sentire qui, senza alcun dubbio le scelte fondamentali di Lutero: la dialettica della logge e dell'evangelo, che tende ad assegnare l'etica ed il culto all'ambito della legge, e metterle, dunque, in contrasto dialettico con Gesù; è lui, infatti, come portatore della Buona Novella, che compie la linea della promessa e cosi oltrepassa la logge. In questo senso, se vogliamo comprendere l'esegesi moderna e giudicarla correttamente, ci occorre riflettere di nuovo sull'idea che Lutero si faceva del rapporto fra i due Testamenti; al modello sino allora corrente dell'analogia, egli sostituì una struttura dialettica. Forse è questa svolta il vero fossato che separa l'antica esegesi dalla nuova. Comunque, tutto ciò era, in Lutero, ancora mantenuto in un fragile stato di equilibrio: per Gesù stesso, e quindi anche per la vita cristiana, i due aspetti della dialettica restano essenziali; Gesù non è soltanto la pura giustificazione per grazia, ma anche "esempio"; e in questo modo l'etica è fondata nella sua persona.
Di contro, in Dibelius e Bultmann, tutto ciò è degenerato in uno schema evolutivo d'un semplicismo quasi intollerabile, benché proprio ciò abbia contribuito alla sua forza di penetrazione. Con tali presupposti, la figura di Gesù è predeterminata. Gesù deve dunque essere concepito come strettamente "giudaico"; tutto ciò che è "ellenistico" deve esserne scartato; bisogna allontanare ogni elemento apocalittico, sacramentale o mitico.
Ciò che resta è un profeta esclusivamente "escatologico", che non proclama in effetti alcun messaggio. Egli non fa altro che gridare in modo "escatologico", invitando alla vigilanza verso il "Totalmente altro", verso la "Trascendenza", e presentandola perentoriamente agli uomini come un'attesa della fine imminente del mondo.
Da questa visione delle cose si aprono due compiti per l'esegesi: bisognava spiegare come, a partire dal Gesù profeta, non messianico e non apocalittico, si era giunti alla comunità apocalittica, che venerava Gesù come Messia; cioè ad una comunità ove si univano in un unico fenomeno sincretista l'escatologia giudaica, la filosofia stoica e la religione misterica. È infatti cosi che Bultmann descrive il cristianesimo primitivo (
20). Quanto al secondo compito, consiste nel mettere in rapporto il messaggio originario di Gesù con l'esistenza cristiana odierna, cosi da permetterci di "comprendere" il suo appello.
Il primo compito era, in linea di principio, abbastanza semplice da svolgere, seguendo lo schema evolutivo; ma avrebbe richiesto, per essere svolto nel dettaglio, un gran lavoro di erudizione. Il terreno di coltura cui siamo debitori per ciò che è contenuto nel Nuovo Testamento non andava cercato in persone singole, ma nel collettivo, nella "comunità". Le idee romantiche sul "popolo" e sulla sua importanza nella formazione delle tradizioni hanno qui giocato un ruolo rilevante (
21). Aggiungiamo a questo la tesi dell'ellenizzazione e il ricorso alla scuola della storia delle religioni. I lavori di Gunkel e di Bousset continuavano, in questo contesto, ad esercitare un'influenza decisiva (22). Il secondo compito era più difficile. Bultmann l'ha affrontato con la propria tesi sulla demitologizzazione; ma essa non conobbe neppure lontanamente il successo raggiunto con le sue teorie sulla forma e lo sviluppo. Se è permesso di caratterizzare, semplificando, il tentativo con cui Bultmann cerca di attualizzare il messaggio di Gesù al nostro tempo, si potrebbe dire quanto segue: lo studioso di Marburg stabilisce una corrispondenza tra cio che è profetico, non apocalittico, e l'idea di fondo del primo Heidegger. L'essere cristiano, nel senso in cui l'intendeva Gesù, si identifica allora, nelle sue lince essenziali, con quel modo di esistere caratterizzato dall'apertura e dalla vigilanza, descritto da Heidegger. Ma a questo punto si pone il problema di sapere se non vi sia una via più semplice per giungere a delle affermazioni tanto generali e in buona parte puramente formali (23).
Tuttavia, ciò che qui ci importa non è il Bultmann sistematico, il cui influsso è stato d'altronde bruscamente interrotto dall'avanzata del marxismo. Si tratta, qui, del Bultmann esegeta, che sta a rappresentare un consenso di fondo dell'esegesi scientifica, tuttora diffuso. Attraverso la nostra analisi si è reso manifesto che anche il Bultmann esegeta è un sistematico e che le sue conclusioni esegetiche non sono il risultato di constatazioni storiche, ma provengono da un insieme strutturato di presupposti sistematici. Karl Barth ha ragione quando fa questa constatazione: "Bultmann è esegeta, ma non credo si possa discutere con lui di esegesi, poiché egli è allo stesso tempo un sistematico di una tale levatura, che non si troverebbe praticamente alcun testo trattando il quale non appaiano subito diversi assiomi del suo pensiero, e che in definitiva tutto si decide sulla questione della loro validità" (
24).