CREDENTI

LA LEGGE MORALE PER I NON CREDENTI

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    00 01/10/2011 21:14
    Ogni non credente dovrebbe porsi una domanda di fondamentale importanza per le scelte della sua vita:

    Perché, dovrei fare il bene piuttosto che il male, anche quando dallo scegliere il bene non me ne viene alcun vantaggio ma, anzi, ne ricavo uno svantaggio?”»

    (V. Messori)
    [Modificato da Credente 05/09/2012 21:48]
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    00 01/10/2011 21:14

    Il filosofo Benedetto Ippolito e l’inconsistenza della morale laica

    Sottolineiamo un commento molto interessante di Benedetto Ippolito, ricercatore universitario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi “Roma Tre”, professore incaricato e responsabile del settore scientifico disciplinare di Storia della Filosofia Medievale e membro di Ruolo del Dipartimento e del Collegio Didattico di Filosofia, sull’ormai celebre discorso di Benedetto XVI al Bundestag, il Parlamento federale tedesco, nell’ambito del suo recente viaggio in Germania.

    Nel cuore dell’Europa, ha detto il filosofo, «il Papa ha voluto sollecitare la coscienza tedesca sulle radici giuridiche dell’Occidente, che sono state assicurate stabilmente nel tempo dall’incontro felice tra la religione cristiana, la filosofica greca e la giurisprudenza romana». Il Papa ha osservato come «la visione positivista – cioè puramente formale – del mondo sia una parte grandiosa della conoscenza umana, alla quale non dobbiamo rinunciare. Ma essa non è una lettura che corrisponda e sia sufficiente per essere uomini in tutta l’ampiezza». L’unico modo per poter essere tali, è avere consapevolezza che «l’uomo non crea se stesso», perché la sua «natura personale non è esaurita dalla libertà». Ippolito rileva l’apertura di un confronto esplicito con il padre del pensiero giuridico tedesco, Hans Kelsen, ricordando come questi, dopo aver cercato invano di costruire un sistema esclusivamente basato sulla legge scritta, sia dovuto incorrere alla fine in insormontabili e sfibranti contraddizioni a causa della rinuncia totale alla sola idea risolutiva che dà fondamento logico al diritto, ossia il riferimento trascendente a Dio.

    Il filosofo non usa mezzi termini: «Come sanno i teologi, infatti, l’unico pilastro con cui è possibile salvaguardare l’intelligenza, la libertà dell’uomo e il rispetto della natura circostante è solo Dio creatore, perché Egli è il principio che permette di concepire il valore supremo della natura creata rispetto ai tanti interessi esistenti». E ancora: «La responsabilità dell’uomo davanti a Dio genera, infatti, una base sicura alla politica e al diritto, che accosta pienamente la democrazia delle istituzioni ad alcuni valori universali insindacabili, cioè indipendenti dal dispotismo del potere».

    Il grande “papa” laico, Norberto Bobbio, lo aveva capito sapeva perfettamente quando diceva: «La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in raltà è irragionevole». Perfino Hans Küng, molto amato dall’area laicista per essere il più famoso teologo dissidente, lo riconosce: «L’umano è salvaguardato solo se viene fondato sul divino. Solo l’Assoluto può vincolare in maniera assoluta». L’irrazionalità della “morale senza Dio” è ben spiegata da Vittorio Messori: «la cosiddetta “morale razionale” non ha nulla di ragionevole. Non è (e non sarà mai) in grado di rispondere in modo logico alla semplice domanda di buon senso: “perché, messo alla scelta, dovrei fare il bene piuttosto che il male, anche quando dallo scegliere il bene non me ne viene alcun vantaggio ma, anzi, ne ricavo uno svantaggio?”» (V. Messori e M. Brambilla, “Qualche ragione per credere”, Edizioni Ares 2008, pag. 68)

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    00 29/11/2011 23:15

    Studio USA: gli atei non godono di  molta fiducia

    Uno studio statunitense arriva come un macigno in questi giorni a lacerare l’illusione della forma di proselitismo promosso oggi dalla cultura laicista. Quella forma estrema di ateismo diventata oggi una vera e propria religione, basa il suo stesso esistere e la sua propaganda sull’attacco plateale e sistematico verso le altre religioni, il rancore e l’odio verso i leader religiosi, la diffamazione e la derisione delle persone credenti, l’enfatizzazione delle loro incoerenze e debolezze. Tutto il pensiero laico si è ridotto ad una sorta di gossip laicista, che tiene occupate quotidianamente decine e decine di persone (ovviamente nella realtà virtuale del web), le quali pensano davvero di promuovere la loro ideologia soffermandosi sulle (presunte) debolezze degli odiati credenti.

    La ricerca, pubblicata sul “Journal of Personality and Social Psychology” mostra con evidenza che gli atei sono diventati la categoria di persone meno simpatiche, particolarmente per la scarsità di fiducia che la gente ripone in loro. Questa visione è generalizzata ed è presente, si legge, anche nelle popolazioni più liberali e laiche. La ricerca realizzata dallo psicologo Will Gervais dell’University of British Columbia, coincide perfettamente con i risultati di quella realizzata nel 2006 e pubblicata sull’American Sociological Review. Il profilo dell‘individuo inaffidabile è stato visto come rappresentante degli atei e degli stupratori, ma non dei cristiani, musulmani, ebrei, femministe e omosessuali. «Le persone usano la religiosità come un segnale di fiducia», scrivono i ricercatori, e dato che «l’affidabilità è il tratto più apprezzato nelle persone», questa equazione mentale genera oggi un atteggiamento decisamente negativo nei confronti dei non credenti.

    Per realizzare i test, i ricercatori hanno sottoposto a 105 studenti la lettura di una vignetta di un uomo che non riesce a prendersi la responsabilità del suo gesto dopo aver urtato un furgone parcheggiato con la sua auto, e un’altra in cui l’uomo mette in tasca dei soldi presi da un portafoglio che ha trovato sul marciapiede. Ai partecipanti è stato chiesto se pensavano che l’uomo fosse più probabilmente (a) un insegnante, o (b) un insegnante e un secondo fattore di identificazione. La risposta più scelta è stata: “Un insegnante e un ateo”, sorprendentemente maggiormente preferita  della risposta: “un insegnante e uno stupratore”.

    Un altro esperimento ha visto impegnati quaranta studenti universitari, invitati a scegliere tra un candidato religioso e uno ateo per due posti di lavoro: un lavoratore in un asilo nido e una cameriera. Al di là della loro appartenenza o non appartenenza religiosa, i candidati avevano medesime qualifiche per la posizione. «I partecipanti hanno significativamente preferito il candidato religioso al candidato ateo per il posto di lavoro in cui serviva una elevata dose di fiducia -quello all’asilo nido-. Al contrario, i partecipanti hanno marginalmente preferito il candidato ateo al candidato religioso per un posto di lavoro in cui non occorre grande fiducia, come la cameriera», ha spiegato lo psicologo. Per dirla semplicemente: il candidato religioso è stato preferito al candidato ateo per un lavoro in cui è richiesto un individuo particolarmente affidabile, questo significa, continua Gervais, una forma di sfiducia verso gli atei.


    [Modificato da Credente 07/08/2015 21:11]
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    00 15/12/2011 16:59

    Lo scrittore De Botton:

    «la società laica non funziona, guardiamo al cristianesimo»

    Abbiamo già avuto modo di parlare (cfr. Ultimissima 7/9/11) dello scrittore, giornalista ed editorialista Alain de Botton, autore di “Del buon uso della religione” (Guanda 2011), ovvero una sorta di risposta al libro di Giulio Giorello intitolato “Del buon uso dell’ateismo”. E’ un dialogo tra non credenti intelligenti e non certo razionalisti. In passato abbiamo apprezzato la posizione di Giorello.

    De Botton parla ancora una volta parla della sua educazione forzata all’ateismo: «Sono cresciuto in una famiglia di atei convinti, figlio di ebrei non osservanti che mettevano la fede religiosa sullo stesso piano della fede in Babbo Natale. Nonostante fossi stato fortemente influenzato dall’atteggiamento dei miei genitori, passati i vent’anni il mio ateismo mi ha mandato in crisi». Al posto di approdare alla fede però, come spesso capita, è oggi convinto della necessità di “sfruttare” il benessere culturale che la vita religiosa, in particolare cristiana, offre: «Mi sono reso conto che la mia protratta resistenza alle teorie sull’aldilà o sugli abitanti del paradiso non era una giustificazione sufficiente per liquidare la musica, gli edifici, le preghiere, i rituali, le celebrazioni, i santuari, i pellegrinaggi, i pasti in comunione e i manoscritti miniati». Ed è opportuno farlo, secondo lui, per contrastare la disgregazione del senso di comunità nella società laica moderna, e per far fronte alle fragilità che minano l’equilibrio di tutti gli esseri umani. Afferma: «Nella società di oggi ci viene chiesto di fare una scelta, di dichiarare se siamo religiosi o se non lo siamo affatto. O si crede o non si crede, punto. Mettere le cose in questo modo mi sembra un po’ ridicolo, perché in realtà nella pratica religiosa si trovano elementi importanti che non riguardano in realtà solo “la fede” in senso stretto. In particolare, credo che un po’ tutti noi abbiamo bisogno di imparare dalla religione come organizzare la nostra vita spirituale». Propone quindi di «leggere le fedi, principalmente quella cristiana e, in misura minore, quella giudaica e quella buddista, alla ricerca di intuizioni che possano tornare utili nella vita laica, soprattutto in relazione ai problemi sollevati dalla convivenza all’interno di una comunità e dalle sofferenze mentali e fisiche. Non si tratta di negare i valori della laicità: la mia tesi è che spesso abbiamo laicizzato malamente, cioè che, mentre cercavamo di liberarci di idee inattuabili, abbiamo erroneamente rinunciato anche ad alcuni degli aspetti più utili e affascinanti della religione».

    Uno spunto insolito quello dell’intellettuale svizzero, seppur non innovativo. Già Giuliano l’Apostata riteneva che i cristiani andassero combattuti sul loro campo, imitandoli nella sobrietà e nella benevolenza verso gli altri. Tuttavia l’intellettuale afferma indirettamente l’incapacità della realizzazione di una morale laica (almeno fino a prova contraria), così come aveva già sottolineato il “papa laico” Norberto Bobbio: «La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole. Io non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo in cui è sconosciuta la dimensione della speranza». E ancora in un’intervista inedita: «Gli uomini sono cattivi. Il male è la storia umana. È la sconfitta di Dio e la sconfitta della ragione. Questo secolo lo dimostra più di ogni altra epoca. E il cristianesimo, dov’è il cristianesimo? [...]. Come diceva Croce, non possiamo non dirci cristiani. Senza l’etica cristiana non c’è convivenza. Ma il cristianesimo come fede è un’altra cosa. E io non riesco a non dubitare». Il tentativo dello scrittore svizzero non appare comunque realizzabile, perché nessuna etica sopravvive se non è agganciata a qualcosa che sovrasti l’uomo. Detta in termini sportivi, i giocatori non sanno farsi le regole. Recentemente ha ampliato questo concetto il filosofo Benedetto Ippolito, docente presso l’Università degli Studi “Roma Tre”: «l’unico pilastro con cui è possibile salvaguardare l’intelligenza, la libertà dell’uomo e il rispetto della natura circostante è solo Dio creatore, perché Egli è il principio che permette di concepire il valore supremo della natura creata rispetto ai tanti interessi esistenti». E perfino il teologo dissidente Hans Küng: «L’umano è salvaguardato solo se viene fondato sul divino. Solo l’Assoluto può vincolare in maniera assoluta».

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    00 01/01/2012 00:03

    Una lettura dell’ateismo contemporaneo da parte del filosofo Pessina

    Di certo, fino a qualche anno fa, l’ateismo si presentava colto e pragmaticamente indifferente, oggi invece, si assiste ad un doppio cambiamento. Il primo mutamento che va sottolineato è sicuramente come ai giorni nostri si ricorra un po’ banalmente al neodarwinismo o alleneuroscienze per tentare di estrapolare delle motivazioni per negare l’esistenza di Dio. Il secondo cambiamento invece, riguarda il tentativo di far sembrare l’ateismo come portatore di una moralità nuova.

    A sottolineare queste nuove caratteristiche ci pensa il filosofo Adriano Pessina, docente presso la Cattolica di Milano, in un articolo sull’Osservatore Romano. Egli precisa anche che: “La nuova apologetica dell’ateismo privilegia il riferimento alle scienze empiriche per giustificare la tesi per cui senza Dio si può vivere moralmente bene e, anzi, si può e si deve prendere nelle proprie mani il futuro di un’evoluzione che finora è stata, per così dire, cieca, ma che ora potrà finalmente essere governata dal progetto umano emancipato dalle pastoie di divieti ancestrali formulati sotto l’autorità divina”.

    Un nuovo ateismo, dunque, che gioca sulla cattiva comprensione della questione di Dio come Creatore e che manifesta un po’ di inquietudine quando promuove un‘illusoria rassicurazione dell’uomo con la possibilità per gestire la vita manipolandola a suo piacimento. E’ un chiaro segno di un’avvertita consapevolezza della posta in gioco, cioè del significato ultimo dell’esistenza e del senso stesso dell’intera realtà. Il nuovo ateismo, continua il filosofo, deve suscitare nei cristiani una voglia ancora maggiore di affermare “le ragioni di un credere che è capace di ridare di nuovo forma a un sapere sull’esistenza di Dio in grado di plasmare il senso dell’ethos umano, per troppo tempo coltivato dentro un’autonomia incapace di cogliere la portata epocale della sfida pratica e teorica che l’uomo stesso ha plasmato con le sue mani”. C’è l’esigenza di trovare criteri etici che non siano puramente arbitrari e soggettivi: e l’ateismo militante vorrebbe porsi proprio come questo orizzonte ultimo di senso, in grado di giustificare il discorso etico su una vera e propria metafisica dell’immanenza e perciò della negazione di Dio.

    Chiude magistralmente Pessina: «Agli argomenti della nuova apologetica dell’ateismo, che di fatto è tutt’altro che post-metafisica, si può e si deve rispondere, confidando nelle grandi risorse di cui proprio la ragione umana, salvata dall’evento dell’Incarnazione, dispone. Dopo il periodo del pensiero debole, delle identità fluide, si ripropone, nello spazio pubblico della cultura, la questione della serietà dell’esistenza nel suo necessario radicarsi con o contro Dio».

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    00 22/01/2012 23:55
    I relativisti si fanno promotori della tolleranza, della democrazia e della libertà, di tre valori splendidi, assolutamente “non relativizzabili”. La contraddizione è palese. Un vero relativista dovrebbe ragionare in altro modo: poiché non esistono valori assoluti e non ho alcun criterio razionale per stabilire che i valori altrui siano migliori o anche equivalenti ai miei, rispetterò i valori altrui solo quando questo rispetto non mi nuoce: in caso di conflitto, però, cercherò sempre di far prevalere i miei valori, per la semplice ragione che sono i miei e nella serena presunzione che nessuno potrà mai accusarmi di aver agito ingiustamente, dato che per definizione una giustizia assoluta non esiste (almeno per un relativista).
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    00 30/01/2012 22:34

    Ecco perché l’amoralità dell’ateismo è un pericolo per la società

    Il rabbino Moshe Averick, impegnato nel dialogo con le altre religioni,  ha scritto un articolo davvero molto interessante, intendendo dimostrare un’altra area di contraddizione sulla concezione della vita priva di Dio.  In particolare, si è concentrato sul rilevare che l’amoralità degli atei (ovvero l’impossibilità ad affermare qualcosa come perennemente giusto o perennemente sbagliato, ma sempre relativo) si trasforma in una forma di debolezza sociale nel contrastare terribili mali che attanagliano la nostra società. Il  ”relativismo morale” infatti può gettare le basi filosofiche, ad esempio, per aprire la strada all’accettazione e all’approvazione dellapedofilia (e altro).

    E’ assiomatico, dice, che in una società priva di Dio non vi è qualcosa di morale o di immorale, ma solo l’amoralità. Questo è spesso frainteso col fatto che gli atei non hanno valori, ma tale conclusione è chiaramente errata. L’amoralità è un giudizio, non sulla esistenza di valori, ma sul significato di quei valori. Nella visione atea del mondo, infatti, l’essere umano non è “nient’altro che” un primate dalla posizione eretta, e i nostri sistemi di valori hanno un significato identico a quello degli abitanti della giungla. Immaginare che l’uomo sia qualcosa di “più” è quasi una bestemmia per l’apparato culturale riduzionista-neodarwinista. La morale dunque, è vista semplicemente come un termine che viene utilizzato per descrivere il tipo di sistema che un individuo (o una società di individui) preferisce soggettivamente. Ogni società -dicono- stabilisce, mantiene e modifica i suoi valori in base alle proprie esigenze. Lo scrittore Samuel Butler disse: «La moralità è il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei. Il cannibalismo è morale in un “paese cannibilista”». I valori dunque non sono altro che riflessi delle preferenze soggettive prevalenti, i quali ovviamente si adatteranno alle mutevoli esigenze, così ci spiegano i guru del laicismo. Non c’è nulla di perennemente giusto o perennemente sbagliato, di prescritto nell’uomo, tutto dipende dal bias degli appartenenti ad una data società. Averick ha voluto sottolineare la gravità di questa concezione attraverso l’argomento sull’accettazione della pedofilia nella società, che per ora è ancora uno dei pochi temi su cui esiste una (quasi) unanimità di giudizio (negativo, ovviamente). «Le conseguenze logiche e filosofiche dei sistemi di credenza degli atei sono inevitabili», ha affermato.  «Se non esiste nulla di giusto o sbagliato in modo oggettivo, allora l’abuso di bambini non può essere sbagliato in modo definitivo, ma dipenderà dall’opinione della società».  La conferma arriva dal pensiero dei noti esponenti di questa visione.

    Ad esempio, il docente di bioetica Peter Singer presso l’Università di Princeton, alla domanda su cosa pensasse della pedofilia, ha risposto«Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale». Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, in un articolo del 2010 dal titolo “An Amoral Manifesto” ha detto: «ho rinunciato del tutto alla moralità [...] da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io ora credo che non ci sia [...].  Mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità [...]. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione:senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità». Ecco, tra l’altro, un esempio di dogma “laico”. Marks ha quindi continuato: «Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità». Il ragionamento pare coerente: senza Dio, nulla è letteralmente giusto e sbagliato, neppure la pedofilia è per forza sbagliata. Dipende dall’opinione sociale, dai media, da cosa ne dice “Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano” o “Il Giornale”. L’opposizione alla pedofilia, ha continuato il filosofo non credente, si basa solo su una sorta di preferenza: «come per la non esistenza di Dio, noi esseri umani possiamo ancora utilizzare un sacco di risorse interne completamente spiegabili per motivare determinate preferenze. Così, abbastanza di noi sono abbastanza contrari al maltrattamento di bambini, e probabilmente continueremo ad esserlo». Interessante che Marks riconosca che i principi morali non possono avere un significato oggettivo se non provengono da Dio, i valori etici (inclusi quelli sulla pedofilia), senza Dio sono destinati ad essere in mano al capriccio di coloro che li sposano: non hanno alcuna realtà oggettiva, ma tutto è basato su preferenze personali o condizionamento sociale. Prendendo l’esempio dell’omosessualità, il tentativo fino ad oggi nei Paesi secolarizzati è stato quello di condizionare la società verso la sua approvazione, è sufficiente infatti -in assenza di una cultura cristiana fortemente radicata- che il “potere” modifichi artificialmente l’opinione generale per rendere qualcosa morale o immorale, accettabile o non accettabile (così come avvenne con l’approvazione sociale del nazismo, del comunismo, del razzismo, dello schiavismo, dell’eugenetica ecc.).«Per dirla in un modo diverso», continua correttamente Averik, «in un mondo ateo, i termini “moralità” e “preferenze personale” sono identici e intercambiabili». La valutazione esclusivamente soggettiva è comunque in balia del “più forte” (condizionamento sociale) ed è notoriamente capricciosa: c’è chi preferisce il gelato al cioccolato e chi alla vaniglia, chi preferisce il jazz e chi invece l’hip-hop, c’è chi preferisce che i bambini possano avere rapporti sessuali con gli adulti e chi invece preferisce averli con gli animali domestici ecc., la maggioranza decide arbitrariamente cosa è moralmente accettabile o non accettabile. Ieri era accettabile l’insegnamento dell’eugenetica nelle università, oggi si tenta di far diventare la pedofilia un “normale orientamento sessuale“, con tanto di pressione sul DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association. In Olanda i pedofili hanno dal 2006 anche un partito politico.

    Michael Ruse, professore di filosofia presso la Florida State University, ha discusso con Jerry Coyne e Jason Rosenhouse (tutti e tre non credenti) sulla moralità. Ruse ha dichiarato sorprendentemente che la pedofilia è immorale e questa è una verità oggettiva e non soggettiva (o preferenza personale): «(l’abuso di) ragazzi nelle docce è moralmente sbagliato, e questo non è solo un parere o qualcosa “sulla base di giudizi di valore soggettivo”».  E ancora:  «La mia posizione è che la biologia evolutiva pone su di noi alcuni assoluti. Si tratta di adattamenti proposti dalla selezione naturale. E’ in questo senso io sostengo che la moralità non è soggettiva».  In un altro articolo si contraddice (o meglio, torna nella normalità della visione laicista):  «La morale allora non è una cosa tramandata a Mosè sul monte Sinai. E’ qualcosa forgiata nella lotta per l’esistenza e la riproduzione, qualcosa modellato dalla selezione naturale. La morale è solo una questione di emozioni, come il piacere per il gelato o il sesso e l’odio verso il mal di denti e i compiti degli studenti [...] ora sapete che la morale è un’illusione che è stata messa in te per farti diventare un cooperatore sociale, cosa ti impedisce di comportarti come un antico romano? Beh, niente in senso oggettivo». Non essendoci nulla di pre-scritto,   di tramandato da Dio agli uomini attraverso una rivelazione, arrivandointegralmente dalla selezione naturale, il fatto che una cosa sia giusta o sbagliata, dunque, è puramente una scelta emozionale del momento. L’unica cosa che rende sbagliata una crudeltà sterminata è il fatto che ora sia personalmente spiacevole (e domani?).

    Il neodarwinista ateo Jerry Coyne ha voluto rispondere: «Ruse sembra affermare che le azioni di un pedofilo sono realmente e veramente sbagliate perché la selezione naturale ci ha programmati a credere che siano sbagliate. Qualcuno può spiegare che cosa mi manca? I concetti di giusto e sbagliato variano tra le culture contemporanee e si evolvono nel tempo. Fare appello alla psicologia e alla selezione naturale ci aiuta a risolvere le questioni di aborto o omosessualità?».  Coyne, per una volta, ha perfettamente ragione:   Ruse non può appellarsi alla selezione naturale. Egli è terribilmente confuso perché da una parte capisce che non può accettare che l’unica cosa sbagliata nelle molestie sui bambini sia il fatto che a lui non piacciono (e non piacciono alla società di oggi), e dall’altra parte deve negare Dio, in quanto non credente. Quindi si appella a qualcosa che renda oggettiva la negatività verso la pedofilia, ma commette un errore ingenuo. Coyne ha visto giusto: in una visione atea della vita, non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato, non è oggettivamente sbagliata la pedofilia come non lo è qualsiasi altra cosa. La “morale laica” non può che basarsi unicamente su preferenze personali del momento e condizionamento della società: oggi la pedofilia è sbagliata, ma non è detto lo debba essere sempre. Dipenderà dai gusti che avremo domani e dalla capacità della “società” di condizionarci.

    Una volta che l’ateo realizza che tutti i suoi nobili principi morali non sono altro che sensazioni soggettive – “non diversamente dal gradimento o non gradimento degli spinaci” -, si accorge anche che i valori morali cambieranno secondo il capriccio della società. E se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla storia terribilmente sanguinosa del 20° secolo, è che non c’è nulla che gli uomini e la società non siano in grado di fare. Senza una legge morale trascendente e oggettiva, l’essere non può che perdersi nella spirale dell’artificiale inferno della giungla umana.  Michael Ruse pare averlo capito e infatti ha cercato una via d’uscita: «La morale è, e deve essere, una sorta di divertente emozione. Ma deve far finta di non esserlo affatto! Se pensassimo che la moralità non è altro che piacere o non piacere degli spinaci, poi non reggerebbe [...] La morale deve apparire come obiettiva, anche se in realtà è soggettiva». E in un altro articolo«Se metto il “soggettivo” in opposizione all’”oggettivo”, poi chiaramente il tipo di etica che propongo è soggettivo… ma non può essere soggettivo il male se penso alle molestie sui bambini!»E infine:  «le regole della morale devono essere vincolanti su di noi come se fossimo figli di Dio e Lui abbia deciso le regole». Ruse pare avere inconsapevolmente accolto l’invito che il teologo Joseph Ratzinger fece nel 2005 ai non credenti: «anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita come se Dio ci fosse».

     

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    00 19/02/2012 21:19

    Quali rischi per un’etica senza Dio? Commento a Engelhardt…

    «Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Giovanni Botta, dottore di ricerca in Filosofia all’università cattolica di Milano. Diplomatosi al Conservatorio “S. Pietro a Majella” di Napoli, laureatosi in Estetica musicale all’Università Cattolica di Milano con il Prof. Roberto Diodato, è stato docente presso il Conservatorio “U. Giordano” di Foggia ed è Direttore editoriale della Rivista di Filosofia ed estetica “Studium Veritatis”, dove si occupa principalmente del rapporto tra il logos estetico musicale e la rivelazione cristiana»

     

    di Giovanni Botta*
    *dottore di ricerca in Filosofia

     

    «Secolarizzazione e bioetica» è il tema della relazione che il filosofo americanoTristram H. Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, direttore del Journal of Medicine and Philosophy,ha tenuto a Torino. L’intervento del filosofo ha portato alla ribalta un tema naturalmente complesso ma decisivo per la nostra salvezza e la nostra sopravvivenza. La domanda potrebbe essere formulata in questo modo: possiamo avere un’etica senza Dio e senza un fondamento assoluto? Per il filosofo in questione, tutte le etiche che prescindono da un fondamento assoluto e incontrovertibile come quello del Dio rivelato, ad esempio, diventano solo delle mere narrative contingenti storicamente e culturalmente condizionate ma la questione è assai complessa. La risposta a prima vista per noi credenti, semplice e immediata, diventa inaccettabile per i nostri tempi. Ma perche? Possiamo solamente tratteggiare appena alcune linee essenziali della contemporaneità, la prima delle quali è definibile linea del Dispotismo del Desiderio e del Dispotismo dell’individualismo.

    Tramontate tutte le ideologie, le verità forti e le grandi narrazioni, assistiamo da alcuni decenni alla elefantiasi del soggetto e delle sue pretese al godimento continuo, e ad una estetizzazione diffusa della sua esistenza che prescinde da qualsiasi eteronomia e da qualsiasi tradizione veritativa o storica. Il soggetto consuma in solitudine l’affrancamento totale e irreversibile da un plesso fino a poco fa indisgiungibile tra la realizzazione della propia esistenza e le norme da seguire per raggiungerla. Il soggetto postmoderno ha fagocitato qualsiasi legge morale trasmessa dalla tradizione dei nostri padri e si è liberato dal Dovere e da costrizioni esterne. Libero da e libero di, il soggetto si muove ora nellacompleta anarchia in una situazione di anomia da un lato e di distopismo dall’altro, libero solo di seguire le propie mozioni endogene, mancanza di legge e di utopia o di semplice futuro inteso come il luogo della propria emancipazione progettuale, e quindi libero anche da qualsiasi escatologia secolare o religiosa. L’uomo (se ancora di umano si puo parlare) è in balia del potere libidico e distruttivo del desiderio impazzito che consuma se stesso fino all’autodistruzione, il soggetto consuma nella sua voracità la fine del legame etico ed intersoggettivo. Senza un’etica condivisa, tuttavia, non c’è piu spazio per la comunità come luogo dell’accadere dell’incontro, esiste solo da un lato il vissuto desiderante anarcoide e dall’altro il diritto positivo che serve solo a regolamentare e disciplinare, ma solo nei limiti appena consentiti, la sua possibile degenerazione. I freni regolatori consistono non piu in norme morali religiose o laiche ma solo nella paura dell’infrazione e della relativa pena…

    Ma, per concludere questa piccola analisi fenomenologica ed eziologica, cosa vediamo nella società dei diritti che ha destituito e detronizzato il diritto inteso come ius, come espressione di leggi non scritte ma sentite e vissute nella loro connaturalità paticamente vissuta? La società che ha rinunciato allo ius (preso nella sua singolarità), che è a sua volta la base dello iustum, dell’uomo giusto, ha rinunciato anche allo iussum comandato come comandamento; è una società in preda all’angoscia più profonda, alla disperazione più totale. E’ una società liquida che ha rinunciato alla tradizione e a Dio, e si ritrova sola e consumata dal suo stesso desiderio impazzito. L’uomo non può vivere da solo, ha bisogno di Dio e della trascendenza. Dobbiamo solo noi, credenti, resistere saldi e comunicare la dolcezza del nesso tra libertà e obbedienza, tra dovere morale e felicità. Kant intuì nella postulazione del concetto di Dio, anima e libertà, la necessità per l’etica di un principio assoluto che giustifica il bene e il dovere ottemperato e la sua futura gratificazione. Dobbiamo rappresentare per le etiche particolari, frutto di culture contingenti ed effimere, il fondamento certo e inamovibile della nostra stessa vita, la Verità è per noi cristiani non una cosa, non un’ideologia, non una mera corrispondenza del concetto, ma qualcosa che rimane a dispetto di tutto ciò che cambia, un’esperienza che fonda e libera l’uomo dall’angoscia della sua solitudine. L’uomo non è “una passione inutile” come voleva Sartre, ma è un dono di Dio che si trova immerso nel mondo a sua volta donato. La verità dell’etica cristiana non può essere fondata, mafonda essa stessa anteriormente la nostra coscienza etica e può solo essere comunicata nella testimonianza direttacome comunicava per noi Cristo con la sua prossimità. Vivere la fede significa rendere tangibile e operosa la nostra etica.

    Oggi non possiamo più eludere questa scelta tra l’imperialismo del desiderio distruttivo, effimero, nichilista, teso alla soddisfazione e all’appagamento continuo nell’istante, e la scelta etica come rispetto di leggi immutabili che conducono l’uomo verso il prossimo. Vivere eticamente è primariamente vivere in una logica opposta a quella del mondo(pensiamo alla cristologia giovannea: “chi è del mondo non è di Dio”), laddove la forza, la violenza, il desiderio di potenza e le verità deboli o il non senso, trionfano. L’etica semina con il suo altruismo, la sua compassione, il suo amore per gli ultimi, la sua carità, la sua fede e la dolcezza della verità che permane….dobbiamo essere il sale del mondo, solo ancorarsi a Dio può rendere l’etica capace di umanizzare lo scenario tragico della contemporaneità. Dobbiamo proporre al mondo di elaborare etiche capaci di fare i conti con Dio e spingerlo a impegnarsi nella necessaria traduzione simbolica del contenuto della religione…perché solo un’etica che fa i conti con Dio può veramente salvare l’uomo in deriva da se stesso.

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    00 26/02/2012 23:00

    Ha senso la morale senza Dio? Rispondono Dostoevskij e Francis Collins

    di Francesco Agnoli*
    *scrittore e giornalista

     Pensiamoci bene. Che senso ha la vita morale degli individui, se non esiste un criterio superiore di giustizia? Chi è autore della legge? Esiste una legge vera, giusta, che valga per tutti perché superiore, precedente all’uomo, oppure ogni uomo ha il diritto di credere ciò che vuole, di farsi la sua verità morale, la sua etica? L’uomo è un animale in-cosciente, le cui azioni sono sempre “buone”, come quelle degli animali, perché volute dalla natura, regolate dall’istinto, oppure è un essere cosciente (quale differenza!) capace di scegliere, padrone della sua vita, che può essere libero dall’imperiosità brutale dell’istinto e dei sensi? A ben vedere proprio l’esistenza di una vita morale ha convinto grandi uomini della storia che la natura dell’uomo è non solo animale ma anche spirituale, e li ha portati a porsi la domanda su Dio. Ne citerò solo due: il grande romanziere Fedor Dostoevskije uno scienziato moderno, uno dei più importanti genetisti di questo secolo, Francis Collins.

    Dostoevskij è il massimo rappresentante del realismo russo, nell’epoca in cui altri letterati, come l’ “ateo-diversamente credente” Emile Zola, ritengono che l’uomo possa col tempo diventare “onnipotente” grazie alle sue conoscenze scientifiche, e possa essere studiato esattamente come un “ciottolo della strada”, non essendo, in fondo, nulla di più. Dostoevskij “esplora le strade della città, i vicoli più solitari e ignorati, descrivendo le bettole più sordide, gli antri più sinistri, le stamberghe più malsane… il ventre infetto e brulicante di Pietroburgo, sede del vizio e della degradazione umana”, alcolizzati e prostitute, contadini trasformati in operai, costretti ad una vita infame, e poi in rivoluzionari violenti e nichilisti: ma c’è, nell’autore russo, una distanza enorme dal positivismo e dal determinismodi Emile Zola (che dà importanza assoluta all’ambiente, alle condizioni materiali e sociali); c’è una indagine continua sulla spiritualità del singolo uomo, dotato di libero arbitrio, chiamato a scegliere (e qui c’è il dramma esistenziale) tra il bene e il male, la Fede e l’ateismo…

    Dio, il male, la colpa (cioè la morale) sono proprio la tematica fondamentale del nostro autore, ignorata dai naturalisti francesi, che fa di lui un romanziere profondamente dotato di senso religioso e, insieme, un “romanziere psicologico”, precursore degli esistenzialisti. Siamo dunque agli antipodi della cultura positivista dell’epoca, come pure di quella odierna: mentre Dostoevskij racconta e approfondisce gli abissi umani, medici positivisti come Emilio Littre affermano che “il delitto è pazzia”; criminologi come Cesare Lombroso analizzano e catalogano i “crani deficienti”, ritenendo così di poter chiudere la personalità, la libertà, l’originalità di ogni singolo uomo nelle sue caratteristiche fisionomiche; credendo – anche qui la parola non è a caso – che l’uomo sia definito ed esaurito da ciò che si vede e si tocca, dall’ampiezza del cranio, dalla lunghezza degli arti, dalle malformazioni, dalla volumetria e dai bernoccoli della testa. Esattamente come faranno i primi teorici del razzismo; o Charles Darwin, quando riterrà che il cranio della donna, di dimensioni più ridotte rispetto a quello del maschio, sia un segno della sua inferiorità ; o i nazionalsocialisti, quando gireranno il mondo, sino in Tibet, per fare calchi di gesso sul volto degli indigeni, per risalire, tramite misurazioni e fisionomia, all’originaria razza superiore. Un po’ come oggi, allorché sempre più spesso si cerca di far passare una tendenza sessuale, una devianza, o una virtù, come una pura questione genetica.

    Per comprendere la visione del mondo di Dostoevskij occorre ripercorrerne, brevemente, la vita: Fedor frequenta ambienti sovversivi, atei, propugnatori di una rivoluzione in Russia, per abbattere lo zar e creare una nuova società. Nel 1849, però, molti di loro, tra cui il nostro, vengono arrestati dalla polizia zarista. Dostoevskij viene condannato a morte, poi lo zar commuta la pena in quattro anni di deportazione in Siberia. L’unica lettura, in questo lunghissimo periodo, sarà quella di un Vangelo, regalatogli da una donna mentre viene portato a scontare la pena. In seguito a questa esperienza il nostro muterà fortemente prospettiva, divenendo critico verso le proprie idee del passato e mostrando un profondo rispetto per la chiesa ortodossa e l’autorità costituita e un certo disprezzo per gli intellettuali russi che leggono gli illuministi europei disprezzando profondamente la propria terra e la propria patria. Intanto il suo matrimonio fallisce, viaggia per l’Europa, ricadendo di continuo nella passione per il gioco e per le donne, scrivendo articoli di giornale e romanzi a ritmo continuo, anche per far fronte alle spese ed ai creditori (spesso scrive i romanzi di notte, imbottito di caffè e di tabacco per rimanere sveglio). La sua vita disordinata si conclude nel 1881.

    Tra i grandi romanzi spiccano “Delitto e castigo” (1866), “I demoni” (1871) e “I fratelli Karamazov” (1880). Nel primo di questi compare la tematica, che poi affascinerà Nietzsche, della ricerca della libertà come affermazione dell’io al di là di ogni morale, di ogni coscienza, “al di là del bene e del male”. Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un “Napoleone” o un “pidocchio”, se appartiene alla categoria della massa, degli “uomini comuni”, per i quali la legge morale è sacra, o agli “uomini non comuni”, destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie. Per questo può dire: “Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!”. Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire “uomo-dio” (se si scarta Dio è l’uomo ad essere assolutizzato). Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto? Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Col tempo le cose cambieranno: “una futura redenzione”“una nuova concezione della vita” si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un’altra storia, che non racconta. Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio ! Per concludere, in “Delitto e castigo” è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare.

    Nel romanzo “I demoni”, invece, Dostoevskij parte dall’”affare Necaev”, un intellettuale anarchico che piacerà molto a Lenin, autore del “Catechismo del rivoluzionario”, processato ai suoi tempi per aver fatto uccidere un membro del suo gruppo e che alla fine si suicida. Dostoevskij sceglie dunque una vicenda reale per esprimere le sue nuove idee politiche. Nel romanzo, che descrive appunto i terroristi, definiti anche “nichilisti” o “demoni”, Necaev diviene Verchovenskij e l’anarchico Bakunin diviene Stavrogin. Entrambi, essendo atei, vivono nella dimensione del “tutto è permesso”: Verchovenskij ha un progetto politico, di “distruzione universale”, che non si arresta di fronte a nulla: come Marat all’epoca della rivoluzione francese, invita a “tagliare teste”, a “lapidare” pur di costruire una società secondo il proprio disegno. Alla fine Stavrogin, impazzito, si impicca; così anche un altro protagonista, Kirillov: il suo è un suicidio metafisico, una dimostrazione di disprezzo verso la nozione di Dio. Anche in questo romanzo l’autore ci dà un messaggio esistenziale chiaro: escluso Dio, l’uomo non può che mettersi al suo posto. Chiamato a decidere, a scegliere, non ha altro metro, altro riferimento, che se stesso, la propria idea, la propria soggettività, il proprio egoismo. L’io che non riconosce una origine, una dipendenza, un limite, si fa inevitabilmente Dio, mentre si proclama ateo.

    Ma il più grande romanzo di Dostoevskij è forse “I fratelli Karamazov”: quest’opera ha, come altre del nostro, il fascino di un grande racconto poliziesco, ricco di suspanse, nato dalla riflessione su un vero parricidio, di cui Dostoevskij, in Siberia, aveva conosciuto l’autore. “La principale questione che sarà agitata in tutte le parti del libro – scrive Dostoevskij – è la stessa della quale ho sofferto coscientemente o incoscientemente per tutta la vita: l’esistenza di Dio. Giganteggiano due figure, quella di Alioscia Karamazov, con la sua visione cristiana del mondo (il modello di ciò che l’autore russo vorrebbe essere?) e quella, opposta, di suo fratello Ivan, con la sua tormentata ricerca della libertà attraverso la rivoluzione nichilista, con il suo essere malato di occidentalismo, cioè, per Dostoevskij, di ateismo; con la sua incapacità di accettare certe realtà della religione, come la sofferenza, l’umiliazione e la croce. Ivan, con i suoi discorsi e le sue filosofie, è il vero ispiratore dell’uccisione del padre, sebbene non ne sia l’esecutore materiale. Anche qui un’uccisione “filosofica”, perché con i suoi discorsi ha convinto il futuro assassino, il fratellastro Smerdiakov, che tutto è legittimo, perché Dio non esiste. Lo ribadisce il diavolo ad Ivan: “La coscienza! Che cosa è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!”. Si ripete, così, lo stesso concetto di Raskòl’nikov e di Kirìllov: “Se non esiste Dio, tutto è permesso”. Alla fine Ivan, sentendosi colpevole per la morte del padre e per l’ingiusta condanna dell’altro fratello, il violento e passionale Dimitrij, impazzisce; Smerdiakòv, l’omicida materiale, si uccide, e Dimitrij, che tanto aveva odiato il padre sino a volerlo eliminare in cuor suo, verrà condannato, pur essendo innocente. Delitto, coscienza, libertà, accettazione del castigo, riconoscimento che esiste una legge morale oggettiva, divina: questa, in sintesi, l’antropologia di Dostoevskij.

    Pochi anni più tardi la Russia sarebbe stata sconvolta dalla rivoluzione comunista e dall’ondata di morte e di persecuzione di Lenin e Stalin. Il primo, inventore dei gulag, avrebbe affermato: “Per noi non esiste e non può esistereil vecchio sistema di moralità e di umanità…La nostra moralità è nuova…A noi tutto è permesso…Sangue? E sangue sia…” (R.W. Clark, “Lenin”, Bompiani). Stalin, invece, prefigurato profeticamente, insieme ai suoi seguaci, nei “demoni” senza Dio di Dostoevskij, avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali…lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti (Gianni Rocca, “Stalin”, Mondadori, Milano, 1988, p.352). Dio, cioè una legge morale superiore e precedente all’uomo, non fu dunque, per l’“uomo d’acciaio”, per l’autore dello sterminio dei kulaki, per il carceriere dei gulag, per l’inventore della “grandi purghe”, un “impaccio” e un freno! Fu, Stalin, un uomo emancipato da Dio, un Raskòl’nikov, un Ivan, un Necaev coerente sino alla fine e senza pentimenti. Non temette la Giustizia di Dio, né ritenne di dover invocare la sua Misericordia, perché aveva deciso di non riconoscere alcuno al di sopra di sé.

     

    Francis Collins non è un romanziere, come Dostoevskij, ma un famoso scienziato americano, nativo della Virginia, che si specializza nella seconda metà del Novecento in chimica e fisica a Yale, “alla ricerca di quella eleganza matematica”, scrive, che lo “aveva attirato in questo ramo della scienza”. La sua posizione rispetto a Dio è quella di un agnostico, che non si chiede più di tanto e che scivola via via nell’ateismo pratico e poi teorico. Dalla chimica alla biochimica, alla medicina, alla genetica: “ero sbalordito dall’eleganza del codice genetico umano e dalle molteplici conseguenze di quei rari momenti in cui il suo meccanismo di trascrizione si inceppava”. Col tempo, soprattutto a causa di certi incontri, con situazioni e persone, Collins si rende conto di “aver optato per una cecità volontaria e di essere caduto vittima di qualcosa che si poteva descrivere solo come arroganza, avendo evitato di prendere seriamente in considerazione il fatto che Dio potesse rappresentare una possibilità reale”. Colui che prenderà il posto del genetista ateo James Watson alla direzione del più importante progetto di studio sul genoma umano, il Progetto Genoma, si rende cioè conto che la sua grande curiosità per la natura, la genetica, l’immensamente piccolo, convive con una chiusura alla totalità della realtà, alla domanda sul senso ultimo, totale, di ciò che esiste.

    In una tortuosa ricerca Collins finisce per leggere “Scusi, qual è il suo Dio?”, di Clive S. Lewis, un ex ateo che si era riproposto di confutare tramite la logica l’esistenza di Dio, ma che era approdato al risultato opposto. Lewis offre a Collins la possibilità di interrogarsi sulla legge morale, sul bene e sul male, sulla loro origine: il senso del bene e del male è solo l’effetto di determinate tradizioni culturali? E’ solamente una conseguenza di pressioni evolutive, come sostengono i sociobiologi? L’impulso altruistico nasce da un interesse personale, del tipo “io ti do qualcosa affinché tu mi dia”, e null’altro? Collins riflette sulla natura umana, sul rimorso che ci attanaglia, quando riteniamo di aver sbagliato, pur magari avendone ricevuto un vantaggio; sulla coscienza che ci interroga e ci suggerisce, sulla capacità di certe persone, come madre Teresa o altre figure storiche, di dare totalmente se stesse, gratuitamente, al di fuori di qualsiasi orizzonte materialistico. Socrate, Gesù, Madre Teresa, coloro che muoiono per un bene più grande, ma intangibile, per il prossimo, per un ideale spirituale, sono forse solo dei pazzi, degli errori genetici, o non piuttostouno schiaffo in faccia alle teorie materialistiche e deterministiche sull’uomo? L’altruismo disinteressato, scrive Collins, “costituisce una sfida rilevante per l’evoluzionista e rappresenta un vero scandalo per il pensiero riduzionista”, e “l’agape di Oskar Schindler e madre Teresa smentisce questo tipo di pensiero. Incredibile ma vero, la legge morale mi chiederà di salvare l’uomo che sta affogando anche se è mio nemico” (F. Collins, “Il linguaggio di Dio”, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 20-22). Questo, checché ne dicano coloro che ritengono l’uomo determinato in tutto dalla genetica: aggressivo o mite, fedele o infedele, giusto o malvagio, a seconda di determinati geni, di determinati meccanismi interni, indipendenti dalla volontà, dalla libertà, pur relativa, dell’uomo. Collins, che di geni si intende, capisce che l’uomo è assolutamente qualcosa di diverso, di non determinato, di non riducibile ad una sua parte, quella fisica: può progettarsi, costruirsi, lottare contro certe tendenze malvagie, o assecondarle; può scegliere una strada, pentirsi, riscattarsi o proseguire nell’abisso dell’egoismo e della cattiveria. Ogni azione, ogni scelta è una possibilità libera, in cui l’uomo si realizza, esprime se stesso, indipendentemente da comandamenti genetici, o da impulsi interni incontrollabili. Condizionato, certo, dalle circostanze e dalla sua natura corporale, ma non totalmente determinato, come i sassi, o le stelle, né regolato dagli istinti, solamente, come gli animali.

    Dopo le considerazioni sulla legge morale, Collins prosegue analizzando le sue conoscenze scientifiche e paragonandole alla fede cui è approdato. Il Big Bang? “L’idea di un inizio finito dell’universo non è del tutto consonante con la concezione buddista”, come non lo è con le visioni panteiste, ma si accorda perfettamente con l’idea di un Dio Creatore trascendente ed è quindi perfettamente compatibile con la teologia medievale cristiana e col pensiero biblico. Anzi, si può tranquillamente dire che è un’idea filosoficamente già intuita da pensatori cristiani assai prima della nascita della scienza moderna. La genetica? Per lui è “il manuale di istruzioni di Dio”“il linguaggio di Dio”, che però“non spiegherà mai certi speciali attributi umani, come la conoscenza della legge morale e l’universalità delle ricerca di Dio”.

    Da: Perché non possiamo essere atei (Piemme 2009)
     

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    00 26/03/2012 09:06

    Senza Dio, in base a che cosa si giudica 

    il “bene” o il “male”?

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    00 02/04/2012 21:46

    Quale fondamento ha la “morale laica”?

     

    di Stefano Biavaschi*
    *teologo

     

    Che cos’è la morale laica? Quali fondamenti ha? Da quanto tempo esiste? Da sempre la filosofia s’interroga, facendo ricorso alla ragione, sulle maggiori questioni morali, ed i grandi filosofi classici hanno spesso posto importanti basi per la ricerca del buono oltre che del vero. Ma, nel linguaggio moderno, per morale laica s’intende una morale “non confessionale”, che non faccia riferimento a nessuna forma di teologia morale. Quest’indipendenza dalla religione si traduce, almeno in occidente, come indipendenza dal cristianesimo e dai suoi valori.

    La morale laica intende presentarsi come una libera conquista della ragione che, disancorata dalla Parola di Dio, sarebbe in grado di definire da sé il bene ed il male. I comandamenti ed il Vangelo non vengono pertanto più visti come normativi del comportamento, anzi vengono spesso intesi comeimpedimenti verso il raggiungimento di formulazioni universalmente condivise. Anche la Chiesa viene di conseguenza vista come istituzione che condiziona la vera libertà di scelta. La morale laica non amaperò autodefinirsi come “morale non confessionale” o “morale non cristiana”, perché si arroga il diritto dipoter essere condivisa anche dai cristiani, rivendicando a sé un ruolo “al di sopra delle parti”, e pertanto ponendosi come punto di riferimento universale ed accettabile da tutti. E’ la ragione umana, sostiene la morale laica, a stabilire il metro di misura morale delle nostre azioni, l’appartenenza ad una confessione religiosa è visto anzi, nella mentalità “laica”, come una difficoltà oggettiva verso l’autonomia morale. Non a caso, infatti, la morale laica nasce in contemporanea col grande fenomeno delsecolarismo.

    Il tempo viene visto dai secolaristi non più come il luogo di esperienza del sacro, dell’eterno, ma comesemplice dimensione orizzontalesaeculum appunto: ininterrotto svolgersi dei secoli lungo una linea orizzontale senza principio né fine, e non una spirale ciclica che tende verso Dio. Questa visione laicista della storia fu figlia dell’illuminismo più deteriore: non l’illuminismo italiano inaugurato dal Muratori e giunto attraverso il Verri e il Beccaria fino al Manzoni, ma l’illuminismo anticlericale di stampo francese che fece della ragione una dea da adorare, ed ai piedi della quale sacrificare coloro che ancora si riferivano all’assoluto. Non a caso fu in quel periodo che si tentò di ristrutturare il calendario degli anni, dei mesi, e dei giorni. Il tempo ricominciava dall’anno zero secondo un nuovo ordine dei secoli. In contemporanea con questo processo di scristianizzazione del mondo, si affermò sempre più, tra il settecento e l’ottocento, l’idea che l’uomo non aveva più bisogno di Dio. Laicismo, razionalismo, scientismo posero le basi teoriche di questo nuovo atteggiamento “religioso”. Anche la natura, inizialmente dea, veniva poi piegata come strumento dell’utile, erano gli anni in cui tutto veniva sezionato e studiato con freddo spirito di catalogazione, mammiferi ed uccelli esotici venivano impagliati a migliaia per il culto dell’osservazione, farfalle e coleotteri venivano infilzati e racchiusi in bacheche; gli anni in cui il cranio diBernadette di Lourdes veniva misurato e tastato, mentre l’antropologia darwinista stabiliva quellasuperiorità di alcune razze umane sulle altre, che tanto danno fece nelle mani delle ideologie nazionaliste. Se non c’era più bisogno di Dio e della Chiesa, c’era ancora bisogno di una morale?

    L’uomo secolarizzato non amava definirsi un immorale, ed anzi sosteneva che una morale fosse possibileanche senza fare riferimento alla fede. Fu così coniato il termine “morale laica”, e, per un po’, la grande illusione di poter conservare e tramandare ugualmente i grandi valori morali fu resa possibile dal fatto che, anche se la testa era atea, il cuore conservava in sé l’educazione trasmessa dai padri. Ma quando emerse il fallimento educativo di questa impostazione, le nuove generazioni si scoprirono atee sia nella testa che nel cuore: il soggettivismo prese il posto del relativismo, il nichilismo quello del secolarismo, il cinismo quello del laicismo. Man mano si scoprì che il grande mito di una morale fondata su valori “universalmente condivisi” s’infrangeva contro totalitarismi e fondamentalismi, che quei valori non condividevano affatto. La tempesta del ’68 fece il resto, e la morale “laica” con cui molti intellettuali avevano fatto orgoglioso sfoggio di sé, naufragò nei suoi evidenti risultati.

    Oggi si è ridotta ad una sola affermazione ed un solo principio: “la morale è che ognuno può costruirsi una propria morale”Non è nemmeno più importante che i valori siano “universalmente condivisi”: l’importante è che siano condivisi da me. L’io diventa quindi l’arbitro assoluto del bene e del male, e le sue decisioni comportamentali non devono essere messe in discussione nemmeno dall’io degli altri. Persa la sua dimensione comunitaria, l’io si riduce così ad una monade isolata, che non opera più per il bene comune, e non riuscendo nemmeno a raggiungere la propria felicità, sprofonda in una solitudinesempre più abissale.

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    00 23/07/2012 22:56

    Troppe donne molestate ai raduni atei,
    serve un codice etico

    Gli atei sono persone cattive, intolleranti e aggressive? No, è una bufala da non tenere in considerazione.

    E’ vero che la storia dimostra che ogni volta che una società atea ha avuto potere di governo, dalla società illuminista all’ateismo di stato delle dittature novecentesche, i crimini verso le persone di fede sono stati incalcolabili. E’ vero che, ancora oggi, ai loro raduni nazionali si viene invitati a ridicolizzare pubblicamente chi osa avere fede in Dio, o si festeggia per la morte di sacerdoti o vaticanisti. E’ vero che ci sono vere e proprie campagne intimidatorie sui social network contro i credenti, come le innumerevoli pagine di bestemmie create su Facebook.  E’ vero che il non credente Frank Furedi, responsabile della British Humanist Association ha parlato dell’ateismo di oggi come di una «religione secolare fortemente intollerante e dogmatica»,  ma noi crediamo nella buona fede dei tanti non credenti che prendono le distanze da tutto questo, affermando che si tratti sempre di casi isolati.

    Sorprende tuttavia che l’associazione “American Atheists” abbia dovuto creare unapolitica di autoregolamentazione per i loro convegni e conferenze.  David Silverman, il responsabile di questa associazione, ha spiegato che «Il Codice di condotta permetterà a tutti i partecipanti alla conferenze di sapere che gli eventi dell’”American Atheists” sono sicuri e divertenti». La decisione è dovuta al fatto che ultimamente sono aumentate esponenzialmente le denunce da parte di donne di molestie sessuali durante le conferenze dell’associazione, suscitando feroci conflitti all’interno della comunità atea americana.

    Lo ha spiegato anche Todd Stiefel, presidente e fondatore dell’associazione umanista Stiefel Freethought Foundation: «Ho sentito parlare di molti casi di comportamento improprio, aggressivo e minaccioso dal punto di vista sessuale all’interno del nostro movimento di atei. Ci sono storie di persone molestate senza sosta, toccate sotto i tavoli, minacciate di stupro, furtivamente fotografate per voyeurismo pornografico, e molte altre trasgressioni. Il fatto che molte di esse stanno venendo alla luce dovrebbe riguardare tutti noi»La maggior parte di queste vicende scabrose, «riguardano le molestie degli uomini verso le donne»

    Un episodio di questo tipo ha coinvolto anche il grande guru del laicismo internazionale,Richard Dawkinsinserito nella classifica dei peggiori misogini del 2011 per averinsultato una donna che aveva reso pubblico di essere stata molestata durante un convegno di atei. Nel giugno scorso, uno dei leader del movimento ateista, Jerry Coyne,ha criticato i convegni dell’associazione per la troppa aria «di autocompiacimento, scarso livello e debolezza di un bel pò dei colloqui e fanatismo verso alcuni atei famosi». 

     

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    00 25/07/2012 00:44

    I valori morali oggettivi e l’esistenza di Dio:
    una piccola argomentazione

     

    “L’argomento morale” recita questo:
    1) Se Dio non esiste, i valori morali oggettivi non esistono.
    2) I valori morali oggettivi esistono.
    3) Pertanto, Dio esiste.

    Non ci interesserà più di tanto arrivare a “dimostrare” l’esistenza di Dio in questo modo (né in nessun altro), che rimane sempre una questione legata alla libertà dell’uomo, ma piuttosto vorremmo soffermarci maggiormente sulle implicazioni che emergeranno dalle due premesse. Poi, chi vorrà, passerà al terzo passaggio. Resta il fatto che, se questo terzo punto non piace, bisognerà adoperarsi per confutare una delle due premesse, che però sembrano resistere a sufficienza.

    Partiamo dalla seconda premessa: “i valori morali oggettivi esistono”.
    Affermare che “l’omicidio è sempre sbagliato” (l’omicidio non è l’auto-difesa, un incidente, una guerra necessaria ecc.), “lo stupro è sempre sbagliato”“torturare i figli èsempre sbagliato” ecc., significa esporre valori morali oggettivi, cioè verità che si ritengono indiscutibili, non negoziabili. Anche il nazismo e l’Olocausto sono ritenuti degli “sbagli” oggettivi, nessuno risponderebbe “è una tua opinione personale”, perché non si tratta evidentemente di una differenza di vedute sulle storia.

    I valori morali oggettivi dunque esistono, la domanda che si pone ora è: perché i nazisti si sbagliavano? In base a cosa possiamo dire che certamente l’Olocausto è stato un male? Perché sappiamo senza dubbio che si sono sbagliati, senza correre il rischio di imporre una nostra opinione? Perché l’omicidio, lo stupro, la tortura, ecc, sono sbagliati a prescindere dal parere di chi commette questi atti? Ricordiamo che affermare il contrario significa assumere una posizione relativista, ovvero sostituire il “sempre” (le certezze tanto odiate dagli scettici di professione) con il “dipende”“la pedofilia non è sempre sbagliata, dipende da…”, afferma il relativista o lo scettico (ovvero il cultore del dubbio).

    Per rispondere a questa fastidiosa domanda, occorre necessariamente introdurre la prima premessa: “i valori morali oggettivi non possono esistere senza Dio”. Attenzione: questo non significa che chi non crede in Dio non può vivere una vita etica o morale, ma che senza Dio non ci può essere un valido fondamento logico su cui basare i valori morali oggettivi. La questione è che se non ci appelliamo a qualcosa – o Qualcuno – al di fuori di noi stessi, allora le nostre non possono essere altro che semplici opinioni personali. Chi determina, infatti, ciò che è giusto o sbagliato? Senza Dio, ciò che è morale lo decide la maggioranza di persone che la pensa in modo simile, cioè il potere in quel momento. Dunque parlare di “sempre sbagliato”, senza credere a Dio, è un errore perché tutto “dipende” inevitabilmente dal bias degli appartenenti ad una data società. Anche chi considera la morale come un adattamento evolutivo, sta affermando che dunque si tratta una mera illusione, lasciando irrisolto il problema del “sempre sbagliato o sempre giusto”. Facendo un esempio: se la maggioranza di opinioni personali ritiene checannibalismo/pedofilia/eutanasia/tortura/stupro/aborto siano un bene per la società, allora queste pratiche diverranno tali (in quella società). Per dirla con lo scrittore non credente Samuel Butler«La moralità è il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei. Il cannibalismo è morale in un “paese cannibilista”»Se non c’è nessun Altro a cui fare appello, allora non esiste nulla di giusto o sbagliato in modo oggettivo e l’abuso di bambini, dunque, non può essere sbagliato in modo definitivo, ma dipenderà sempre dall’opinione della società.

    Non a caso Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, in un articolo del 2010 dal titolo “An Amoral Manifesto” ha scritto: «ho rinunciato del tutto alla moralità [...] da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io ora credo che non ci sia [...].  Mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità [...]. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità». Eppure quantisottoscriverebbero davvero l’amoralità? Il relativismo morale? Quanti sarebbero disposti ad affermare: “legalizzare la tortura verso i figli non è sempre sbagliato, dipende da cosa ne pensa la società”? Nessuno si spera, perché la moralità oggettiva esiste nell’essere umano, ma per avere un solido fondamento logico deve andare “oltre sé” (oltre al prodotto casuale dell’evoluzione biologica), deve appellarsi a Chi ha introdottotali leggi morali nell’uomo (bianco, nero o giallo che sia, siamo tutti uguali). Chi non lo fa, ma ribadisce comunque l’esistenza di qualcosa di “sempre giusto o sempre sbagliato”,allora è semplicemente irrazionale. Il grande laico Norberto Bobbio non a caso affermava«La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole».

    Entrambe le premesse sono state dimostrate, dunque: i valori morali oggettivi esistono e per avere un fondamento logico bisogna appellarsi a Dio. Le conclusioni possono essere diverse: i valori morali oggettivi esistono e dunque deve esistere Dio, chi non crede in Dio non ha un fondamento logico per i suoi valori morali (e questo, ripetiamo, non significa che non ne possiede!), il relativismo non può veramente esistere in una società civile,

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    00 04/09/2012 21:53

    Perché accettare le nozze gay
    e non incesto e pederastia?

    Se queste sono le richieste da parte del mondo LGBT, sul sito“LifeSiteNews si sono domandati se la «mentalità omosessuale deve spingerci ad accettare anche la pedofilia e l’incesto. Se infatti basta avere una relazione romantica, basata sul consenso reciproco, per essere riconosciuti come coppia da parte dello Stato, con che diritto si dice “si” a due omosessuali e “no” ad un padre e ad un figlio (maggiorenne o minorenne) che intendono veder riconosciuta la loro relazione romantica-sessuale, godendo dei conseguenti privilegi? Riconoscere la relazione omosessuale e non quella tra padre/madre e figlio/figlia non è forse discriminazione?

    «L’argomento omosessuale», viene scritto, «si basa sul fatto che due persone che si amano l’un l’altro dovrebbero essere in grado di esprimere il loro amore e la società dovrebbe felicemente riconoscere la loro relazione d’amore. Io chiamo questo “mentalità omosessuale“, diventata una mentalità predominante, che ha dimostrato di non tollerare il dissenso». Il problema, viene spiegato, è che «con questa mentalità si può giustificare praticamente qualsiasi cosa in nome dei sentimenti di amore». Perché la relazione d’amore tra due uomini dovrebbe essere privilegiata rispetto alla relazione d’amore tra un padre e un figlio, maggiorenne e consenziente? Se la contrarietà verso il primo tipo di rapporto è omofobia, la contrarietà verso il secondo quale fobia identifica

    Abbiamo già parlato della questione dell’incesto, ma anche la pederastia rientra in questo argomento. Ovviamente si obietterà che la pederastia è contro il volere del bambino, non c’è consenso. Tuttavia i promotori dell’abbassamento dell’età del consenso per i rapporti tra adulti e minori basano la loro tesi sul fatto che ai bambini dovrebbe essere concesso di liberare la loro sessualità. Attraverso la liberazione sessuale, il bambino fortifica la «genialità spontanea» e si «priva di complessi di colpa» creati brutalmente dalla concezione cristiana e “borghese” della famiglia come scriveva W. Reiche nel celebre “La rivoluzione sessuale”. L’icona gay Mario Mieli affermava in “Elementi di critica omosessuale” (1977) che il bambino «è l’essere sessuale più libero, fino a quando il suo desiderio non viene irregimentato dalla Norma eterosessuale, che inibisce le potenzialità infinite dell’Eros [...]. Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino l’essere umano potenzialmente libero. Noi, si, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essarivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega».

    L’ideologa femminista Shulamith Firestone, nel suo “La dialettica dei sessi” (1970),spiegava che «dobbiamo includere anche l’oppressione dei bambini in ogni programma della rivoluzione femminista… il nostro passo deve essere l’eliminazione della stessa condizione di femminilità ed infanzia», arrivando a far sì che «tutti i rapporti intimi», anche quelli tra genitori e figli, adulti e piccini, includano «anche la fisicità» in senso lato. L’omosessuale Aldo Busi ha affermato: «Può esistere una pedofilia blanda, quella praticata dai bambini sugli adulti. I bambini sono in certi casi corruttori degli adulti. Oggi cercano il capro espiatorio nel cosiddetto pedofilo, come ieri negli zingari, negli omosessuali, negli ebrei, nei palestinesi, nelle donne, ma anche i bambini hanno la loro brava sessualità e che gli adulti non devono più reprimerla». In nome di questa “liberazione sessuale dei bambini”, nel 1977 alcuni paladini laicisti e omosessuali hanno creato un famoso manifesto dove esigevano la depenalizzazione dei rapporti con minori. Firmatari erano: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang, Louis Aragon, Roland Barthes ecc. Il filosofo laicista Michel Foucault e l’attivista dei diritti omosessuali Guy Hocquenghem hanno spiegato che gli adulti dovrebbero fare sesso con bambini consenzienti, dove per «bambini consenzienti intendiamo che in ogni caso non c’è stata violenza o manipolazione finalizzata a obbligarli ad avere un rapporto affettivo o erotico».

    Insomma, impedire ai bambini “consenzienti” di avere un’espressione sessuale sarebbe un crimine, un’oppressione, tanto che diversi esperti di psicologia stanno oggi tentando di sostenere che la pedofilia è un “orientamento sessuale” paragonabile ad omosessualità o eterosessualità. Sempre più conferenze accademiche mirano ad eliminarelo “stigma” sociale della società rispetto agli uomini più anziani che agiscono sessualmente verso i bambini più piccoli. Essere attratti da minori, dicono, è un orientamento sessuale, una  “variante naturale della sessualità umana” (come sostengono alcuni parlamentari in Canada), un’inclinazione come le altre.

    Allora detto questo, la domanda è: è sufficiente amare qualcuno ed essere amati per venire riconosciuti dallo Stato? Se si, perché non riconoscere l’incesto, la pedofilia (non è violenza dicono, ma beneficio verso la liberazione sessuale dei bambini) o la poligamia (il cui consenso generale è cresciuto proprio in seguito all’approvazione delle nozze gay, come si sottolinea qui) e invece riconoscere le coppie omosessuali? «La società», si conclude domandando su “LifeSiteNews”«finora ha condannato all’unanimità le relazioni che coinvolgono uomini adulti che fanno sesso con i bambini, chiamandole “disgustose” e “moralmente ripugnanti”. La società, fino a non poco tempo fa, ha condannato anche le relazioni omosessuali allo stesso modo. Una società che riconosce oggi le relazioni omosessuali, ci spinge ad accettare anche la pedofilia e l’incesto?».

    La motivazione per offrire un riconoscimento statale ad una relazione sessuale deve essere differente dunque dal mero sottolineare una relazione romantica tra persone consenzienti. C’è bisogno che tale relazione abbia alcune caratteristiche che la rendono unica e vitale per la società, come solo possono essere le relazioni tra l’uomo e la donna, basate sull’incontro equilibrato e naturale tra gli appartenenti dei due diversi sessi, relazioni originalmente aperte alla vita e adatte alla giusta e bilanciata accoglienzadi un nuovo essere umano.

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    Coordin.
    00 19/11/2012 14:50
    253
    [Modificato da Coordin. 19/11/2012 14:50]
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    00 06/02/2013 23:35

    La contraddizione di chi nega una morale naturale universale

    di Francesco Agnoli*
    *scrittore e saggista

     
     

    Cos’è il bene e il male, chiedono i relativisti? In ogni tempo, ci dicono, l’uomo ha ucciso rubato, ferito, schiavizzato, ucciso i suoi figli con l’infanticidio, praticato la poligamia… Come si può allora dire che esiste una morale naturale universale?.

    Per i pagani la schiavitù era naturale, per i cristiani no; per tutto il mondo antico, come ben evidenzia Peter Singer, l’infanticidio era lecito: perché, continua sempre Singer, dovrebbero avere ragione coloro che condannano tale pratica e non coloro che la hanno sempre praticata? Per i nazisti, scriveva a suo tempo un avversario del diritto naturale come Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 4/4/2007), l’eliminazione dei deboli, tramite l’eugenetica e l’eutanasia, è la massima fedeltà alla natura, alla legge della “selezione naturale”, mentre per molti pensatori dell’ottocento la carità verso i deboli e i poveri è una manomissione della natura stessa. Per questo, concludeva Zagrebelsky, fondare la morale sul diritto naturale come fa la Chiesa, è assolutamente impossibile, e stabilire cosa sia per natura e cosa sia contro, risulta addirittura operazione da fanatici, da estremisti.

    In verità Zagrabelsky non concepisce neppure l’idea che il nazismo, l’eugenismo, così come il comunismo, tre ideologie sedicenti “scientifiche”, ma in verità scientiste e riduzioniste, hanno fallito non perché hanno proposto una legge naturale, ma perché in partenza hanno mal definito la natura umana. Il nazismo fu un sistemaperfettamente coerente: data una definizione, riduttiva, di natura umana, corrispondete in verità a quella animale, ne derivò una legislazione conseguente. Ogni ortodossia, infatti, genera una ortoprassi, e ogni eterodossia applicazioni pratiche errate. Ad esempio un medico che definisca erroneamente una malattia, attuerà una terapia sbagliata, nociva: ma la colpa non sta affatto nella convinzione che possa esistere una terapia giusta, bensì nella precedente concezione errata della malattia!

    Noi, prosegue Zagrebelsky, condanniamo il nazismo in nome “della cultura, della civiltà, dell’umanità o della religione; tutte cose che non hanno a che vedere con la natura…appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità”! Ma come? Non fanno parte la cultura e la religione, della natura umana, della sua natura anche spirituale? E la libertà, non è forse un attributo che distingue l’uomo, la sua natura, dalle altre bestie e dai sassi, dalla loro natura? Come si è visto, la definizione di Zagrebelsky di natura umana, come se essa fosse in contrasto con la cultura e il senso religioso, non sta i piedi. Anche perché, se veramente condanniamo il nazismo per tali motivi, e non perché violano una legge oggettiva universale, allora come facciamo a dire che la nostra cultura che condanna è superiore alla cultura tedesca degli anni trenta? In nome di quale religione deploriamo il nazismo, essendo le religioni così diverse, ed esistendo ad esempio, religioni che permettono la schiavitù, ed altre, come l’induismo, che dividono l’umanità in caste analogamente al nazismo? In nome di quale umanità, se come diceva precedentemente Zagrebelsky per l’uomo Aristotele la schiavitù era un istituto naturale?

    E’ allora giocoforza riconoscere che la legge morale universale non è tale perché sia “universalmente riconosciuta”, ma perché, non abitando noi nel Regno della Perfezione, è potenzialmente, universalmente riconoscibile, e perché è l’unico criterio oggettivo che ci permetta di dire che il bene e il male differiscono, oggettivamente, sempre, in ogni tempo ed in ogni luogo, indipendentemente dal potere di turno o dagli errori umani! Un atto è buono quando è confacente alla natura razionale dell’uomo. Quindi è bene ciò che è razionale. Questa qualificazione svincola la scelta della condotta da assumere dall’arbitrio personale e dal soggettivismo, perché aggancia l’atto ad un criterio oggettivo, appunto perché razionale. Del resto, storicamente, è dalla definizione non puramente biologica, e cioè deficitaria, di natura umana, che è nato il concetto di diritti umani, distinti e differenti da quelli animali, che ha portato all’abolizione della schiavitù, dell’infanticidio, dei sacrifici umani…! Se la nostra civiltà avesse ragionato come fanno oggi i sociobiologi e gli psicologi evoluzionisti, le conseguenze sarebbero molteplici: eguaglianza tra diritti umani e diritti animali, il che significa che il concetto di diritti umani non sarebbe mai nato; equivalenza tra i vari comportamenti umani, dal momento che se tutto è determinato e genetico, e se non esiste la libertà, non vi può essere azione morale o immorale, colpa o merito, premio o castigo, e, coerentemente, occorrerebbe eliminare ogni tribunale ed ogni galera.

    Se invece si fosse ragionato come Zagrebelsky, il quale in fondo compie la stessa operazione, perché non riconosce all’uomo una sua natura originale, non esisterebbe alcun criterio oggettivo in base a cui giudicare dell’operato di un uomo: chi lo ha detto che la schiavitù non è cosa buona e giusta? Chi lo ha detto che uccidere, magari dietro un impulso ormonale assai perentorio è un delitto punibile dalla legge? Chi lo ha detto che, avendo clonato Dolly, non sia lecito clonare anche gli uomini? Spetta a Zagrebelsky, nel momento in cui nega il diritto naturale, fondare su qualcosa il bene e il male, la convivenza umana, e non può farlo invocando le convenzioni, a meno che non voglia ammettere che le convenzioni italiane e quelle cinesi di oggi, quelle naziste e quelle comuniste di ieri, sono egualmente valide solo perché riconosciute dal potere o da una maggioranza. Vale sempre il detto antico: veritas, non auctoritas facit legem. E la verità delle cose è la loro vera natura.

    Per chi crede all’uomo per natura corporale e spirituale e incompiuto, la soluzione è inevitabile: la sacralità dell’uomo si basa sulla sua specifica dignità; la sua erranza, il fatto che sempre si sia ucciso e rubato, non dice dell’equivalenza tra opposte scelte morali, ma della sua libertà e limitatezza, oltre che della natura umana decaduta. Nessun animale infatti, sbaglia, perché nessun animale sceglie; nessun animale sbaglia, perché nessun animale è giudicabile in base ad una verità superiore! Ne deriva che se anche la morale naturale universale non è sempre facile da scoprire, ciononostante essa c’è, e la dimostrazione è che ogni uomo la ricerca e, nel profondo, la sente. A chi nega la morale naturale, cioè che corrisponde alla natura dell’uomo, non rimane che negare, coerentemente, ogni concetto di bene e di male, oppure fondarlo sulla scelta soggettiva. Ma la semplice esistenza del rimorso, dicevano Chesterton o Dostoevsky, dopo un omicidio significa che nessun uomo ritiene veramente che ciò che ha fatto sia giusto, corrisponda alla sua natura. Tanto è vero che persino Lenin, il creatore dei gulag, e Hitler, dovendo giustificare lo sterminio dei loro nemici dinanzi ai loro popoli, li definirono “insetti nocivi” da schiacciare, il primo, “sottouomini”, il secondo.

    Un’ ultima considerazione: l’unità tra anima e corpo non toglie l’esistenza di un’ organizzazione gerarchica, di un ordine, che non significa affatto separazione o distinzione, tra anima e corpo. Quando questa gerarchia naturale viene rovesciata, quando l’uomo obbedisce prima agli istinti, al corpo, che alla ragione, va contro la sua natura umana, che è corporale e spirituale ad un tempo, ma con una superiorità naturale, nel senso di umana, dello spirito sul corpo. “Lotta dura contro natura”, scrivevano su muri, non per nulla, i sessantottini e gli hippies, mentre si davano all’amore orgiastico, all’autodistruzione morale e all’uso di droghe: avevano ben chiaro, allora, di essere consapevolmente nemici di un ordine naturale cui appartenevano e cui si erano ribellati.

    Da: Scritti di un pro life 

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    00 20/08/2013 20:47

    Se il relativismo è vero,
    perché le leggi russe sarebbero sbagliate?

    Leggi russiaLa domanda che ci facciamo è molto semplice: se ilrelativismo è vero, cioè se non esiste alcun Dio e dunque alcuna norma etica assoluta conoscibile dall’uomo, se non esistono un bene e un male oggettivi e definitivi a priori, se tutto dipende dal bias degli appartenenti ad una data società, se la morale è semplicemente il costume del proprio paesee l’attuale sensazione dei propri coetanei”con quale autorità e su quali basi si afferma che la legge contro l’omosessualismo di un Paese estero come la Russia è sbagliata (ma anche Moldavia eLituania, che hanno applicato la stessa legge anche nel loro territorio)?

    In una civiltà secolarizzata, ci ripetono laici e omosessuali, non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato. Dunque perché una legge approvata in maggioranza dairappresentanti dei cittadini di uno Stato sarebbe sbagliata? Sbagliata rispetto a cosa? E se il relativismo è il nostro approccio alla realtà, se la morale non si basa sul diritto naturale, chi decide che le leggi americane “pro-gay” sarebbero “migliori” o “superiori” o “più etiche” di quelle russe? Leggi giuste o sbagliate rispetto a cosa? Chi è il giudice e qual è il metro di confronto? Al massimo sarà un’opinione personale, ma di certo nessuno è autorizzato ad imporre la propria opinione, o quella di molte persone, ad uno Stato estero che in maggioranza ha approvato determinate leggi.

    Secondo molti media occidentali, in Russia i gay sarebbero perseguiti per legge e fucilati, buttati nei gulag sovietici aperti ancora una volta appositamente per loro. La realtà è ben diversa. Il sociologo Massimo Introvigne ha spiegato che la legge firmata dal presidente Putin il 30 giugno 2013 ha modificato l’articolo 6 comma 21 del Codice Federale sulle Contravvenzioni Amministrative, che – come dice il nome – si occupa di reati minori puniti normalmente conun’ammenda anziché con una pena detentiva. Il nuovo comma 21 vieta la propaganda, rivolta a minorenni, di «relazioni sessuali non tradizionali», e recita quanto segue: «S’intende per propaganda l’atto di distribuire a minorenni informazioni che (1) hanno lo scopo di creare atteggiamenti sessuali non tradizionali; (2) rendono attraenti i rapporti sessuali non tradizionali; (3) sostengono che il valore sociale delle relazioni sessuali tradizionali e non tradizionali è lo stesso; e (4) creano un interesse per le relazioni sessuali non tradizionali». Chi si rende responsabile di questa propaganda presso i minori non viene torturato o messo in croce – come si potrebbe credere leggendo certa stampa – ma deve pagare una multa massima di cinquemila rubli (114 euro).

    Austin Ruse era in Russia poche settimane fa e ha spiegato«ho visto alcuni travestiti in strada vicino al Cremlino, nessuno di essi veniva arrestato o picchiato. Cercando con Google“Gay Mosca” ho trovato discoteche, bar, stabilimenti balneari, e feste da ballo per soli omosessuali. I gay in Russia vivono nelle catacombe sempre timorosi della loro vita? Giudicate voi», ha scritto. La legge russa non c’entra nulla con le bande di teppisti neonazisti che ogni tanto picchiano gli omosessuali. Si tratta di violenze assolutamente deplorevoli e da condannare senza riserve e la legge russa le punisce. La chiave del comma 21 vieta la propaganda «rivolta a minorenni», non l’apologia dell’omosessualità rivolta a maggiorenni, in pubbliche conferenze o altrove, purché non vi partecipino minori. Una legge che evita ai minori di venire confusi da pratiche moralmente e sessualmente disordinate (non solo quelle omosessuali, ovviamente), come insegna anche la Chiesa cattolica, non è per nulla malvagia.

    In risposta delle sciocche proteste occidentali contro la Vodka russa o le sterili polemiche di alcuni sportivi americani che partecipano ai Giochi olimpici (vietate ora dal comitato olimpico), la campionessa russa Yelena Isinbayeva ha semplicemente spiegato«In Russia non abbiamo mai avuto questi problemi e non ne vogliamo avere nemmeno in futuro. Se si permette che vengano promosse e fatte certe cose per strada, è giusto avere molta paura per il futuro del nostro Paese. Noi ci consideriamo persone normali. Viviamo soltanto uomini con donne e donne con uomini. Certi atteggiamenti e certe parole sono irrispettosi verso il nostro Paese e per i nostri cittadini. Siamo russi e forse siamo differenti rispetto agli europei. Maabbiamo la nostra casa e tutti devono rispettarla. Quando noi andiamo negli altri Paesi, cerchiamo di rispettare le loro regole senza interferire». Il ”Fatto Quotidiano” non potendo augurarle di essere stuprata per queste parole, come invece ha fatto un dirigente del Partito Democratico (con delega ai diritti umani!), ha dovuto parlare di “scivolone”. Ma quale scivolone, la Isinbayeva sa benissimo quel che dice e lo ha ripetuto in diverse altre circostanze (nonostante i furbissimi quotidiani in questo caso abbiano parlato di “marcia indietro”)!

    Se dunque la legge russa non è così terribile come la si descrive, la domanda provocatoria resta: se non esiste alcun criterio oggettivo in base a cui giudicare l’operato di un uomo o di uno Stato (tutto è relativo e soggettivo, ci viene detto), chi osa affermare che una legge di un Paese estero non è cosa buona e giusta? Su cosa si fonda questo bene e questo male? La risposta è una: se si vuole condannare una legge anti-gay occorre necessariamenteabbandonare il relativismo e ammettere l’esistenza di qualcosa di sbagliato in modo assoluto -nel proprio Paese o in quello estero-, come la criminalizzazione degli omosessuali. Chi dice che tutto è relativo e nega un principio morale pre-esistente all’uomo sostiene che picchiare un’omosessuale non è sempre sbagliato ma dipende dall’opinione personale (è relativo!). Invece è sbagliato sempre, ed è una norma etica che ogni uomo trova dentro di sé e che che la tradizione cristiana chiama “diritto naturale”. Il secondo errore commesso dai critici delle leggi russe è non conoscere quel che criticano: queste leggi vietano la propaganda omosessuale verso i minori (pena un’ammenda di 114 euro), per la loro salvaguardia morale. Quanti genitori in Italia e in America sarebbero d’accordo che ai loro figli -di 8, 10, 15 o 16 anni- venisse proposto e apologizzato il comportamento omosessuale come atteggiamento normale e naturale da sperimentare il più possibile?

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    Credente
    00 04/09/2013 14:12

    Senza Dio non si può credere
    nemmeno nell’uomo

    Abbiamo notato un miglioramento in Umberto Veronesi: mentre fino a ieri sosteneva che «l’etica laica è mille volte superiore all’etica religiosa» e in contemporanea tradiva (eticamente?) la moglie, come ha raccontato lei stessa in un recente libro, recentemente ha ridimensionato le sue affermazioni: «Sono profondamente convinto che esista una morale laica altrettanto valida della fede in Dio».

    Nell’intervista al “Corriere della Sera” è emerso un insolito vero rispetto per le persone di fede, non così evidente altre volte. Ha spiegato di essersi allontanato dalla fede cattolica dopo aver avuto «l’esperienza di incontrare il male peggiore di cui soffra l’umanità, il cancro». Certo, il motivo è comprensibile, il dolore e la sofferenza gratuita possono generare scandalo per chi vi sta di fronte in modo forse superficiale, limitandosi a registrare la propria reazione. Ma possono  anche diventare il motivo per abbandonare l’ateismo e convertirsi al cristianesimo,come accaduto all’oncologo americano, collega di Veronesi, Stephen Iacoboni. Se, infatti, l’agnosticismo amplifica ed esaspera l’ingiustizia del dolore innocente, perché lo priva automaticamente di un significato ultimo, il cristianesimo è l’unica posizione umana che offre la forza di starvi di fronte senza scandalo. Gesù Cristo non ha dato la soluzione definitiva al male e alla sofferenza, ma innanzitutto l’ha condivisa con l’uomo facendosi mettere in croce e poi ha offerto se stesso come risposta. Risorgendo ha detto all’uomo: anche la sofferenza più grande, come quella che ho patito io, è una condizione per una pienezza maggiore: «chi vuol venire con me, prenda la sua croce e mi segua». Si può vivere nel dolore ed arrivare ad amarlo, ad essere lieti e grati nel cuore, se è possibile a tanti cristiani allora lo scandalo per  il male non è l’ultima parola.

    Veronesi ha poi citato come altro motivo di scivolamento verso l’agnosticismo l’aver vissuto «ilsecolo scorso, il secolo del dolore, delle guerre mondiali, della Shoah, di torture e violenze inaudite. Mi sono chiesto: come mai un Dio buono può permettere tutto questo male?». E’ la domanda di tanti, ma perché imputare a Dio il male generato dall’uso sbagliato della libertà da parte degli uomini? Il Novecento è stato proprio l’esempio di cosa voglia dire vivere senza Cristo, il primo secolo ateo, come è stato definito. Non a caso se l’Unione Sovietica era ufficialmente guidata dall’ateismo di stato, il nazismo si ispirava spiritualmente al paganesimo anticristiano. La domanda andrebbe quindi rivoltata: “come si può, dopo il ’900, ancora credere nell’uomo senza fare affidamento a Dio?”. Il premio Nobel Aleksandr Solzenicyn, martire del comunismo sovietico, ha affermato alla fine della guerra: «la principale causa della rovinosa rivoluzione che ha inghiottito quasi 60 milioni di russi non potrei definirla in maniera più accurata che ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto”».

    Veronesi spiega: «mi sono convinto che ognuno debba costruirsi i propri principi, e non farseli costruire da un ente superiore». E’ proprio quello che hanno fatto gli intellettuali nazisti, è proprio quello che fanno oggi gli estremisti islamici. Come può una morale laica, abbandonata evidentemente al relativismo, pretendere di giudicare quali principi siano “più veri” (verità oggettiva?? Da quando esiste?) di altri. Con quale autorità Veronesi concederebbe a tutti di crearsi i propri principi e comportarsi di conseguenza, tranne che ai capitalisti cinesi, agli islamici estremisti e agli uomini indù che dividono la società in caste, i quali invece dovrebbero sottostare ai principi creati, non da un ente superiore, ma da Umberto Veronesi e dall’Occidente (cristiano)?

    «Ai miei figli», ha spiegato Veronesi, «ho insegnato a passare dalla triade tradizionale dell’etica, quella di “Dio, patria e famiglia”, a una di valori nuovi, “libertà, solidarietà e tolleranza”. In questi valori mi pare vi sia tutto il comportamento dell’uomo morale». Non si sa quali figli però, infatti come ha spiegato la moglie, «un pomeriggio prima di Natale chiesi ad Umberto di accompagnarmi a cercare i regali per i nostri figli. Mi rispose che era impossibilitato, aveva molto da lavorare in ospedale. Mi avvia da sola in giro per i negozi. A un tratto in piazza San Babila lo vidi ridente sotto braccio alla sua compagna, che andavano assieme a far compere per il loro bambino…mi sentii raggelare e mi vennero le lacrime agli occhi». Evidentemente la triade “libertà, solidarietà e tolleranza”, parole tanto care ai giacobini francesi che in loro nome ghigliottinavano tutti quelli che erano in disaccordo, non è servitamolto ad Umberto per comportarsi moralmente, così come non serve a nessuno. Nessuna triade è sufficiente, nemmeno “Dio, patria e famiglia”! I principi morali non bastano, non spiegano perché, se esiste solo questa vita bisognerebbe essere coerenti con essi se si è più felici e ci si avvantaggia comportandosi in altro modo. Occorre andare oltre all’uomo, serve ilrapporto affettivo con il Padre, al quale si obbedisce per propria convenienza o per semplice fiducia in Lui, così come il figlio fa con il proprio genitore. Solo in un rapporto ha senso l’obbedienza.

    Veronesi conclude infine con una frase che va molto di moda «non credo in Dio ma credo nell’uomo», perché egli avrebbe fatto «balzi da gigante, centocinquant’anni fa negli Stati Uniti del Sud linciare un nero era quasi accettato, gli ultimi roghi degli eretici risalgono a 2-300 anni fa. L’uomo sta prendendo coscienza, secondo me». Eppure lui stesso ha ricordato quel che combinava l’uomo emancipato, l’uomo nuovo, fino a pochi anni fa: il razzismo verso i neri è stato sostituito da quello verso gli ebrei. L’uomo non si emancipa da solo, crea solo nuove imposizioni che lo liberino da quelle precedenti. Lo scrittore Francesco Agnoli ha infattirisposto«Veronesi crede nell’uomo, nonostante i gulag e i lager, e forse, anche a ragione di essi, non crede in Dio; io non credo nell’uomoche per dare a tutti la felicità, senza Dio, ha creato i gulag, e credo in Dio, grazie a uomini (che mi fanno credere anche nell’uomo).Veronesi è a favore dell’aborto (uccisione di un uomo piccolo da parte di un uomo grande); crede nella bontà della clonazione (uomo grande che fotocopia uomo piccolo); crede nella bontà dell’utero in affitto (persone ricche affittano l’utero di povere)… Cosa intenda, in concreto, per “credere nell’uomo”, non è chiaro.

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    00 16/10/2013 23:21

    “Da quando mi sono convertito
    sono diventato coerente”

     
    di J. Warner Wallace*
    *detective di polizia e convertito cristiano

     
    da coldcasechristianity.com

    Ognuno ha una visione del mondo, tutti noi facciamo l’esperienza di interpretare il mondo attraverso un insieme di credenze che guidano la nostra comprensione. Come ateo, ho interpretato le mie esperienze attraverso la lente del naturalismo. Ho creduto che tutto quello che vivevo e osservavo poteva essere spiegato in termini di cause e leggi naturali. Non ho mai pensato profondamente alle incongruenze nella mia visione del mondo o al fatto che il mio naturalismo non riusciva a spiegare tre caratteristiche della mia esperienza quotidiana:

     

    Mente
    Se il naturalismo è vero, una qualche forma di fisicalismo o di materialismo deve avere un ruolo. Il “problema della mente” (come i filosofi e ricercatori comunemente dicono) è solo un “problema”, perché le limitazioni materiali del naturalismo faticano per tenere conto della coscienza immateriale. Il naturalismo può spiegare l’esistenza del cervello ma niente più, le nostre “menti” sono un’illusione creata dai processi fisici che avvengono nel nostro cervello materiale. Dunque i nostri pensieri sono semplicemente il risultato di una serie di cause fisiche (ed effetti conseguenti). Si potrebbe credere che si sta pensando liberamente su ciò che si è appena letto, ma in realtà i vostri “pensieri” sono semplicemente le conseguenze neurali, come tessere del “domino” che cadono l’uno contro all’altro. In un mondo di rigoroso fisicalismo causale, il libero arbitrio (e i pensieri liberamente motivati) sono semplicemente un’illusione.

     

    Moralità
    Se il naturalismo è vero, la morale non è altro che una questione di opinione. Tutti noi, come esseri umani, semplicemente abbracciamo quei costumi culturali o personali che promuovono meglio la sopravvivenza della specie. Non vi è alcuna trascendente e oggettiva verità morale. Le culture abbracciano semplicemente i valori e i principi morali che “servono” a loro e portano alla fioritura di una determinato gruppo di persone. Un gruppo di esseri umani evoluti non ha alcun interesse nel cercare di raccontare ad un altro gruppo evoluto ciò che è veramente giusto o sbagliato fare dal punto di vista morale. Dopo tutto, ogni gruppo è giunto con successo al suo particolare livello di sviluppo, abbracciando e accettando i propri standard morali. Gli argomenti su cui le verità morali prevedono una maggiore prosperità umana sono semplicemente soggettivi disaccordi, non c’è un trascendente standard oggettivo che può giudicare tali divergenze dal punto di vista naturalistico.

     

    Significato
    Se il naturalismo è vero, il senso e lo scopo della vita sono semplicemente negli occhi di chi guarda. Se tuo figlio ti dice che lui pensa che il significato della vita sia trascorrere dieci ore al giorno davanti ai videogiochi, c’è poco che si può fare per offrire una confutazione oggettiva. Dopo tutto, se non vi è un Autore trascendente della vita, ognuno di noi arriva a scrivere il proprio copione. Si può credere che il proprio figlio ha perso il punto della sua esistenza e ha perduto la possibilità di vivere pienamente la vita, ma non ha alcuna autorità oggettiva su cui fondare una alternativa di vita. Come un naturalista, anche lui si sta inventando il proprio significato. Scopo e significato, da un punto di vista puramente naturalistico, non sono altro che opinioni e preferenze personali.

     

    Come ateo ho scelto di aderire al naturalismo, nonostante il fatto che vivevo ogni giorno come se fossi in grado di usare la mia mente, fare scelte morali basate oltre la mia stessa opinione. Inoltre, ho cercato il significato e lo scopo al di là delle mie preferenze edonistiche, come se fosse davvero c’era un significato da scoprire. Io mi definivo un naturalista mentre abbracciavo tre caratteristiche della realtà che semplicemente non possono essere spiegate dal naturalismo. Come cristiano, ora sono in grado di riconoscere le fondamenta di queste caratteristiche della realtà. La mia filosofica visione del mondo è finalmente coerente con la mia concreta esperienza del mondo.

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    00 10/12/2013 15:28

    L’etica di chi sosteneva le leggi razziali




    Nel più puro stile ottocentesco social-darwinista Scalfari ha affermato che essi chiaramente risiedono «nell’appartenenza biologica degli uomini a una specie», tutta la complessità umana sarebbe spiegabile riconducendola a due istinti elementari«quello della sopravvivenza dell’individuo e quello della sopravvivenza della specie». Tutto qui, Scalfari ha capito che basta questo a produrre «il sentimento della moralità» e che «è l’istinto biologico che sta alla base dell’agire morale».


    Ma perché Scalfari è interessato a questo argomento? Ovviamente perché esso diventa labase teorica che serve a sostenere la sua visione esistenziale: «Perciò», trae le conseguenze Scalfari, «lasciamo perdere le metafisiche e le trascendenze se vogliamo insieme ricostruire una morale perduta». Anche l’aver elencato gli errori storici di diversi uomini di Chiesa torna utile: «Personalmente diffido di quell’Assoluto che detta comandamenti eteronomi e produce istituzioni deputate ad amministrarli, a sacralizzarli e a interpretarli. La storia, cardinal Martini, anche quella della Compagnia religiosa cui lei appartiene, mi autorizza e anzi mi incita a diffidare».


    Riassumiamo sinteticamente lo “Scalfari-pensiero”: la morale esiste in quanto prodotto dell’istinto biologico e va assecondata in quanto proviene «dalla comune radice umana e dal comune codice genetico che è iscritto nel corpo di ciascuno di noi». Se avessimo dubbi basterebbe guardare alla storia criminale della Chiesa cattolica per convincerci che i suoi insegnamenti sull’uomo non possono sussistere. Il ragionamento è ovviamente un’immensa petizione di principio e per questo si fa fatica ad analizzarlo. Evitiamocela, per oggi, e confutiamo la riflessione di Scalfari adottando il suo ragionamento alla sua stessa biografia.


    Tutti sanno che il fondatore di “Repubblica” è stato un militante attivo della gioventù fascista e un discepolo di Benito Mussolini. Nel 1942 invitava i compagni all’unità e alla determinazione: «Il Partito Nazionale Fascista deve oggi soprattutto essere in linea per la resistenza e la vittoria, fra questi noi vogliamo essere in prima linea». In questi giorni è comparso il suo nome nel saggio “Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali” (Baldini e Castoldi 2013), curato dagli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, i quali ricordarono che molti intellettuali italiani furono i primi ad unirsi con fervore alla campagna antisemita. Scienziati, accademici, editori, giornalisti, artisti si prestarono a fare da agiprop della campagna razzista contro neri ed ebrei. Tra questi, oltre a Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Indro Montanelli, anche Eugenio Scalfari.


    Se la storia (ovviamente rivisitata in chiave anticlericale) di molti responsabili della Chiesa cattolica porta Scalfari a diffidare della validità della morale cristiana, anche la stessa storiadel fondatore di “Repubblica” -riferimento del pensiero laico (o meglio, laicista) italiano-, dovrebbe portare lui stesso, e i suoi affezionati, a diffidare della validità della “morale laica”. O, ancora di più, della morale spiegata come mero istinto di sopravvivenza, esattamente come la concepivano i grandi dittatori del ’900 che giustificavano i loro crimini proprio in base al darwinismo applicato a livello sociale (il grande naturalista C. Darwin non ha colpe sulla strumentalizzazione del suo pensiero, anche perché la pensava in modo opposto). La coerenza è un obbligo per un libero pensatore, no?


    Vorremmo permetterci di dare un suggerimento a Eugenio Scalfari: piuttosto che trarre conseguenze così forzate, tirandosi la zappa sui piedi, provi a concepire l’uomo come un essere dotato di libertà, talmente libero e non pre-determinato da agire anche contro la legge morale universale che scopre misteriosamente abitare dentro di sé.  Inoltre, lasci perdere l’apologetica verso la morale laica e i tentativi per trovarne una giustificazione “naturalistica”. Il filosofo (ateo) Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, ha trovato l’unica soluzione accettabile per chi nega una soluzione metafisica: «ho rinunciato del tutto alla moralità»ha scritto nel 2010. «Da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io ora credo che non ci sia. Mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».


    Questo è l’unico manifesto coerente di una società davvero secolarizzata: il relativismo assoluto. L’eutanasia dei bambini malati nell’avanzatissimo Belgio e il libero associazionismodei pedofili nella laicissima Olanda ne sono un’applicazione perfetta.



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    00 14/03/2014 22:32

    38 Stati africani contro i gay, ma è sbagliato giudicare




    Africa gayIl Vaticano, attraverso il presidente del Consiglio per la Giustizia e la Pace, card. Peter Turksonha preso giustamente una posizione ufficiale contro le leggi anti-gay dell’Uganda, facendo appello alla comunità internazionale affinché intervenga.


    Molti altri lo hanno fatto ma la Chiesa è l’unica in grado di assumereuna posizione coerente e razionalmente fondata in quanto è l’unico ente morale che si avvale di un concetto di bene e di male assoluti, precedenti all’uomo (legge naturale), e non relativi. Le società secolarizzate o post-secolarizzate non riescono infatti a giustificare la loro posizione in quanto, al contrario, si affidano ad una “morale laica”, ovvero fondata sul relativismo: non c’è più un Legislatore ultimo (Dio) a cui rendere conto, ma è l’uomo stesso -la maggioranza degli uomini con opinioni simili- che decide cosa è bene e cosa è male.


    Michel de Montagne ha a lungo scritto sull’assenza di una verità assoluta, di un bene superiore, spiegando che i principi e i modelli in cui si deve identificare una civiltà, e lo stesso giudizio su di essi, dipendono dall’angolo visuale da cui li si guarda. In parole più semplici, la morale (la differenza tra bene e male) è semplicemente il costume del proprio paese el’attuale sensazione dei propri coetanei: gli uomini aderiscono a norme o leggi “culturali” che si fabbricano con la loro cultura (i costumi).


    Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven ha spiegato:«Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché letteralmente non c’è Dio e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità». Il filosofo laico di Princeton, Peter Singerha commentato a proposito della pedofilia: «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale». I due celebri studiosi stanno applicando la morale laica in modo assolutamente coerente.


    In un paradigma privo di Dio, Marks e Singer hanno ragione: come si fa a sostenere razionalmente che la pedofilia è e sarà sempre un male assoluto? Affermarlo significherebbe implicare un male e un bene predeterminati, superiori e precedenti all’uomo stesso, una posizione assai pericolosa per chi non crede a Dio. Per questo tutto è relativo, il giudizio è bandito e odiato perché implica la conoscenza della verità (Verità o “verità in tasca”, come si usa dire). «Tutti dovremmo rispettare le decisioni altrui, non giudicare, poiché non esiste il comportamento giusto in senso assoluto. Più procedo nella vita e nella professione, più comprendo l’importanza della sospensione del giudizio sulle scelte fatte dal nostro prossimo»si legge su un sito web di psicologi.


    Se le cose stanno così, se non può esistere un bene e un male assoluto, se è sbagliato giudicare, se non esiste un comportamento ultimamente giusto o sbagliato, se tutte le decisioni altrui vanno rispettate allora questi giudizi morali (che pretendono di descrivere un comportamento giusto e dunque si auto-contraddicono) varranno ancora di più se a decidere di comportarsi in un certo modo -ad esempio per proteggere e salvaguardare le proprie tradizioni, i propri valori, la propria cultura, i propri costumi- non è una singola persona ma un intero Stato, anzi un intero Continente.


    E’ il triste e drammatico caso dell’Africa, dove 38 Stati su 54 (sopratutto a maggioranza animista-islamica) hanno promulgato una legislazione per perseguitare le persone omosessuali (vietati gli incontri in gruppo di due o più, criminalizzati i club e gli eventi gay ecc.). Recentemente è toccato alla Nigeria e Reuben Abati, il portavoce presidenziale, ha affermato che i nigeriani erano felici della nuova legge. Ora, la questione è chiaramente tragica e non a caso la Chiesa cattolica è una delle poche voci presenti sul territorio adopporsi drasticamente.


    Ma la situazione si presta bene a riflettere sulla consistenza razionale della cosiddetta“morale laica”, incentrata necessariamente sul relativismo etico. Se è sbagliato giudicare, se la morale è il costume del proprio paese, se non esiste alcun comportamento giusto o sbagliato, allora con quale autorità morale gli attivisti occidentali pretendono far pressione sul continente africano perché cambi la sua morale, di cui pare soddisfatto, e si converta alla morale attualmente in voga (da poco tempo, oltretutto) in Europa e America? Forse allora esiste un bene precedente all’uomo verso il quale è giusto (e doveroso) orientarsi?


    La conclusione ci pare una soltanto: se Dio esiste allora è un bene assoluto rispettare gli omosessuali (in quanto nostri fratelli), pur ricordando loro di astenersi da comportamenti contrari alla legge di Dio; per i non credenti invece, siccome Dio non esiste,  rispettare gli omosessuali è una scelta come un’altra e va rispettato chi la pensa diversamente; a maggior ragione, se a pensarla diversamente è un Continente intero. Ovvero quasi 1 miliardo di persone con una morale diversa dalla nostra.



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    Coordin.
    00 23/03/2014 16:19

    La morale è innata,
    ora lo dice anche la scienza

    La morale è innata non è una costruzione dell’uomo, non è il costume della società ma è uguale in ognuno di noi. E’ una legge (la Chiesa parla di legge morale naturale), per l’appunto, che ogni uomo trova dentro di sé, un dono del Creatore che può usare chi ne è cosciente e chi guarda se stesso con onestà, libero da pregiudizi riduzionisti. Essa, dice il Catechismo cattolico«è iscritta e scolpita nell’anima di tutti i singoli uomini, esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, il bene e il male, la verità e la menzogna. Questa prescrizione dell’umana ragione, però, non è in grado di avere forza di legge, se non è la voce e l’interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi».

    L’obiezione più antica a questa visione è che la morale sia un frutto dell’evoluzionee dunque, ultimamente, un’illusione. Posizione che oggi è stata prevalentemente abbandonata dal mondo scientifico, sostenuta soltanto dai reduci del naturalismo positivista (vedi Telmo Pievani): «secondo la pretesa naturalistica», ha spiegatoMario De Caro, celebre filosofo morale italiano, «la spiegazione biologica sarebbe in grado di dare conto delle origini evolutive della moralità e spiegare il contenuto stesso: confutazione. Le spiegazioni sono di tipo culturale non biologico. La morale non va rintracciata nel mondo animale, come ha detto infatti Darwin» (Siamo davvero liberi? Codice 2010). Per l’appunto, la tesi naturalista è stata sostituita con quella citata da De Caro: la morale è frutto di condizionamenti ambientali, culturali, sociali o religiosi.

    Eppure nemmeno questa tesi/obiezione è convincente. Lo ha spiegato e mostratorecentemente Paul Bloom, celebre psicologo dell’Università di Yale che, assieme ad altri due psicologi del laboratorio di cognizione infantile (Karen Wynn e Kiley Hamlin) hanno studiato la capacità di valutazione morale nei bimbi dai sei ai 10 mesi di età, concludendo che, già in quell’età i bambini manifestano già un senso morale, una conoscenza del male e del bene, ben prima che la società/cultura abbia il tempo di “forgiarli”.

    Secondo l’equipe di Bloom, dai tre mesi di vita i bambini restano ad esempio più colpiti di fronte a scene di un comportamento ingiusto che da quelle dove tutti si comportano bene. Non sono moralmente indifferenti, ma tendono a sorridere e a battere le manine davanti a cose buone e belle, mentre tendono a fare grinze e girare la testa davanti a cose cattive o brutte. Bloom dice di poter provare che i neonati avvertono anche un forte stress quando vedono un individuo provare dolore. Secondo i tre docenti, quindi, i bambini nascono con un senso che gli permette di distinguere istintivamente il bene dal male, è qualcosa che deriva dalla stessa natura umana.

    «Non si può ridurre l’essere umano a una macchina che funziona solo secondo le leggi dell’ereditarietà biologica», ha spiegato Bloom, attaccando «l’attuale trend in psicologia e neuroscienza che sminuisce la scelta razionale a favore di motivazioni inconsce»In un articolo sull’Atlantic, Bloom ha anche attaccato i riduzionisti e i relativisti delle neuroscienze che considerano gli esseri umani come “marionette biochimiche“. «La natura deterministica dell’universo è pienamente compatibile con l’esistenza di deliberazione cosciente e del pensiero razionale con sistemi neurali che analizzano diverse opzioni, costruiscono catene logiche del ragionamento, ragionano attraverso esempi e analogie, e rispondono alle conseguenze previste delle azioni, comprese le conseguenze morali. Questi processi sono alla base di ciò che significa dire che le persone fanno delle scelte, e in questo senso, l’idea che noi siamo responsabili dei nostri destini rimane intatta».


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    Credente
    00 22/11/2014 22:27

    La morale laica
    non può avere un fondamento razionale

    Egli ad esempio scrive che «una corretta argomentazione razionale non è in grado di fornire un fondamento canonico alla morale o alla bioetica laiche […]. Ho osservato, altresì, che la cultura laica oggi procede senza alcun riferimento a Dio e ho spiegato le ragioni per cui, di conseguenza, non possono esistere né una morale laica comune né una bioetica laica canonica» (p. 26). E’ un tema che il celebre filosofo ha già trattato in suo precedente libro: “Viaggi in Italia” (Le lettere 2012) nel quale, ha scritto: «al centro dell’attenzione ci sono le questioni filosofiche laiche fondamentali concernenti la capacità, o meglio l’incapacità, della riflessione morale laica di dare fondamento alle proprie pretese. Il libro non analizza con sufficiente ampiezza la svolta profonda prodotta nella cultura dominante dell’Occidente dal fatto di essere diventata una cultura dopo Dio. Che cosa comporti la perdita di un significato ultimo, di un orientamento trascendente, è problema che ancora attende di essere affrontato compiutamente».

    Nel suo ultimo volume riprende e amplia questa tesi: «Il fatto più significativo è lo sganciamento della morale e dell’autorità dello stato da qualsiasi allusione a un significato ultimo. Poiché la cultura laica dominante del nostro tempo si colloca dopo Dio, la riflessione morale laica non può che occuparsi di ogni cosa come se essa non venisse da nessuna parte, non andasse da nessuna parte e non avesse alcuno sbocco finale. Deve trattarsi, cioè, di una morale e di una struttura politica costruite come se moralità, vita morale, strutture politiche e stati fossero in ultima analisiprivi di significato. Il punto non è semplicemente che in un universo senza Dio non esiste alcuna sanzione necessaria nemmeno per atti di malvagità enormi. Tutto è in definitiva assolutamente privo di senso. La forza di questa completa e impenetrabile opacità è ancora in attesa di essere adeguatamente misurata e affrontata» (p.46).

    In un suo recente intervento ha ribadito«Senza fondamenti, e senza una prospettiva divina, non si può dimostrare che abbiano una priorità razionale cogente né la comunità anonima di tutti gli individui, né la comunità di coloro che amiamo e a cui restiamo fedeli. Una volta separate dal proprio ancoraggio in Dio e/o nell’essere (il che significa in una metafisica), tutte le morali e le bioetiche secolari diventano più o meno chiaramente narrative morali particolari, socio-storicamente condizionate, che affermano configurazioni particolari di intuizioni morali che si muovono nella dimensione del finito e dell’immanente. A differenza delle affermazioni di obblighi morali fondati su una comune origine divina, che potrebbero essere riconosciute persino da un ateo come putativamente fondate nell’essere – nonostante l’ateo consideri falsa tale pretesa – la morale secolare contemporanea è necessariamente contingente e storicamente condizionata. Tale sradicamento e tale contingenza hannoimplicazioni drammatiche riguardo alla forza delle pretese normative avanzate dalla teoria morale contemporanea dominante di stampo secolare su questioni come il significato morale di autonomia, uguaglianza, uguaglianza di opportunità, diritti umani, giustizia sociale e dignità umana». Queste implicazioni drammatiche vengono riassunte dal filosofo americano nella definizione di “stato secolarizzato fondamentalista”, con le sue morali e le sue bioetiche: «La rottura della cultura contemporanea dalla cristianità tradizionale è legata anche all’emergenza degli stati fondamentalisti secolarizzati», ha affermato.

    Ma la critica di Engelhardt non è soltanto rivolta ai tentativi laici di fondare una morale che prescinda da Dio («una visione canonica laica della pienezza umana e della condotta umana appropriata non può essere colta in forma adeguata se non facendo riferimento a Dio», p. 38ma anche alla “legge naturale” e al cattolicesimo, il quale avrebbe sbagliato a voltare le spalle a Gerusalemme in favore di Atene, ovvero avendo deciso di abbracciare la filosofia e la ragione per la giustificazione delle sue affermazioni. Engelhardt afferma invece che la fede non può che reggersi sull’incontro diretto con Dio e non sulla conoscenza di Dio e della morale che la ratio consente di dispiegare. Questo progetto, secondo il filosofo,sarebbe fallito e per questo nelle nostre società si sarebbe passati da un’idea della morale come scienza del corretto agire a un’idea della morale come (semplice) questione di stile di vita (declassamento): parla così di«collasso del progetto etico-filosofico occidentale, elaborato in Grecia nel v secolo a.C., riproposto nel Medioevo e destinato a diventare, attraverso il cattolicesimo romano, uno dei cardini della cultura occidentale del Medioevo, della modernità e dell’illuminismo. La speranza, concepita dall’antica Grecia e abbracciata dal cristianesimo del Medioevo occidentale, di fondare l’etica in una razionalità morale univoca e filosoficamente giustificata è definitivamente sfumata» (p. 45).

    Evidenziati i limiti radicali della filosofia morale, Engelhardt afferma che in un mondo post‐moderno e post‐cristiano, quindi, in cui sarebbe fallito il progetto di legare fede e ragione e in cui Dio e i fondamenti sono respinti, lo spazio dei credenti non è quello di essere assorbiti dalla cultura laica dominante, ma la riscoperta delle autentiche radici della fede delCristianesimo ortodosso, il quale conserverebbe il richiamo alla genuina spiritualità cristiana: il bene non può essere conosciuto attraverso la ragione e a prescindere da Dio, ma solo a partire dall’incontro con Lui.

    Se è decisamente condivisibile la prima parte del suo pensiero, ovvero la sottolineatura dell’infondatezza di una morale “laica” fabbricata dagli uomini, o dalla maggioranza di essi, che prescinde da un ordine superiore (ne abbiamo già parlato anche noi: Ultimissima 30/01/12 e Ultimissima 03/07/12), la seconda parte non la riteniamo affatto corretta. Esiste una legge comune nel cuore di ogni uomo che, se usata correttamente, è capace di guidarlo verso il bene anche con il solo uso della ragione. Certo, privati della fede è un cammino tortuoso, faticoso e difficile ma non impossibile. Come ha affermato Pio XII«Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere». Ha continuato, «si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore».

    Le conclusioni pratiche di Engelhardt è che lo Stato, impossibilitato a risolvere razionalmente le questioni etiche e bioetiche, non debba propendere per nessuna concezione morale. Tuttavia, come ha rilevato il filosofo Giacomo Samek Lodovici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «se lo Stato è totalmente neutrale dal punto di vista etico, se anche il divieto di usare violenza non è un principio morale, allora non è moralmente biasimabile un soggetto che lo trasgredisce quando può farlo, evitando conseguenze per lui dannose». Questa è una delle contraddizioni in cui cade il filosofo americano, l’altra è certamente che chi non crede in Dio dovrà fare più o meno ciò che crede utilitaristicamente opportuno, senza che gli altri o la legge morale possano interferire. Engelhardt, infatti, negando un sostegno razionale alle sue posizione etiche non fa altro che accomodarsi al pluralismo etico, sconfinando in una pigra neutralità dominata da assenza di valori.

    Questo, ad esempio, lo ha portato ad affermare la negatività di aborto, eutanasia ed infanticidio ma sostenendone la liceitàLo ha fatto ad esempio nel suo “Manuale di bioetica” (Il Saggiatore 1999, pp.155-161) scrivendo: «non tutti gli umani sono persone. Non tutti gli umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità del biasimo e della lode. Feti, infanti, ritardati mentali gravi e malati o feriti in coma irreversibile sono umani, ma non sono persone. Sono membri della specie umana, ma di per sé non hanno lo status di membri della comunità morale laica. Non possono né biasimare né essere biasimati, né lodare né essere lodati; non sono in grado nemmeno di fare promesse, di concludere contratti o di accordarsi su un atto di beneficenza. Per queste ragioni, in termini laici generali non ha senso parlare di rispetto dell’autonomiaper feti, infanti o adulti gravemente ritardati che non sono mai stati razionali. Essi non possiedono un’autonomia suscettibile di essere lesa dagli altri. Chi li tratti senza riguardo per ciò che non possiedono e non hanno mai posseduto non li priva di nulla che possa avere una dignità morale laica generale».

    Come ha sottolineato anche il prof. Antonio Allegra, docente di Storia della filosofia presso l’Università per stranieri di Perugia, «in uno scenario in cui il riferimento di Dio appare spesso difficile, rinunciare alle armi della razionalità è mossa dalle conseguenze ulteriormente devastanti […]. La difficoltà a procedere in un quadro pluralista che ha rinunciato ai fondamenti filosofici, e le conseguenze incongrue che ne derivano, sono evidenti proprio grazie alle specifiche posizioni di Engelhardt» sulla bioetica.


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    00 08/02/2015 22:06

    Il valore della mancanza di valori




    Il post modernismo è la proclamazione della fine dei valori e delle conquiste filosofiche/scientifiche della modernità, in particolare sarebbero superate le nozioni di “verità” e di “fondamento” sopratutto in senso metafisico. Sostenere una verità assoluta (“l’amore esiste”, “Dio è buono”, “tutti siamo fratelli” ecc.), sostengono, significa proclamare un “pensiero forte”, dunque autoritario e contrario alla democrazia: «Un pensiero che vuole a tutti i costi unificare in nome di una verità ultima […] urterebbe contro ogni ideale democratico» (G. Vattimo, “Dopo la cristianità”, Garzanti 2002, p.8).


    Vattimo cita Heiddegher e Nietzsche come principali ispiratori del pensiero postmoderno, eppure -come ha rilevato il filosofo Roberto Timossi-«i nazisti costruttori del campo di sterminio di Auschwitz non hanno forse riconosciuto nell’anticristiano Nietzsche un antesignano della loro ideologia aberrante? E non è stato l’antimetafisico Heiddeger tra i primi sostenitori della dittatura hitleriana?» (R. Timossi, “L’illusione dell’ateismo”, San Paolo 2009, p. 54). Per non parlare di David Hume che in nome del suo scetticismo antimetafisico propose l’atto intollerante di bruciare tutti i testi teologici e metafisici. Il “pensiero debole” antimetafisico è lui stesso un sostenitore di una verità (“non esistono verità!”) e dunque un “pensiero forte” ed è necessariamente contraddittorio. Affermare che la verità assoluta non esiste è lei stessa un’affermazione di verità assoluta.


    Il pensiero debole non è soltanto un’utopia, la sua affermazione ha prodotto anche gravi conseguenze. Lo ha spiegato Giovanni Giorgio, docente di Filosofia Teoretica alla Pontificia Università Lateranense: «A me sembra che la ‘ubriacatura postmoderna’, come qualcuno l’ha chiamata, stia oramai tramontando. Pur contro i nobili desideri di emancipazione dalle varie ‘metafisiche’ ideologicamente orientate a destra e a sinistra, il postmoderno ha dato la stura a derive di senso che, alla fine, nella moltiplicazione delle differenze di prospettive sulle cose, ha ratificatol’indifferenza delle differenze. Si tratta di un naufragio! In questa sostanziale equivalenza universale in cui si è quasi perso ogni criterio per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto abbiamo assistito a due processi concomitanti. Dall’un lato ognuno è stato rimandato a se stesso come arbitro del valore, arrivando ad una atomizzazione etica di massa: ognuno la pensa come gli pare, formando piccole ‘tribù etiche’ nel cyberspazio. Questo è il lato privato della vita delle persone, in cui l’emotivismo etico, articolato anche come ‘etica dell’autenticità’ è dominante. Dall’altro la vita sociale — che pure deve trovare qualche orientamento ora che i metaracconti della Modernità sono decaduti — ha trovato nel valore utilità il suo faro». Il prof. Giorgio parla giustamente di «sonno dogmatico in cui il nuovo ‘sacro’ è costituito dalla inviolabilità del ‘secondo me/noi’». E questo produce soltanto la frammentazione dell’io e il dubbio come unico valore immobilizzante, incapace di costruire una società unita e stabile.


    Per questo la prof.ssa Paola Ruminelli ha invocato «un Nuovo Umanesimo che ridia fiducia agli uomini del presente, i quali invano cercano nella tecnologia la risposta ad ogni loro richiesta. Un umanesimo che, prendendo atto della lezione del moderno (cui si deve la messa a fuoco del valore esistenziale della libertà) e stimolato a trovare risposte adeguate alle incoerenze del postmoderno, evidenzi come la metafisica sia un’esigenza costitutiva dell’uomo, presente in ogni momento del pensare e del sentire umano. Questo nello sforzo di superare lo stato confusionale in cui versa oggi la nostra società, che non permette di distinguere il positivo dal negativo, per orientare e sorreggere l’esistenza secondo verità e saggezza».


    Papa Francesco ha chiesto di fare attenzione alla proposta di Vattimo e dei post-modernisti, «perché lo spirito del mondo non ci vuole popolo: ci vuole massa, senza pensiero, senza libertà»ha affermato«Vuole che andiamo per una strada di uniformità, ci tratta come persone non libere. Il pensiero uniforme, il pensiero uguale, il pensiero debole, un pensiero così diffuso. Lo spirito del mondo non vuole che noi ci chiediamo davanti a Dio: “Ma perché questo, perché quell’altro, perché accade questo?”. O anche ci propone un pensiero prêt-à-porter, secondo i propri gusti: “Io penso come mi piace!”. Ma quello che lo spirito del mondo non vuole è questo che Gesù ci chiede: il pensiero libero, il pensiero di un uomo e di una donna che sono parte del popolo di Dio e la salvezza è stata proprio questa!».


    E’ proprio il pensiero metafisico che libera autenticamente l’uomo mentre l’assenza di valori ci rende soltanto più omologati e dipendenti dal potere, dunque schiavi del più forte. Come ha ricordato ancora il Santo Padre: «a volte si pensa che portare la verità del Vangelo sia fare violenza alla libertà. Paolo VI ha parole illuminanti al riguardo: “Sarebbe un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza di Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere opzioni che essa farà è un omaggio a questa libertà“. Dobbiamo avere sempre il coraggio e la gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo».


    La verità non si può imporre perché non la si possiede: la si è incontrata ed è Lei che possiede noi. E’ questo che ci rende liberi di fronte al mondo.



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    00 02/03/2015 12:47

    Chi non crede in Dio non può credere
    nemmeno all’esistenza dei diritti umani

    Queste dichiarazioni sono però una contraddizione, il motivo lo ha spiegato recentemente Frank Furedi, professore emerito di Sociologia presso l’Università di Kent, nonché membro della “British Humanist Association”«Esistono veramente il bene e il male?», si è chiesto. Si parla di “nuovi diritti”«ma chi dice che quelli sono i diritti? In base a quale criterio oggettivo l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’adozione dello stesso sesso sono diritti morali? Non esiste una norma morale nell’universo materialista dell’ateismo. Così gli atei sono costretti a rubare i diritti morali oggettivi da Dio, mentre sostengono che Dio non esiste».

    E’ il cosiddetto “argomento morale” che abbiamo già trattato in passato. Ovviamente non si vuole sostenere che chi non crede in Dio è costretto all’immoralità, tanti non credenti sono chiaramente persone di buona volontà, al contrario di tanti altri credenti. Il problema non é questo, la questione è semplicemente che «gli atei non possono giustificare la moralità». Infatti, solitamente, confondono «il sapere ciò che è giusto con il giustificare ciò che è giusto. Si dice ad esempio che “è giusto” amare. Sono d’accordo, ma perché “è giusto da amare”? Il problema non è sapere o no ciò che è giusto, ma in primo luogo sapere perché esiste uno standard autorevole del giusto».

    Violentare i bambini è ritenuto un male assoluto e oggettivo, nessuno direbbe che è un male relativo al periodo storico, alla società o al volere della maggioranza. Ma come può esistere un male assoluto oggettivo? Come giustificarne l’esistenza? Chi ha deciso cosa è bene e cosa è male oggettivamente ed eternamente? I credenti rispondono che è Dio ad avere infuso dentro l’uomo una legge morale a cui far riferimento, ma i non credenti cosa possono rispondere? La loro posizione, ha proseguito Furedi, è come chi «ha in mano un libro e ne conosce il contenuto, ma contemporaneamente nega l’esistenza del suo autore. Naturalmente è lecito farlo, ma non ci sarebbe nessun libro se non ci fosse l’autore. In altre parole, gli atei possono conoscere la morale oggettiva e contemporaneamente negare l’esistenza di Dio, ma se Dio non esiste non hanno alcuna capacità di giustificare la loro posizione», ovvero di adottare una posizione razionale (o ragionevole).

    Senza Dio «è tutta una questione di opinione, non esistono diritti umani e morale oggettiva». Chi sostiene il contrario è chiamato a giustificare l’esistenza di un bene e un male assoluti che prescindono l’uomo stesso, lo precedono. Una risposta però potrebbe essere: «”Nel nostro paese abbiamo una Costituzione che la maggioranza ha approvato. Non abbiamo bisogno di fare appello a Dio”. E’ vero», ha replicato l’umanista inglese, «non c’è bisogno di fare appello a Dio per scrivere le leggi, ma si deve fare appello a Dio se le si vuole giustificarle come qualcosa di diverso dall’opinione». Altrimenti la Costituzione andrebbe cambiata ad ogni sondaggio oppure ad ogni intervento di un giudice interventista. Se la morale è relativa chi è l’arbitro esterno che decide che la morale relativa di un giudice anti-gay, ad esempio, è oggettivamente sbagliata? La maggioranza? Ma la maggioranza ha davvero l’autorità di far diventare qualunque abominio un comportamento etico? E se la morale è l’opinione maggioritaria di un dato contesto culturale, chi può dire che i Paesi africani che hanno votato a maggioranza le leggi anti-gay hanno una morale sbagliata? Sbagliata rispetto a cosa? A quale assoluto? E con quale pretesa imporre la nostra morale relativa ad un popolo che decide in maggioranza qual è la morale che vuole seguire?

    «Ecco spiegato perché», ha proseguito Furedi, «la nostra Dichiarazione di Indipendenza motiva i diritti citando il Creatore. Riconosce il fatto che anche al cambiamento della legge o dell’ordine politico, alcuni diritti non possono cambiare perché vengono da Dio, non dall’uomo. La questione è che senza Dio non ci sono diritti umani oggettivi, non vi è alcun diritto di aborto o matrimonio omosessuale». In altre parole, ha scritto provocatoriamente, «non importa in quale lato della navata politica si è o quanto appassionatamente si crede in certe cause o diritti, senza Dio sarebbe tutto privo di fondamento. I diritti umani sarebbero semplicemente preferenze soggettive, così gli atei possono credere e lottare per i diritti di aborto, del matrimonio omosessuale e dei contribuenti, a patto che non giustifichino questi come diritti oggettivi». Se ci spingiamo ancora oltre, «non si può nemmeno credere che qualcuno abbia mai effettivamente cambiato il mondo in meglio. Una buona e oggettiva riforma politica o moralesarebbe impossibile se l’ateismo fosse vero. Il che significa che abolire la schiavitù o il razzismo non è stato qualcosa di buono, è stato solo diverso. Si può solo credere che il salvataggio degli ebrei dai forni crematori non era oggettivamente meglio del loro dell’omicidio, ed il matrimonio gay non è meglio che colpire un gay. Così come questo significa che amare gli altri non è meglio che stuprarli», senza un bene o male assoluti questo è semplicemente “diverso”. In un paradigma relativista l’etica è soltanto un fatto privato, un’opinione personale.

    Molti sicuramente penseranno che invece razzismo, omicidio, aggressione e stupro sono oggettivamente sbagliati e le persone hanno il diritto a non essere danneggiate. «Sono d’accordo», ha replicato il sociologo, «ma questo è vero solo se Dio esiste. In un universo ateo non c’è nulla di oggettivamente sbagliato, non ci sono limiti. Se sei arrabbiato con me per queste riflessioni, allora stai ammettendo che i comportamenti e le idee non sono tutte uguali ma che alcune sono più vicine alla verità morale oggettiva rispetto ad altre. Ma qual è la fonte di quella verità oggettiva? Non può essere variabile, decisa di volta in volta da fallibili esseri umani come voi o me. Essa può essere solo Dio, la cui natura immutabile è la base di ogni valore morale. È per questo che gli atei stanno inconsapevolmente rubando da Dio ogni volta che rivendicano un diritto».

    Siamo d’accordo con Frank Furedi, d’altra parte questa posizione è dimostrata dai grandi intellettuali non credenti. Peter Singer, il noto bioeticista ateo dell’Università di Princeton ha detto questo a proposito della pedofilia«Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora questo è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale»Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, nel suo “An Amoral Manifesto” ha scritto: «ho rinunciato del tutto alla moralità. Da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io non credo che esistano, mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità. Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».

    Il cosiddetto “argomento morale” mostra che escludere Dio dalla realtà comporta anche delle conseguenze nei propri convincimenti e, se si ama la coerenza, questo obbliga ad assumere una posizione necessariamente amorale di fronte al mondo: nessuna morale laica, nessun bene e nessun male, soltanto opinioni e sensazioni personali. In caso contrario, la propria posizione non potrà essere ritenuta ragionevole/razionale. Tanto meno razionalista.


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    00 27/02/2016 12:12

    L’origine della morale:
    spiegazione scientifica e insegnamento della Chiesa

    moralePer “psicologia evoluzionista” si intende il tentativo di spiegare il nostro comportamento estendendo la teoria di Darwin sull’evoluzione delle specie alla società e alla cultura umana. Correlato ad esso c’è il tema dell’origine della moralità presente nell’uomo e, accanto ad esso, il tema del rapporto tra cervello e coscienza.

    E’ un campo davvero vasto, pesantemente viziato oltretutto da chi strumentalizza l’evoluzione biologica per fini ateistici e da chi, cogliendo una presunta pericolosità per il suo credo religioso, combatte le spiegazioni evolutive cercando di screditarne il valore. Bisogna quindi procedere con cautela evitando di cadere in uno dei due estremi.

    Senza dubbio nessuno prende davvero sul serio la spiegazione che la nostra esperienza morale -cioè la capacità di valutare il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato-, possa davvero essere il frutto solamente del risultato di una serie di casuali incidenti controllati dalla selezione naturale. Se davvero qualcuno ne fosse convinto, non potrebbe più ritenere affidabili i suoi giudizi morali, rendendosi impossibile la vita. In secondo luogo, come ha spiegato il filosofo della scienza Telmo Pievani«per giustificare l’utilità di meccanismi adattativi così rigidi e immutabili da essere al tempo stesso preistorici e attivi ancor oggi, l’ambiente avrebbe dovuto essere uniforme e duraturo», ed invece «abbiamo vissuto in ambienti instabili e imprevedibili, dove, più che moduli di comportamento innati e rigidi, servivano al contrario flessibilità e innovazione comportamentale». Per questo possono essere definite «imbarazzanti spiegazioni evolutive».

    Parlando più specificamente dell’origine della morale, non solo della spiegazione dei nostri comportamenti, anche in questo caso non vi è alcuna prova convincente che essa sia un prodotto dell’evoluzione biologica. Il biologo Jeff Schloss, docente presso la Westmon Academy, ha spiegato:«Manca una spiegazione evolutiva pienamente adeguata della morale e non abbiamo una proposta evolutiva plausibile per le credenze morali associate ai nostri comportamenti. Ho realizzato una revisione della letteratura più recente e non riesco a trovare alcuna spiegazione coerente per le convinzioni morali o le intuizioni anche soltanto normative».

    Se è già decisamente controverso capire come dalla non-vita possa essere emersa la vita, ancora di più è comprendere come dalla non-morale possa essere emersa la morale e dalla non-coscienza la coscienza. Il celebre Charles Darwin, in “The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex”(p.19), ha ipotizzato che come diverse razze di cani o cavalli hanno sviluppato capacità diverse, così gradazioni distinte di capacità morali si sarebbero sviluppate anche tra le razze umane. Aggiungendo comunque: «Un essere morale è un essere in grado di paragonare le sue azioni e le sue motivazioni passate e future e di approvarle o disapprovarle. Non abbiamo ragioni di supporre che qualcuno degli animali inferiori abbia queste capacità» (p.88).

    Diversi evoluzionisti, come Francisco J. Ayala dell’Università della California, hanno sostenuto in modo convincente che «le norme morali sono prodotti dell’evoluzione culturale non di quella biologica, non esiste un comportamento morale negli animali» (F. Ayala, “L’evoluzione”, Jaca Book 2009, p.159). Molto interessanti, a questo proposito, anche le riflessioni di Mario De Caro, professore di filosofia morale presso l’Università Roma Tre:«secondo la pretesa naturalistica, la spiegazione biologica sarebbe in grado di dare conto delle origini evolutive della moralità e spiegare il contenuto stesso». Ma non è così, «le spiegazioni sono di tipo culturale non biologico» (in A. Lavazza, “Siamo davvero liberi?”, Codice Edizioni 2010, p.137). Tanto meno le convinzioni morali e la coscienza possono essere ridotte a epifenomeni del cervello, come spiegato dal filosofo Massimo Reichlin«La spiegazione della moralità non si può spiegare solamente con gli elementi di base del sistema neurale» (M. Reichlin, “Etica e neuroscienze”, Mondadori 2012, p.139-143). Importante il recente lavoro del neurochirurgo Massimo Gandolfini intitolato appunto: “I volti della coscienza. Il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza” (Cantagalli 2013).

    Interessante il lungo elenco di ricerche in merito pubblicate nel volume “Esperienza religiosa e psicologia” (Elledici 2009) nel quale, oltre a confutare in modo ottimale la spiegazione di Sigmund Freud sull’origine della coscienza morale a partire dall’equilibrio dei divieti, si evidenzia come lo sviluppo morale è innatoindipendente dallo sviluppo cognitivo ed universale, tanto che Lawrence Kohlberg è riuscito a ritrovare in tutte le culture gli stessi aspetti o categorie di giudizio morale e di valutazione (confutando quindi il relativismo sociologico). L’argomento, come dicevamo, è dunque molto ampio e affascinante.

    L’unica certezza è quella di poter tranquillamente escludere una spiegazione puramente evolutiva della morale. Al massimo, come evidenzia la pubblicazione in merito della Stanford Encyclopedia of Philosophy, è possibile sostenere che siamo influenzati dalle pressioni evolutive, ma sempre mantenendo da esse indipendenza e autonomia. Non ci sono affatto spiegazioni causali convincenti non solo per l’altruismo (ad esempio verso gli estranei o, addirittura, i nostri nemici), ma neppure per i comportamenti che tuttavia sembrano più radicati nel mondo naturale, come la cura verso la prole«anche se è vero che le pressioni evolutive che favoriscono cura della prole hanno fortemente influenzato il nostro atteggiamento verso i nostri figli, non ne consegue che questa sia la spiegazione completa del perché crediamo di avere obblighi particolari di cura per i nostri figli e per il motivo per cui ci comportiamo così verso di loro. Essa può essere solo una parte della spiegazione».

    «I nostri giudizi morali e i comportamenti che ne derivano», si spiega ancora, «non possono solo essere considerati semplici upshots causali di alcune forze biologiche e psicologiche, alla pari dell’attività di cooperazione delle api o del risentimento delle scimmie cappuccine dopo ineguali ricompense a parità di lavoro». Questo perché quando l’uomo emette un giudizio esso è il frutto, non dell’istinto, ma di un ragionamento complesso e astratto: «Tutto questo complica il progetto esplicativo in relazione ai pensieri, ai sentimenti e alle azioni degli agenti razionali». Concludendo: «è plausibile che mentre molti dei nostri giudizi morali più riflessivi e motivati ​siano sotto il dominio generale dell’intelligenza, molti altri giudizi morali, meno riflessivi, sono in gran parte attribuibili a influenze evolutive».

    Secondo l’insegnamento della Chiesa«la legge naturale è iscritta e scolpita nell’anima di tutti i singoli uomini; essa infatti è la ragione umana che impone di agire bene e proibisce il peccato. […] Questa prescrizione dell’umana ragione, però, non è in grado di avere forza di legge, se non è la voce e l’interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi. La legge naturale altro non è chela luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l’ha donata alla creazione». Come si evince, non c’è alcuna contraddizione tra queste verità morali e le più recenti conclusioni scientifiche.

     


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    00 15/03/2016 08:35

    L’etica laica messa in difficoltà
    da un semplice esperimento mentale

    whitewaterSecondo Richard Dawkins, il più famoso militante ateo del mondo (anche se poi si è definito agnostico, ed infine cristiano culturale), «l’universo che osserviamo ha precisamente le caratteristiche che dovremmo aspettarci se non vi è, in fondo, nessun disegno, nessuno scopo, nessun male e nessun bene, nient’altro che una cieca e impietosa indifferenza» (R. Dawkins, River out of Eden, p. 131,132).

    L’ex zoologo inglese ha ragione: senza Dio non può esistere alcuno scopo all’incidente evolutivo della vita umana, così come non possono esistere i valori oggettivi e assoluti, nessun “giusto” (comportamento retto) o “ingiusto” (comportamento non retto), nessun bene e male assoluti. Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, ha spiegato«poiché sono un ateo devo abbracciare l’amoralità. Senza Dio, non c’è moralità, niente è letteralmente giusto o sbagliato». Il bioeticista Peter Singer ha esemplificato meglio: «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora questo è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale».

    Senza un Bene e un Male preesistenti all’uomo dire, per esempio, che la pedofilia è un male diventa una mera opinione, con lo stesso valore dell’opinione contraria. Chi decide, infatti, chi ha ragione? In base a quale assoluto? Tutto è relativo a cosa pensa la maggioranza per cui, in una società a maggioranza pedofila anche la pedofilia diventa un bene. Certo, un non credente può senz’altro affermare che abusare i bambini è sbagliato e si tratta di un male assoluto, che rimane tale anche se tutto il mondo pensasse il contrario. Ma la sua posizione è irrazionale perché non riesce a giustificare il fondamento assoluto della sua dichiarazione. Come spiegato dal filosofo Emanuele Severino«in chi è convinto dell’inesistenza della verità, e in buona fede rifiuta la violenza, questo rifiuto è, appunto, una semplice fede, e come tale gli appare. E, non esistendo la verità, quel rifiuto della violenza rimane una fede che, appunto, non può avere più verità della fede (più o meno buona) che invece crede di dover perseguire la violenza e la devastazione dell’uomo» (C.M. Martini, “In cosa crede chi non crede?”, Liberal 1996, p.26).

    E’ stato proposto recentemente un esperimento mentale per capire meglio tutto questo. Immagina di essere un atleta sano di 20 anni sulla riva di un grosso fiume in piena. All’improvviso noti qualcosa nell’acqua e ti rendi conto che è una persona che sta annegando, è una donna anziana in preda al panico, senza fiato. Vagamente la riconosci come una povera vedova del villaggio vicino, ti guardi attorno ma non c’è nessuno, sei da solo. Hai pochi secondi per decidere se restare fermo oppure tuffarti e salvarla, consapevole che così facendo metterai la tua vita in serio pericolo. E’ razionale rischiare la vita per salvare questa straniera? E’ moralmente buono farlo?

    Il cristiano, ad entrambe le domande, può rispondere un deciso “sì”. Non c’è vita che non abbia un valore assoluto, perché voluta da Dio e non dal caso evolutivo. Siamo chiamati ad emulare l’esempio di Gesù che, non solo ha rischiato ma addirittura sacrificato la sua vita per il bene degli altri. La coscienza non è un’illusione, un epifenomeno del cervello che si può tranquillamente trascurare, e ci spinge a tuffarci nell’acqua. Per l’umanista secolare, invece, nascono grossi problemi e dilemmi. Tutto è soggettivo, biologicamente ed evolutivamente parlando il giovane del nostro scenario non ha nulla da guadagnare nel tuffarsi per salvare la donna, lei è povera ed anziana e non otterrà alcun vantaggio finanziario o riproduttivo. L’umanista secolare potrebbe riconoscere, intuitivamente, che il mettere a disposizione la propria vita per salvare l’anziana è una buona azione, un’azione morale. Ma non ha alcuna base razionale per dirlo e farlo, la decisione è tra l’empatia verso un estraneo (da una parte) e l’utilitaristico interesse personale dall’altro. Se il giovane deciderà di sedersi e guardare annegare la donna, l’umanista secolare non può criticarlo. Ha semplicemente agito in modo razionale. «Niente è letteralmente giusto o sbagliato», ci spiegano i filosofi atei.

    Questo è effettivamente un esempio calzante che abbatte l’esistenza di una presunta etica o morale laica. Ovviamente, non significa che l’ateo non può prendere decisioni etiche, tutti abbiamo amici non religiosi che vivono vite estremamente morali e ammirevoli. Il problema è che queste loro decisioni non possono essere giustificate se non su mere ed effimere opinioni e gusti personali, non ci sono imperativi morali vincolanti. Che sia bene sedersi ad osservare un bambino indifeso che viene torturato è un’opinione, valida quanto il suo opposto. Per lo stesso motivo, come abbiamo già scritto, chi non crede in Dio non può nemmeno credere davvero nei diritti umani.

    L'”argomento morale” aiuta quindi a comprendere come chi esclude Dio dall’esistenza è poi costretto, per coerenza, ad abbracciare l’amoralità e ilrelativismo, a parlare solo di opinioni e sentimenti/sensazioni personali. Non di “bene” e non di “male”, non di “coscienza”, non di “giusto” e non di “sbagliato”. L’ateo che si sente a disagio in questa condizione dovrebbe comprendere che allora esiste una legge morale dentro di noi che ci indica cosa è davvero bene (non torturare i bambini) e cosa è davvero male (torturare i bambini), e ci convince che non si tratta di una mera opinione personale ma di un assoluto che rimarrà tale per sempre, indipendentemente da tutto perché è una legge preesistente all’uomo stesso. Una coscienza che non è un’illusione, quindi, ma la firma che il Creatore ha lasciato dentro di noi.


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    00 11/05/2016 22:47

    Morale laica, anche i non credenti ne sono diffidenti



    Relativismo«Come vivere senza la grazia? Come essere santi senza Dio? È il problema che domina il ventesimo secolo». La citazione di Albert Camus risulta davvero azzeccata se si leggono i risultati di un recente e curioso studio, condotto dal dipartimento di Psicologia della Nottingham Trent University, in Inghilterra.


    La ricerca, pubblicata su The International Journal for the Psychology of Religion, ha voluto valutare il “pregiudizio anti-ateo” della società inglese, testando un campione di persone sulle reazioni ad una vignetta in cui venivano descritte le azioni di un insegnante disonesto ed inaffidabile. Secondo i risultati, il 66% ha detto che l’uomo era probabilmente un insegnante ateo. La nota curiosa è che il 43% dei partecipanti si è dichiarato ateo, il 33% invece era cristiano, ed il resto apparteneva ad altre fedi. «La diffidenza anti-atea»hanno concluso«è profondamente e culturalmente radicata indipendentemente al gruppo di appartenenza di un individuo, tant’è che anche la maggior parte degli atei si è scoperta provare la stessa istintiva diffidenza».


    Probabilmente avrebbe risposto allo stesso modo anche il celebre filosofo laico Norberto Bobbio, dato che scrisse«La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole». La morale laica risulta irragionevole agli occhi di Bobbio perché è priva di fondamenta, se manca il chiodo a cui appendere l’etica allora tutto si gioca nelle mere e vacque opinioni personali. In una intervista, disse: «Gli uomini sono cattivi. Il male è la storia umana. È la sconfitta di Dio e la sconfitta della ragione. Questo secolo lo dimostra più di ogni altra epoca. E il cristianesimo, dov’è il cristianesimo? […]. Come diceva Croce, non possiamo non dirci cristiani. Senza l’etica cristiana non c’è convivenza. Ma il cristianesimo come fede è un’altra cosa. E io non riesco a non dubitare». Anche Jean-Paul Sartre viveva dilemmi simili: «Senza Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori, poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire» (J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia 2007).


    Come ha ben spiegato il card. Carlo Maria Martini«chi non fa riferimento» a princìpi cristiani, «dove trova la luce e la forza per operare il bene non solo in circostanze facili, ma anche in quelle che mettono alla prova fino al limite delle forze umane e soprattutto in quelle che pongono a confronto con la morte? Perché l’altruismo, la sincerità, la giustizia, il rispetto per gli altri, il perdono dei nemici sono sempre un bene e devono essere preferiti, anche a costo della vita, ad atteggiamenti contrari? E come fare per decidere con certezza nei casi concreti che cosa è altruismo e che cosa non lo è? E se non c’è una giustificazione ultima e sempre valida di tali atteggiamenti, come è praticamente possibile che essi siano sempre prevalenti, che siano sempre quelli vincenti? Se persino coloro che dispongono di argomenti forti per un comportamento etico fanno fatica a conformarvisi, che cosa sarà di coloro che dispongono di argomenti deboli, incerti è vacillanti?».


    Data l’impossibilità di rispondere adeguatamente a queste domanda, l’arcivescovo di Milano concludeva: «Faccio fatica a vedere come un’esistenza ispirata da queste norme (altruismo, sincerità, giustizia, solidarietà, perdono) possa sostenersi a lungo e in ogni circostanza se il valore assoluto della norma morale non viene fondato su princìpi metafisici o su un Dio personale. Che cosa fonda infatti la dignità umana se non il fatto che ogni essere umano è persona aperta verso qualcosa di più alto e di più grande di sé? Solo così essa non può essere circoscritta in termini intramondani e gli viene garantita una indisponibilità che nulla può mettere in questione» (C.M. Martini, In cosa crede chi non crede, Liberal 1996, pp.20,21).



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    00 13/06/2016 09:06

    Il marchese De Sade fu coerente:
    senza Dio, solo l’esaltazione illimitata del proprio Io

    de sade«Il solo Dio che esiste e che ha senso adorare è l’immagine esaltata del proprio Io. Non è questo il ritratto dell’uomo ipermoderno?». Interessante la riflessione odierna dello psicoanalista Massimo Recalcati, che sviluppiamo a nostra volta.

    Senza Dio, l’uomo moderno inevitabilmente si concepisce come dio di se stesso e quindi, per coerenza, un essere onnipotente, privo di limiti. Ha proseguito Recalcati: «Egli agisce come un Dio del godimento che giudica ogni esperienza di rinuncia priva di senso. “Perché no?” è la sua sola massima morale, la quale scalza violentemente quella inutilmente “altruista” e sacrificale dell’amore per il prossimo».

    Se esiste soltanto questa vita, la vera libertà è l’assenza di ogni limite, di ogni privazione. Recalcati chiama in causa giustamente il marchese De Sade. Non esiste alcun peccato, scriveva il “divin marchese” nel 1782 dalla prigione di Vincennes, soltanto«bisogni preordinati dalla natura o conseguenze ineluttabili» (D.A.F. de Sade, Dialogo fra un prete e un moribondo, Mondadori 1976, p.11). E oggi, il filosofo ateo Joel Marksripete«Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».

    Per De Sade, autore seriale di stupri e violenze (il “sadismo” è chiamato così in suo onore), non ha senso porre confini alla ricerca del piacere, perché esso è il principale impulso che proviene dalla nostra natura animale predeterminata. Le passioni e i piaceri sfrenati, scrive, «altro non sono che i mezzi di cui la natura si serve per condurre l’uomo a realizzare i disegni che essa stessa ha su di lui» (D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, Mondadori 1976, p.25). Il filosofo cattolico Roberto Timossi, giustamente commenta: «Se non c’è Dio, non ci sono sostanze spirituali, c’è solo la materia sensibile, e pertanto il piacere corporale è l’unico vero scopo dell’umana esistenza. Per De Sade, non si può essere atei e non essere immorali» (R.G. Timossi, Nel segno del nulla, Lindau 2016, p.367). L’edonismo come unico vero valore, perché senza Dio ogni limitazione al proprio soddisfacimento rappresenta una mancata autorealizzazione dell’uomo-dio.

    Ci ha sempre incuriosito la posizione filosofica di De Sade perché la riteniamo, forse, la più coerente per chi vuole vivere prescindendo totalmente da Dio. Nessun bene, nessun male, nessuna inspiegabile e contraddittoria morale laica. Solamente l’Io che cerca continua soddisfazione ai suoi impulsi, ai suoi istinti e vive in funzione di essi. Ogni gesto altruistico (che guarda oltre sé, dunque), infatti, presuppone un valore nell’altro che non può ragionevolmente sussistere in una visione dell’uomo come frutto imprevisto del cieco caso della selezione naturale. Tanto che il marchese arriverà a scrivere: «Il destino di una donna è di essere come una cagna o una lupa: deve appartenere a tutti quelli che la vogliono» (D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, Mondadori 1976). L’essere umano ridotto all’animale, esattamente in linea con i tentativi del neodarwinismo riduzionista.

    De Sade, seppur venga oggi celebrato a Parigi con tanto di mostre culturali, fu chiaramente un pazzo criminale. Ma ciò che è interessante è che ilprincipio teorico della sua posizione esistenziale è espressione di un ateismo radicale e, finalmente, coerente: l’unico senso di questa vita priva di senso, può soltanto essere la ricerca sfrenata e illimitata del proprio insoddisfabile piacere. «Cosa sarebbe la vita del prossimo di fronte alla Legge assoluta del godimento?», si domanda opportunamente Recalcati. «Nulla, il solo Dio che esiste e che ha senso adorare è l’immagine esaltata del proprio Io. Non esiste nessun prossimo se non se stesso».

    «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!», scrisse De Sade in Nouvelle Justine (1797). Eppure, anche il “divin marchese”, dopo aver pienamente realizzato tutte le sue perversioni, arriverà a riconoscere qual è davvero il fondamento della sua esistenza:«quello del nulla», scriverà nel Dialogo fra un prete e un moribondo (Mondadori 1976, p.20). Il Nulla come unica alternativa a Dio, nessuna via di mezzo.


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    00 29/04/2017 16:14

    La liquida amoralità: l’unica scelta coerente senza Dio




    soggettivismoSe Dio non esiste allora non può esistere il fondamento della morale, non si può parlare di valori, di diritti, né di un Bene e di un Male assoluti: solo un debole e capriccioso relativismo estremo. A riconoscerlo è innanzitutto Joel Marks, filosofo laico dell’University di New Haven, nel suo Manifesto amorale«Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. L’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità».


    Ma indirettamente lo ha confermato, messo alle strette, anche l’attivista Matt Dillahunty, ex presidente della Atheist Community di Austin (Texas): «Il campo di concentramento nazista di Dachau è stato oggettivamente un male? Non lo so, non lo so. Si potrebbe dire che l’Olocausto è stato ovviamente un male perché non ha fatto il bene delle vittime, il problema è che le persone decidono loro stesse cosa è il bene. Se sono allevate nel darwinismo sociale del regime nazista potrebbero credere che l’Olocausto è stato il meglio per il benessere della società nel suo complesso». La sospensione di qualunque giudizio di merito (il “non lo so” di Dillahunty) è l’approdo obbligato.


    Se non c’è nulla e Nessuno preesistente l’uomo, allora non possono esservi alcun Bene e Male preesistenti, indipendenti dall’uomo stesso. Tutto è una mera opinione la quale, però, ha lo stesso valore dell’opinione contraria. Chi decide, infatti, chi ha ragione? Perché dovrei scegliere il bene se ne ricavo uno svantaggio personale, essendo questa l’unica vita che ho da vivere? «Non esistendo la verità», ha scritto il filosofo Emanuele Severino«il rifiuto della violenza rimane una fede che, appunto, non può avere più verità della fede (più o meno buona) che invece crede di dover perseguire la violenza e la devastazione dell’uomo» (C.M. Martini, In cosa crede chi non crede?, Liberal 1996, p.26).


    Nel 2011 il filosofo americano William Lane Craig ha anche confutato l’argomento principale di coloro che, comprensibilmente, rifiutano di dover abbracciare l’amoralità come unica posizione coerente alla loro non fede. Appoggiandosi a Platone, infatti, affermano che l’esistenza del Bene sia una sorta di idea auto-sussistente, un’entità in sé e per sé. Il bene esisterebbe, semplicemente. La giustizia, la misericordia, l’amore, la tolleranza, esisterebbero in se stessi privi di fondamento. Ma «questa visione», ha spiegato Lane Craig, «è semplicemente incomprensibile. Cosa significa che il valore morale della giustizia auto-sussiste? Capisco cosa significa dire che qualche azione è giusta, ma i valori morali sembrano essere proprietà delle persone, quindi è difficile capire come la giustizia possa esistere solo come una sorta di astrazione».


    Inoltre, è un punto di vista debole poiché mantiene nel relativismo e non implica affatto alcun obbligo morale. «Supponiamo, per amor di discussione, che i valori morali come la giustizia, l’amore, tolleranza, sussistano per conto proprio. Perché questo dovrebbe porre un obbligo morale su di me? Perché l’esistenza di questo regno delle idee dovrebbe rendermi misericordioso? Chi o che cosa stabilisce un tale obbligo?». Va anche notato, inoltre, che se si assume questo punto di vista, «vizi morali come l’avidità, l’odio e l’egoismo presumibilmente esistono anch’essi come astrazioni. In assenza di un Legislatore morale, nessuno mi obbliga ad allineare la mia vita ad una serie di idee astratte piuttosto che all’altra. In assenza di una Legge morale data, la morale atea platonista è priva di qualsiasi base di obbligo morale». Si ritorna dunque da capo.


    L’esistenzialista Jean-Paul Sartre ammise: «Senza Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile, non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire» (in L’esistenzialismo è un umanismo, 1945). Senza Dio, tutto è permesso. Ma la conseguenza più devastante del dover abbracciare l’amoralità e il relativismo estremo è che la vita si immerge «in una selva di irriducibile pluralità», ha spiegato il filosofo francese Philippe Nemo, direttore del Centro di ricerche in Filosofia economica presso ESCP Europe. L’«assenza di una visione unificatrice» condanna all’affermare che il «non-Senso sarebbe l’unico e vero Senso. Almeno le grandi catastrofi come la Shoah dovrebbero aver fatto ragionare l’uomo moderno: se infatti non esiste un Bene assoluto, che senso ha parlare di un Male assoluto? E se non c’è un Male assoluto che senso ha, alla fin fine, condannare la Shoah?». Così, le attività umane legate al non-senso, «private di un ancoraggio trascendente, si disperdono in un assurdo moto browniano, che condanna l’uomo a tentare di creare un senso su misura, sulla scia di una preoccupazione parziale che egli ben percepisce, comprendendo, a ragione, che tutte le piccole cose di cui si occupa finiranno nell’abisso, non essendo assicurate a qualcosa di più grande» (P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, p. 129, 130)


    L’amore alla coerenza dovrebbe quindi portare ad ammettere che, senza un fine trascendente, la vita è inevitabilmente ridotta all’assurda liquida del soggettivismo morale e, quindi, del nichilismo. Eppure, aggiunge il filosofo Nemo, «l’intima coscienza di ogni uomo sa che questa mancanza di senso è un errore», un’ingiustizia verso la natura umana che aspira l’infinito, brama il Senso e percepisce continuamente l’esistenza di valori oggettivi e di un Bene e di un Male necessari, e a sé preesistenti.



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