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LA CUSTODIA DEL CREATO

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    00 03/09/2011 16:51

    LA CUSTODIA DEL CREATO NELL’ETICA CRISTIANA



    L’emergere della “questione ambientale” nella riflessione teologica e magisteriale cattolica


    L’aumento della popolazione mondiale e i mezzi d’intervento sulla natura messi nelle mani dell'umanità dalla tecnologia hanno fatto esplodere la cosiddettaquestione ecologica”1 o “questione ambientale”, sino al punto che, soprattutto dopo i mutamenti nell'Est Europa, la custodia e la salvaguardia del creato sembrano sempre di più occupare il posto, nella preoccupazione diffusa, che nel recente passato aveva la questione degli armamenti nucleari2. La coscienza dei cristiani non poteva non esserne coinvolta e le Chiese sentono sempre di più il dovere di farsi promotrici di un'opera di sensibilizzazione, di orientamento e di conversione.

    Così la “questione ambientale” è diventata oggi giorno di casa anche nel mondo cristiano come questione indubbiamente seria e preoccupante. Anzi, per usare l'espressione di Giovanni Paolo Il, essa è una «questione vitale per la sopravvivenza dell'uomo»3.

    1 Ricordiamo che lo stesso termine “ecologia” fu introdotto dal biologo tedesco Haeckel solo nel 1866.

    2 La comunità mondiale è diventata consapevole di questo problema. Infatti i tre principali documenti sullo sviluppo e l'ambiente sottoscritti dai principali Capi di stato nel giugno 1992 al Summit sulla Terra a Rio In Brasile, la Dichiarazione di Rio sull'ambiente e lo sviluppo, la Convenzione sulle variazioni climatiche e la Convenzione sulla diversità biologica hanno tutte sottolineato il concetto delle nostre responsabilità verso le generazioni future.

    3 Pace con Dio Creatore. Pace con tutto il creato. Messaggio per la Giornata mondiale della pace 1990

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    00 03/09/2011 16:53

    Già con l'enciclica iniziale e in qualche modo programmatica di Giovanni Paolo II Redemptor hominis (1979) la «questione ambientale» si aggiunge, con progressiva importanza, nell'indice dei temi del magistero sociale pontificio. Il rapporto fattosi problematico fra uomo e natura è collocato, infatti, fra i «segni dei tempi» caratteristici della condizione di vita dell'uomo moderno:


    «L'uomo oggi, sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà (...). L'uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà del Creatore che l'uomo comunicasse con la natura come 'padrone' e 'custode' intelligente e nobile, e non come 'sfruttatore' e 'distruttore' senza alcun riguardo» (n. 15).


    Si deve, però, ammettere che la presenza di questa questione all’interno della riflessione cristiana cattolica è un fatto tutto sommato recente. E la cosa non sorprende, dato 1) l'emergere inquietante, negli ultimi due decenni, di problemi fino a prima inimmaginabili e 2) che i primi gruppi e movimenti che hanno avvertito sensibilmente e propugnato efficacemente la questione ecologica non sono di matrice e provenienza culturale cristiana.


    Ma c'è di più. Si sono levate, infatti, fin dall’inizio del sorgere del “problema ecologico” voci insistenti ad accusare il filone ebraico -cristiano di essere il responsabile primo, se non l'unico, di quella localizzazione antropocentrica e di quell'atteggiamento d’irresponsabile strumentalizzazione dominatrice che sono alla base dell'incombente disastro ecologico.



    La tradizione ebraico – cristiana sta alla radice dell’attuale “crisi ecologica”?

    Basti ricordare, già all’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II, l’articolo di Lynn White junior1 – della Scuola sociologica di Chicago – che, proponendo per primo l’espressione “crisi ecologica”, chiama direttamente in causa la fede cristiana quale origine dell’attuale scompenso ambientale. Tre, secondo l'Autore, le radici della responsabilità antiecologica del cristianesimo, ereditate dal giudaismo.

    La prima, è l'atteggiamento di dominio e di indiscriminato sfruttamento della terra che scaturirebbe dal comando dato da Dio all'uomo di «soggiogarla» e di «dominare» sulle sue creature (Gn 1,26-28).

    La seconda è relativa alla desacralizzazione operata dal Cristianesimo sulla natura, ridotta al rango di realtà creata e, come tale, sottratta alla sfera di intangibilità che essa aveva nelle religioni pagane.

    La terza è riferibile al ruolo svolto dalla religione giudaico - cristiana sullo sviluppo della scienza e della tecnologia. Infatti, secondo l’autore, l'abbandono della concezione ciclica del tempo, legata ai ritmi della natura, in favore di una visione lineare generatrice d’illusoria fiducia nel progresso. A questo si deve non solo il sorgere della scienza moderna, strumento di sempre più ampio potere manipolatore, ma anche quell’estraneità dell'uomo nei confronti della natura e del cosmo, che ne rende psicologicamente possibile lo sfruttamento e lo scempio.


    Da allora diversi autori con diverse motivazioni hanno ricondotto fondamentalmente alla concezione ebraico - cristiana del creato e della posizione dell’uomo nel creato, le radici strutturali dell’attuale “crisi ecologica”. Alle tre motivazioni di White se ne sono aggiunte altre:

    il disinteresse della teologia e della spiritualità cristiana per questo mondo, in nome di questioni speculative astratte (processioni trinitarie, presenza reale ... ) e quello sguardo fisso sull'altro mondo2;

    la concezione del lavoro sviluppatasi, soprattutto, in ambiente monastico, e volta a trasformare la natura, a dominarla per il servizio dell'uomo3;

    ponendo l'uomo non come parte, ma come signore della natura, il cristianesimo ha reso possibile la moderna mentalità consumistica, che distrugge sconsideratamente e pur necessariamente (pena la destabilizzazione dell'intero sociosistema) le risorse naturali4.


    Di fronte a tali drastiche prese di posizione, J. Moltmann pone una precisa osservazione storico – ermeneutica sulla questione:


    «Spesso responsabile del fatto che l'uomo ha acquisito un rapporto di potere sulla natura ed ha alimentato la propria volontà di potenza fino a renderla sfrenata, è considerata la tradizione giudaico - cristiana, la quale avrebbe riconosciuto nell'uomo la vocazione a esercitare il dominio sulla terra... Ma questa 'concezione antropocentrica del mondo', che la Bibbia prospetterebbe, risale ad oltre tremila anni fa. I fattori determinanti devono essere stati quindi altri»5


    Una più attenta lettura della storia, porta a individuare, infatti, le più probabili cause degli attuali danni ambientali in quattro fattori determinanti:

    il primo di essi nasce da una duplice erronea convinzione: l'inesauribilità delle risorse naturali (con la conseguente indiscriminata libertà del loro sfruttamento) e la capacità di autoriparazione, da parte della natura, dei danni a essa inferti;

    il secondo è relativo alla logica del profitto da ottenersi con i minimi costi, soprattutto quando questi non sono direttamente destinati alla produzione del guadagno;

    il terzo va identificato nella politica energetica mondiale che h privilegiato fonti abbondanti e di facile trasporto anche se altamente inquinanti (petrolio e carbone);

    l'ultimo, è il riflesso dell'attuale modello di sviluppo occidentale (e dall'Occidente esportato in tutto il mondo) che tende esasperatamente al benessere e al consumo noncurante del danno ambientale.


    1 L’intervento apparso sulla rivista «Science» nel 1967 (The historical roots of our ecological crisis) costituisce un punto di riferimento obbligato sia perché cronologicamente fu il primo a porre la questione in questi termini (e molti successivi interventi ad esso si rifanno), sia perché offrì ed offre ancora oggi lo spunto a una serie di fondamentali considerazioni etiche.

    2 vedi Carl Amery in un saggio del 1972 dal titolo significativo La fine della provvidenza

    3 vedi Udo Krolzik, Crisi dell'ambiente - Conseguenza del cristianesimo

    4 vedi la posizione dell'esegeta e psicologo tedesco Eugen Drewermann in Il progresso mortale. Distruzione della terra e dell'uomo nell'eredità del cristianesimo.

    5 Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Brescia 1986

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    00 03/09/2011 16:54


    Il pensiero biblico

    Ma più profondamente, si deve inoltre osservare la totale infondatezza delle accuse mosse al genuino pensiero biblico. E sono proprio i brani della Genesi «incriminati» [connotati dai due verbi - chiave «dominare» (radah) e «soggiogare» (kabas)] a permettere un’adeguata riflessione teologica ed etica sul rapporto Dio – mondo - uomo1.

    Al di là di alcune letture superficiali che possono essere state fatte, la più moderna esegesi identifica nell'idea di «dominio» insita nel verbo radah il governo del mondo, il suo ordinamento gerarchico alla superiorità dell'uomo fatto ad immagine di Dio. Anzi, secondo alcuni esegeti, l'«immagine» di cui parla il testo sacro consisterebbe proprio in tale attitudine a governare il mondo.

    Quanto al secondo verbo, esso significa letteralmente «porre il piede su qualcosa in segno di dominio» e quindi prendere possesso di un dato territorio. In sostanza vi è espressa la consegna del mondo come dimora dell'umanità. Dio, dunque, dà il mondo all'uomo come suo habitat perché vi abiti e lo governi, ordinatamente «per suo conto». E un bene che gli è proprio ma che non gli appartiene, un bene da custodire responsabilmente ma non inattivamente. Anzi coltivandolo perché renda, perché fruttifichi, perché in esso sia perpetuata e moltiplicata l'opera della creazione.


    La dichiarazione Futuro della creazione e futuro dell'umanità della Conferenza episcopale della Germania Occidentale del 23 Settembre 1980 così precisa la posizione dell'uomo nel mondo, raccogliendo in sintesi le indicazioni offerte dai primi due capitoli del libro della Genesi:


    «La Bibbia inizia con due racconti della creazione. Entrambi danno espressione al rapporto fra l'uomo e il resto della creazione. Nel primo racconto della creazione Dio dice ai primi uomini: 'siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci dei mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra' (Gen 1,28). La grandezza sovrana di Dio si riflette nell'uomo che, in quanto immagine e rappresentante di Dio, deve dominare la creazione e assoggettarla a sé. Nel secondo racconto della creazione l'originario ambiente di vita dell'uomo è il giardino 'perché lo coltivasse e lo custodisse' (Gen 2,15).

    Dominare e custodire sono le due diverse parole fondamentali che dominano nei due racconti (... ). L'uomo non è riducibile alla funzione di lavorare la terra e plasmare il mondo; allo stesso modo il mondo non si limita ad essere semplice materiale, materia grezza per l'uomo. Dunque, dominare e custodire non sono degli opposti, bensì s’integrano a vicenda. Le creature posseggono il loro valore proprio, sono indipendenti le une dalle altre e sono importanti le une per le altre (cf. Sal 104). Cionondimeno, il loro significato per l'uomo potrebbe essere racchiuso in questa formula: le altre creature esistono per l'uomo, ma l'uomo esiste solo con esse» (Il, n. 3).


    E’, dunque, proprio il tema centrale dell'uomo come immagine di Dio a precisare senza possibilità d’equivoci la configurazione, lo statuto, le possibilità e i limiti dell'azione trasformatrice del mondo. Per una signoria che non è sul ma nell'universo e si volge alla sua realizzazione compiuta secondo il disegno di Dio creatore. Lo squilibrio e la devastazione, piuttosto, provengono dal travisamento dell'Adamo d’ogni tempo e d’ogni luogo, che si considera illusoriamente depositario di una supremazia autonoma e autogena (Gn 3). Da questa radice spuria, estranea all'ideale creativo originario e ad esso opposta, viene l'abuso manipolatore distruttivo.


    Per la Bibbia, dunque, la desacralizzazione della natura - l’affermazione che essa, in quanto altra da Dio, non è né può essere divina, la sua veste o la sua epifania - non coincide in alcun modo con la sua riduzione ad oggetto sul quale il soggetto umano può rivendicare il dominio a piacimento. Per la Bibbia, infatti, la natura, pur non essendo divina - cioè altra da Dio - resta sempre di Dio, appartenente a lui e non all’uomo. Qualsiasi educazione ad un’etica ecologica, soprattutto per chi si muove nell’orizzonte della tradizione ebraico-cristiana, non può ripartire che da qui: da questa pagina creazionale che se, per un verso, fonda la fuoriuscita del soggetto umano dalla totalità, come vuole la modernità, per l’altro lo mantiene, diversamente da quanto ha pensato e realizzato la modernità, sotto un vincolo che gli impedisce di trasformare il mondo in oggetto.

    Stando al primo capitolo della Bibbia, la natura, infatti, non è un soggetto di dominio, ma una realtà sette volte buona (tov): tutta buona (essendo questa valutazione ripetuta per ciascuna delle cose create) e pienamente buona (essendo il numero sette il numero della perfezione e della compiutezza). E lo è, per il testo biblico, almeno ad un triplice livello.


    Ad un primo livello la natura è buona perché in essa quanto vi si trova o, vi si potrà trovare, risponde adeguatamente al bisogno di chi l’abita. I traduttori dei LXX della Bibbia, per esprimere questo livello di bontà, hanno fatto ricorso al termine krestos, che vuol dire utile. L’uomo non è una «parte» della natura ma il suo «centro»: però, non in quanto dominatore, bensì in quanto destinatario principale: e destinatario principale non in quanto intelligente o progettuale, ma in quanto povero o essere di bisogno. Ne consegue che, in un’educazione per un’etica ecologica, la vera conversione da operare, non è l’abbandono dell’antropocentrico per fare ritorno al cosmocentrico, ma il passaggio dall’antropocentrismo, inteso come dominio, all’antropocentrico inteso come bisogno e povertà. Il vero antropocentrismo, soprattutto quello della Bibbia, non è l’antropocentrismo di chi, con la sua intelligenza e il suo potere tecnologico, domina la natura, bensì quello di chi, consapevole della destinazione della natura alla felicità dell’uomo, la pone, per principio e di fatto, a suo servizio.


    Ad un secondo livello la natura è buona perché essa, oltre a rispondere al bisogno umano, vi risponde con quella particolare modalità che è la compiutezza ed armonia delle forme che appagano l’occhio che le guarda. In questa seconda accezione le cose sono buone perché belle. E’ stata soprattutto la grecità ad avere colto e oggettivato questa dimensione di bontà, per la quale, come è noto, il mondo è kalos kai agathos: dove il bello non sta accanto al buono ma dove, più in profondità, il bello si identifica con lo stesso buono.


    Ma al di là della bontà come bellezza, il testo biblico conosce un terzo livello di bontà - quello più radicale e fondativo dei due precedenti - che non si identifica con essa ma la trascende. Solo riscoprendo questo terzo livello di bontà, per la Bibbia è possibile un rapporto con la natura né di dominio né di dipendenza, ma di rispetto e di tenerezza che, nel suo movimento, assume il regno animale e lo stesso regno vegetale. Per la Bibbia e per le grandi tradizioni religiose, la natura è buona - «sette volte» buona, cioè totalmente buona soprattutto secondo questa ultima e radicale accezione: non solo perché risponde al bisogno umano, non solo perché è armonia e perfezione di forme, ma soprattutto perché nasconde e rivela, nella sua profondità ultima, inaccessibile e indicibile, una presenza generosa che, pur sottesa ad essa, non si identifica con essa e la cui bontà è altra sia da quella dell’appetizione che da quella della perfezione: una bontà da non fruire come utile o da riprodurre come forma, ma da accogliere e acconsentire. I LXX, per esprimere questo livello del tob biblico, hanno fatto ricorso al termine agathos, inteso non più come l’equivalente del bello ma come il suo trascendimento. Nell’accezione biblica, infatti, l’affermazione del mondo kalos kai agathos non equivale a identificare la bellezza con la sua bontà, come per la grecità, ma dischiudere, dentro la bellezza del mondo, un’ulteriore dimensione che la trascende.


    1 A ciò si potrebbero aggiungere i temi veterotestamentari del sabato e della terra (dono di Dio a vantaggio di tutti) e quelli neotestamentari della diaconia (che esclude ogni dominio e sfruttamento) e della nuova creazione (che ora soffre e geme le doglie del parto). Insieme con il compito aperto alla riflessione teologica per una più approfondita e profetica trattazione del significato dell'attività umana nell'universo nella sua esplicazione presente e nella sua proiezione escatologica.


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    00 03/09/2011 16:55


    Il punto di partenza per una riflessione teologica cristiana sulla “questione ambientale”

    Precisata la questione se direttamente e conseguentemente la prospettiva biblica stia alla base dell’odierno “scompenso ecologico”, ed indicata la posizione di fondo dei testi sacri, è bene, però, rimarcare il “luogo”, la “rilevanza” della “questione ecologica” all’interno della prospettiva cristiana, sia dal versante più specificatamente teologico, sia dal versante più pastorale.

    Due paiono essere le questioni cruciali – interdipendenti - attorno a cui muoversi per comprendere l’uomo come custode del creato:

    1. Anzitutto, che rilievo ha la crisi ecologica per il mondo e la coscienza cristiana? Essa esiste, non vi è dubbio. Ma è solo uno dei problemi che si agitano in un'epoca assillata da cento altri, o è una sfida decisiva, un kairós per i cristiani?

    2. Secondo: è superabile l'opzione antropocentrica della visione cristiana della natura e del mondo? Se, come afferma quasi la totalità dei filosofi e teorici «verdi» un'etica ecologica deve necessariamente prescindere da una concezione antropocentrica, è possibile per il cristianesimo, caratterizzato da una visione «forte» dell'uomo, sottostare ad una simile condizione?


    Per Moltmann1 la riflessione su Dio creatore è inestricabilmente legata alla riflessione sul creato stesso; la crisi dell'ambiente è crisi stessa degli esseri umani e pone in primo piano nuove questioni, prima d’oggi sconosciute: che cosa significa la fede in Dio creatore e nel mondo come sua creazione, se riferita allo sfruttamento industriale progressivo e alla distruzione di una natura che non tornerà mai come prima? La risposta va cercata, secondo Moltmann, in una teologia «non gerarchica», decentralizzata, comunionale, in altri termini liberata dall'opzione antropocentrica, tale da considerare anche in sé il cosmo creato, per cogliervi i segni della «inabitazione» di Dio:


    «Una dottrina ecologica della creazione implica un nuovo modo di pensare Dio, dove al centro non sta più la distinzione tra Dio e mondo, bensì la conoscenza del fatto che Dio è presente nel mondo e il mondo in Dio»2.


    Per Moltmann, quindi, l'emergenza ecologica diviene il «momento decisivo» che interpella i cristiani ad un ripensamento complessivo non solo del proprio agire ed operare, ma della comprensione stessa della propria fede; solo rivisitando l'immagine stessa di Dio, è possibile anche sviluppare una parallela concezione comunionale e non di, dominio del rapporto dell'uomo con la natura, in ciò fornendo il contributo specifico del cristianesimo ad una più generale metanoia del mondo moderno.


    Ma la prospettiva teologica3 e magisteriale cattolica parte dal presupposto che la teologia della creazione si può impostare adeguatamente solo nella cornice dell'antropologia teologica; l'aspetto cosmologico è sempre stato letto antropologicamente dalla tradizione cristiana, e un discorso autonomo sul cosmo in sé non sarebbe di competenza della teologia. Tutto questo presuppone un «ordinamento gerarchico» della natura funzionalmente antropocentrico (e, più oltre, teocentrico). Tale pensiero (che non è esente da critiche) è stato ampiamente sviluppato da S. Tommaso e la sua sintesi può esprimersi nella frase «plantae sunt propter animalia; animalia vero propter hominem»4.

    Quindi, ogni riflessione in questo campo è subordinata ad una precisa visione caratterizzata da un’opzione antropocentrica non rinunciabile; indubbiamente deve essere corretto dalle pretese assolutizzanti della tecnica (da subordinarsi sempre alla dimensione etica) e riconsiderato a partire dagli squilibri che si sono venuti a creare; tuttavia esso trova il suo fondamento nella Scrittura (e a questo punto l'esegesi del Genesi diviene elemento discriminante) e nella tradizione costante dalle origini cristiane sino ai nostri giorni. La creazione dell'uomo e il mandato di Gen 1,28 («Soggiogate e dominate la terra») diventano così i momenti fondanti ed ineludibili del rapporto dell'uomo con il mondo e la natura. Questo per affermare il valore di riferimento fondamentale, dunque, (in questo come in ogni altro ambito etico) che è la persona umana. Da un punto di vista generale, pertanto, e in un'etica personalista possiamo dire che è bene tutto ciò che aiuta a realizzare compiutamente la persona senza recare danni significativi ad altre realtà, in quanto questi, a loro volta, si tradurrebbero in danno per altre persone.


    Le indicazioni magisteriali

    Anche il Magistero ecclesiale è decisamente orientato a considerare il problema più che come generica “questione ambientale” nel suo risvolto antropologico etico – spirituale: per questo – giustamente – ci si sofferma maggiormente sull’uomo quale “custode del creato”. E il Magistero ecclesiale, proprio perché parte da una precisa visione teologica del “creato” riesce ad indicare una precisa etica del “custode” di questo “creato”. Per questo, gli interventi mirano più a sottolineare le responsabilità dell’uomo nei confronti del creato, piuttosto che parlare del creato “in se stesso”. Come a dire – ancora una volta – che la prospettiva antropocentrica nell’affrontare la questione è decisiva, seppur all’interno di una chiara visione teocentrica che impedisce ogni assolutizzazione dell’uomo nei confronti della creazione.


    Così Giovanni Paolo Il:


    «L'impegno del credente per un ambiente sano nasce direttamente dalla sua fede in Dio Creatore, dalla valutazione degli effetti del peccato originale e dei peccati personali e dalla certezza di essere stato redento da Cristo. Il rispetto per la vita e la dignità della persona umana include anche il rispetto e la cura del creato, che è chiamato ad unirsi all'uomo per glorificare Dio»5


    Già la già citata dichiarazione Futuro della creazione e futuro dell'umanità della Conferenza episcopale della Germania Occidentale del 23 Settembre 1980 sostiene che da un punto di vista teologico il tema ritenuto centrale per un’interpretazione cristiana della questione ambientale è quello della «creazione». In tale prospettiva è possibile una visione del mondo nuova rispetto a quella suggerita dalla diffusa mentalità tecnocratica:


    «Se noi vediamo il mondo come creazione di Dio, esso ci appare diversamente e diventa nuovo. È il dono di un Dio che ama, ed ecco crescere per il mondo la sua preziosità. Colui che dona è più grande del dono e quindi il mondo diventa relativo. Il dono è nello stesso tempo anche un compito di cui dobbiamo rendere conto; però la nostra responsabilità diventa maggiore» (Il, n. 1).


    «Da tali premesse teologiche - riconoscono i vescovi tedeschi - certo non possiamo ricavare direttamente singole risposte su singoli problemi. Ma forse è qualcosa d'altro, a prima vista molto poco appariscente e necessario: una spiritualità del nostro rapporto col mondo» (III, n. 1).


    I tratti essenziali di tale spiritualità, entro cui sono reinterpretate anche le tradizionali categorie morali delle virtù cardinali e dei consigli evangelici, sono quelli dell'atteggiamento di «accettazione» e di «risposta», illustrato con alcuni esempi:


    «Occorre accettare i rapporti fondamentali che sono propri dell'ordinamento della creazione. Di essi fa parte la priorità dell'uomo sulle cose, ma anche l'indispensabilità delle cose per l'uomo. Di essi fa parte anche l'assunzione di una responsabilità amorosa verso il mondo delle piante e degli animati; gli animali sono animati e non semplicemente un mezzo per l'alimentazione, oggetto di sfruttamento o merce; il paesaggio è paesaggio e non semplicemente terreno per la nostra progettazione. Occorre accettare il fatto che dobbiamo rinunciare alle nostre pretese e possibilità e che dobbiamo condividere con altri, affinché tutti vivano e si sviluppino in maniera degna dell'uomo ... » (III, 1).


    Anche i vescovi lombardi - autori del significativo intervento del 1988 La questione ambientale – partono da una teologia della creazione, anche se più decisamente ricentrata su Gesù Cristo:


    «L'equivoco fondamentale che minaccia i rapporti dell'uomo con i beni della terra è denunciato in forma concisa, e insieme assai efficace, dal discorso della montagna, là dove è proposto all'attenzione di discepoli il modello di vita offerto dagli uccelli dei cielo e dai gigli del campo. La cura per la vita, dice Gesù, non può essere scambiata con la più scadente cura per il cibo, né la cura per il corpo con la più scadente cura per il vestito (...). La semplice soddisfazione dei bisogni non basta a realizzare la vita dell'uomo; di pane soltanto l'uomo non vive; per vivere egli ha bisogno di una parola, e cioè di un senso o di una speranza, che la cultura odierna spesso cerca con serietà e che la parola di Dio dischiude in pienezza» (B, n. 2).


    Da quest’impostazione teologica deriva un’etica cristiana precisa nei confronti del creato. Intervento autorevole rimane ancora quello di Giovanni Paolo Il proposto nell'enciclica Sollicitudo rei Sociali (1987) che intende prolungare ed aggiornare la riflessione di Paolo VI nella Populorum progressio circa le condizioni e i criteri morali per un autentico sviluppo economico sociale. Tra essi Giovanni Paolo Il colloca anche il rispetto dell'ambiente:


    «Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il 'cosmo'. Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere.


    La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri, viventi o inanimati - animali, piante, elementi naturali - come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch'è appunto il cosmo.


    La seconda considerazione, invece, si fonda sulla costatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.


    La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo che risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione è, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione. Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile» (n. 34).


    E anche il primo documento pontificio dedicato per intero al tema dell'ambiente6 conferma che secondo Giovanni Paolo Il la prospettiva essenziale per comprendere e risolvere il problema ecologico è quella morale.

    La crisi ambientale è, infatti, conseguenza di irresponsabilità nella gestione del potere tecnologico, giacché si trascura di considerare «le sue conseguenze in altre aree e, in generale, sul benessere delle future generazioni» (n. 6), e frutto del prevalere delle «ragioni della produzione» e degli «interessi economici sul bene delle singole persone se non addirittura di intere popolazioni» (n. 7).


    I criteri morali pertinenti sono indicati anzitutto


    «nella visione di un universo armonioso, cioè di un vero 'cosmo', dotato di una sua integrità e di un suo interno e dinamico equilibrio. Questo ordine deve essere rispettato: l'umanità è chiamata ad esplorarlo, a scoprirlo con prudente cautela e a farne poi uso salvaguardando la sua integrità. D'altra parte la terra è essenzialmente un'eredità comune, i cui frutti devono essere a beneficio di tutti» (n. 8).


    «I concetti di ordine nell'universo e di eredità comune mettono entrambi in rilievo che è necessario un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale» (n. 9).

    Suggestivo è anche il richiamo al


    «valore estetico del creato: il contatto con la natura è di per sé profondamente rigeneratore, come la contemplazione del suo splendore dona pace e serenità».


    In nome di esso il Papa afferma che


    «una buona pianificazione urbana è un aspetto importante della protezione ambientale, e il rispetto per le caratteristiche morfologiche della terra è indispensabile requisito per ogni insediamento ecologicamente corretto» (n. 14).


    Oltre che la necessità di cambiamenti «strutturali» (in particolare quelli concernenti la distribuzione a livello mondiale di ricchezza: n. 11) il documento afferma quella di un’appropriata azione educativa:


    «La società odierna non troverà soluzione al problema ecologico, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita. In molte parti del mondo essa è incline all'edonismo e al consumismo e resta indifferente ai danni che ne derivano (... ). Se manca il senso della persona e della vita umana, ci si disinteressa degli altri e della terra. L'austerità, la temperanza, l'autodisciplina e lo spirito di sacrificio devono informare la vita di ogni giorno, affinché non si sia costretti da parte di tutti a subire le conseguenze negative della noncuranza dei pochi. C'è dunque l'urgente bisogno di educare alla responsabilità ecologica» (n. 13).


    Tale compito educativo coinvolge direttamente la chiesa e sollecita una morale alimentata alla visione di fede:


    «L'impegno del credente per un ambiente sano nasce direttamente dalla sua fede in Dio creatore, dalla valutazione degli effetti del peccato originale e dalla certezza di essere redento da Cristo. Il rispetto per la vita umana include anche il rispetto e la cura del creato, che è chiamato ad unirsi all'uomo per glorificare Dio» (n. 16).


    Questo atteggiamento di fondo è confermato ancora anche dal documento dei vescovi lombardi (La questione ambientale): l’'insistenza è più sulla componente etico - spirituale del problema. La dimensione di senso o etica in cui l'uomo deve vivere il suo rapporto con la natura è determinata mediante l'illustrazione di tre criteri più specifici:


    «Il primo è quello del rispetto. Rispettare l'ambiente naturale significa custodire le possibilità che il Creatore vi ha immesso e dalle quali l'intervento umano procede. L'ambiente naturale è un tutto ordinato, ed è fondandosi su quest’ordine voluto da Dio stesso che l'uomo ha sviluppato il suo progresso e la sua civilizzazione.


    Un secondo criterio è quello della moderazione. Questo criterio della moderazione è richiesto dalle esigenze di bene comune dell'intera umanità, in particolare, dalla preoccupazione per i paesi in via di sviluppo ed economicamente più poveri: l'ecologia deve diventare solidarietà e la moderazione nel consumo condivisione. E non si deve dimenticare neppure che l'umanità attuale è responsabile delle possibilità di sviluppo delle generazioni future, che verrebbero compromesse dalla mancanza di quelle risorse che oggi vengono improvvidamente consumate.


    Infine un terzo criterio è l'attenzione alla qualità della vita. L'intervento dell'uomo non deve solo essere rispettoso dell'ambiente naturale, ma anche dell'ambiente vitale quotidiano, con particolare riferimento ai fenomeni di urbanizzazione selvaggia delle periferie metropolitane, alle zone di alta densità di popolazione e a quelle fortemente industrializzate» (C, n. 1).

    1 vedi in particolare Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Brescia 1986

    2 Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Brescia 1986, p. 26

    3 vedi, seppur con linee e prospettive diverse, la fondamentale impostazione di Alfons Auer (Etica dell’ambiente, Brescia 1988), di J.N. Ruiz de la Pena (Teologia della creazione, Borla 1988), di Giuseppe Angelini (Questione ecologica e coscienza cristiana, Brescia 1988)

    4 Summa contra Gentiles, III, 22,2030


    5 Messaggio per la giornata mondiale per la Pace 1992, n. 16

    6 Il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1990: Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato

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    00 03/09/2011 16:57

    I vescovi lombardi non esitano a parlare di «una vera e propria conversione ecologica» che è personalmente richiesta ad ogni credente:


    «La sensibilità ecologica rettamente intesa non è altro che un aspetto dell'ascesi cristiana. Essa richiede, dunque, che i singoli prendano coscienza dei problemi dell'ambiente e dei valori a esso connessi e che, se è necessario, cambino mentalità nel loro atteggiamento verso la natura. Ciò deve indurre ad uno stile di vita più sobrio, più attento all'uso di certi beni, più preoccupato per gli sprechi o per gli eccessi del consumismo (...). Il problema ecologico richiede scelte che coinvolgono un progetto globale di società, ma nello stesso tempo questo non sarà possibile se i singoli non sviluppano un nuovo stile di vita (...). In questo campo le comunità cristiane, soprattutto parrocchiali, hanno una grande responsabilità: sostenere e promuovere scelte ecologicamente impegnate e autenticamente evangeliche, reagendo nei confronti di un consumismo che lisce col soffocare le coscienze anche più disponibili. Per loro natura queste scelte, anche se producono cambiamenti limitati, agiscono come stimolazioni coraggiose e profetiche, che scuotono ampi strati di persone e invitano a riflettere» (C, n. 2).



    Così, in sintesi, potremmo individuare alcuni orientamenti etici che possano poi tradursi in concrete politiche ambientali. A tal riguardo riportiamo alcune possibili linee-guida:

    • protezione e tutela prioritaria delle realtà che costituiscono il fondamento per la vita rispetto alle altre che su di esse si basano;

    • garanzia degli interessi vitali delle generazioni future anche a costo di mettere da parte interessi meno urgenti degli uomini che vivono oggi;

    • in caso di interventi che prevedano danni, priorità a quelli che causano danni reversibili e scelta di interventi con danni irreversibili solo se in grado di evitare danni ancora più gravi;

    • reintroduzione nel ciclo biologico dei rifiuti, specie se prodotti in gran quantità;

    • priorità, a parità di altre condizioni, delle fonti di energia rigenerabili rispetto all'energia non rinnovabile.


    Dagli scritti di Paolo VI (Pensiero alla morte, Ed. Vaticana, Roma '79)

    Questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. E’ un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura. Assale, a questo sguardo quasi retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza questo quadro, di non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura, le ricchezze sorprendenti del macrocosmo e del microcosmo. Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge? Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità! Tuttavia, almeno in extremis, si deve riconoscere che quel mondo, qui per Ipsum factus est, che è stato fatto per mezzo di Lui, è stupendo. Ti saluto e ti celebro all'ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono; dietro la vita, dietro la natura, l'universo, sta la Sapienza; e poi, lo dirò in questo commiato luminoso, (Tu ce lo hai rivelato, o Cristo Signore) sta l'Amore! La scena del mondo è un disegno, oggi tuttora incomprensibile per la sua maggior parte, d'un Dio Creatore, che si chiama il Padre nostro che sta nei cieli! Grazie, o Dio, grazie e gloria a Te, o Padre! In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa è un riverbero, è un riflesso della prima ed unica Luce; è una rivelazione naturale d'una straordinaria ricchezza e bellezza, la quale doveva essere un’iniziazione, un preludio, un anticipo, un invito alla visione dell'invisibile Sole, quem nemo vidit umquam, che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18): unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, Ipse enarravit, il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato. Così sia, così sia.








































    307 Dio dà agli uomini anche il potere di partecipare liberamente alla sua Provvidenza, affidando loro la responsabilità di «soggiogare» la terra e di dominarla [Cf Gen 1,26-28 ]. In tal modo Dio fa dono agli uomini di essere cause intelligenti e libere per completare l'opera della creazione, perfezionandone l'armonia, per il loro bene e per il bene del loro prossimo. Cooperatori spesso inconsapevoli della volontà divina, gli uomini possono entrare deliberatamente nel piano divino con le loro azioni, le loro preghiere, ma anche con le loro sofferenze [Cf Col 1,24 ]. Allora diventano in pienezza «collaboratori di Dio» ( 1Cor 3,9; 1Ts 3,2 ) e del suo Regno [Cf Col 4,11 ].


    306 Dio è il Padrone sovrano del suo disegno. Però, per realizzarlo, si serve anche della cooperazione delle creature. Questo non è un segno di debolezza, bensì della grandezza e della bontà di Dio onnipotente. Infatti Dio alle sue creature non dona soltanto l'esistenza, ma anche la dignità di agire esse stesse, di essere causa e principio le une delle altre, e di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno.


    373 Nel disegno di Dio, l'uomo e la donna sono chiamati a «dominare» la terra [Cf Gen 1,28 ] come «amministratori» di Dio. Questa sovranità non deve essere un dominio arbitrario e distruttivo. A immagine del Creatore, «che ama tutte le cose esistenti» ( Sap 11,24 ), l'uomo e la donna sono chiamati a partecipare alla Provvidenza divina verso le altre creature. Da qui la loro responsabilità nei confronti del mondo che Dio ha loro affidato.


    378 Il segno della familiarità dell'uomo con Dio è il fatto che Dio lo colloca nel giardino, [Cf Gen 2,8 ] dove egli vive « per coltivarlo e custodirlo » ( Gen 2,15 ): il lavoro non è una fatica penosa, [Cf Gen 3,17-19 ] ma la collaborazione dell'uomo e della donna con Dio nel portare a perfezione la creazione visibile.


    226 Usare rettamente le cose create: la fede nell'Unico Dio ci conduce ad usare tutto ciò che non è lui nella misura in cui ci avvicina a lui, e a staccarcene nella misura in cui da lui ci allontana [Cf Mt 5,29-30; Mt 16,24; Mt 19,23-24 ].


    Mio Signore e mio Dio, togli da me quanto mi allontana da te.

    Mio Signore e mio Dio, dammi tutto ciò che mi conduce a te.

    Mio Signore e mio Dio, toglimi a me e dammi tutto a te [San Nicolao di Flüe, Preghiera].


    1604 Dio, che ha creato l'uomo per amore, lo ha anche chiamato all'amore, vocazione fondamentale e innata di ogni essere umano. Infatti l'uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio [Cf Gen 1,27 ] che è Amore [Cf 1Gv 4,8; 1Gv 4,16 ]. Avendolo Dio creato uomo e donna, il loro reciproco amore diventa un'immagine dell'amore assoluto e indefettibile con cui Dio ama l'uomo. E' cosa buona, molto buona, agli occhi del Creatore [Cf Gen 1,31 ]. E questo amore che Dio benedice è destinato ad essere fecondo e a realizzarsi nell'opera comune della custodia della creazione: «Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela"» ( Gen 1,28 ).


    2402 All'inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell'umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti [Cf Gen 1,26-29 ]. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini, perché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza. L'appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini.


    Il rispetto dell'integrità della creazione


    2415 Il settimo comandamento esige il rispetto dell'integrità della creazione. Gli animali, come le piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati al bene comune dell'umanità passata, presente e futura [Cf Gen 1,28-31 ]. L'uso delle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo non può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all'uomo non è assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni future; esige un religioso rispetto dell'integrità della creazione [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37-38].


    2416 Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura [Cf Mt 6,26 ]. Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria [Cf Dn 3,79-81 ]. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali.


    2417 Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine [Cf Gen 2,19-20; Gen 9,1-4 ]. E' dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali, se rimangono entro limiti ragionevoli, sono pratiche moralmente accettabili, perché contribuiscono a curare o salvare vite umane.


    2418 E' contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita. E' pure indegno dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.


    2427 Il lavoro umano proviene immediatamente da persone create ad immagine di Dio e chiamate a prolungare, le une con e per le altre, l'opera della creazione sottomettendo la terra [Cf Gen 1,28; Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 34; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 31]. Il lavoro, quindi, è un dovere: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» ( 2Ts 3,10 ) [Cf 1Ts 4,11 ]. Il lavoro esalta i doni del Creatore e i talenti ricevuti. Può anche essere redentivo. Sopportando la penosa fatica [Cf Gen 3,14-19 ] del lavoro in unione con Gesù, l'artigiano di Nazaret e il crocifisso del Calvario, l'uomo in un certo modo coopera con il Figlio di Dio nella sua opera redentrice. Si mostra discepolo di Cristo portando la croce, ogni giorno, nell'attività che è chiamato a compiere [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 27]. Il lavoro può essere un mezzo di santificazione e un'animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo.

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    00 03/09/2011 17:02
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    00 08/10/2014 14:25
    di Simone Morandini

    Cultura, pace e creazione sono termini che ritornano - con frequenza minore o maggiore - nella riflessione di R. Bertalot, quale l'abbiamo conosciuta dai suoi scritti, ma anche dalla sua viva voce, sia nel contesto dell'Istituto S. Bernardino che, già venticinque anni or sono, durante le Sessioni del SAE al Passo della Mendola. In questo breve saggio proponiamo alcuni elementi di riflessione sul loro rapporto, in un percorso che riprende e sviluppa temi appresi dallo stesso Bertalot, per evidenziarne la rilevanza nel contesto attuale.

    1. Per la pace e per il creato

    I riferimenti alla pace ed al creato si trovano spesso strettamente associati, sia nel linguaggio delle diverse comunità ecclesiali che nella riflessione specificamente ecumenica. L'Unità III del CEC, ad esempio, è dedicata a "Giustizia, pace e creazione", a riprendere in forma appena modificata la dizione del processo avviato nel 1984 dall'Assemblea di Vancouver e culminato nel 1990 con la Convocazione ecumenica di Seul ("Giustizia, pace e salvaguardia del creato") (1). Anche a livello europeo le Assemblee Ecumeniche di Basilea e Graz richiameranno la stessa triade, mentre in ambito specificamente cattolico sarà il Messaggio per la Pace del 1990 - forse il più importante testo del Magistero cattolico sui temi ambientali - a disegnare un analogo collegamento: "Pace con Dio Creatore, Pace con tutto il creato" (2). Se guardiamo, poi, alla tradizione francescana troviamo spesso un richiamo al santo di Assisi, come figura capace di vivere e promuovere la pace tra gli uomini e, quasi senza soluzione di discontinuità, quella col creato (3). Pace ed integrità del creato sono anche due grandi tematiche escatologiche, due segni del Regno di Dio che viene (4) e la stessa Scrittura le disegna spesso in stretta congiunzione. È un dato particolarmente evidente in Isaia, dove le immagini di riconciliazione universale della fine dei tempi (Is.2, 2-5; 25, 6-9) si alternano e si intrecciano con quelle di un rinnovamento della natura, vivificata e liberata persino dalla predazione (Is.11, 1-9; 41,17-20; 43,16-21). Nella visione profetica, infatti, la memoria dell'atto creatore di Dio fonda la speranza in una creazione nuova, nel segno della pace cosmica.

    Se ci collochiamo a questo livello, scopriamo pure un legame evidente delle due espressioni con la cultura - il terzo termine cui si riferisce questa riflessione. La promozione della pace e della salvaguardia del creato, infatti - aldilà del livello immediatamente politico - esige pure un'azione formativa, rivolta alle coscienze personali, ma anche a quel campo più esteso che definiamo appunto culturale. Una "cultura per la pace e per il creato" indicherà, allora quella trasformazione del sentire collettivo che è necessario promuovere affinché le due realtà possano effettivamente prender forma nella storia e nella società. Essa necessiterà sì di un livello di analisi tecnica, capace di cogliere i singoli problemi nella loro specificità, ma anche di un orizzonte più ampio, nel quale essi possano trovare una collocazione più meditata. Spesso, in effetti, si tratterà di una vera e propria risignificazione di elementi del nostro vissuto e della nostra storia, a svelarne la dimensione di riconciliazione. Tra l'altro, proprio Bertalot è stato in questo maestro, invitando a continue riletture della storia, non per rimuovere la densità dei conflitti - come fanno gli storici negazionisti della Shoah - ma piuttosto per scoprire, anche al cuore di essi, potenzialità di riconciliazione da studiare con attenzione, per recuperarne l'attualità (5).



    È soprattutto a questo livello che la riflessione più specificamente teologica può portare il proprio contributo, come indicazione di una profondità di significato che spesso è sottesa anche da problematiche apparentemente tecniche e settoriali, ma in effetti cariche di interrogativi di grande spessore. Non è certo casuale che in questo spazio anche la parola Dio venga spesso invocata, a richiamare quella riserva di senso, quella speranza oltre ogni speranza che si rivela così necessaria di fronte alla complessità di questioni apparentemente prive di soluzioni viabili. Lo stesso Isaia, del resto, evidenzia uno stretto legame tra annuncio di salvezza e pace (Is.52, 7), che sarà confermato anche dal Nuovo Testamento confermerà. Nella lettera agli Efesini, anzi, Cristo viene confessato come "la nostra pace" (Ef 2,14), come la sorgente di una riconciliazione che è in primo luogo quella tra le genti ed Israele, e che proprio a partire da qui interessa tutti i popoli.



    2. La complessità della cultura: interculturalità

    Se teniamo presente questo primo plesso di significati, emergono indicazioni abbastanza lineari per l'articolazione di cultura, pace e creato. Non possiamo, però, dimenticare che il termine cultura ha una valenza complessa, cui anche Paul Tillich, così caro a Renzo Bertalot (6), ha più volte richiamato la riflessione teologica. Si tratta, in effetti, di un'espressione che nel mondo occidentale copre una varietà di campi semantici; se in questa sede non possiamo certo presentarne un'analisi esaustiva, vi sono, comunque, alcune considerazioni che è necessario tener presenti. Rimuoverne la complessità, infatti, significherebbe condannare alla sterilità lo sforzo per costruire una cultura per la pace ed il creato.

    Notiamo, in primo luogo che la cultura può certo essere intesa come il frutto di un generale processo di umanizzazione, di cui la crescita della pace costituisce una componente fondamentale. Occorre, però, anche ricordare che essa si realizza sempre in una forma particolare, all'interno di uno specifico contesto storico, geografico e sociale: parliamo di una cultura occidentale, ma anche di una cultura araba, di una cultura cinese... Nessuna di esse può di per sé essere identificata con la verità, che si pone invece per ognuna come invito alla conversione; al superamento, alla ricerca della profondità e dei significati ultimi.

    Se teniamo presente questo significato, una cultura di pace non potrà che declinarsi nella modalità del dialogo interculturale. Identificare immediatamente la via della pace con una specifica espressione dell'humanum, infatti, significherebbe condannarsi all'incomunicabilità o all'arroganza autoassertiva, rendendo ben difficile un positivo contributo alla crescita della con-vivenza al cuore dell'umanità. Anche la promozione della sostenibilità ambientale, per essere efficace non può che declinarsi attraverso la varietà delle culture che si esprimono nelle società contemporanee; non può che esprimersi come interrogazione delle diverse visioni del mondo. È illusorio pensare che l'esportazione di modelli di sviluppo che non tengano conto dei destinatari e delle loro forme culturali, possa produrre effetti benefici per le popolazioni interessate e per l'ambiente.

    É, però, in particolare nell'ambito del dialogo ecumenico - ed ancor più di quello interreligioso - che si fa sentire con forza l'esigenza di pensare la pace come incontro e dialogo tra diversità, senza cercare frettolose omologazioni. Lo steso Bertalot ha ricordato più volte - anche in tempi in cui il fenomeno fondamentalista era ancora ben poco considerato - come l'integrismo sia una tra le più gravi minacce per la pace (7): l'incapacità di distinguere tra i vari livelli dell'affermazione di fede o dell'identità religiosa conduce facilmente alla violenza. Per riprendere le parole di R. Panikkar, "la verità non è un'arma, con la quale conquistare, dominare o vincere" (8). Anche chi confessa e vive con intensità una fede non può dimenticare che quelle stesse immagini, che all'interno di una tradizione religiosa vengono vissute come simboli radicali di pace, per altre possono essere privi di significato o addirittura veicolare connotazioni ostili.

    Ne dà testimonianza anche la ricerca da parte delle istituzioni internazionali di un simbolo meno coinvolgente per quell'istituzione di assistenza a malati e feriti che in Europa prende il nome di Croce Rossa: già in un contesto musulmano era risultato preferibile il riferimento alla Mezzaluna, ma m altre aree - specie in presenza di forti conflittualità interculturali - occorre qualcosa di meno connotato. Certo, indubbiamente in tale dinamica viene limitato il riferimento a quella grande figura di misericordia solidale che è il Crocefisso, ma solo allo scopo di rendere meglio fruibili i significati per cui il segno intendeva riferirsi. Potremmo dire che trova qui espressione, anche sul piano simbolico, quella figura della "moratoria escatologica" che molte volte R. Bertalot ha indicato come essenziale per un serio dialogo tra identità differenti (9).

    Certo, neppure sarebbe corretto orientare sempre ed ovunque a tale figura, che accentua in modo così forte la dimensione della laicità, per la gestione dei rapporti tra diverse identità religiose e culturali. È pure vero che - come rilevava anche J. Habermas (10) - la simbolica delle esperienze religiose veicola significati che solo in parte sono suscettibili di traduzione nei linguaggi laici del sapere filosofico. La stessa ricerca della pace, allora, non potrà esprimersi solo come reciproca tolleranza, come riduzione al minimo livello di ciò che potrebbe essere fattore di conflitto. La pace e l'integrità del creato esigono anche un futuro diverso, un rinnovamento su scala planetaria, un'interazione costruttiva tra le diverse forme culturali in cui abita l'humanum. Tale dinamica può però realizzarsi solo in un incontro autentico, al livello profondo delle identità, laddove i diversi soggetti si presentino in tutta la loro verità, esprimendola in forma non polemica, ma testimoniale - quasi come un dono cui altri possa attingere se lo desidera. L’uomo ecumenico non si astiene dal dire le ragioni ultime del suo esistere, ma - ricorda ancora Bertalot - sa farlo in forma umile, sapendo che "quanto offre non è determinante, perché lo Spirito soffia dove vuole e quando vuole" (11).

    Il dialogo, infatti, è anche lo spazio di una reciproca testimonianza alla verità, in cui essa stessa talvolta in forme inaspettate, si svela ai partecipanti. In questo senso la varietà delle culture non può essere percepita solo come ostacolo o addirittura minaccia ad una pace che verrebbe così concepita come mera reductio ad unum. No: essa costituisce piuttosto la condizione di possibilità di una pace che si dà solo come incontro delle diversità, come apertura accogliente a quelle alterità che si manifestano nella storia.



    3. La complessità della cultura: naturale vs. culturale

    C'è, però, nel termine cultura anche un ulteriore orizzonte di significato, che deve essere tenuto presente se vogliamo pensarne m modo efficace la relazione alla pace ed all'ecologia. Ci riferiamo a quell'accezione che distingue ciò che è culturale da ciò che è naturale, l'evoluzione culturale da quella biologica. Se tra le due dimensioni c'è indubbiamente una stretta relazione - l'uomo è sì essere culturale, ma non per questo cessa di essere un vivente, nel senso biologico del termine - essa non può cancellare l'irriducibilità della seconda alla prima. La stessa sottolineatura della diversità culturale, su cui ci siamo soffermati nelle pagine precedenti, è l'espressione di questa non-determinatezza dell'essere umano, capace di sviluppare forme di vita profondamente differenti a partire dalla sua base biologica.

    Nel momento in cui teniamo presente quest'area semantica, però, diviene impossibile pensare in modo troppo semplice il rapporto tra cultura, pace e mondo creato: tra il primo elemento e gli altri due le relazioni sono differenziate e potrebbe persino sembrare che esse orientino in direzioni diverse. Abbastanza evidente - e tutta positiva - appare la relazione tra pace e cultura: a fronte di un mondo naturale nel quale la violenza costituisce un fatto normale, in cui la morte di un vivente per mano di un altro è spesso la condizione di possibilità per la sopravvivenza del secondo, la cultura disegna un orizzonte di possibilità differente. Essa, infatti, apre uno spazio nel quale la minaccia reciproca può essere superata nel patto, in un'interazione positiva anche tra diversi. Qui l'aggressività diviene gestibile, relativizzabile, a livello personale e comunitario e proprio a questo scopo sono destinate quelle istituzioni del diritto il cui sviluppo è certo una delle caratteristiche dell'evoluzione culturale dell'umanità (12). Qui la comunicazione permette di superare quella paura del diverso che sembra caratterizzare fasi arcaiche della convivenza interumana. La pace, insomma, appare come una possibilità tipicamente umana, come l'espressione di una rottura culturale con quelle dinamiche che al livello naturale si presentano come insuperabili.

    Ben diverso appare, invece - almeno ad un primo sguardo - il rapporto tra cultura e questione ambientale; qui, infatti, l'azione specificamente umana appare piuttosto collegata agli squilibri che pesano sull'ecosistema planetario. Forse il mutamento climatico è l'espressione paradigmatica di tale dinamica, che vede l'alterazione della composizione atmosferica - almeno in parte certamente determinata dallo sviluppo umano (13) - determinare una modifica delle condizioni climatiche del pianeta. La società industriale, quasi espressione storica del pathos moderno della libertà, nasce, del resto, come rottura con una forma d'uso dell'energia che si limitava ad attingere ai flussi immediatamente disponibili, per volgersi invece agli stocks immagazzinati nei combustibili fossili - un'azione certamente possibile solo all'interno di una dinamica culturale avanzata. Non stupisce, allora, che diversi autori vedano la radice dello scompenso ecologico proprio in un'eccessiva enfatizzazione dell'essere culturale dell'uomo, che avrebbe condotto ad una sottovalutazione del suo radicamento naturale e biologico, per porsi come dominatore della natura.

    La terna «pace, creazione, cultura» sembra, dunque, scindersi: se il cammino di pace figura come il frutto di una enfatizzazione della crescita culturale dell'essere umano, a superare una conflittualità che egli erediterebbe soprattutto dal suo essere biologico, un rapporto sostenibile con l'ambiente sembra esigere invece una prospettiva abbastanza diversa.



    4. La complessità della cultura: responsabilità

    In realtà, la contrapposizione che abbiamo delineato appare a numerosi autori troppo schematica. Panikkar sottolinea, ad esempio, che la guerra non può essere considerata un fatto naturale, né normale, ma va vista invece come fenomeno fortemente connotato in senso culturale (14). La guerra, in effetti, non è semplicemente la violenza in quanto tale, ma la violenza divenuta istituzione: la cultura non è sempre fattore dì pace ed, anzi, talvolta sembra in grado di innescare dinamiche orientate in senso ben diverso. D'altra parte, la stessa naturalità biologica non può essere univocamente identificata come fattore di aggressività; se tale istinto è indubbiamente presente, quale elemento necessario alla sopravvivenza, il corredo istintuale dei viventi vede pure la presenza di tendenze che puntano alla cooperazione (15). Negli esseri umani, in particolare, l'agire - violento o pacificante - nasce sempre come cernita tra una varietà di inclinazioni innate, come espressione di una scelta (16).

    D'altra parte, altrettanto scorretto sarebbe identificare immediatamente con la cultura in quanto tale la radice del degrado ambientale. Certo, senza la scienza e la tecnica, ben difficilmente l'impatto dell'azione umana sulla biosfera avrebbe potuto essere così ampio ed è certamente opportuno ritrovare intuizioni presenti in alcune culture non-tecnologiche - come quella biblica! - per ripensarne i valori nel contesto presente. Se la cultura è sempre - quasi per definizione - manipolazione e quindi alterazione della naturalità, ciò non significa affatto che essa debba necessariamente tradursi in una rottura delle dinamiche della biosfera. Occorrerà, però, tener presente che oggi sono proprio la scienza e la tecnica che permettono all'essere umano di orientare il proprio rapporto con l'ambiente in direzioni diverse - più o meno ecologicamente sostenibili. Che significa oggi ricercare un'armonia con la natura per un'umanità di alcuni miliardi di esseri umani, senza condannare semplicemente alla morte per fame i poveri del Sud del mondo? Sarebbe possibile farlo senza una ricerca di tecniche avanzate che garantiscano un impatto ambientale leggero? Il problema è allora piuttosto quello - tutto politico - del senso e dell'orientamento di un sistema economico che solo di rado sembra disponibile a sostenere una ricerca scientifica e tecnologica che vada effettivamente in questa direzione.

    Si ha, insomma l'impressione che né l'istanza della pace né quella di salvaguardia del creato possano essere correttamente interpretate semplicemente come richiesta di un di più o un di meno di cultura, di una maggiore o minore distanza dalla naturalità. In entrambi in casi, la questione appare piuttosto legata a scelte, che interpellano l'essere umano nella sua libertà, ponendogli l'interrogativo circa l'orientamento da dare alle forme materiali della convivenza. Sono scelte che interessano l'essere umano nella sua totalità - nella sua dimensione biologica, come in quella sociale: a questa complessa articolazione egli è chiamato a dare forma, assumendo responsabilmente il suo stesso essere culturale.

    Nell'uno come nell'altro caso troviamo, insomma, al centro una questione etica, nella quale il soggetto si vede rinviato alla responsabilità per un'alterità che gli sta di fronte - una responsabilità che chiede di tradursi in rispetto, in primo luogo, ma anche in un'attiva azione di cura. Certo, i termini responsabilità ed alterità assumono significati diversi se sono riferiti ad un altro soggetto umano o ad enti del mondo naturale, ma certamente essi orientano a pratiche convergenti nella costruzione di una cultura per la pace e per il creato. Identico, del resto, è pure l'atteggiamento cui si oppone: quello del dominio - la volontà di affermare se stessi nella propria supremazia - sull'altro umano come sul mondo naturale. Il dominio, infatti, vede nell'alterità solo un oggetto, un mezzo per il perseguimento dei propri scopi, senza riconoscergli alcun valore proprio. Il dominio rifiuta di riconoscere il limite al proprio agire, tutto strumentalizzando al perseguimento del proprio fine; il dominio è incapace di colere alcunché, di farsi effettivamente matrice di una cultura vivibile. La volontà di dominio irresponsabile - della natura come degli uomini e delle donne - appare, insomma, il vero polo negativo che si contrappone ad una cultura della pace e del creato.

    Nello spazio della responsabilità, invece, possono trovare un significato pacificante i riferimenti alle opere della cultura - il diritto, la scienza e la tecnica - come quelli al nostro radicamento biologico e naturale. In essa, infatti, gli uni e gli altri vengono a convergere in una positiva attenzione per l'alterità, che sa riconoscere la pluralità come condizione costitutiva di un'umanità che fin dall'inizio è creata nella condizione della dipendenza da altri. La stessa dinamica della cultura non appare più tanto come rottura rispetto alla naturalità, ma piuttosto come apertura di un nuovo livello di libertà che permette alla creatura di rispondere in modo nuovo ed autenticamente personale alla Parola che la fonda ed assieme la interpella.

    Proprio qui, d'altra parte, si radica la dinamica di libertà che caratterizza una ricerca etica caratterizzata dalla responsabilità: al cuore di essa non sta l'indicazione di uno schema di comportamento fissato una volta per tutte, quasi si trattasse di riportare la libertà dell'essere culturale ad una rigidità simile a quella sperimentata da altre forme viventi. No: il suo scopo è piuttosto quello di offrire riferimenti significativi per una sempre nuova pratica etica, capace di far fronte alle sfide del tempo.

    Bertalot è stato maestro nel ricordare ai suoi interlocutori la dimensione interinale di ogni etica, sempre provvisoria, sempre posta tra il già di una parola fondante e il non ancora di un eschaton non ancora compiuto: "nel ricordo dell'etica trinitaria e nell'attesa dell'avvento di Dio possiamo pronunciare quella parola di preliminare di avvertimento che costituisce l'etica cristiana e che ci impegna nel provvisorio davanti a Dio e davanti agli uomini" (17).



    5. Per concludere

    Nella capacità di essere responsabile, insomma, di rispondere liberamente agli appelli che provengono da un'alterità sembra trovare compimento l'essere culturale dell'uomo, ma anche la possibilità offertagli di un vissuto di armonia - con gli altri esseri umani, come col mondo naturale. Una cultura per la pace e per il creato sarà, dunque, una cultura che promuove il massimo di soggettività etica in coloro che vi fanno riferimento, facendoli attenti agli appelli loro indirizzati. Sarà pure una cultura capace di scoprire talvolta, entro ed attraverso le voci che li esprimono, l'appello di un'Alterità più grande - di colui che si è fatto finito, limitato, di Colui che ha rifiutato un'Onnipotenza intesa come dominio per farsi debole, solidale, prossimo di un mondo e di un'umanità impregnati di sofferenza. In lui la fede cristiana può confessare la propria speranza, sapendo che il Dio vicino, il Dio crocifisso, si fa carico del mondo e della storia, per condurre l'umanità e la creazione tutta alla pace del sabato senza fine.