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FILOSOFI ED UOMINI DI CULTURA, CREDENTI

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    00 07/07/2011 13:49
    In questa sezione riporteremo  interventi, pensieri o notizie biografiche di alcune figure significative del mondo della cultura.

    Abbiamo invece riportato i nominativi di una nutrita schiera di Scienziati, Filosofi ed uomini di cultura CREDENTI, in un significativo elenco 
    al seguente link:
    http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?c=175588&f=175588&idd=9124876

    [Modificato da Credente 20/10/2013 19:28]
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    00 07/07/2011 13:50

    Il filosofo Hadjadj: «se si toglie Cristo, tutto il resto è noia»

    Proponiamo un altro brillante intervento del filosofo francese Fabrice Hadjadj, scrittore e docente all’Università di Tolone ex ateo e convertitosi al cattolicesimo nel 1998 (cfr Ultimissima 3/3/11). Nel 2009 il matematico Laurent Lafforgue (medaglia Fields 2002) ha detto di lui: «Fabrice Hadjadj scrive e insegna molto, ma non ho mai letto o sentito una frase da lui che mi abbia dato la sensazione di essere stato scritta o parlata nel vuoto. Le sue pagine spesso mi stupiscono, mi prendono in contropiede e nonostante questo, nel leggerli, ne riconosco l’esattezza e la verità. Nessuno scrittore contemporaneo di lingua francese mi interessa più di lui» (cfr. Que peut une politique de la langue?).

    PERDERE LA FEDE E’ PERDERE LA CULTURA. Il filosofo ha commentato in un’intervista per Avvenire le parole che Benedetto XVI ha pronunciato durante l’ultimo Cortile dei gentili svoltosi in Francia e a cui ha partecipato lui stesso (cfr. Ultimissima 2/4/11). Nell’intervista si è soffermato particolarmente sulla situazione dell’uomo europeo rispetto alla fede cristiana: «Abbiamo l’abitudi­ne di smembrare. Se noi europei non vogliamo più conoscere la fe­de in Gesù Cristo, questo è per­ché siamo annoiati dalla nostra propria storia e cultura. La perdi­ta della fede cristiana non è la sem­plice perdita di un culto, ma anche di una cultura. Non solo lo smarri­mento dell’Eterno, ma pure la di­menticanza della storia. Questo si­gnifica che abbiamo svuotato del­la loro profondità le nostre ricchezze artistiche: Giotto, Rubens, il gregoriano, Mozart. E abbiamo svi­lito le nostre idee etiche: la dignità della persona, il rispetto della li­bertà o la bontà della carne».

    IL TENTATIVO LAICISTA. La cultura laica ha tentato (e sta ancora tentando) di costruire un mondo emancipato da Cristo, attingendo però inevitabilmente dalla radice cristiana della sua morale: «La moder­nità ha trasformato alcuni aspetti della fede cristiana in «valori» e ha messo questi «valori», separati da Cristo, come in un vaso, proprio come dei fiori recisi. Grazie a que­sto isolamento, tali fiori possono sembrare, per un attimo, più belli, poi iniziano a morire. Così, il ma­terialismo storico e il progressismo hanno suscitato, all’inizio, un cer­to entusiasmo. Ma ben presto so­no collassati nell’esperienza tota­litaria e in un senso ristretto, tipi­camente postmoderno, della fini­tezza dell’uomo. Nel suo umani­smo più rivoluzionario l’Europa ha diffuso una speranza mondana, sostituto della speranza cristiana. Ora che tale speranza è morta, il nostro Continente non conosce al­tro che la disperazione, che cerca di fuggire gettandosi a peso morto nel divertimento dello spettacolo e nei sogni della tecnologia».

    LA FEDE NON E’ UN’AFFARE PRIVATO. L’uomo precipita così nell’incredulità, nel dubbio e nello scetticismo quando vive la fede come «un campo separato dell’esistenza, qualcosa che avrebbe a che fare con la «spiritualità», la «tra­scendenza », la «mistica». Ora, la fe­de non è un qualcosa «a fian­co » della vita quotidiana, un’atti­vità della domenica, un’interiorità vaga di cui ci si prende cura ogni tanto in cappella. Essa è ciò che ci mette in contatto con la sorgente di tutto ciò che esiste. In fondo, è in gioco l’unità dell’uomo. La fati­ca e la noia d’oggi provengono dal­la separazione di queste realtà in­separabili».

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    00 07/07/2011 13:51

    Mary Eberstadt, filosofa a Stanford, parla delle gravi lacune degli atei moderni

    Consigliamo un libro decisamente interessante. S’intitola Le lettere del perdente (Nova Millennium Romae 2011) e l’autrice è Mary Eberstadt, filosofa americana, research fellow alla Hoover Institution della Stanford University, consulting editor di Policy Review ed editorialista, fra gli altri, per il Wall Street Journal, Los Angeles Times, e The Weekly Standard.

    Il quotidiano Liberal, sottolinea che la filosofa «riesce ad evidenziare con imbarazzante semplicità tutte le contraddizioni in cui il pensiero puramente ateo cade a contatto con il cristianesimo». Nel suo libro la filosofa fa scrivere ad una giovane ragazza americana apparentemente convertita all’ateismo, dieci lettere rivolte ai nuovi atei, come Christopher Hitchens. In ognuna affronta temi decisivi, come lei racconta:

    IL SESSO. I cristiani sono “fermi” su temi come la monogamia, l’autodisciplina, il restare assieme per i figli. Pensieri che spesso la cultura laicista si rifiuta anche solo di prendere in considerazione, sostenendo che il messaggio che la separazione fra sesso e valori religiosi renda più felici. La Eberstadt riconosce che dopo cinquant’anni di pillola, anticoncezionali e liberazione sessuale, tutti sono in grado di comprendere che non è così: siamo circondati da padri e madri single, spesso alle prese con gravi problemi economici e certamente in evidente affanno ad occuparsi della loro prole. Ma per i bambini che crescono senza una vera famiglia, questo non è un bene. Così come non lo è per tutte quelle donne che sono state abbandonate dai mariti e che con l’andare degli anni soffriranno ancora di più. Le vittime della liberazione sessuale sono moltissime e quando i nuovi atei descrivono la loro libertà come una conquista, non considerano proprio le migliaia di persone che la soffrono e che spesso sono le più vulnerabili. Parlano per una sola parte e sembrano invece parlare a nome di tutti. Parlano da uno scranno di potenza e si dimenticano di quella parte di società che invece i cristiani mettono al centro della propria vita: i deboli.

    LA RAZIONALITA’. Gli atei, secondo la protagonista del libro, hanno dalla loro parte la Ragione… Tutti gli atei parlano ovunque e sempre di come la Ragione e la Logica sarebbero totalmente dalla loro parte. Ma questa sicurezza si sgretola davanti a più contraddizioni. La più importante: perché mai, con l’eccezione di alcuni Greci, di Spinoza e una manciata di altri impavidi, praticamente l’intera storia umana è inestricabilmente connessa con la credenza in una qualche divinità? Perché, si chiede la filosofa di Stanford, «gli uomini si sono sempre allungati verso Dio?». Ogni risposta fornita non spiega perché il 99 % dell’umanità si sia sbagliata su questa rilevante questione. Dinesh D’Souza ha ragione quando dice: «il motivo per il quale molti atei sono portati a negare Dio, e specialmente il Dio cristiano, è che vogliono sfuggire al dovere di rispondere nella prossima vita della loro incapacità di contegno morale in quella attuale».

    LA CARITA’. Anche su questo punto gli atei sono in grave difficoltà. Perché sono costretti a riconoscere l’incessante lavorio dei credenti a favore dei più deboli, sia singolarmente che a livello istituzionale: ospedali, mense, assistenza sociale, reti caritatevoli, missioni, cappellani carcerari, orfanotrofi, cliniche… non si contano le opere messe in piedi dai credenti e dai cristiani. Non si può dire il contrario e questo non perché non si voglia dire, ma perché qualsiasi statistica conferma che sono le opere a carattere religioso a lavorare al fianco dei deboli. È più facile che una donna povera che frequenta la chiesa faccia la carità almeno una volta l’anno che una ricca. Gli atei, secondo la Eberstadt, sembrano propendere per una logica darwiniana, dove vige la legge del più forte: il mondo è di chi se lo guadagna, gli altri sono destinati a soccombere. Qual è il posto che gli atei assegano ai malati, ai vecchi e ai fragili?

    EREDITA’ ESTETICA. Mi sono sempre chiesta perché i nuovi atei non diano credito alle opere d’arte e all’estetica dei credenti. O che, come fa Christopher Hitchens nel campo letterario, cerchino di ridicolizzarla alla stregua di favole morali. Personalmente ritengo che l’eredità estetica della religione sia veramente difficile da negare. Qualche esempio a caso: la basilica di San Marco a Venezia, Notre Dame a Parigi, S. Pietro a Roma, la cattedrale di San Paolo a Londra e ancora: La Divina Commedia, La Città di Dio, L’elogio della Follia e potrei citare intere biblioteche. Per non parlare della musica.Non puoi spiegare Bernini soltanto dicendo che per i suoi lavori è stato coperto di denari dal Papa. No, è chiaro che c’è un aspetto che trascende, e questo aspetto è la fede. La cultura che ha eretto un cubo assordante, razionale, angoloso, geometricamente preciso ma essenzialmente privo di sembiante o la cultura che ha prodotto le volteggiature e le bugne, le garguglie e la sacra assenza di monotonia di Notre Dame?

    DONNE, BAMBINI E FAMIGLIA. Gli atei ne sanno poco. Christopher Hitchens ha scritto tempo fa che quando lui guarda sua figlia non vede qualcosa di creato davanti a sè, ma uno straordinario insieme di molecole. Lui è solo uno dei tanti darwinisti che considera l’uomo un puro frutto della ragione scientifica. Io sono certa che Hitchens amerà profondamente sua figlia, ma sono anche sicura che non c’è madre che guardando il proprio figlio pensi soltanto: wow, che bell’insieme di molecole che ho partorito. La nascita di un bambino stabilisce un legame non solo con il neonato ma anche con l’universo. Ciò di cui mi sono resa conto è che la maggior parte degli scritti atei (vedi Rousseau, per esempio) dimostrano una scarsa conoscenza, e ancor minor interesse, riguardo a certi “sottoinsiemi”della specie umana. Sto parlando nello specifico dei bambini, delle donne e delle famiglie. Non avete fatto caso di quanto poco gli atei abbiano da dire sulla vita familiare o sul matrimonio o su qualsiasi altra istituzone legata storicamente alla riproduzione della nostra specie? Una mancanza madornale se si considera che la maggior parte della gente vive in famiglia, e che la maggioranza fa esperienza religiosa attraverso e a motivo dei loro familiari. L’antropologia atea non affronta le grandi questioni, non capisce che molte persone cominciano a credere in Dio perché, ad esempio, amano troppo i loro mariti o le loro mogli per credere che la morte veramente li separerà per sempre e che il loro amore per i figli trascenda questa ipotetica catena finita di cellule e sarà superiore alla vita terrena.

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    00 07/07/2011 14:04

    Il filosofo Esposito: «il pensiero dei grandi laici ci conferma nella fede in Dio»

    Nelle librerie è possibile trovare l’ultimo libro di Costantino Esposito, docente di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari. Studioso in particolare del pensiero di Heidegger, Kant e Francisco Suárez. Il titolo è “Una ragione inquieta. Interventi e riflessioni nelle pieghe del nostro tempo” (Brossura 2011).

    Aiutato dai giudizi di Sant’Agostino e don Luigi Giussani, il filosofo analizza il pensiero dei grandi della storia: Dante, Petrarca, Svevo, Woolf, Eliot, Pavese, Cézanne, Stravinskij, Kierkegaard, Schrödinger, van Gogh e tanti filosofi, tanti nichilisti del mondo laico. E’ dal loro pensiero che il cristiano trova conferma della proporia fede, perché «ci aiutano perché colgono la vibrazione ultima dei nostri problemi», dice Esposito.

    L’inquietudine del titolo verte sul nesso tra fede e ragione. Il nichilismo dell’uomo, lo diceva Agostino e lo sottolineava Giussani, emerge quando la ricerca del senso, del fondamento della sua esistenza, la risposta all’insopprimibile esigenza umana viene confinata lontana dal rapporto con la realtà e dalla ragione. E’ dunque impossibile, dice il filosofo Ferruccio De Natale presentando il testo di Esposito, separare sentimento e intelletto, «cuore» e ragione, pena la perdita dell’essenza stessa dell’umano: «Quanto più indago, razionalmente, il senso di ciò che mi circonda e di me stesso, più contemplo la bellezza del mondo e dei prodotti dell’uomo, tanto più avverto l’inadeguatezza e il mio bisogno che trovano risposta solo in un infinitivamente Altro da me (che pure si è fatto Presona per me)». La fede non interrompe la continua ricerca, l’esigenza del significato, ma la potenzia: più conosco e più “credo”, e viceversa. E’ un continuo confronto e paragone con il reale.

     

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    00 10/07/2011 15:12

    IL CRISTIANESIMO DI KIERKEGAARD

    L'amore è un tema centrale in quanto sentimento edificante, è l'agape di Dio verso i propri figli, che però non cancella la forma di amore umano. L'amore è l'espressione dell'interiorità rapportato con la fede, ne segue che Kierkegaard ritenga che bisogna amare il prossimo come noi stessi. Amare per il cristiano è un dovere che segue la volontà di Dio. L'amore e l'amicizia non sono eterni, ma hanno in sé come punto di partenza Dio: devono essere altruistici e dipendenti da abnegazione. L'amore è compimento di una legge. Anche il matrimonio che Dio vuole per i suoi figli è l'unione eterosessuale fra uomo e donna che ha come vincolo l'amore che Dio vuole per le sue creature.

    "L'amore è perciò principio e presupposto di ogni edificazione spirituale umana, giacché esso esprime l'azione di tutto l'uomo per l'uomo, azione esplicantesi in totalità nel senso dell'elevazione dell'amore stesso dalla sua significazione esclusiva, meramente sensibile, al significato spirituale inclusivo in Dio di tutta l'umanità". L'amore crede tutto, spera tutto, deve essere disinteressato e caritatevole. L'amore è un rapporto spirituale analogico che investe cielo e terra, Dio e gli uomini. L'amore è il dono gratuito di Dio nella carità. Solo Dio è tutto: "in lui l'amore può compiersi in quell'atto di abnegazione totale, di totale rinuncia che nel sacrificio di sé stesso si consacra in spirito come superiore a ogni differenza che non sia quella che caratterizza l'assoluta Maestà Divina.". Dio solo è in grado di aiutare l'uomo con la sua grazia e da parte dell'uomo è necessaria l'abnegazione cioè l'estrema manifestazione di fede. E' la fede che salva: le opere sono importanti, ma dipende da Dio considerarle. L'uomo per Kierkegaard non deve dimenticare la differenza con Dio: se facesse delle opere un merito, si metterebbe alla pari di Dio. E' Dio perciò che salva con il suo amore; non c'è come per noi cattolici il valore salvifico di mediazione della Chiesa, sposa di Cristo con i sacramenti.

    Il pensiero di Kierkegaard risente innegabilmente del luteranesimo. Il filosofo studia Lutero dal 1846 fino al 1848, periodo in cui prova una fervida ammirazione. Più tardi, attaccando la chiesa stabilita sembra quasi che egli abbia un dubbio radicale sulla qualità cristiana della religione luterana. Per Lutero il peccato e la fede sono i due poli del cristianesimo: tutto è peccato senza fede. Anche Kierkegaard risente del pietismo del padre che è un luteranesimo radicalizzato nel senso di completo abbandono a Dio. Ma anche se pervaso dal protestantesimo secondo il filosofo vi è nel luteranesimo "un vizio radicale che ne costituisce il principio stesso e questo vizio consiste nel fatto che Lutero esprime il cristianesimo nell'interesse dell'uomo (…)"; nella religione luterana tutto si incentra nella salvezza individuale dell'anima e non sulla glorificazione di Dio. L'uomo per Kierkegaard non deve agire per sé stesso, ma avvicinandosi al cattolicesimo dice che deve agire per la gloria di Dio. L'antropomorfismo luterano è profondo "tanto che il protestantesimo, dopo aver soppresso la canonizzazione dei santi e dei martiri, propria della tradizione cattolica, ha trovato modo di sostituirla con la canonizzazione del piccolo borghese". Kierkegaard, criticando il luteranesimo così aspramente sembra avvicinarsi al cattolicesimo. Il filosofo infatti riconosce la grandezza del medioevo e del cattolicesimo del periodo che è stata "quella di accentuare il lato di Cristo come modello e non soltanto come dono alla maniera di Lutero". Inoltre aggiunge che il pericolo che il cattolicesimo ha è quello di dare all'imitazione di Cristo "una forma esteriore e legale e nel ridurre il merito all'osservanza meccanica del culto esteriore". Ci dice così che il luteranesimo avrebbe avuto valore se fosse stato correttivo del cattolicesimo del quindicesimo secolo (in cui oggettivamente anche noi cattolici riconosciamo gli errori del potere temporale), dando spazio alla necessità del rapporto personale con Dio. Anche il Concilio Vaticano II ha riconosciuto tale rapporto con Dio e valorizzato, se ricondotto alla chiesa come corpo mistico di Cristo.

    L'errore che Kierkegaard attribuisce al protestantesimo è quello di essere diventato la norma tanto da diventare peggiore del male iniziale (il cattolicesimo). In Il diario il filosofo manifesta chiaramente la delusione nei confronti del protestantesimo: il cattolicesimo mantiene per Kierkegaard il concetto dell'ideale cristiano, mentre il protestantesimo è finitezza dal principio alla fine. E a Lutero rimprovera di aver tolto al Papa il potere per darlo al pubblico.

      Kierkegaard: a un passo dal cattolicesimo.

     Ci sono studiosi come Roos, Fabro e Spera che vedono un côté mistico nelle riflessioni kierkegardiane. Fabro vede un orientamento cattolico. "L'interiorità kierkegardiana è cattolica nel fondo. Essa è di fatto di preghiera e di trasporto filiale verso Dio, di impegno ascetico, di mediazione sulle Divine Persone, e sul verbo incarnato e spesso anzi con la guida di autori cattolici (l'Imitazione di Cristo: Taulero, San Bernardo, Blosio, San Alfonso Maria dei Liguori) e di un pietismo sano ispirato alla mistica cattolica ed in opposizione esplicita alle ore silenziose (Stille timer) della vaga interiorità protestante".

    Ruttenbeck, prendendo a fondamento molti passi de Il Diario, ritiene che Kierkegaard se fosse vissuto ancora sarebbe diventato cattolico, e ciò anche perché egli si staccò dalla chiesa stabilita di Danimarca. Leggendo Ruttenbeck sembra che Kierkegaard avrebbe pensato che il protestantesimo fosse dal punto di vista cristiano disonestà ed ipocrisia, malgrado una simile constatazione l'entrare nella Chiesa Cattolica è un passo che non si risolse a fare, anche se gli altri se lo aspettavano da lui. Questo pensiero è di estrema chiarezza e dimostra come l'orientamento del filosofo fosse cattolico. Pur rimanendo profonda l'influenza luterana, che è dimostrata nel tema costante dell'inquietudine e dell'angoscia del singolo, Kierkegaard si è avvicinato al cattolicesimo. Ad esempio in Il diario ho notato il fatto che il filosofo riconosce il culto dei santi. "Dio crea dal nulla, meraviglioso si, ma Egli fa una cosa ancora più meravigliosa crea i santi (la coscienza dei santi) dai peccatori". Il filosofo non ha però compreso che i sacramenti, essendo la mediazione salvifica che Cristo, rivelatore del Padre, ci ha dato per mezzo della Chiesa, suo corpo mistico, sono anche le condizioni essenziali dell'interiorità e i mezzi di appropriazione personale. Appare evidente che, malgrado i suoi sforzi, egli rimanga .chiuso in una concezione pessimistica in cui la fede consiste nel disperare assolutamente di sé e nell'abbandonarsi a Cristo crocifisso, in un rapporto con Dio personale ed irrazionale, che anche il cattolicesimo non esclude se mediato dalla Chiesa.

    Kierkegaard non crede che la Chiesa, come noi cattolici, con i sacramenti che lavano i peccati operi la giustificazione o remissione dei peccati perché il peccato non è annullato o abolito dalla Grazia di Cristo, ma solo nascosto. Rifiuta così la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo che ha Cristo come fondatore capo e sostenitore. Per noi cattolici "Cristo è il capo del corpo della chiesa" (Coll. 1, 18). "La Chiesa infatti è un ovile la cui porta unica e necessaria è Cristo" (Giov. 10, 1-10). "E' pure un gregge di cui Dio stesso apre annunziato che ne sarebbe il pastore e le cui pecore anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo; il Pastore buono e Principe dei Pastori, il quale ha dato la sua vita per le pecore". Ne segue che noi cattolici crediamo in Dio, in Cristo e la Chiesa che Gesù ci ha dato poiché "Cristo è sempre presente nella sua Chiesa in modo speciale è presente nel sacrificio della messa, nelle persone del ministero, essendo egli stesso che, offertosi nella croce, offre sé stesso ancora tramite il mistero dei sacerdoti". Essendo la Chiesa Corpo Mistico, le cui membra siamo noi nell'unione con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito, per noi cattolici Essa è ciò che ci avvicina alla Trinità Economica. Infatti la Chiesa nasce da Cristo unico mediatore che "ha costituito sulla terra e incessantemente sostenuta la sua Chiesa Santa, comunità di fede, di speranza e di carità quale organismo visibile". E il Papa ne è a capo poiché "Pietro in forza del primato (Mat. 16, 13-19) non è altro che un vicario di Cristo e in tal guisa si ha di questo corpo un solo capo principale cioè Cristo, il quale, pur continuando a governare arcanamente la Chiesa (…) visibilmente però la dirige attraverso colui che rappresenta la sua persona poiché, dopo la sua gloriosa ascensione al cielo, non la lasciò edificata soltanto in sé, ma anche in Pietro, quale fondamento visibile". Gesù affida a Pietro le chiavi del regno cioè il compito di pascere le sue pecore: noi. Il potere della Chiesa universale è un privilegio personale che è tramandato ai successori. Ne segue che se il primato di Pietro è quello transapostolico, diventa chiaro che nel volere di Gesù esso debba durare quanto la Chiesa e che il fondamento duri quanto l'edificio. Il primato di Pietro è dato in Persona Ecclesiae cioè è trasmissibile, cosicché il Papa è il capo della Chiesa.

    Kierkegaard rimane prigioniero di una concezione che gli preclude il vero significato della Chiesa e dei suoi sacramenti e gli impedisce di comprendere che essi sono l'unico rimedio all'angoscia e al dubbi.

    Il cattolico, invece sa trovare Cristo perché è nella Chiesa: è lui stesso Chiesa. La Chiesa Cattolica afferma infatti che la natura umana non è corrotta dal peccato totalmente, ma solo contaminata specialmente per la volontà e che l'uomo può compiere il bene, pentendosi ed affidandosi ai sacramenti.

    Ritengo personalmente che Kierkegaard non sia divenuto cattolico per l'influenza radicata dal pessimismo individualistico e creaturale del luteranesimo e del pietismo. Con questo non escludo come dice Ruttenbeck una sua potenziale adesione al cattolicesimo. Se avesse infatti conosciuto la Chiesa tramite la quale discendono nel mondo la certezza, la luce e la pace che Dio vuole per i suoi figli, avrebbe così sentito il cattolicesimo come risposta a questa ricerca dolorosa e a questo pungolo nella carne che è stata la sua fede.

    La teologia cattolica contemporanea ha risposto come nella Lumen gentium al singolo cristiano laico visto come popolo santo di Dio. Ne segue che la dimensione del singolo si accompagna a quella ecclesiale poiché "tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio.

    La disperazione di Kierkegaard come quella di ogni luterano, condizionata da un individualismo esasperato ed angosciante, è quella di non accogliere il calore della comunità ecclesiastica, come famiglia, come "podere o campo di Dio" (1 Cor. 3,9).

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    00 10/07/2011 15:15

    Il giornalista A.N. Wilson racconta il suo ritorno alla fede cristiana

    Il sito online del quotidiano Herald Sun si è occupato della “conversione religiosa”, soffermandosi molto su quella del noto scrittore e giornalista Andrew Norman Wilson (detto semplicemente “AN Wilson”), firma del Daily Mail, del London Evening Standard, e occasionalmente del Times Literary Supplement, New Statesman, The Spectator e The Observer, il quale ha annunciato il suo ritorno al cristianesimo due anni fa.

    In un articolo su New Statesman, titolato “Perché io credo nuovamente”, il giornalista ha raccontato come la sua conversione all’ateismo era stata simile (ed opposta) a quella di San Paolo sulla via di Damasco, ma il suo ritorno alla fede è stato invece lento e difficoltoso. «Ma so», dice, «che non potrò mai più fare lo stesso errore nuovamente». Rispetto alla prima conversione ricordava il «senso inebriante e improvviso di essere un tutt’uno con la grande marea di non credenti. In quell’occasione, ho capito che dopo una vita in chiesa, il castello di carte costruito sulla presenza di Dio nella vita, e l’idea stessa che ci fosse un Dio, figuriamoci uno “misericordioso”, in questo mondo brutale e sporco, era per me crollato». Ebbe così modo di entrare in rapporto con i grandi atei militanti del mondo: «ho incontrato Richard Dawkins (un vecchio collega di Oxford) e ho cenato a Washington con Christopher Hitchens. Hitchens è stato eccitato nel salutare un nuovo convertito al suo non-credo».

    Vent’anni dopo, nel 2009, è avvenuta la seconda conversione, il ritorno alla fede. E’ stata anche una conseguenza della frequentazione della cultura atea, in particolare quella darwinista-materialista. Lentamente Wilson ha riconosciuto l’ateismo come qualcosa di tetro, un credo confuso che ignorava la complessità dell’esistenza umana. Confidare nell’ateismo, rivela, era un pò «come cercare di affermare che la musica è un’aberrazione e che, anche se Bach e Beethoven sono stati molto convincenti, è meglio vivere senza un senso musicale. Quando penso gli amici atei, mi sembrano come quelle persone che non hanno orecchio per la musica, o che non sono mai state innamorate».

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    00 10/07/2011 15:17

    William Shakespeare era cattolico, lo riconosce anche il primate anglicano

    La religiosità di William Shakesperare, il più grande scrittore in lingua inglese, è sempre stata oggetto di discussione. Esiste perfino una pagina di Wikipedia in versione inglese, che sostanzialmente lascia aperte molte possibilità, anche se tendenzialmente lo colloca all’interno dell’anglicanesimo.

    Tuttavia in questi giorni, come è ripreso su Italia Oggi, il primate della Comunione anglicane, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, dotto studioso di letteratura, ha riconosciuto che «aveva un retroterra cattolico». Lo ha detto durante l’Hay Festival in corso in in Galles: «Per quel che vale, penso che Shakespeare avesse un retroterra cattolico e molti amici cattolici, ma l’autore dei Sonetti non è stato un uomo molto giudizioso. Se è stato un cristiano, non è stato un santo. Quanto credesse, o che cosa facesse per quanto concerne la sua fede, non lo so proprio. Non era un uomo molto gradevole sotto vari aspetti, e questo è qualche cosa che colpisce molto. Si occupava di accumulare grano, e di comprare proprietà a Stratford, niente di terribilmente attraente». Comunque, ha continuato l’arcivescovo anglicano, «ci sono cose, nelle sue opere, che non si possono capire senza comprendere i concetti di perdono e di grazia. Ha lottato con le domande dell’umanità e ha concluso dicendo che c’è molto di più in tutto questo di quanto si potrebbe pensare. Quel mistero è una parte di ciò che troviamo nelle sue opere. Il che sembra impossibile, senza un qualche cosa di sacro».

    Nel 2008 su Zenit.it, anche lo scrittore Joseph Pearce, il quale ha scritto un libro sull’argomento, spiegava: «esiste una schiera di illustri studiosi di Shakespeare che sono arrivati alla conclusione che il poeta era cattolico. Dopo il lavoro pionieristico di Richard Simpson del XIX secolo, la convinzione che Shakespeare fosse un credente cattolico ha ricevuto conferme dal successivo lavoro investigativo accademico degli studiosi. Tra questi ultimi figurano Mutschmann e Wentersdorf, John Henry de Groot, Ian Wilson, due gesuiti padre Peter Milward e padre Herbert Thurston, Hildegard Hammerschmidt-Hummel e Clare Asquith». La faccenda è rimasta celata perché «il cattolicesimo, ai tempi di Shakespeare, era fuori legge. E poi perché nei due secoli successivi alla sua morte il mondo intellettuale di quel periodo è stato fortemente anticattolico. Infine, gran parte degli elementi inconfutabili non è venuta alla luce o non è stata correttamente intesa se non da poco tempo». Di questo ne parla ottimamente un articolo apparso nel 2004 sulla rivista Il Timone.

    Un’altra prova, riportavano Il Sole 24 ore e altri quotidiani internazionali nel 2009, sarebbero anche tre firme “shakespeariane” sulle pagine di un libro di pellegrini cattolici, le quali potrebbero anche dimostrare che Shakespeare trascorse del tempo in Italia frequentando il Venerable English College di Roma, un seminario per la formazione dei sacerdoti cattolici inglesi che divenne un rifugio per i cattolici perseguitati durante la Riforma, durante i suoi cosiddetti “anni perduti” tra il 1585 e il 1592. Tra l’altro cinque delle sue 37 opere sono situate in Italia, altre cinque completamente o parzialmente a Roma e tre in Sicilia.

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    00 18/10/2011 22:52

    Il filosofo Rémi Brague: «l’unica etica universale è quella cristiana»

    Il prestigioso filosofo Rémi Brague, specialista in filosofia greca, medievale araba ed ebraica e docente presso la Sorbona di Parigi e la Ludwig Maximilian University di Monaco, ha scritto un articolo sul Cortile dei Gentili, l’iniziativa voluta dalla Chiesa per il dialogo con i non credenti (www.cortiledeigentili.com).

    Il filosofo si è soffermato molto sul cristianesimo e il suo ruolo nel mondo e nella storia, il quale ha «la particolarità notevole di essere una religione che è solo una religione. Le altre religioni sono delle religioni e ogni volta qualcos’altro. Il buddismo, se è una religione – e alcuni preferiscono evitare il termine -, è una religione e una forma di saggezza, lo shintoismo è una religione e un legittimismo, il giudaismo è una religione e un popolo, l’islam è una religione e una legge. Il cristianesimo non è una legge. Nel cristianesimo, è netta la distinzione fra norme (fra cui diritto e morale) da una parte e religione dall’altra. Molto meno nelle altre religioni».

    Non vi è un diritto cristiano, commenta Brague, «vi sono cristiani che producono del diritto e che cercano d’introdurvi il massimo di giustizia. Anche la cosiddetta “morale cristiana” non ha nulla di specificamente cristiano. Essa non è il folclore di una nazione particolare: è la morale comune». Il diritto romano, continua, «non è stato modificato profondamente dal cristianesimo. Quest’ultimo ha solo adattato certe disposizioni legali che urtavano i cristiani, i quali [...] apportavano uno sguardo più acuto per discernere l’umanità laddove fino ad allora si faticava a scorgerla: nel bambino, nella donna, nello schiavo, nel barbaro, cioè il non greco (dal punto di vista dei Greci), nel “pagano” (dal punto di vista degli Ebrei)».

    In questa pagina abbiamo elencato altre opinioni di importanti pensatori sul fondamentale contributo che ebbe il cristianesimo nell’affermazione della dignità di donne e bambini. Continua: «possiamo avere opinioni diverse sul modo in cui la Chiesa difende certe realtà incapaci di far valere da sole la loro umanità», come l’uomo all’inizio della vita (embrione e feto) o alla sua fine, ma -continua l’intellettuale- «è comunque importante comprendere che i cristiani di oggi non pretendono di fare nient’altro rispetto a quanto fecero i primi fra loro: rastrellare ciò che è umano in modo tanto esteso da essere sicuri di non lasciare nulla al di fuori».

    Dopo aver riflettuto molto acutamente sul diritto naturale, conclude soffermandosi in modo molto interessante sui non credenti e sul ruolo della coscienza come «la voce di Dio in noi. Ascoltarla significa l’approdo del regno di Dio in una parte del mondo non molto grande, ma che ha il vantaggio di dipendere da noi, cioè noi stessi [...]. E la coscienza parla pure, anzi talora più chiaramente, ad alcuni di coloro che non conoscono o non vogliono conoscere Dio. Perché? Mi piacerebbe rispondere formulando in proposito una regola: Dio non persegue mai il proprio tornaconto, neppure un proprio tornaconto simbolico, la gloria. Ricerca l’interesse delle sue creature. In particolare, non cerca di farsi conoscere per essere applaudito da una claque. Il Dio dei cristiani si fa conoscere unicamente quando ciò è necessario per la salvezza della sua creazione. Non c’è bisogno d’identificarlo come tale. Questo Dio agisce in tal modo secondo le regole della più elementare e forte cortesia umana. Se in una strada uno sconosciuto ci chiede il cammino, noi glielo indichiamo, senza sentire per questo il bisogno di presentarci». Così «per chi si crede capace di cavarsela da solo e rifiuta la Rivelazione, resta tutto il campo nel quale Dio, benché altrettanto presente, non ha bisogno di manifestarsi esplicitamente. Tutto il campo della ragione, dunque. Tutto ciò che è “davanti l’ingresso del Tempio”, tutto ciò che è – come vuole l’etimologia di quest’aggettivo – profano. Il Cortile dei gentili consiste proprio in questo».

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    00 05/11/2011 10:43

    Il filosofo della scienza Evandro Agazzi:

    «errato escludere a priori l’idea di finalità»

    Su “Avvenire” sono recentemente apparsi alcuni stralci del contributo di Evandro Agazzi, prestigioso filosofo della scienza e già docente all’Università di Genova ad un recente convegno promosso dall’Associazione medici cattolici della diocesi ambrosiana. L’intervento è inserito, assieme a quelli di altri relatori (card. Gianfranco Ravasi, il biologo Giorgio Manzi ecc.), nel volume L’evoluzione biologica. Dialogo tra scienza, filosofia e teologia (San Paolo 2011).

    Agazzi  è intervenuto dicendo che «la contrapposizione di scienza e religione è un fenomeno recente (se misurato con il metro della storia). Esso è l’arma di cui si serve oggi di preferenza una posizione ideologica che, questa sì, esiste in certo senso da sempre dentro tutte le culture, ossia la concezione antireligiosa del mondo e della vita. Si tratta in sostanza di una fede atea che cerca di convincere la gente che la scienza contraddice la religione e che questa cerca di contrastare il progresso scientifico». Secondo il filosofo della scienza fu il positivismo ottocentesco -«movimento di scarso spessore filosofico»- a preparare il terreno. Esso «si presentò come paladino della scienza contro le remore oscurantiste delle religioni e delle filosofie “metafisiche”». Ma in realtà -continua Agazzi- il positivismo era “il parassita” della scienza.

    Oggi non è molto diverso: «I sostenitori dell’incompatibilità fra scienza e religione si riducono a far leva su due esempi storici, il processo di Galileo e l’evoluzionismo. Nel primo si assistette per davvero ad un intervento censorio dell’autorità ecclesiastica nei confronti di una teoria scientifica. Si trattò comunque di un episodio isolato. Nel caso dell’evoluzionismo non ci fu mai una contrapposizione intrinseca con la religione, poiché sin dagli inizi ci furono fautori e oppositori delle teorie dell’evoluzione tanto religiosi quanto atei. Invece parecchi intellettuali antireligiosi, diedero un’interpretazione in senso ateomaterialista che pretesero di far passare per una conseguenza logica delle conoscenze scientifiche, anche se in realtà non lo è».

    Il filosofo affronta poi proprio l’ingarbugliata questione dell’evoluzione: «Proprio il fatto che spesso la teoria darwiniana dell’evoluzione viene presentata come confutazione scientifica della religione, in quanto ha confutato il “creazionismo”, ha prodotto una reazione di segno opposto (non meno scorretta). Infatti alcuni gruppi di credenti, impegnati a  difendere la tesi della creazione divina del mondo, ritennero di doverlo fare attaccando l’evoluzionismo». E negli Stati Uniti è emersa una vera propria guerra tra avvocati. Il problema del “creazionismo scientifico” è quello di «estrapolare in campo scientifico un concetto teologico, facendogli svolgere un ruolo non corrispondente alle sue caratteristiche definitorie e quindi, alla fine, scientificamente improprio (in sostanza perché introduceva cause soprannaturali nel discorso scientifico)». La critica passa poi verso il Disegno Intelligente: «Proprio di fronte alle inadeguatezze emerse nell’esecuzione del loro progetto, i difensori del creazionismo scientifico vollero mitigarne il riferimento esplicitamente religioso e lo vennero sostituendo con la dottrina del “disegno intelligente”. Questa conserva le caratteristiche di una concezione metafisica, e in essa è altresì chiara l’intenzione di giustificare il riferimento a Dio come autore di tale “disegno”, pur senza alcun riferimento esplicito a una concreta religione. Essa è stata altresì formulata utilizzando un corredo non banale di concettualizzazioni, argomentazioni teoriche e riferimenti empirici conformi allo stile della ricerca scientifica che si compie in biologia; tuttavia non ha incontrato sinora il credito della maggior parte della comunità scientifica dei biologi».

    Evandro Agazzi però non intende «esprimere un giudizio sulla validità scientifica di questa dottrina». Certo, non ha credenziali scientifiche serie ma questo non intacca «la legittimità di parlare di un disegno intelligente a livello di interpretazione filosofica del mondo naturale e neppure la legittimità di operare un “conferimento di senso” di natura religiosa a questo disegno». Bisognerebbe, secondo il filosofo, capire se il rigetto della dottrina del “disegno intelligente” sia fondato su una critica tecnica o parta da un «rifiuto aprioristico della categoria di finalità che fa catalogare automaticamente come “scientificamente errato” o semplicemente “non scientifico” ogni discorso in cui traspaia la categoria di finalità». Sarebbe più ragionevole, conclude Agazzi, «l’accettazione del concetto di disegno intelligente utilizzato sul terreno filosofico e teologico, senza lasciarlo debordare sul terreno scientifico. Il che, d’altro canto, non esclude che anche in campo scientifico si possa tentare di darne una precisazione accurata e scevra da riferimenti espliciti ad interpretazioni filosofiche o ad immagini antropomorfiche, come è stato fatto nella scienza per tanti concetti, e potrebbero derivarne allargamenti fecondi di prospettive teoriche e linee di ricerca fuori da ogni ibrida mescolanza di scienza, filosofia e fede, le quali possono reciprocamente arricchirsi nella misura in cui siano chiare le loro specifiche differenze non meno che i possibili punti d’incontro».

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    00 09/12/2011 12:12

    Il filosofo Antiseri:

    «il concetto di laicità lo dobbiamo al cristianesimo»

    Il filosofo italiano Dario Antiseri, già docente presso l’Università “La Sapienza” di Roma, l’Università di Siena, l’Università di Padova e recentemente insignito (assieme a Giovanni Reale), di una laurea honoris causa presso l’Università Statale di Mosca, è intervenuto come relatore all’incontro “Il Cattolicesimo liberale nell’epoca del Risorgimento” svoltosi presso la Pontificia Università Lateranense.

    Antiseri, definito uno «tra i più solidi filosofi del nostro tempo», ha dichiarato che «senza il cristianesimo questa Europa non sarebbe esistita. La Grecia ha dato all’Europa l’idea di razionalità ma non ha passato i suoi dei. Invece il cristianesimo ha passato l’idea che un conto è Dio e un altro è lo stato e le sue istituzioni. Quest’ultimo non deve essere adorato, ma semmai dal cristianesimo è venuto il dovere di “giudicare” lo stato e il suo rispetto della libertà e della dignità di ogni essere umano».

    I cristiani, al contrario di tutti coloro che li hanno preceduti, «condividevano una idea di persona libera e responsabile, assegnando allo stato il compito di servire le necessità collettive”. Il “governo cristiano” ipotizzato da alcuni di loro consisteva nel decentrare con l’arte del “lasciar fare”, il contrario dello stato centralizzato che invece vuole “fare tutto», ha aggiunto.

    Ho poi concluso con un vasto riferimento al ruolo dei cattolici nell’attualità. Sulla questione laicità era già intervenuto qualche mese fa dalle colonne de Il Corriere della Sera (cfr. Ultimissima 26/5/11) dicendo: «Laico è, dunque, il cittadino della società aperta — un cittadino che, come dice Popper, “riconosce che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influsso del cristianesimo“, e che, diversamente dal laicista fondamentalista, sa che “il vero liberalismo non ha niente contro la religione“». Laico, cioè cristiano.

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    00 15/12/2011 22:13

    Il filosofo Williams:

     la conversione dal buddhismo al cattolicesimo

    Tra i massimi studiosi europei delle religioni orientali vi è Paul Williams, professore emerito di “Filosofia indiana e tibetana” presso il Dipartimento di Teologia e Studi religiosi dell’Università di Bristol, per oltre 30 anni è stato uno delle maggiori autorità accademiche sul buddismo. Tuttavia nel 1999 si è convertito con grande sorpresa al cattolicesimo, dopo aver seriamente riflettuto sul karma e l’aldilà.

    Lui stesso era un convinto buddista, intellettuale e professionista fino alla conversione che, come dicevamo ha sorpreso i suoi allievi, colleghi e familiari. La rivista buddhista inglese, Dharmalife, la prese davvero male scrivendo: «Williams è uno dei principali studiosi inglesi del buddismo e un praticante buddista da molti anni. Come stupefacentemente è stato udito, ha deciso di diventare cattolico. Cattolicesimo!».

    Nel 2002 ha pubblicato un libro con la sua testimonianza di conversione e riflessioni dove racconta come sia stato educato da anglicano, ma dopo la laurea in filosofia buddhista ha abbandonato. Scrive: «Nel 1973 ero tranquillo: avevo studiato il buddismo e sembrava coerente, Dio non era necessario ed ero considerato come un buddista». In qualità di professore ha creato la sua cerchia di buddisti. «Ho praticato la meditazione buddhista tenendo conferenze nelle riunioni, nei talk show e partecipando a dibattiti pubblici con il cattolico dissidente Hans Küng. Non credevo in Dio…o meglio, non sembrava esserci ragione di credere in Dio e l’esistenza del male era per noi un argomento positivo in questo senso. Nel buddismo si ha un sistema di moralità, spiritualità e filosofia immensamente sofisticato (ed esotico), non hai bisogno di Dio per nulla».

    Nel cosiddetto buddhismo occidentale, spiega il docente in un articolo recente su Religion en Libertad,  alcuni leader buddhisti promuovono la “bestemmia terapeutica” per facilitare il distacco dal background cristiano, le cose offensive sono considerate sacre nella loro cultura. Anche altre cose sono sempre rimaste poco ragionevoli per Williams: l’infinita reincarnazione, anche in forme di animali e per sfuggire a tutto questo -che anche loro considerano terribile- il buddismo insegna che è possibile raggiungere l’illuminazione, il nirvana, la perfezione assoluta in questa vita e il distacco, cosa però rarissima e suprema. L’inesistenza di una spiegazione al dolore innocente è poi la cosa che lascia davvero spaesati: «non può essere visto come soddisfacente. Il buddhismo non aveva speranza per me. I cristiani hanno invece speranza, così ho voluto tornare ad essere cristiano. Mi sono reso conto che è razionale credere in Dio, molto di più del non credere».

    Dopo aver esaminato la chiave del messaggio cristiano, la resurrezione di Gesù, «sono rimasto sorpreso di scoprire che la risurrezione letterale di Cristo dai morti dopo la sua crocifissione è la spiegazione più razionale di quello che è successo. Questo ha reso il cristianesimo l’opzione più razionale delle religioni teistiche, e come cristiano ho sentito che la priorità dovrebbe essere data alla Chiesa Cattolica. Il cristianesimo è la religione del valore infinito di ogni persona. Ogni persona è una creazione individuale di Dio. Qui sta tutta la morale cristiana dal valore di altruismo della famiglia e del sacrificio dei santi». Oggi Paul Williams è un domenicano laico e un grande ammiratore di San Tommaso d’Aquino, anche se continua ad essere professore e specialista di Buddismo.

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    00 20/12/2011 23:32

    Il filosofo Richard Sherlock si è convertito al cattolicesimo

    Con queste parole il prof. Richard Sherlock ha cominciato il suo articolo su Catholic Online in cui annuncia pubblicamente la sua conversione: «non ho lasciato la religione o il cristianesimo. Ma ho lasciato il mormonismo. Sono diventato più profondo, più intellettuale, più spirituale e più veramente cristiana di quanto non lo sia mai stato, letteralmente. Mi sto convertendo alla Chiesa Cattolica Romana. Tutte le strade vere portano a Roma».

    L’articolo, intitolato “Perché sono cattolico“, è molto lungo e descrive il viaggio compiuto da Sherlock, docente di filosofia presso la Utah State University, ricercatore ad Harvard e membro della Society for Philosophy and Technology e della American Philosophical Association. Cresciuto in una famiglia di mormoni, da quando ha preso la sua decisione di convertirsi nell’ottobre 2010, si è accorto in realtà di aver sempre ragionato come un cattolico. Il tutto è iniziato quando è venuto a Roma con alcuni amici cattolici nel febbraio 2010 per una conferenza su Dietrich von Hildebrand. Dopo l’incontro si è svolta una messa in una «maestosa cattedrale accanto alla Pontificia Università della Santa Croce. Se i miei amici non fossero stati con me io probabilmente non vi sarei andato. Durante la messa ho sentito la potenza dello Spirito Santo, in un modo che non avevo mai sperimentato in questi anni. E’ stata una sensazione, ma era più di un sentimento. E’ stata una presa di verità, un’iluminazione, se vogliamo». Un secondo episodio importante è stata la visita nel settembre 2010 al monastero di Huntsville (Utah). Raccolto nella cappella ha trovato una copia della Bibbia di Gerusalemme. «Sono stato in profonda meditazione sul racconto della passione di Luca. Ancora una volta la stessa sensazione ricevuta a Roma, solo più forte». Il terzo avvenimento decisivo è stata una conferenza pro-life nella chiesa cattolica di “Maria Immacolata” a Cache Valley. Ascoltando padre Wade Menezes «sono stato ridotto alle lacrime. Ho cercato di nasconderlo. Ho tolto gli occhiali e ho strofinato costantemente gli occhi, come se vi fosse entrato qualcosa. Un paio di volte ho pensato di uscire dalla chiesa. L’esperienza è stata maestosa. La presenza dello Spirito Santo per me quel pomeriggio non era solo sentimento. Era e rimane un dono di verità che non è solo sentimento».

    Ognuno di questi tre eventi non era assolutamente pianificato. La conversione, dice Sherlock, «è una questione tanto di cuore quanto di testa. Il Mormonismo è tutto sentimento e quasi mai è una conversione di testa. Ma la conversione deve essere più di una semplice sensazione, la ragione è un dono prezioso Divino. Dovremmo usarla». Affronta così, all’interno dell’articolo, l’insufficienza del mormonismo: «la teologia sviluppata da Joseph Smith nel 1840 è seriamente sbagliata». E lo dimostra affrontando alcuni punti-chiave, come: la risposta alla teodicea, cioè al problema dell’esistenza del male, il fatto che Dio sia ritenuto un essere fisico/materiale e che la materia è eterna, che Dio sarebbe stato creato in qualche parte del mondo o in un universo alternativo e la non necessità dell’incarnazione di Dio.

    Sherlock invita i dubbiosi a fare il grande passo con lui, anche se sa bene che la conversione adulta di un cattolico «non può iniziare e concludersi in un breve periodo di tempo. Nel mormonismo è possibile essere battezzati in poche settimane. Nel mio caso, ho cominciato a frequentare gli incontri per i battezzandi nel mese di ottobre 2010 e spero di essere un catecumeno nel giugno 2011 e verrò accolto nella Chiesa cattolica con il battesimo, la cresima e la prima comunione a Pasqua 2012. Si deve capire l’esperienza cattolica di comunione, sacramentale, liturgica e teologica prima di prendere un vero impegno».

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    00 21/01/2012 23:17

    Il sociologo Stark commenta la diffusione del cristianesimo nel mondo

    Il “Corriere della Sera” ha intervistato uno tra i più autorevoli sociologi della religione, docente di Social Sciences alla Baylor University e prima alla Washington University, professore onorario presso l’Università di Pechino. Si tratta di Rodney Stark, autore di oltre trenta libri e altrettanti articoli scientifici. L’occasione è il recente rapporto “Pew Forum Research, che vede in questo inizio del 2012 il cristianesimo come la più diffusa religione mondiale, quella che appare più adatta all’era della globalizzazione. «Forse la più rimarchevole caratteristica della fede cristiana», ha spiegato Stark, «è la suacapacità di fondersi con ogni cultura umana. Così come la Bibbia è stata tradotta in molte migliaia di lingue, allo stesso modo ci sono migliaia di confessioni cristiane, ma ognuna di esse è autentica perché il messaggio di base è veramente universale».

    Ha quindi commentato le ultime statistiche, dalle quali si evince che il maggior numero di cristiani vive nel Nuovo Mondo. Nord e Sud America hanno insieme il maggior numero in assoluto e la maggiore percentuale di cristiani. Qual è il problema in Europa? Risponde: «In questo momento il cristianesimo europeo manca di credenti impegnati. Questa mia affermazione diventa veramente ovvia se prendiamo in considerazione le statistiche sui cristiani “attivi”, cioè su quelli che frequentano la chiesa regolarmente». Tuttavia, secondo lui «c’è una notevole possibilità di revival religioso nel Vecchio Continente. È ben noto che i tassi di fertilità in Europa sono caduti molto al di sotto della quota di sostituzione. Ma non tutti i gruppi hanno una bassa fertilità. Chi partecipa attivamente alla vita di una Chiesa ha dei tassi di fertilità molto al di sopra della quota di sostituzione. Di conseguenza la popolazione che va in chiesa sta crescendo, mentre la popolazione secolarizzata declina, e le future generazioni di chi frequenta la chiesa potranno sorpassare di numero chi invece non la frequenta. Così le chiese europee potranno diventare affollate». L’analisi di Stark coincide con i risultati di un recente studio dell’Università di Jena in Germania, in base ai quali le società dominate da non credenti sono destinate all’estinzione mentre i popoli religiosi si evolveranno e si riprodurrano molto più velocemente.

    Conosciamo bene la situazione nel Nord America e negli USA, dove oltre l’80% è cristiano: «se nel 1850 circa un terzo degli americani apparteneva a una congregation, cioè ad un gruppo religioso organizzato locale, all’inizio del XX secolo vi appartenevano metà degli americani e oggi questo dato è salito al 70 per cento». In Africa subsahariana e in Asia orientale ci sono oggi circa 800milioni di cristiani, una cifra simile a quella delle Americhe: «Le mie statistiche, basate su ricerche Gallup in circa 160 nazioni, mostrano che ci sono molti più cattolici in Africa di quanto riportino i dati ufficiai della Chiesa. Apparentemente, la crescita è stata così rapida che anche i preti locali hanno perso il conto. Infatti, al di sotto del Sahara, il cristianesimo sta crescendo più rapidamente dell’islam». Dalla situazione cinese si possono trarre altre conclusioni: «La rapida crescita del cristianesimo in Cina riflette l’universale appropriatezza della fede e specialmente la sua compatibilità con la modernità, contrariamente a quello che si può pensare. Fondamentalmente il cristianesimo è una religione della ragione, nel senso che ha sempre cercato di spiegare il suo insegnamento di base. Offre risposte ragionate a domande fondamentali. E lo fa sulla base del fatto che Dio è l’essenza della ragione e la sua creazione è così razionale che può essere spiegata e capita: questa è la base della scienza. Al contrario, le religioni orientali non danno spiegazioni, ma solo meditazioni. I cinesi sono veramente consapevoli della compatibilità del cristianesimo con la scienza e l’economia moderna. E il cristianesimo attualmente è più forte tra i cinesi più immersi nella modernità e le migliori università cinesi sono molto più evidentemente cristiane di quanto lo siano le università americane».

    [Modificato da Credente 21/01/2012 23:19]
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    00 11/02/2012 22:50

    L’antropologo Yves Coppens: «l’uomo nasce religiosus»

    Tra i più celebri paleoantropologi viventi c’è certamente il francese Yves Coppens, passato alla storia per essere lo scopritore della nostra antenata più famosa e antica, «Lucy». In una recente intervista apparsa su Avvenire, riprende il discorso sull’Homo religiosus che aveva cominciato un anno fa (cfr.Ultimissima 22/9/10).

    Allora aveva detto: «L’homo religiosus coincide con l’uomo in generale. L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso». Rispetto al darwinismo dichiarava invece: «Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse [...]. L’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione».

    Qualche giorno fa, come dicevamo, ha approfondito il discorso: «il primo oggetto fabbricato dall’uomo è già un simbolo sacro. D’altronde, quando vedo i popoli nativi ed osservo che i loro gesti sono tutti rituali, non posso pensare che non sia successo lo stesso con l’uomo primitivo. La percezione della forma è già la comprensione di qualcosa di sacro [...]. Il cambiamento progressivo che ha permesso all’uomo di sviluppare delle idee, gli ha fornito anche la possibilità di percepire qualcosa d’altro: l’avvenire, il passato. Uno sguardo sull’infinito e insieme dentro di sé». I «laici» non ci resteranno bene, riflette l’intervistatore. Lui replica: «Non credo che esista davvero una reale laicità se non come un’altra maniera di pensare il sacro. L’uomo è irrimediabilmente simbolico, almeno in questo stadio dell’evoluzione; e in questo non vedo differenza d’essenza tra il primo uomo e noi, se non nel progresso e nell’affinamento del pensiero».

    L’istante della creazione può essere collocata in quell’istante di passaggio tra l’ominide e l’uomo? «Questo devono dirlo i teologi, non è il mio mestiere. Io mi limito a osservare i dati sul campo e a constatare il momento di passaggio di una soglia. Certo qualcosa in quel momento è successo: l’uomo non è stato più il pre-uomo che era prima. Non so se questo sia l’attimo della creazione, però una volta ricordo di aver sconcertato il cardinale Jean-Marie Lustiger, il defunto arcivescovo di Parigi, affermando: “Più le cose si spiegano in modo naturale, meglio è per il soprannaturale!“…».

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    00 06/03/2012 23:09

    Dio è un prodotto dei desideri dell’uomo?


     
     
    di Giorgio Masiero*
    *fisico e docente universitario

     
     

    Questo sito tratta frequentemente – da ultimo in una serie di articolidi Michele Forastiere, dove la questione è stata esaminata a livello scientifico interdisciplinare – del rapporto tra mente e cervello, perché è un problema cruciale delle scienze razionali, sia umane che naturali. Pur ospitando anche le voci riduzionistiche, in coerenza alla sua missione UCCR propugna la centralità dell’uomo nell’Universo e l’irriducibilitàdella mente alla materia-energia: una concezione che a molti filosofi e scienziati, credenti e non, sembra più razionalmente fondata dell’opposta. Apriti cielo!Ogni volta, si solleva in un crescendo rossiniano l’onda irridente degli ambienti atei intolleranti della Rete, con accompagnamento di accuse di passatismoantropocentrismo e, manco a dirlo, sfregio alla scienza.

    Ne faccio un esempio per tutti. Un laureato in scienze della comunicazione che dichiara di fare «l’istruttore ad una scuola di calcio per bambini dai 6 ai 10 anni», evitando accuratamente di entrare nel merito filosofico o scientifico delle tesi sostenute in uno dei sopracitati articoli, dal suo blog pontifica: «Chi teorizza l’esistenza dell’anima immaterialenon ha quel minimo di conoscenze scientifiche (la forma mentis) per discutere sull’argomento o non sa scremare il suo pensiero da quell’elemento che in speculazioni del genere dovrebbe esser lasciato fuori il più possibile: la speranza.Sperare di non essere sola materia [sic: il Nostro è fermo alla fisica del ’700!], in questo caso, finisce per portare a conclusioni inevitabilmente contaminate e razionalmente discutibili prese per buone solo perché desiderabili. Sia in un caso che nell’altro, sia che ci si trovi a parlare con gente che non ha argomenti sia che si interagisca con chi confonde speranza e ricerca della (approssimazione della) verità, è davvero difficile portare avanti una conversazione costruttiva. E ho imparato a lasciar perdere. […] Supponenza? Sì, mi sa di sì». Segue il dovuto plauso al “supponente” dei suoi 4 (quattro) follower, come lui più esperti in dietrologia della speranza che in logica ed epistemologia, mi sa.

    Ho preso il discorso di questo blogger non per la sua valenza scientifica, che è palesemente nulla, ma perché riprende – più con gli automatismi di un linguaggio compilatore, che con lo spirito critico che si richiederebbe ad un aspirante giornalista – il piatto forte, che poi è una minestra riscaldata da secoli, del “new atheism” militante contemporaneo, da Dawkins agli emuli di casa nostra. È un ragionamento accattivante, che mi ha intrigato la prima volta che l’ho incontrato, alle lezioni liceali di filosofia sulla sinistra hegeliana e sul pensiero di Ludwig Feuerbach (1804-72), in particolare. Questo filosofo tedesco, che da giovane fu uno studente luterano di teologia, dedicò tutta la sua vita a tentar di dimostrare, con ricerche storiche, antropologiche, psicologiche ed anche gastronomiche, che non l’uomo è stato creato da Dio, ma piuttosto Dio è un concetto creato dall’uomo. Le qualità che noi uomini possediamo in misura finita (per es., la bontà, la forza, l’intelligenza, la stessa vita) e di cui però abbiamo un desiderio illimitato, leoggettiveremmo al massimo grado nell’idea di Dio, che concepiamo infinitamente buono in contrasto alla nostra finita bontà; onnipotente, in contrasto alla nostra piccola potenza rispetto alle forze naturali; onnisciente, a differenza della nostra limitata intelligenza; eterno, in opposizione alla nostra mortalità. Dio sarebbe quindi, soltanto, la proiezione di questa operazione mentale promossa dalla nostra volontà di potenza. Gli ateismi di MarxNietzsche e Freud sono solo varianti di questa fulminante illuminazione di Feuerbach.

    Fu dunque Dio a creare l’uomo, o l’uomo a creare Dio? Per un lasso della mia giovinezza ho vissuto il dilemma come un dissidio interno tra il richiamo del cuore, restio ad abbandonare il tranquillo porto approntatomi dalla cultura in cui ero stato allevato, e la lusinga di un ragionamento che mi spingeva verso acque ignote. Capivo che la scelta che avrei infine intrapreso non era solo teorica, ma sarebbe stata un crinale con conseguenze decisive sulla mia vita. La propensione verso le posizioni della sinistra hegeliana, cui contribuiva il clima politico e culturale universitario degli anni ‘70, era in me mitigata dal contrasto tra le previsioni teoretiche marxiane e la realtà oppressiva del socialismo reale nell’Est Europa di allora. Filosoficamente, avevo la soluzione del paralogismo feuerbachiano sotto il naso, ma non la vedevo. Poi la luce arrivò, gradualmente fino a divenire accecante.  I giovani della sinistra hegeliana, si sa, rovesciarono il pensiero di Hegel come un guanto: Stirner ne capovolse le tesi politiche, Feuerbach i fondamenti religiosi, Marx la teoria economica. Però tutti conservarono il carattere peculiare del loro maestro: la prosopopea di chiamare ad ogni pagina scientifico il proprio pensiero, e ideologico quello di chi non la pensava come loro (anche in questo sentimento di “supponenza” i loro adepti contemporanei ne sono pedissequi imitatori!). Scientifico, nel senso positivo di vero, universale, definitivo; ideologico, nel senso spregiativo di ipocrita, in mala fede, preconfezionato a coprire interessi di parte. E come Hegel pensava che, dopo la sua “Fenomenologia dello Spirito”, nessuno avrebbe avuto più nulla da aggiungere e sarebbe finita la filosofia (mentre la storia s’incaricò di mostrare che ciò che si avviava al termine era solo il sistema prussiano di cui Hegel era stato cantore), così i filosofi della sinistra hegeliana presumevano che le loro idee su politica, religione ed economia fossero scevre da pregiudizi personali e rappresentassero l’ultimo esito dello sviluppo oggettivo dello Spirito umano universale. Nei secoli successivi, invece, ancora una volta, i fatti testardi avrebbero dimostrato la contingenza del loro pensiero e l’imprevedibile, inesauribile ricchezza della storia umana. Con riguardo alla critica della religione di Feuerbach, capii finalmente, aiutato dallo studio di Tommaso d’Aquino, che l’errore dell’argomento non sta nella falsità della proiezione, ma al contrario nel fatto che una proiezione c’è sempre, in ogni tipo di conoscenza umana.

    Mentre Aristotele sosteneva che la mente riflette senza modificazioni ciò che esiste fuori di noi (la realtà), San Tommaso attenuò la corrispondenza tra realtà ed intelletto con l’osservazione, che anticipa di molti secoli Kant:“Cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis”, il conosciuto sta in chi conosce attraverso le modalità di chiconosce. La realtà, insomma, nel venire conosciuta si adatta ai nostri sensi e alle nostre categorie mentali. Così, non solo nell’atto di pensare a Dio, ma anche nel conoscere un amico o nell’osservare un evento, mettiamo in azione l’umana struttura mentale e la personale forza d’immaginazione, aggiungiamo qualcosa di noi stessi all’oggetto, sia come uomini in generale che come persone particolari: dunque proiettiamo. Ma questo implica necessariamente che ad una nostra proiezione non corrisponde nulla fuori di noi? È ovvio che una cosa non esiste solo perché uno, o anche molti di noi la desiderano; ma vale anche l’inverso: non è che una cosa non esiste, solo per il fatto che qualcuno la desidera. Qui sta il sofisma di Feuerbach, stancamente ripetuto dagli ateisti moderni che si dichiarano, sbagliando, nuovi e razionalisti: Dio non esiste, dicono, perché sono gli uomini (compresi, ahimè, loro stessi!) a desiderare (o a temere) che esista. Ma perché una cosa che si desidera o si teme, non deve esistere? Perché ciò che dall’alba del genere umano viene venerato dev’essere per questo motivo solo un’idea? Perché la ricerca dell’archè, il principio originario di tutte le cose, da cui sono sorte la filosofia e la scienza, dovrebbe essere un’attività insensata?

    Gli articoli che appaiono quotidianamente in questo sito e l’ospitalità offerta senza censure a tutte le voci stanno a dimostrare che noi cristiani non abbiamo nulla da obiettare allo scrutinio rigoroso, sotto gli aspetti storico, antropologico, psicologico o neuro-fisiologico, della nostra fede. Ma nessuno studio “scientifico” sull’anima umana (che poi vuol dire nessuna elettrotecnica di misure neuro-encefalografiche) potrà mai dimostrare alcunché riguardo all’inesistenza di una realtà assoluta indipendente dalla psiche. Il che significa che, forse, al desiderio di Dio dei credenti può corrispondere un Dio reale, e che forse, al contrario, proprio il desiderio di un ateo che Dio non esistapotrebbe essere la proiezione di un suo determinato pregiudizio, magari esito di un’intima, casuale esperienza infantile quando la sua ragione non era ancora matura. Per concludere, l’argomento della proiezione, da cui sono nati gli ateismi filosofico e psicanalitico e di cui si pascono ossessivamente i new atheist postmoderni, ha valore logico zero come prova dell’inesistenza di Dio. Ne prendano intelligentemente atto.

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    00 22/04/2012 20:54

    Il filosofo Antiseri:

    «il messaggio cristiano libera dell’ideologia razionalista»

    Tra i filosofi più affermati del nostro tempo, c’è sicuramente Dario Antiseri, già docente presso l’Università “La Sapienza” di Roma, l’Università di Siena, alla LUISS di Roma e all’Università di Padova. Lo abbiamo citato altre due volte, entrambe in merito al tema dellalaicità: essa la dobbiamo la cristianesimo ha affermato, spiegando in un secondo articolo che la vera laicità stima il cristianesimo, non è contro.

    Molti dubbi sollevano le sue prese di posizione su tematiche etiche, sopratutto perché egli arriva spesso ad abbracciare il più aperto relativismo. E’ emerso questo in un suo recente articolo per il “Corriere della Sera”, in cui ha sottolineato in maniera molto interessante la forte limitatezza della scienza in ambito conoscitivo: «Tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa venga praticata – in fisica e in economia, in biologia e in storiografia, in chimica come nella critica testuale – si risolve in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi controlli al fine divedere se esse sono false [...]. Ciò nella consapevolezza che, per motivi logici, non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria: anche la teoria meglio consolidata resta sempre sotto assedio». La parte più controversa della sua presa di posizione (occorrerebbe più spazio per trattarla), è la sua domanda: «tutte le etiche sono diverse, ma ce n’è una migliore delle altre? C’è, insomma, un qualche principio etico che, razionalmente fondato, possa valere erga omnes?», e la sua risposta, che apre al relativismo etico«Si tratta di un’inevitabile domanda che, tuttavia, non pare possa avere una risposta positiva». Questa è una negazione della legge naturale iscritta in ogni uomo, quella legge che -iscritta dal Creatore- rende uguale il “cuore” di ognuno in qualsiasi angolo del mondo.

    Alla stessa domanda che si è posto Antiseri, papa Benedetto XVI ha risposto -nel suo celebre discorso sul diritto naturale-, di “si”: l’etica migliore delle altre è «la conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell’uomo», la quale «aumenta con il progredire della coscienza morale [...]. La legge naturale è la sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare [...]  è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica [...] La legge iscritta nella nostra natura è la vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità.».  Sulla base del diritto naturale, «è possibile sviluppare un fecondo dialogo tra credenti e non credenti; tra teologi, filosofi, giuristi e uomini di scienza, che possono offrire anche al legislatore un materiale prezioso per il vivere personale e sociale». Tornando ad Antiseri, è vero che -come afferma lui- non è la scienza a poter aiutare in questo, perché da essa «non è estraibile un grammo di morale. I princìpi etici si fondano su scelte di coscienza e non sulla scienza», ma sbaglia, a nostro avviso, in modo clamoroso quando sostiene che «sorprende l’insistenza di tanti intellettuali cattolici i quali pensano che sia la ragione, al di fuori della Rivelazione, a stabilire, in maniera ultima e definitiva, ciò che è Bene e ciò che è Male». La verità è invece conoscibile da ogni persona, credente o meno, nella semplice “lettura” corretta della sua coscienza, questa possibilità è alla base del dialogo tra le religioni, è la base di una comune ricerca, e quindi della democrazia.

    Superato questo punto controverso, Antiseri si domanda «che cosa sarebbe questa nostra «cum-scientia» umanitaria, che cosa sarebbe in altri termini l’Occidente senza il messaggio cristiano?». Rileva infine la caratteristica fondamentale del cristianesimo: «La fede cristiana – che, essendo appunto fede, viene abbracciata e va testimoniata, proposta e non imposta – libera l’uomo dall’idolatria, anche dall’idolatria di una ragione concepita come Dea-Ragione». La ragione, continua il filosofo, «non è quella prostituta di cui parla Lutero, ma non è nemmeno quella dea davanti alla quale seguitano a inginocchiarsi i seguaci – laici e cattolici – delle svariate forme di fondamentalismo razionalistico. La ragione, piuttosto, è una preziosa lanterna, da tenere sempre accesa, necessaria per la correzione dei nostri errori; indispensabile perché le nostre scelte vengano compiute a occhi aperti, vale a dire con l’intelligenza delle loro conseguenze; e capace di scrutare quei limiti di se stessa, senza la cui consapevolezza popoleremmo la Terra, come insegnano tragiche esperienze del passato e del presente, di idoli mostruosi assetati di sangue». A conti fatti, un altro bell’articolo di Antiseri, che espone la sua visione in modo chiaro, seppur in parte -come spiegato- non condivisibile.

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    00 22/04/2012 21:02

    Il filosofo Gaston Bachelard

    contro l’illusione del riduzionismo scientista

    Dal 2001 al 2011 gli studi scientifici ritrattati sulle rivistesono aumentati di 15 volte. La scienza avanza per continui errori, anzi, per dirla con Albert Einstein«La scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici […] La scienza può soloaccertare ciò che è, ma non ciò che dovrebbe essere, ed al di fuori del suo ambito restano necessari i giudizi di valore di ogni genere» (“Pensieri degli anni difficili”, 1965).

    La realtà è dunque ben più complessa di quanto affermano iriduzionisti, categoria sempre meno presente -fortunatamente- nelle accademie universitarie, ma purtroppoancora stabile sul web e sugli organi di informazioni. “La scienza ha detto quello”“la scienza ha fatto quest’altro”, ripetono persone che mai hanno visitato un laboratorio, nemmeno quando andavano a scuola. Parlano di “vittoria della scienza sulla filosofia“, la ritengono l’unica fonte di verità, definiscono la “fantomatica” scienza come un essere pensante, un organismo che muovendosi e pronunciandosi autonomamente decide come vadano le cose nel mondo. E’ semplicemente la forma più comune di idolatria dei moderni, «quando il Cielo si svuota di Dio, la Terra si riempie di Idoli», direbbe Karl Barth. Da una parte, nella sezione scientifica dei quotidiani si parla solo di “gene della fedeltà”“gene della sofferenza”“gene dell’umiltà”, dall’altra c’è la guerra tra gli scienziati costretti a pubblicare qualsiasi cosa, anche con scarsa attendibilità, pur di ricevere uno straccio di finanziamento. «La scienza è malata» (Cortina 2010), è il titolo del recente libro di Laurent Segalat, genetista e direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique, il quale ha spiegato che le quattro riviste scientifiche più conosciute totalizzano da sole il 20% degli articoli ritirati per “errori conclamati”, riconoscendo l’incompetenza dei propri redattori.

    Secondo il fisico premio Nobel Richard Feynman«a una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora più in profondità» (“The Value of Science”, Basic Books 1958). Per lui nessuno potrà mai sostenere di aver capito la meccanica quantisitica, mentre il fisico statunitense Lee Smolin ha riconosciuto che «abbiamo fallito [...]. La nostra comprensione delle leggi della natura ha continuato a crescere rapidamente per oltre due secoli, ma oggi, nonostante i nostri sforzi, di queste leggi non sappiamo con certezza più di quanto ne sapessimo nei lontani anni Settanta» (“L’universo senza stringhe”, Einaudi 2007, p. X). Secondo il dottor Massimo Buscema, dr. computer scientist, esperto in reti neurali artificiali e sistemi adattivi, «la scienza non esiste se non fa errori. Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori».

    Proprio in questi giorni vi è stato un convegno all’Università di Milano-Bicocca e all’Università di Bergamo sul pensiero del celebre filosofo francese Gaston Bachelard, il quale ha contribuito (assieme a Kuhn, Popper e Feyerabend, ad esempio) ad obbligare «intere generazioni a fuoriuscire dalla tentazione sempre viva di riduzionismo e cioè di limitare la ragione alla sola ragione scientifica, confusa via via, per lo più, con il paradigma scientifico in vigore (meccanicismo, vitalismo, positivismo, evoluzionismo…) o addirittura ricondotta a empirismo o, ancora, identificata con la tecnologia»come ha spiegatoFrancesca Bonicalzi, docente di Filosofia morale nell’Università di Bergamo. La quale aggiunge: «Rispetto alle chiusure sempre ritornanti di una scienza che si sclerotizza in descrizioni oggettive e rigidi paradigmi e che, per questo, si rende incapace di interrogarsi sui propri metodi, la riflessione bachelardiana si impone come un pensiero al lavoro che produce effetti e misura il movimento dinamico – vale a dire attivo – della ragione». Anche il tentativo di sfruttare la scienza per abbordare il mistero dell’Essere pare dunque fallito. Passano i secoli, le ideologie si alternano, ma sempre più verificata è la dolorosa ammissione del premio Nobel Thomas S. Eliot«Tutto il nostro sapere ci porta più vicini alla nostra ignoranza».

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    00 03/05/2012 23:41

    Lo storico Peter Harrison:
    «la teologia fece nascere la scienza»

    Nel mondo anglosassone il dialogo tra scienza e fede trova molto più spazio sui quotidiani internazionali rispetto all’Italia. Questo è spiegabile con il fatto che in queste aree le voci critiche al rapporto tra scienza e religione sono molto presenti e altrettanto stanno diventando gli intellettuali che prendono posizione in favore. In Italia purtroppo non c’è nessun critico di livello. Ultimamente è intervenuto lo storicoPeter Harrison, docente e primo ricercatore presso il Centre of the History of European Discourses dell’University of Queensland. Ha insegnato presso l’Università di Edimburgo e a Oxford, dove è stato anche direttore del “Ian Ramsey Centre”, è membro dell’Australian Academy of the Humanities, ha ricevuto dal governo australiano laCentenary Medal nel 2003 per meriti accademici.

    Ha scritto su “ABC” che la predicazione dei vari anti-teisti circa il fatto che la scienza ha reso incomprensibile la fede religiosa è innanzitutto in contrasto con l’evidenza storica«si può notare», infatti, «che una alleanza tra scienza e ateismo è qualcosa che i fondatori della scienza modernaavrebbero trovato sconcertante.  E’ noto da tempo che le figure chiave nella rivoluzione scientifica del XVII secolo hanno accarezzato sincere convinzioni religiose». Inutile fare lo sterminato elenco (che si può trovare qui), egli ne cita solo alcuni: Copernico, canonico della cattedrale di Frombork in Polonia; Keplero, il quale riteneva che le sue leggi del moto planetario avevano catturato il piano divino dell’universo; Roberto Boyle, il padre della chimica moderna, il quale «era un modello di pietà cristiana e credeva che i progressi scientifici avrebbero dato sostegno alla verità del cristianesimo»; Isaac Newton, il quale «scrisse molte parole in più su argomenti teologici che su materie scientifiche», e così via. Certamente ci sono stati numerosi scienziati non credenti, ma «ciò che è particolarmente significativo» degli scienziati credenti già citati, «è che la loro scienza si basava fondamentalmente su ipotesi religiose circa la liceità e l’intelligibilità matematica del mondo naturale». Cioè, era proprio la teologia cristiana a spronarli nello studio della Natura: dalla creatura al Creatore. «La credenza teistica», ha continuato il celebre storico australiano, «era parte integrante delle loro indagini scientifiche e ha fornito un fondamento metafisico fondamentale per la scienza moderna. Le vestigia delle convinzioni teologiche di questi pionieri della scienza moderna può ancora essere trovato nel comune presupposto che ci sono leggi di natura che possono essere scoperte dalla scienza».

    Harrison ha riconosciuto che dopo Darwin qualcosa è tuttavia cambiato, sopratutto per lastrumentalizzazione che venne fatta del suo lavoro da parte di intellettuali laicisti e positivisti. L’evoluzione mette effettivamente in difficoltà alcune aree del protestantesimo cristiano, eppure, scrive,«Darwin stesso era abbastanza astuto da rendersene conto. Il grande scienziato era molto probabilmente ancora un teista quando scrisse “L’Origine delle Specie”, e in una lettera scritta vent’anni dopo la sua pubblicazione, ha dichiarato che era “assurdo dubitare che un uomo potesse essere un teista ardente e un evoluzionista”». La sua perdita di fede, ha ricordato ancora, è dovuta all’esistenza del male nel mondo e non dalle sue teorie scientifiche. Questo, ha spiegato lo storico, «ha poco o niente a che fare con il progresso della scienza».

    Chi sostiene che la scienza abbia preso il posto della religione, compie una «generalizzazione grossolana». Attraverso un semplice esempio, Harrison ha rivelato quale sia il compito della scienza(spiegare il “come”) e quale quello della religione (spiegare il “perché”): la scienza spiega come e grazie a cosa voi state leggendo queste parole, ma non può dire nulla sul perché le stiate leggendo. «La distinzione tra questi due tipi di spiegazioni», ha sottolineato, «risale al filosofo greco Socrate». Egli «non ci lascia alcun dubbio su quale sia la più soddisfacente [...], abbandonò infatti l’indagine del mondo naturale agli inizi della sua carriera filosofica, al fine di dedicarsi alle domande che riteneva essere dimaggiore importanza»Infatti la sua tesi era che «le questioni di importanza definitiva per gli esseri umani hanno a che fare con la verità, la bellezza e bontà. Sono questi i valori per cui era disposto a sacrificare la sua vita». Aveva pienamente ragione: un uomo può vivere benissimo anche non sapendo se è la Terra a girare attorno al Sole o viceversa, ma non può fare altrettanto senza arrivare ad una considerazione sul senso del suo esistere.

    Proprio per questo, ha concluso lo storico, «la maggior parte dei filosofi della tradizione occidentale, e in effetti la maggior parte delle tradizioni religiose del mondo, hanno dichiarato che una spiegazione soddisfacente delle cose di maggiore interesse per gli esseri umani richiede un riferimento ad una realtà trascendente». Lo ha fatto ad esempio uno dei più grandi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein«Ritengo che, anche se tutte le possibili domande scientifiche avranno risposta, i problemi della vita non saranno affatto stati toccati».

     

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    00 28/05/2012 23:05

    Lo psicoanalista Jacques Arènes:
    «il cristianesimo è realista e liberante»

    Ogni tanto capita di leggere i pensieri di qualche sedicente “libero pensatore” nel quale si accusa il cristianesimo e la Chiesa di aver “buttato” addosso all’uomo innocente il peso di una colpa ancestrale derivante dall’errore commesso da Adamo ed Eva”. Bisogna sottolineare che in realtà il peccato originale è la più valida spiegazione per la debolezza umana per cui “anche volendo fare il bene si sceglie il male”. Proprio questo insegna la Chiesa, ovvero una fragilità intrinseca della natura umana che porta l’uomo all’inclinazione verso il male. E’ una visione assolutamente realista.

    Lo conferma anche il noto psicoanalista e psicoterapeuta francese Jacques Arènes«Nel mondo cristiano, fin dall’inizio, si credeva al peccato originale. Si condivideva più o meno questa “colpa”. Era impossibile esserne esenti, anche se si era comunque assolti.Trovo questo profondamente liberante. Il senso di colpa, quando non scade in un aspetto morboso, è libertà. Il fatto di avere un rapporto personale e soggettivo con la colpa, davanti all’altro – il prossimo e/o Dio – è molto importante per la libertà di ciascuno. Ma oggi siamo in una società che si vuole de-colpevolizzata. Invece di cercare “colpe” personali, si rinvia a “colpe” collettive identificando dei gruppi di “cattivi”». Per Arènes, ciò che è sbagliato è l’idea che «ci si possa premunire contro la “colpa”, essere dalla parte dei puri, di coloro che sono in buoni rapporti con gli altri, è molto “imprigionante”. Molte persone pensano ad esempio che si possa evitare di commettere errori se appena si è un po’ informati. Così, sono sprovvedute di fronte alla violenza, a volte alla loro violenza, e di fronte ai conflitti in generali. Ora, bisogna avere il realismo della fallibilità. C’è una opacità della vita umana che fa sì che non si possa sempre evitare di commettere errori».

    Questo realismo è ben presente nel cristianesimo: «la vita non è quello che si percepisce immediatamente. C’è anche un realismo sulla sofferenza, sui limiti della vita, sulla fragilità e sulla vulnerabilità, anche sulla colpa. Certo, vogliamo essere persone “buone”, ma non ci riusciamo sempre. È la vita. Le religioni sono particolarmente realiste in rapporto alle questioni ampiamente rimosse oggi, come la fine della vita e il lutto. Tutti affronteremo questo problema. Ma la nostra società non propone che soluzioni dell’ordine della potenza. In quanto l’idea è di invecchiare restando giovani, o di scegliere una “buona morte”. È un tranello. Il cristianesimo ci insegna anche che si può scegliere una maggiore libertà interiore…, anche a costo di una certa sofferenza. Penso che non si debba eliminare completamente l’idea che nelle nostre vite ci siano mancanze. La vita cristiana postula che si possa attraversare la sofferenza con una forza che accompagna la persona».

    La psicanalisi convive benissimo con la religione, come affermava similmente qualche mese fa il neuroscienziato Matthew S. Stanford«non ho visto ostilità nel mondo universitario. Vent’anni fa, ci sarebbe stata un’accoglienza più fredda», continua lo psicoanalista. «È vero che il concetto di guarigione in psicanalisi è abbastanza vicino a quello del giudeo-cristianesimo. Ma la psicanalisi e la religione sono in parte irreconciliabili, soprattutto in Europa, dominata dalla psicanalisi freudiana. Per Freud, nato in un secolo positivista, l’inconscio è puramente laico. Per molto tempo, gli psicanalisti tendevano a dire: dell’interiorità dell’essere umano, tocca a noi occuparci, è il nostro territorio ed è puramente laico. L’essere umano diventa così in fondo padrone e possessore di se stesso. Ma subito si scontra con ciò che è sconosciuto dentro se stesso. Del resto, è per questo motivo che le persone vanno dagli psicologi/psicanalisti. Oggi, gli psicanalisti diffidano meno delle religioni. Il vero pericolo per gli psicanalisti non sono più le religioni, ma tutte le concezioni di pensiero puramente materialiste. Come certe derive naturaliste delle neuroscienze, che ci spiegano che lo spirito umano è un po’ come un hardware, come un “cablaggio” neuronico e che noi saremmo tutti determinati dai nostri neurotrasmettitori».

    [Modificato da Credente 28/05/2012 23:06]
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    Credente
    00 15/06/2012 18:18

    La gratitudine, ovvero ciò che differenzia i credenti dagli altri

    di Marco Fasol*  docente di storia e filosofia

     

    “In principio Dio creò il cielo e la terra… e Dio vide che era cosa buona”, per sette volte viene ripetuto, nel primo capitolo della Bibbia, che tutta la creazione è cosa buona. E la settima volta, dopo la creazione dell’uomo, viene avvalorata la benedizione divina con un superlativo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona”. Allora che cosa troviamo all’inizio della creazione ed all’inizio della Bibbia?

    Troviamo una “benedizione originale” da parte di Dio. All’origine del mondo vi è l’entusiasmo di Dio, che ha creato, e quindi ama la sua creazione, ne esalta la bellezza e la bontà.  Quindi tutto il creato è buono, molto buono. E’ oggetto della benedizione di Dio. Nessuno Lo ha costretto a creare. Se ha creato, vuol dire che ne valeva proprio la pena. Che cosa vuol dire “benedire”?   E’ una parola di consacrazione, una dichiarazione d’amore: voglio il tuo bene, ti voglio bene. Esprime il compiacimento di Dio per ogni creatura. Per questo il creato è sacro. Siamo sicuri che Egli ama il suo creato, se ne prende cura, lo porta al suo compimento, alla sua realizzazione.

    Potremmo dire dunque: “In principio era la gioia”. Perché Dio era felice di creare un mondo meraviglioso. Il termine ebraico che esprime la bontà del creato, “tov”,  indica tutto ciò che è positivo, affascinante, buono moralmente. I greci hanno tradotto “kalòs”, che indica soprattutto la bellezza estetica del mondo, del kòsmos. I latini hanno tradotto“bonum” che indica l’utilità pratica e il valore etico del creato. Questa bontà e bellezza della creazione ci spiegano la Bontà e Bellezza di Dio, del loro Creatore. L’uomo intelligente, l’uomo biblico è colui che non dimentica mai, neppure per un istante, questa benedizione originaria da cui è scaturito tutto l’universo. Non siamo figli del caso, ma della benedizione di Dio. Ciascuno di noi è un pensiero di Dio.  Diventa dunque fuorviante qualsiasi spiritualità incentrata sul pessimismo e sul peccato da riparare. La fonte prima di ogni spiritualità biblica sarà sempre la gioia e l’amore perché Dio stesso è amore e gioia di vivere. Certamente non è la gioia incantata e trasognata di chi vede solo il bene. Vediamo tutti i giorni che la felicità come assenza di dolore non è di questo mondo, è utopia illusoria. Ma l’importante è conquistare una volta per tutte questa consapevolezza che la festa, la benedizione è all’origine di tutto e ne sarà lo scopo entusiasmante. E’ questa certezza che ci apre il sentiero per arrivare alla gioia di vivere, di cui comincia a parlare la teologia contemporanea.

    Prima di tutto, per l’essere umano, viene dunque la meraviglia, la gratitudine per quanto Dio ha fatto per noi. Poi verrà naturalmente la fede.  Ma se l’uomo non sa ringraziare per tutto quello che ha ricevuto, è ben difficile che nasca la fede. Per questo Meister Eckhart, un grande mistico tedesco, scrive: “Se nella tua preghiera riesci a pronunciareuna sola parola: ‘grazie’, sarebbe già abbastanza”Certo che è già abbastanza! Perché in quel ‘grazie’ è racchiuso tutto il nostro sentimento di gratitudine che è la fonte di ogni nostra azione. Per questo un uomo senza Dio, non potrà mai essere un giusto, anche se rispetta la morale orizzontale della coscienza: non uccide, non ruba, non dice il falso… Perché il primo atto di giustizia consiste nel cercare la propria Causa per esserLe grato. Ha ricevuto tutto e non ringrazia di niente! Noi diciamo che è maleducato chi non dice grazie semplicemente per un piccolo regalo. E chi non dice mai grazie al suo Creatore può essere un uomo giusto?

    Come scrive Abraham Heschel, l’ebraico biblico non ha nessuna parola per indicare il dubbio, mentre ha moltissime parole per indicare la lode, il canto, la gioia, la benedizione, la meraviglia davanti alla bellezza del creato. Da questa meraviglia nasce la gratitudine, che è il sentimento fontale da cui scaturisce il senso della nostra vita. Allora tutto ciò che esalta la bellezza della creazione diventa una lode di Dio. Dobbiamo rivalutare ed apprezzare ogni gesto ed ogni azione autenticamente umana. L’amore sessuale legittimo, la danza, la festa, il sano divertimento, il gioco, l’umorismo, la creazione artistica, il gustare i prodotti della terra e del lavoro dell’uomo… tutto questo è una lode del Creatore. Una sentenza talmudica dice che noi meritiamo il Paradiso tanto quanto siamo riusciti a gustare le bellezze ed i doni della creazione. Ovviamente nel rispetto delle leggi di Dio. E saremo giudicati su tutti quei piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato. L’etica biblica non è un’etica rinunciataria e proibizionista, ma un’etica positiva di amore per il creato. Se il nostro sentimento dominante non è il canto, la gratitudine per tutto quello che il Signore ha fatto per noi, noi lasciamo pericolosamente spazio ad altri sentimenti: alla paura, all’angoscia, alla depressione, alla rabbia che ci raffredda.

    La grande tradizione cristiana ha sempre magnificato le bellezze della creazione. Pensiamo al Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi che è alle origini della nostra letteratura italiana. Una bellissima poesia di lode e di gratitudine, al punto che ogni creatura viene innalzata alla dignità di “fratello (sole), sorella (luna ed anche morte corporale) e madre (terra)”. Il creato diventa la nostra famiglia, caro come un familiare. Il cardinal Wishinsky, primate di Polonia nei difficili anni del comunismo, padre spirituale di Giovanni Paolo II, ha scritto in una lettera di compleanno: “Ti ringrazio o Dio, perché mi hai abbracciato attraverso le braccia di mia madre”. E’ la preghiera di un autentico uomo biblico, che sa riconoscere in tutto il bene che riceve dalle creature, un dono allusivo alla bontà di Dio. Ha concretizzato Dio, che non è il misterioso ed inaccessibile Altro, ma è talmente concreto e vicino da esser presente in tutte le persone che ci amano davvero.

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    00 18/02/2013 19:14

    Superare la legge di Hume in una prospettiva teleologica

     
    di Luigi Baldi*
    *dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova

     

    Il problema del rapporto tra giudizi di fatto e giudizi di valore è uno dei più spinosi del pensiero contemporaneo. Si tratta di capire se è possibile o meno ricavare dalla conoscenza della natura, quindi anche della natura umana, delle prescrizioni, ovverosia norme, doveri, quindi anche diritti.

    Il primo a impostare il problema in questi termini è il filosofo empirista scozzese David Hume, che nel suo Trattato sulla natura umana sottolinea che è scorretto il procedimento mentale con cui si pretende di passare dall’ambito dell’essere e quello del dover essere, da ciò che è o non è a ciò che, rispettivamente, deve o non deve. Ricavare da un asserto puramente descrittivo, cioè una affermazione che descrive un dato di fatto, un asserto prescrittivo, cioè una conclusione che prescrive un comportamento come moralmente o giuridicamente obbligatorio, è un salto logico che gli appare del tutto arbitrario[1].

    La “legge di Hume” è ribadita dal filosofo analitico inglese George Edward Moore (1873 –1958), che, nei suoi Principia ethica, parla, in proposito, di “fallacia naturalistica”, criticando la pretesa di dedurre precetti etici o giuridici dalla constatazione dei caratteri della natura: i termini etici non possono, infatti, essere validamente definiti in modo descrittivo. Il bene non può essere considerato un oggetto esterno, “come un qualsiasi oggetto naturale, descrivibile dalla fisica o dalla metafisica”[2]. Si tratta di un concetto semplice, che non può essere descritto attraverso un elenco di qualità (piacere, felicità, dovere) che le cose buone devono possedere: spiegarlo in questo modo significa risolverlo in altri termini, ridurne la nozione ad altre che indicano delle entità naturali. “Se mi si chiede: che cosa é bene? La mia risposta è che bene è bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? La mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quel che ho da dire sull’argomento. Ma per quanto tali risposte appaiano deludenti, sono della più fondamentale importanza”[3].

    Il bene è indefinibile perché ognuno è costantemente consapevole della nozione di bene nel momento in cui fa esperienza di cose buone. Esso si comporta come il «giallo», la cui essenza è indefinibile; non è possibile spiegare cosa sia il «giallo» a chi non lo abbia mai visto, ma chi lo ha visto lo coglie in virtù della sua esperienza diretta senza bisogno di nessuna ulteriore spiegazione. Ne consegue l’impossibilità di fondare l’etica su una qualsiasi forma di conoscenza: il bene non è conoscibile razionalmente. Lo stesso filosofo del diritto Hans  Kelsen (1881 – 1973) rileva alla base del giusnaturalismo, cioè della dottrina del diritto naturale, un errore logico, consistente nella pretesa di ricavare norme dalla realtà dei fatti; nessun ragionamento logico, infatti, consente di passare dalla realtà naturale al valore morale e giuridico. “Chi crede di trovare, di scoprire o di prendere conoscenza di norme nei fatti o di valori nella realtà, inganna se stesso. Infatti, anche se inconsciamente, egli deve proiettare le norme (da lui in qualche modo presupposte come fondamento dei valori) nella realtà dei fatti, per potere poi dedurre da questi. Realtà e valore appartengono a due sfere distinte”[4]. Sulla stessa linea si trova R.M. Hare nel suo Linguaggio della morale e, in Italia, BobbioLecaldanoCarcaterra,Scarpelli, il quale ultimo, proprio muovendo dalla dichiarata cesura tra l’ambito del conoscere e l’ambito dell’agire, è giunto a farsi portavoce di un’Etica senza verità.

    Il problema della legge di Hume e della fallacia naturalistica va considerato alla luce dellenozioni di natura e realtà che si assumono e, più in generale della concezione fisica e metafisica in cui esse si inquadrano. Il filosofo scozzese parte dal presupposto tipicamente moderno e, nel suo caso, empiristico, che l’intelletto debba programmaticamente precludersi la conoscenza di qualunque verità che superi i dati strettamente risultanti dall’esperienza sensibile, avendo solo la possibilità di rielaborare questi ultimi per formulare dei concetti che si riducono a essere soltanto nomi, segni convenzionali, privi di consistenza ontologica in quanto tali (la penna è solo un nome con cui indichiamo gli innumerevoli individui che scrivono, perché per ovvi motivi di comodità e utilità non li possiamo citare tutti ogni volta che ne dobbiamo parlare). Ciò significa che non è possibile conoscere come certa alcuna legge sia fisica che metafisica, in quanto universale e necessaria, potendo giungere al massimo a valutazioni basate sulla probabilità. Questo ovviamente vale ancora di più per l’etica: non posso ricavare con lo strumento razionale una legge morale, un concetto di bene, che sia da considerarsi certo, cioè appunto universale e necessario.

    La legge di Hume, come osserva in proposito Berti nel suo Le vie della ragione, non è un qualcosa dotato di valore assoluto ed incondizionato, ma è legata a una visione ben precisa della realtà, sia sul piano fisico sia su quello metafisico, che influenza il suo pensiero e dello stesso Moore, ma che non può essere data per scontata, quasi (e sarebbe proprio un paradosso) un postulato, un …“dogma”. La sua validità sul piano ontologico pare, allora, strettamente legata a una identificazione, data per acquisita, della realtà con il dato naturale e a una nozione empirica della natura, intesa come un puro e semplice fatto, “un puro stato di cose già dato, un insieme di fatti collegati tra loro solo da leggi meccaniche descrivibili e ricostruibili solo mediante calcoli matematici”, e comunque mai, almeno per Hume, determinabili in modo assolutamente certo[5]. Tale visione si accentua particolarmente se il dato naturale è considerato sotto il profilo della biologia, almeno nell’accezione evoluzionistico-casuale, tipica del pensiero di Monod (Il caso e la necessità) e di una lettura filosofica, anch’essa tutt’altro che scontata, di Darwin. Se si pensa che, siccome per Darwin le specie viventi discendono dai rispettivi primati per variazioni casuali e selezione naturale, tutta la realtà (che coincide con la natura, of course) venga fuori e si fondi sulla casualità, con un’evidente arbitrario salto logico dalla biologia alla filosofia o alla … ateologia, è chiaro che la legge di Hume è perfettamente sovrapponibile.

    Reale, però, non è necessariamente detto che vada inteso come “ciò che c’è”, quasi una specie di dittatura indiscutibile (questa sì, veramente … dogmatica) del presente, anzi dell’istante come è coglibile dai sensi. Reale è l’infinita ricchezza dell’essere, nella sua profondità inesauribile, che soltanto l’anima umana può potenzialmente cogliere, in quanto apertura sull’infinito. Da questo punto di vista la natura rappresenta una dimensione della realtà, la prima tappa di un percorso che conduce l’intelletto umano a intus-legere, a leggere dentro, scoprire le strutture più intime e nascoste ai sensi, che danno il fondamento, il senso delle cose: “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ricorda la volpe al piccolo principe di Saint Exupéri e Montale a sua volta suggerisce che “sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai, perché  tutte le immagini portano scritto: “Più in là”!”. Ogni cosa e, innanzitutto, persona incontrate schiudono orizzonti, ogni aspetto e momento della realtà, la vita intera, suggeriscono, invitano, attendono un compimento, una realizzazione e non accettano di essere rinchiusi nella camicia di forza del dato di fatto, della presenza, come qualcosa di definito, già tutto attuato e definitivo. L’essere è essenza, cioè definizione e anche presenza, ma siccome esso è creato e dipende da Dio, che ne è la pienezza, allora è anche potenzialità, energia, dinamismo, tensione a una realizzazione piena, a una piena attuazione. L’essere di “ciò che c’è” non si accontenta di “ciò che è” ma desidera altro, appetisce (appetitusad-petere, tendere a), proprio perché non è già del tutto attuato: ciò che contraddistingue l’uomo è il fatto che egli lo sa, ne è consapevole.

    Se reale non significa automaticamente naturale, naturale non equivale necessariamente a meccanismo ed empiria. Tommaso d’ Aquino, sulla scia di Aristotele, non utilizza una nozione omogenea ed univoca di natura e, comunque, non esclusivamente empirico-biologica; l’applicabilità della legge di Hume al suo pensiero risulta, quindi, da questo punto di vista, quanto meno problematica. La natura ha un carattere analogico e indica tanto il processo del divenire di ciò che si genera, si trasforma e si corrompe, quanto il principio di tale processo, ovverosia la forma sostanziale, ciò che fa sì che una cosa sia quella che è e non un’altra. Tale principio formale, coincide in ogni cosa (anche non naturale) con il suo fine, cioè con l’operazione, l’azione a cui è predisposta e a partire dalla quale è possibile definirla: così la natura della penna è data dal fine di scrivere e se la penna non scrive non realizza la sua natura, ovvero il suo fine e questo vale anche per l’uomo, la cui forma sostanziale è la ragione, per cui realizza la sua natura, quindi consegue il suo fine proprio attraverso la ragione e la conoscenza.

    Se si intende la natura secondo una accezione finalistica (telos), come processo rivolto ad un fine e che nel fine trova il suo compimento, la legge di Hume diviene inapplicabile, perché non si tratta più di dedurre la norma da un fatto, con ovvie conseguenze anche sulla legge naturale. La natura come fine implica, infatti, l’idea di sviluppo e compimento di qualcosa che è già in potenza, con la conseguenza che il dover essere è, a livello implicito, strutturalmente inerente all’essere e la teleologia altrettanto inerente all’ontologia; da una siffatta concezione della natura umana risulta, allora,“possibile ricavare delle norme, delle prescrizioni, dei doveri, e quindi dei diritti”[6]. La visione classica colloca direttamente la natura nell’ambito di una prospettiva teleologica, non come qualcosa di estrinseco ma di intrinsecamente connesso alla sua struttura costitutiva e l’idea di fine rappresenta, da questo punto di vista, il punto di mediazione e di collegamento tra essere e dover essere[7]. Il concetto di fine, come ricorda anche recentemente il filosofo tedesco Robert Spaemann, appare come punto centrale di un nuovo paradigma di razionalità morale, che affronti la questione ecologica nel quadro di una critica all’idea baconiana di dominio dell’uomo sulla natura, di cui è ancora succube il pensiero retrostante la legge di Hume. Tutte le cose, dice ancora San Tommaso, tendono al fine ultimo, che è Dio; la differenza tra gli esseri dotati di ragione e quelli che non lo sono (animali, vegetali, minerali) consiste nel fatto che questi ultimi non ne sono consapevoli, mentre i primi lo sanno e proprio per questo possono con la loro libera volontà scegliere di assecondare o non assecondare questo processo, dire sì o no; in quanto tali sono responsabili di se stessi e anche dei primi, che sono a loro affidati.

    L’impostazione di fondo del pensiero scientifico moderno consiste, del resto, nell’escludere la considerazione della finalità dall’indagine sui processi naturali, in nome di una visione meccanicistica e deterministica della realtà, che dal piano fisico (la fisica newtoniana), dove è legittima, si estende a quello metafisico (la filosofia di Descartes e si Spinoza), dove invece è del tutto discutibile. E’ diverso dire, per es., che ho gli occhi predisposti per vedere e dire che vedo perché ho gli occhi. La scienza sperimentale non possiede, però, come riconosce correttamente Galilei, gli strumenti cognitivi per rispondere alla domanda circa l’esistenza o meno di una finalità e non può, perciò, escludere l’esistenza di qualcosa che comunque non sarebbe in grado di cogliere. La predisposizione dell’occhio alla vista è al di fuori dell’ambito del dicibile sul piano rigorosamente scientifico-sperimentale ma appartiene alla dimensione intelligibile della ragione. Essa suppone un ordine ontologicodell’occhio, tale da implicare un’intelligenza ad esso intrinseca, un logos, che lo struttura in modo tale da raggiungere un fine, che è il suo bene, ciò che lo realizza, e la cui mancanza (la cecità) è invece un male, cioè una mancanza, una privazione di bene. Tutto ciò è di competenza del filosofo ed eventualmente del teologo (è sempre la tesi di Galilei) ma non si può, rimanendo sul piano sperimentale, dire che non esiste, appunto perché non riconducibile a tale piano (è lo scientismo moderno). Spetta certamente allo scienziato descrivere uno stato di fatto, che così risulta per una combinazione di fattori, magari casuali, in presenza dei quali è possibile vedere. Se si ritiene, però, che la ragione, quindi la conoscenza, si risolva nel descrivere stati di fatto, il quadro è evidentemente completo e l’impossibilità di ricavare un dover essere risulta una conseguenza logica: il dover essereappare un’imposizione dall’esterno del tutto arbitraria e irrazionale, non, invece, il semplice completamento e l’attuazione di un processo già intrinseco.

    L’essere e, al suo interno, la natura, quindi la vita tutta, appaiono come processi orientati, ovverosia una continua e inesauribile tensione verso un qualcosa d’altro, che è il suo bene e ne realizza per questo i il compimento.  L’idea che il bene sia il fine a cui ogni cosa tende elimina in radice il problema del passaggio dai giudizi di fatto a quelli di valore perché riconduce il valore, cioè, appunto, il bene, al fatto, che non è più semplicemente tale, ma inserito in un ordine più ampio.

     

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    Note

    [1]. D. Hume, Trattato sulla natura umana, III, I, 1, Laterza, Bari 1971, pp. 496-497.
    [2]. E. Berti, A proposito della “Legge di Hume”, in, Fondazione e interpretazione della norma, a cura di A. Rigobello, XXXIX Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate(26, 27 e 28 aprile 1984), Editrice Morcelliana, Brescia 1986, pp. 237-238.
    [3]. G.E. Moore, Principia, Bompiani, Milano 1964, I, 6, p. 50.
    [4]. H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, 1998, pp. 72-73.
    [5]. E. Berti, Le vie della ragione, , il Mulino, Bologna 1987, p. 294.
    [6]. E. Berti, Le vie della ragione, cit., p. 293.
    [7]. Cfr. R. Spaemann, R. Löw, Die Frage Wozu?, cit. R. Spaemann, “Natur”, inPhilosophische Essays,, Reclam, Stuttgart 1983, pp. 19-40; da ultimo R. Spaemann, R. Löw, Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico, Ares, 2013.

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    00 21/06/2013 09:01

    Il filosofo Némo:
    «chi ha fede capisce la vera dignità dell’uomo»

    Il filosofo Philippe Némo, è uno dei tanti ex illuministi ed ex marxisti oggi convertiti alla fede, considerato uno degli epigoni dei“nouveaux philosophes” per le loro prese di posizioni anticonvenzionali. Ex allievo di Emmanuel Lévinas, è direttore delCentro di ricerche in Filosofia economica presso la prestigiosa ESCP Europe.

    E’ stato intervistato dal sempre ottimo Lorenzo Fazzini su“Avvenire” in occasione dell’uscita del suo ultimo libro intitolato “La belle mort de l’athéisme moderne” (Puf 2012), nel quale indaga le ragioni per cui la negazione di Dio non è oggi più così trendycome si pensava un tempo, affermando che «la voce del cristianesimo può di nuovo farsi ascoltare. Il cristianesimo torna ad essere la grande posta in gioco intellettuale della nostra epoca».

    Da convertito alla fede (e dunque da “esperto dei fatti”), ha affermato: «Non penso che non credere sia una colpa. È solo una sfortuna, perché impedisce di capire la vera dignità dell’uomo. Colui che non ha un senso della trascendenza conduce una vita priva di senso e chenon viene orientata da nessuna speranza». La libertà umana è sempre misteriosa, ma c’è da dire che «forse il diavolo gioca un ruolo nell’orchestrare i grandi movimenti ideologici che impediscono agli uomini la fede: essi così non hanno i modi per riflettere su se stessi e non possono difendersi contro la propaganda».

    Una riflessione davvero acuta la riserva anche per i divertenti “new atheist”«Gli argomenti evoluzionisti di Dawkins possono turbare solo quanti son stati formati a credere alla verità letterale della Bibbia. Questo è un problema all’interno della cultura anglo-sassone. Dennettcritica la fede con argomenti ispirati dalla scienza positivista. Ma la vera fede cristiana non ha in verità alcun contrasto con la scienza, come ha mostrato Pascal, perché queste due dimensioni non appartengono al medesimo ordine di cose. Dennett dunque si pone al margine delle questioni vere. Quanto a Onfray: io non concedo il minimo valore intellettuale ai suoi scritti. Del resto questi tre autori non sono dei filosofi, non li possiamo mettere sullo stesso piano di pensatori come Nietzsche, Marx o Heidegger».

    Nel suo volume si parla anche di questioni storiche, come le radici cristiane dell’Europa, creando un paragone con l’Olocausto: «Nella negazione dell’Olocausto si trova un antisemitismo implicito perché negare la specificità di questo evento porta a negare l’identità del popolo ebraico. Allo stesso modo coloro che hanno voluto ritirare dal preambolo del Trattato dell’Unione europea ogni citazione delle radici cristiane dell’Europa non commettono solo un grossolano errore storico. Essi vogliono anche imporre una certa visione dell’Europa,cambiare l’identità profonda degli europei e, in fin dei conti, tagliar fuori e marginalizzare i cristiani. Questa manifestazione di odio indistinto verso l’insieme di una collettivitàassomiglia, dunque, in qualche maniera, all’antisemitismo», ha concluso il filosofo francese.

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    00 15/09/2013 22:05

    DANTE: 

    Leggere la “Divina Commedia” per capire la vita 

    Franco NembriniLeggere la Divina Commedia per capire la vita, per amare il cristianesimo. E’ questo che anima centinaia di universitari in tutta Italia che “studiano liberamente i versi di Dante, appassionandosi al mistero insito nella realtà.

    L’associazione Centocanti, ad esempio, è nata nel 2005 ad opera di alcuni studenti dell’Università Cattolica di Milano, rigorosamente al di sotto dei 35 anni (perché per Dante quello era appunto «il mezzo del cammin di nostra vita») appassionati del padre della lingua italiana.Spiegano«Vogliamo testimoniare che questa è un’opera viva, che continua a parlare conimmutata freschezza e attualità al cuore di ogni uomo. Dante compie un viaggio dentro le dimensioni fondamentali dell’esistenza, ci parla del bene e del male, di amore e di perdono, e testimonia quanto il cristianesimo è capace di rispondere alla sete di felicità che abita nel cuore dell’uomo». Imparano alcuni canti a memoria e li recitano nelle metropolitane e nelle piazze milanese, con grande seguito di pubblico. Sempre a Milano, all’Università Statale è attiva un’altra associazione chiamata “Esperimenti danteschi” che, per quattro mesi, ogni settimana, ascoltano attenti lezioni tenute da alcuni tra i più importanti studiosi della Commedia.

    L’involontario ispiratore di questa passione che ha contagiato centinaia di giovani universitari milanesi si chiama Franco Nembrini, professore di italiano alle scuole superiori. Nembrini, cattolico bergamasco, gira l’Italia invitato dai centri culturali, parlando della Commedia” come un itinerario reale, personale, di salita al Paradiso. Autore di diversi libri, è stato contattato un giorno da Roberto Benigni, affascinato dal suo modo di confrontarsi con la Divina Commedia.Nel 2007 durante la prima romana dello spettacolo Tuttodante Benigni ha proprio citato Nembrini, invitato personalmente dall’attore toscano.

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    00 20/10/2013 19:24

    Maria Montessori era cattolica:
    smontata la leggenda nera

    Maria MontessoriMaria Montessori è stata pedagogista e scienziata, ma anche femminista e pacifista e una delle intellettuali italiane più famose nel mondo. La sua opera è ancora molto studiata, ma è soprattutto il suo“metodo” ad essere vivo in moltissime scuole materne, elementari, medie e superiori in tutto il mondo. E a lei fanno riferimento, in alcune opere, celebri pensatrici come Martha Nussbaum.

    Il famoso “metodo Montessori” è un approccio educativo basato sull’indipendenza e sul rispetto per il naturale sviluppo psicologico dell’alunno, la curiosità del bambino è il vero motore dell’apprendimento che lo porterà a sviluppare al massimo tutto lo spettro delle proprie capacità, a patto ovviamente che la sua crescita si svolga in un ambiente educativo predisposto a tutto questo.

    Una pensatrice di tale livello non poteva non essere strumentalizzata dalle correnti laiciste in versione anticattolica, ed è ciò che è stato fatto per anni creando la leggenda della “pedagogista anti-cristiana”. Tuttavia un libro appena pubblicato, Montessori. Dio e il bambino e altri scritti inediti (Editrice La Scuola, pp. 363) curato e introdotto dallo storicoFulvio De Giorgi, ha smontato tale “leggenda nera”. Montessori era donna di fede e non rinnegò mai la sua appartenenza alla Chiesa cattolica.

    Non solo, ma come spiega la casa editrice, nei testi inediti appena pubblicati -ritrovati nell’archivio romano di Luigia Tincani, fondatrice delle Missionarie della Scuola (e della Lumsa, la Libera Università degli Studi Maria SS. Assunta), e “confermati” dall’Associazione Montessori internazionale di Amsterdam- vengono espresse le “vere idee montessoriane”, “religiose” e “pedagogico-religiose”, come pure le sue ipotesi di educazione religiosa del bambino. Nel volume si trova anche un testo di “Regole” di una Pia Unione, quasi una Congregazione religiosa o, meglio, un Istituto secolare, datato 1910 e scritto da varie mani, compresa una parte nella quale è riconoscibile la grafia di Montessori. In una lettera del 1949 della Montessori a madre Tincani dall’India, in cui, insieme al malcontento e alle proteste sull’egemonizzazione del suo metodo in territorio indiano da parte di teosofi e non-cattolici, domanda un aiuto per ricevere un appoggio dal Vaticano per un progetto guidato da Gesuiti.

    I vari testi pongono la Montessori molto vicina ad autentica spiritualità cristiana, aperta allecorrenti “moderniste” (da qui nasce l’ostilità verso il cattolicesimo anti-modernista che ha dato lo spunto per la leggenda laicista). Si scoprono inoltre dati biografici inediti: l’avvicinamento ad ambienti cattolici come le Missionarie francescane di Maria; il Sodalizio religioso tenuto segreto e un’udienza privata, il 20 maggio 1947, da Pio XII.

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    00 04/11/2013 17:01

    Il senso religioso di Federico Fellini




    Federico FelliniA vent’anni dalla sua scomparsa l’Italia celebra il ricordo del celebreFederico Fellini, le cui pellicole hanno fatto sognare intere generazioni, comprese quelle più giovani come le nostre.


    Indimenticabile la malinconia de “La Strada”, dove il regista sembra suggerirci che la rinascita non può che partire dal recupero della possibilità di stupirsi davanti ad ogni sasso del creato, da quel desiderio di compagnia e di amore gratuito superiore ad ogni odio. Non a caso Papa Francesco lo ha recentemente definito «il film che forse ho amato di più» e «il film più bello e più francescano».


    Padre Virgilio Fantuzzi, classe 1937, è stato sul set «anche di notte, provvisto del “cestino” offertomi dalla troupe» dei più importanti film di Fellini, di cui era amico.«Se ho potuto beneficiare della sua amicizia», ha spiegato il gesuita ad “Avvenire”«fatta di tante confidenze, osservazioni, telefonate e confronti dopo aver letto le mie recensioni attorno alle sue pellicole, lo devo soprattutto al direttore della fotografia Peppino Rotunno, che mi permise di essere sui set dei suoi film, e a padre Angelo Arpa, amico intimo del regista, quello che è stato per tutti il prete di Fellini. Fu Arpa a darmi le prime chiavi di lettura per capire la grandezza del genio di Rimini, a cominciare dallo Sceicco Bianco».


    Una fede istintiva, quella di Fellini, dotato di uno spiccato senso religioso«ho bisogno di credere» disse a Sergio Zavoli. «E’ un bisogno né vivo né maturo, per la verità, un bisogno infantile di sentirmi protetto, di essere giudicato benevolmente, capito, e possibilmente perdonato».


    «Occorreva riconoscere», ricorda ancora padre Fantuzzi, «la grandezza di un genio che, con il suo retroterra cattolico, ha in fondo raccontato – a volte in modo implicito e con originalità – il suo rapporto con la fede ma anche con i riti della Chiesa», anche se -precisa- «Federico non ha mai varcato il limite che separa la religiosità implicita da quella esplicita. In parole povere non esiste un suo film interamente intessuto di tematiche religiose, anche se si può dire che ogni sua opera è animata dal soffio misterioso di un Dio nascosto». L’ultima volta che lo vide, pochi giorni prima della sua scomparsa, Fellini congedò padre Fantuzzi citando Jung: «”Il sentimento religioso ci dice che l’uscita è verso l’alto”. Parole che mi illuminarono sulla continua ricerca e attenzione al trascendente del mio amico Federico».


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    00 15/09/2014 12:57

    È una star del panorama letterario francese, tra gli immortali dell'Académie française. E i suoi libri sono pieni di domande su Dio e di meraviglia per la vita. Jean D'Ormesson si racconta


    Jean D’Ormesson.

    Jean D’Ormesson.



    È convinto che a Dio, se esiste, sarebbe bene gridargli: «Non cambiare niente!». Nei libri di Jean D’Ormesson, tra le star letterarie di Francia, si fondono saggio, romanzo e - come dice lui - «farsa metafisica». Le domande su Dio e la meraviglia di fronte alla vita sono ripetute in ogni modo, spesso sfacciato e divertito. A volte, grato, arreso. Di certo a calamitarlo è il pensiero di essere al centro del più incredibile dei romanzi: «La storia di questo nostro mondo. Innumerevoli volte avrebbe potuto sparire per sempre», e invece, «siamo qui». 
    Su una terrazza, in riva al lago di Losanna. Jean d'O (come lo chiamano in Francia) si entusiasma del sole che lo bacia seduto al tavolino. La luce è molto forte, ma si leva gli occhiali neri per guardarti negli occhi. Ha 89 anni. A 48 è entrato fra gli Immortali dell’Académie française, già per anni direttore de Le Figaro, presidente dell’Unesco, ambasciatore all’Onu. È a Losanna per presentare il suo ultimo libro: Comme un chant d’espérance. Mentre in Italia è da poco uscito il penultimo (Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto): un immaginifico e triplice romanzo sulla sua famiglia, la storia del mondo e Marie, l’amore della vita, che perde e poi ritrova. Un libro pieno di stupore per l’infanzia vissuta a Plessis-lez-Vaudreuil, quando «Dio si incaricava di tutto e ci aveva in simpatia»; pieno di amara sorpresa per come l’uomo è diventato «sempre più potente e sempre più smarrito», e di instancabile fiducia perché «le maledizioni non tardano a trasformarsi in benedizioni». Un libro che si apre con suo nonno e si chiude con le stelle. 

    Da dove le viene questa meraviglia di cui parla sempre? 
    È che provo ammirazione di fronte agli uomini, di fronte alle cose. Mi piacciono. Sono sempre pronto ad applaudire. Forse è il mio temperamento... Mi ricordo molto bene che a sei, sette anni, ero lì a giocare, e all'improvviso mi fermavo e dicevo: ma cosa sto facendo qui? Perché sono qui? Era un sentimento che avevo molto forte. E che ho, ancora, molto forte. Anche noi adesso, a questo tavolo, cosa ci facciamo? Mi sorprende il mistero di questa vita. Forse, semplicemente, non sono mai uscito dall’adolescenza (ride). Comunque, non conosco altro motore della letteratura e della vita se non la curiosità e l’insoddisfazione, il desiderio. 

    Perché scrive? 
    Non ho mai creduto che sarei diventato uno scrittore. Ci sono autori che hanno scritto romanzi e grandi classici a quindici, vent’anni. Io a venticinque non avevo la minima idea di mettermi a scrivere. Non perché non conoscessi la letteratura, la conoscevo bene, ho fatto una scuola Normale. È che non vedevo nessuna utilità nell’aggiungere qualcosa a Flaubert, per intenderci. Poi, a trent’anni, ho scritto il primo libro. Solo per piacere ad una ragazza. Piano piano, ho continuato. Gli ultimi tre libri sono dedicati al problema di Dio e dell’avventura straordinaria che è l’universo. Forse anche perché un uomo della mia generazione ha visto il mondo cambiare in cinquanta anni come non è cambiato in mille. 

    In più occasioni ha detto di considerare la crisi di oggi come una crisi di spiritualità e ha definito il nostro tempo «un Medioevo senza cattedrali». 
    L’epoca in cui viviamo è molto rude e difficile. Il secolo scorso è stato segnato da due cose opposte: le due Guerre Mondiali e il progresso della scienza. Ma, oggi, questi progressi fanno paura: la clonazione, innanzitutto. Non è escluso che in futuro i bambini non nascano più dall’amore tra un uomo e una donna! Che la sessualità scompaia. Questi cambiamenti causano la crisi del mondo moderno e dico che viviamo un Medioevo senza cattedrali perché mancano profondità, altezza. L’uomo è sempre più potente e sempre più smarrito. 

    Qual è la strada per recuperarle?
    Io credo che i giovani di oggi non sopportino esattamente ciò che non sopportavo io da giovane: che i vecchi diano lezioni. Ed io non voglio né posso dare lezioni. Non sono fra quelli che dicono: «Prima era meglio». L’anno scorso mi sono ammalato e il medico mi ha detto che c’era una possibilità su cinque di uscirne vivo. Eccomi qui. Trent’anni fa, sarei morto. Allo stesso tempo, è certo che viviamo in un mondo duro, e il peggio è ancora possibile. Ma resta sempre una speranza. 

    Quale?
    Che ci sia qualcosa sopra di noi. 

    Si definisce un credente «ravagé par le doute», tormentato dal dubbio. Ma al di là delle definizioni, cosa vuol dire nella sua vita che «la domanda su Dio è la sola domanda e mi abita da sempre»?
    Sono stato educato nella religione cattolica e spero di morire in seno alla Chiesa cattolica, ma non sono mai stato un ragazzo pio. Tutto ciò che posso fare è sperare che esista. 

    In tutto il libro, c’è questo refrain: «Se Dio esiste». Ma le ultime pagine sono una preghiera, in cui a Dio dà del “tu”: «Ah, se esisti....». E immagina di trovarsi un giorno davanti al Creatore e di ringraziarlo perché gli deve tutto, nella speranza che Lui, chinandosi, le dica: «Ti perdono». 
    Il matematico Bertrand Russel, ateo, di fronte alla domanda di un giornalista («se quando muore, Dio c’è?»), ha risposto: «Non ho prove sufficienti». Non è una buona risposta. Mi ha colpito sentire quello che invece ha detto una suora di fronte alla domanda inversa: «E se alla fine scoprisse che Dio non esiste?». Ha risposto: «Peggio per Lui, io Lo amo comunque». Ecco, io spero che Dio ci sia, ma in ogni caso ho amato molto questa vita e mi sono sempre chiesto chi ringraziare. Nei miei libri c’è la risposta.

    Vivere «come se Dio ci fosse», come ha consigliato Benedetto XVI ai non credenti, cambia la sua vita? 
    Se non c’è niente oltre a questo mondo, non ha nessun senso quello che riceviamo, è tutto assurdo. Se c’è Dio, le cose prendono senso. Tutto, di colpo, prende senso. Ma, anche se non ci fosse, la speranza di Lui mi ha fatto vivere sopra me stesso, sopra la mia bassezza. 

    Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto è anche un romanzo d’amore, del suo amore con Marie. 
    Un amore che porta con sé la storia dell’universo. Perché amare non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme il mondo. 

    Ma chi è Marie?
    Questa è una domanda molto importante. Il personaggio di Marie appare in tutti i miei libri, ma su di lei non posso aggiungere nulla a quel che ho scritto. Vede, ci sono due modi di non parlare della propria vita: o tacere o parlare molto, ma senza dire l’essenziale. 

    Perché è così importante per lei Marie?
    Credo che abbiamo un solo modo di comunicare con Dio: passare attraverso gli uomini. Ci sono dei figli di Dio che ci sono più cari degli altri: Marie è il figlio di Dio che mi è più caro. Lei è in qualche modo inseparabile dal mio legame con Dio, è come un’incarnazione. 

    Marie, alla fine del libro, dopo aver ascoltato tutta la storia dell’universo, le dice: «Quello che volevo sapere continuo a non saperlo. La vita con te è stata meravigliosa. Siamo stati felici insieme. Ma poi ecco: questa vita è un fallimento. Non ha senso. È assurda. Ci siamo incontrati, ci siamo amati e saremo separati per sempre e spariremo nel niente. Sono già morta poiché morirò».
    Io non ho risposta per lei. So solo che abbiamo il diritto di sperare che ci sia qualcuno che si ricorda di noi per sempre. Se Dio c’è, è la memoria dell’universo, di tutto ciò che è stato e di tutti gli uomini. Delle farfalle dei fiori degli scorpioni. È possibile che non resti nulla di Bach, Mozart, Tiziano, san Giovanni, noi? Io scelgo il mistero piuttosto che l’assurdo. 

    Qual è la cosa più bella della sua vita? 
    Una delle cose che ho amato di più è la luce. Ho adorato nuotare nel mar Mediterraneo, sotto il sole, sciare e scendere dalla Maurienne verso l’Italia, lasciare Parigi nel mese di aprile, andare fino a Portofino per vedere il sole alzarsi e arrivare per pranzo a Roma, in piazza Navona. La bellezza è un mistero incredibile. 

    Nel libro la definisce «una promessa di felicità». 
    Lo riprendo da Stendhal. La bellezza, la verità, la giustizia... esistono veramente. Non le possediamo mai, non le raggiungiamo mai, ma esistono. Molti hanno creduto che il comunismo avrebbe dato la giustizia e ha dato Stalin. Allora si potrebbe pensare che la giustizia, il bene e la verità non ci siano. Invece bisogna seguirli, continuare a cercarli. Vede, io ho amato il piacere, ma può essere molto basso. C’è la felicità che è borghese, calma, annoiante. Poi, c’è la cosa più magnifica! La gioia. È quello che ci eleva. La nostalgia di un altrove. Non so dirlo diversamente: noi siamo nostalgia di un altrove. Non è possibile dire chi siamo meglio di così. 

    Ha sempre detto di non credere alla possibilità della rivelazione.
    (Fa un cenno con la mano, come a dire: non proprio... E sorride). I miei genitori erano cattolici liberali, di sinistra, e mi hanno insegnato solo due cose: bisogna lavorare e bisogna pensare agli altri. Un giorno, quand’ero bambino, mentre studiavo il catechismo, mio padre ha detto: «Oh, tutto questo... Non è molto sicuro». Bisogna stare attenti a quello che si dice ai bambini. Io credo che la forza del cristianesimo stia proprio in ciò che è più incomprensibile: l’Incarnazione. Dio che si fa uomo! Gesù è veramente figlio di Dio? Sarebbe magnifico. Penso ad altre divinità che si facevano umane, come Zeus, o a cose simili in altre religioni... Ma solo nel cristianesimo Dio si fa uomo per amore. 

    Perché vorrebbe morire in seno alla Chiesa cattolica?
    Ho assistito a dei funerali civili e li ho trovati molto tristi. Vorrei che quel giorno qualcuno suonasse Mozart e Bach e che i miei amici, dopo di me, festeggiassero. Perché può essere - può essere - che niente è perduto. 


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    00 16/09/2014 22:13
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    Flannery O’Connor, letteratura di caduta e redenzione






    La scrittrice cattolica, morta di Lupus a 39 anni, è considerata uno dei vertici della letteratura nordamericana del XX secolo







    Solo due romanzi, 39 racconti e volumi di lettere e saggi hanno fatto sì che Flannery O’Connor sia una delle scrittrice nordamericane più significative del XX secolo. Contemporanea di Truman Capote, Saul Bellow e John Salinger, e quindi parte della “Generazione perduta” del periodo tra le due guerre, si distingueva da loro per la sua profonda vita cattolica, autentica colonna vertebrale della sua breve vita, a cui pose fine il Lupus.

    Colei che aveva scritto “Per favore, Dio, aiutami ad essere una brava scrittrice” scoprì una vocazione per il disegno già da piccolissima. Mary Flannery O'Connor nacque a Savannah (Georgia, Stati Uniti) il 25 marzo 1925 da genitori cattolici irlandesi. Il Sud degli Stati Uniti era un territorio ostile per i cattolici, e forse per questo la famiglia riceveva con piacere i visitatori che giungevano da altri luoghi e che sarebbero stati fonte di amicizie per la scrittrice nella sua età adulta.

    Kafka e Joyce, degli sconosciuti
    A 19 anni, Flannery si laureò in letteratura. Il suo avvenire sembrava incamminato verso il matrimonio e l'insegnamento nella scuola secondaria della località in cui viveva, ma incoraggiata da alcuni professori decise di scartare quell'opzione per andare a studiare scrittura creativa all'Università dell'Iowa, prima facoltà a istituire quella disciplina negli Stati Uniti.

    In seguito la O'Connor definì quel contatto con la scrittura una frecciata: “La verità è che non ho iniziato a leggere fin quando non sono andata alla scuola di specializzazione, e allora ho iniziato a scrivere allo stesso tempo. Quando sono arrivata nell'Iowa non avevo mai sentito parlare di Faulkner, Kafka o Joyce, e men che meno li avevo letti, ma in quel momento mi sono messa a leggere tutto allo stesso tempo, al punto che non credo che su di me abbia influito un solo autore”.

    Dopo aver terminato gli studi in Iowa, visse per un periodo nello Stato di New York, dove divenne amica del poeta Robert Lowell, che la presentò a colui che sarebbe diventato l'editore dei suoi libri, Robert Giroux. Risale a quest'epoca anche la sua amicizia con il traduttore e poeta Robert Fitzgerald e sua moglie.

    Quando le venne diagnosticato il Lupus, malattia per la quale era morto in precedenza suo padre, abbandonò il Nord e tornò in Georgia con sua madre per scrivere, allevare pavoni, leggere opere di teologia, soprattutto San Tommaso d'Aquino, e mantenere una gran quantità di rapporti epistolari che ampliano a dismisura la sua produzione letteraria.


    Certa dell'Incarnazione e della bontà del mondo
    La sua passione per la scrittura non diminuì la sua fede, anche se non si faceva illusioni sull'influenza che avrebbe potuto avere con i suoi scritti presso i suoi contemporanei. “Una delle cose terribili da scrivere quando sei un cristiano – scrisse in una lettera a un'amica – è che per te la realtà suprema è l'Incarnazione (del Figlio di Dio, Gesù Cristo), la realtà presente è l'Incarnazione, e nessuno ci crede; non hai pubblico. Il pubblico è composto da persone che credono che Dio sia morto. Almeno sono consapevole del fatto che sto scrivendo per queste persone”.

    La sua consistente formazione cattolica andava di pari passo con le sue esperienze personali, e la portava a dire a un'altra amica parlando delle tecniche narrative che stava maturando: “La finzione è l'espressione concreta del Mistero, un Mistero vissuto. I cattolici credono che tutta la Creazione sia buona e che la malvagità sia il cattivo uso del bene, e che senza la Grazia lo usiamo male quasi sempre. È quasi impossibile scrivere sulla Grazia soprannaturale nella finzione. Quasi sempre dobbiamo affrontare la questione in modo negativo. Quanto alla Grazia naturale, dobbiamo riceverla come arriva, attraverso la natura. In ogni caso opera circondata dalla malvagità”.

    Il mondo letterario di Flannery, il Sud degli Stati Uniti, è popolato da esseri stravaganti, come un predicatore ateo che istituisce una “chiesa di Cristo senza Cristo”, un assassino nichilista, un venditore itinerante di Bibbie che seduce una donna con una gamba ortopedica di legno (nella sua Bibbia vuota tiene carte pornografiche, whisky e preservativi...).

    Ciò contrastava con la sua immagine personale, simile a quella di una professoressa accogliente seduta sotto il portico di casa sua, foderata nei jeans (cosa rara per l'epoca per una donna), con una camicia a quadri e le stampelle, compagne quotidiane per aiutarla nella sua malattia.

    La Chiesa senza Cristo
    Al di là di questa galleria di personaggi limite che ci presenta, troviamo una scrittrice che affronta senza complessi questioni legate al fatto religioso, come la salvezza, la redenzione e la grazia, la cui arte è una lode a Dio partendo dal suo legame profondo con la Chiesa cattolica.

    Al riguardo dirà: “Quando guardo i racconti che ho scritto, vedo che riguardano per la maggior parte persone afflitte e povere, sia di corpo che di anima, che hanno poco senso spirituale e le cui azioni non danno, apparentemente, al lettore alcuna sicurezza sulla gioia di vivere (…). Ciò significa che il senso della vita è centrato nella nostra redenzione da parte di Cristo, e quello che vedo nel mondo lo osservo in relazione a questo. Non credo sia una posizione da poter prendere a metà o che in questi tempi sia particolarmente facile farlo in modo trasparente nella finzione”.

    “La Chiesa senza Cristo” è l'espressione che diventa il messaggio centrale del predicatore Hazel Motes in “La saggezza nel sangue”. Come dice Flannery O’Connor nel prologo, “che il fatto di credere in Cristo sia per alcuni uomini una questione di vita o di morte è stato un ostacolo costante per quei lettori che preferiscono pensare che sia una questione di scarsa importanza”. La negazione sistematica di ogni fede cristiana, che fa la Chiesa senza Cristo, alla fine non fa che riaffermarla.

    Pochi anni prima di morire nel 1964 a 39 anni a causa del Lupus, si iniziò a riconoscere l'opera di Flannery negli Stati Uniti, e in seguito in Europa. Ella, che visse nel suo piccolo mondo del Sud, seppe conoscere e collegarsi come pochi altri con la portata di vita e meschinità che si annidano nel cuore umano fin dalla notte dei tempi, riscattata per sempre dal Dio fatto uomo in un'epoca e in luogo “strani” come il suo Sud paludoso.


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    00 09/11/2014 20:52

    Il matematico Lafforgue, medaglia Fields:
    «senza Cristo siamo perduti»

    Qualche mese fa, intervistato dalla rivista “Tracce”, ha parlato delle recenti votazioni europee spiegando: «Mi sento europeo in molti sensi. Innanzi tutto sono cristiano, anche se in sé il cristianesimo non è una religione europea. Sono europeo per la cultura. Sono uno scienziato, nel senso che partecipo a una scienza che è stata elaborata per la prima volta in Europa anche se oggi è praticata in tutto il mondo».

    La riflessione si sposta sul concetto di verità, sulla perdita di sensibilità verso di essa da parte di noi europei. «Per guardarci dall’errore, per sperare di camminare sul cammino della verità, noi non abbiamo migliore risorsa che la preghiera», ha spiegato Lafforgue. «Rivolgerci a Dio e pregare umilmente di illuminarci, perché facciamo l’esperienza, a volte individuale, a volte collettiva, di errori monumentali. La nostra intelligenza è debole tanto quanto la nostra volontà. Abbiamo bisogno di rivolgerci a Dio e di pregarlo di illuminarci. E questo non ci dispensa da usare il rigore della ragione, non ci dispensa dall’essere intelligenti».

    Molto interessante quando il matematico cattolico ha affermato che «in fondo a noi cristiani non interessa ”il cristianesimo”. Ci sono persone che se ne interessano, magari persone che non sono cristiane, e che vogliono vedere gli effetti della fede cristiana nella storia. Quello che i cristiani hanno fatto di bene e di male. I frutti della Chiesa. Ma per noi essere cristiani non è fare qualche cosa del cristianesimo, ma è rivolgersi a Cristo. Oggi il sentimento che domina in me è che senza Cristo siamo perduti. Ha presente quel passaggio del Vangelo in cui Gesù vede la folla e si commuove, perché erano “pecore senza pastore”?».

    Avendo partecipato molto al dibattito sulla scuola in Francia, Lafforgue ha spiegato che «oggi il fondo del problema della scuola è che non sappiamo più bene perché si debba trasmettere il sapere. Si ha un dubbio profondo su tutto ciò che siamo in grado di trasmettere. Anche l’ambiente intellettuale e universitario dubita del valore di quel che fa. E poi c’è il dubbio sul valore stesso della vita. Oggi tutte le società europee hanno pochi figli, e hanno pochi figli perché dubitano che la vita abbia davvero un valore. Per noi cristiani è Cristo a farcelo vedere. È il legame con Lui cherende ragione del valore della vita. Non a livello intellettuale, non è una teoria che giustifica la vita. Se siamo rivolti verso Cristo, il valore della vita è un’evidenza sensibile, visibile. È il valore della vita in tutta la sua pienezza. D’altra parte, per insegnare alle persone, non basta avere coscienza che la vita ha un valore, occorre avere anche un’idea di che cosa sia l’uomo. Chi sono i ragazzi a cui dobbiamo insegnare? Se non sappiamo chi sono, se pensiamo che siano materiale manipolabile in modo arbitrario, non c’è bisogno di insegnare questo o quello. Tutto è opinione. Se siamo rivolti a Cristo, vediamo l’uomo attraverso di Lui. Cristo è il modello di uomo ed è anche il modello di maestro».

    Un grande uomo di scienza, una grande fede e una grande capacità di comunicare la ragione della sua fede cristiana.


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    00 14/11/2014 13:43

    «L’uomo si sta sottovalutando,
    la coscienza è irriducibile»

    Federico Faggin«L’esperienza della coscienza è dotata di qualità intrinsecamente soggettive che le scienze del cervello non sono in grado di spiegare. Tale dimensione qualitative resiste ad un’interpretazione radicalmente riduzionista», ha scritto Massimo Reichlin, docente di Filosofia morale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele (M. Reichlin, “Etica e neuroscienze”, Mondadori Editore 2012, p.162).

    Non solo le scienze del cervello non riescono a spiegare, ma l’eccezionalità umana emerge ancora con più potenza da quando l’uomo si confronta con la robotica. La consapevolezza è infatti la nuova frontiera, scaricare in un computer i nostri ricordi, la nostra storia, le nostre emozioni e la nostra consapevolezza. «Era una sfida interessante. Ma dopo vent’anni ho capito che no, non è possibile. La consapevolezza va al di là del meccanismo. È un fenomeno primario. È una proprietà irriducibile della realtà» ha però spiegato il fisico Federico Faggin, celebre informatico italiano, inventore del primo microprocessore al mondo (ancora oggi utilizzato), tra i pionieri della Silicon Valley fondatore e direttore della “Synaptics”, la ditta che sviluppò i primi Touchpad eTouchscreen. Per questo “Forbes” l’ho ha messo accanto a Enrico Fermi dopo che ha ricevuto il “National Medal of Technology and Innovation” dal presidente americano Barack Obama.

    Non esisteranno mai macchine consapevoli e «più che rassicurarmi questa certezza mi ha aiutato a capire fino in fondo quanta più profondità ci sia in un uomo. O perfino in un animale. Un bambino che sbatte su un albero da quel momento sa che si farà un bernoccolo sbattendo contro ogni albero, alto, basso, giovane, vecchio, verde o spoglio che sia pino, abete o baobab: il computer no. Devo fargli immagazzinare tutte le variabili perché da solo non ci arriva. Una società “scientista” ci ha fatto il lavaggio del cervello spingendoci a pensare che tutto è macchina. L’universo è una macchina, noi siamo macchine… Assurdo. L’uomo si sta sottovalutando. E lo diciamo non sulla base di un dogma ma di quanto abbiamo potuto accertare».

    Siamo nell’era riduzionista,  scientista e secolarizzata dove la negazione dell’uomo serve per negare la creazione di Dio. Ed invece, spiega, serve un neo umanesimo post digitale. Oggi Faggin si occupa di finanziare «i ricercatori di varie università che cercano di trovare una teoria matematica della consapevolezza. Generalmente gli scienziati pensano (non tutti, si capisce) che questa sia un epifenomeno del funzionamento del cervello. Per me no. È primaria».

    Ma la consapevolezza è quella che chiamiamo anima? «È certamente un aspetto di ciò che chiamiamo anima ma preferisco non darle una connotazione religiosa. Meglio mantenere la cosa a livello scientifico. Per me Dio è una cosa così enorme che non mi ci voglio cimentare. Non voglio metterlo in una scatola. Classificarlo. Dio è la totalità dell’esistenza. È tutto. Everything. Lo banalizzerei cercando di ridurlo in concetti. Credo che ci sia una entità superiore che ha creato il tutto. Che ha creato l’esistenza. Ma a me interessa vedere questa cosa, la consapevolezza, sul piano scientifico. Da scienziato. Il mio rapporto con Dio è una dimensione privata. Riguarda solo me».


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    00 04/06/2015 14:54
    Edith Stein: la filosofa santa

    di Maurizio Schoepflin

    Filosofa, di famiglia ebrea, si converte al cattolicesimo, diventa suora carmelitana
    e paga con la morte adAuschzvitz il suo amore per la Croce.


    Beatificata, canonizzata e dichiarata solennemente compatrona d'Europa dal Santo Padre Giovanni Paolo II, la carmelitana Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, è stata una figura davvero emblematica del ventesimo secolo, capace, come poche altre, di rappresentarne il tormento e la speranza, il dolore e la redenzione.

    Edith Stein nacque a Breslavia il 12 ottobre 1891, settima figlia di due coniugi ebrei dalla profonda religiosità. Intorno ai vent'anni iniziò gli studi di filosofìa, e a Gottinga, sede di una prestigiosa università, diventò discepola di Edmund Husserl, uno dei maggiori filosofi contemporanei. Il primo gennaio del 1922 fu battezzata: il suggello alla sua conversione al cattolicesimo lo aveva posto la lettura di un'opera intitolata Vita di S. Teresa narrata da lei stessa, al termine della quale ella ebbe a esclamare: "questa è la verità!". Seguì un periodo in cui fu insegnante in una scuola retta dalle domenicane e presso l'università di Munster; di questo suo servizio di educatrice, una testimonianza preziosa proviene dalle sue stesse alunne, che dichiararono: "Intuivamo in lei qualcosa di molto raro: la perfetta armonia tra l'insegnamento e la vita personale". Il 14 ottobre del 1933 Edith entrò nel carmelo di Colonia; l'anno dopo ricevette l'abito e prese il nome di Teresa Benedetta della Croce; nel 1935 fece la professione temporanea e il 21 aprile del 1938 quella perpetua, maturando sempre di più la consapevolezza di essere vittima di espiazione. Alla fine del 1938 venne trasferita al carmelo di Echt, in Olanda: quattro anni dopo la Gestapo l'arrestò insieme alla sorella e la internò ad Auschwitz, ove il 9 agosto 1942 trovò la morte.

    Edith Stein scrisse varie opere che possono essere suddivise nel modo seguente: scritti autobiografici, studi filosofici, opere sociali e tecnologico-spirituali. In campo filosofico, la Stein risentì profondamente del pensiero di Husserl, il padre della fenomenologia, una forma di speculazione fìlosofica che insegnò alla giovane ricercatrice la libertà dai pregiudizi e la capacità di guardare alle cose con sguardo puro e limpido. Dopo la tesi di laurea sul problema della immedesimazione, la Stein continuò ad occuparsi della fondazione fìlosofica della psicologia e delle scienze dello spirito. Assai importante per la giovane studiosa si rivelò l'incontro con la filosofia di san Tommaso, del quale tradusse le Ricerche sulla verità (Quaestiones disputatae de ventate); nel 1929 scrisse La fenomenologia di Husseri e la filosofia di san Tommaso d'Acquino, palesando un atteggiamento che le risultò particolarmente congeniale: quello della filosofia cristiana mediatrice tra il grande patrimonio della tradizione (sant'Agostino e san Tommaso) e le istanze del pensiero moderno, tra le quali spiccano quelle proprie della fenomenologia, che secondo la Stein non si trova in contraddizione con la fede. Certamente, la conversione fece sì che anche il suo orizzonte filosofico si dilatasse: di qui la necessità di andare oltre Husseri e di aprirsi alla lezione tomista, nella speranza di poter recuperare quella "filosofìa perenne", al centro della quale sta la decisiva questione dell'essere, che la Stein studiò a fondo nella celebre opera Essere finito e essere eterno.

    Nell'ultimo scorcio della sua vita la Stein si dedicò alla teologia mistica, anche a motivo del fatto che l'Ordine carmelitano le aveva affidato l'incarico di redigere uno scritto celebrativo per il quarto centenario della nascita di san Giovanni della Croce: ella volse allora la sua attenzione alle opere di Dionigi Areopagita e alla sua teologia negativa che accentua il carattere oscuro di Dio al quale l'anima può unirsi misticamente. Teresa Benedetta si impegnò poi ad approfondire il mistero della Croce: sarà questo amore tutto carmelitano per il crocifisso il tratto caratteristico della sua spiritualità. Per lei "la vita intcriore è la più profonda e pura fonte di felicità": in essa, nei suoi abissi silenziosi e a volte oscuri si impone la presenza di Dio. La santa affinò sempre di più la sua intensa interiorità spirituale: "Penso che il Signore ha preso la mia vita per tutti", scriveva in una lettera del 31 ottobre 1938; e riguardo alla sua conversione meditava: "Non si può neanche immaginare quanto sia importante, ogni mattina quando mi reco in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al crocifisso e all'effigie della Madonna: erano del mio stesso sangue"; e suggellava la sua radicale sequela di Cristo affermando: "Ho ricevuto il nome che avevo chiesto. Sotto la croce avevo capito il destino del popolo di Dio... oggi so meglio cosa voglia dire essere sposata con il Signore nel segno della croce".

    "Non l'attività umana può aiutarci - si legge ancora nei suoi scritti - ma la passione di Cristo. Partecipare a questa è la mia aspirazione": fu esaudita, e la sua immolazione per amore di Cristo si presenta come un lampo di luce nella tenebra del male e del peccato. Così coronò la sua vita. Edith Stein, ebrea, filosofa, suora carmelitana con il nome di Teresa Benedetta della Croce, un giorno aveva annotato: "L'essenza dell'essere cristiano non è il sapere ma l'amore. Dio è amore. È per questo che essere afferrati da Dio vuol dire essere infiammati dall'amore".
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