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I lapsi

Riguardo ai lapsi il concilio aveva deciso che ogni caso avrebbe dovuto essere giudicato a se e che i libellatici avrebbero dovuto essere riammessi in comunione dopo un variabile, ma lungo, tempo di penitenza, mentre coloro che realmente avevano sacrificato, dopo una vita di penitenza, avrebbero potuto ricevere l'Eucaristia in punto di morte. Ma a chiunque non si fosse pentito fino all'ora della malattia doveva essere del tutto rifiutata. La decisione era dura. Tuttavia, una recrudescenza della persecuzione annunciata, narrava Cipriano, da numerose visioni, causò la convocazione di un altro concilio nell'estate del 252. In questa occasione si decise di riammettere immediatamente tutto coloro che stavano facendo la penitenza, affinché potessero essere fortificati dall'Eucaristia. Durante la persecuzione di Gallo e Volusiano, la chiesa di Roma fu nuovamente messa alla prova, ma questa volta Cipriano poté congratularsi con il papa per la fermezza dimostrata; l'intera chiesa di Roma, narrava, aveva confessato all'unanimità ed ancora una volta la fede predicata dagli Apostoli, veniva proclamata sul mondo intero (Ep. lx). Verso il giugno 253, Cornelio fu esiliato a Centumcellae (Civitavecchia). Qui trovò la morte e fu annoverato tra i martiri sia da Cipriano che dal resto della chiesa. Il suo successore, Lucio, immediatamente dopo la sua elezione fu inviato nello stesso luogo, ma presto gli fu permesso di tornare e Cipriano gli scrisse per congratularsi con lui. Quest'ultimo morì il 5 marzo 254. Il 12 dello stesso mese venne eletto Stefano.

] Il battesimo da parte degli eretici

Tertulliano, in precedenza, aveva molto argomentato sul fatto che gli eretici non avevano lo stesso Dio, lo stesso Cristo dei cattolici, quindi il loro battesimo era nullo. La chiesa africana aveva adottato questa visione in occasione di un concilio svoltosi a Cartagine sotto un predecessore di Cipriano, Agrippino. Ad oriente era, inoltre, abitudine delle chiese di Cilicia, Cappadocia e Galazia ribattezzare i montanisti che tornavano alla chiesa. L'opinione di Cipriano sul battesimo impartito dagli eretici era questa: Non abluuntur illic homines, sed potius sordidantur, nec purgantur delicta sed immo cumulantur'. Non Deo nativitas illa sed diabolo filios generat (De Unitate, XI). Un certo vescovo Magno, scrisse per chiedere se il battesimo dei novazianisti dovesse essere riconosciuto (Ep. LXIX). La risposta di Cipriano arrivò verso il 255: dovevano essere trattati alla stregua di tutti gli altri eretici. In seguito, Cipriano emanò una disposizione (Ep. LXX) nello stesso senso, probabilmente nella primavera del 255, indirizzata a 18 vescovi di Numidia. Questo fu, apparentemente, l'inizio di una nuova polemica. Sembra che i vescovi di Mauretania, in questo, non seguissero l'uso dell'Africa Proconsolare e della Numidia e che papa Stefano gli avesse inviato una lettera che approvava la loro fedeltà all'uso romano.

Il concilio cartaginese della primavera del 256 fu più numeroso del solito e 61 vescovi sottoscrissero la lettera conciliare in cui spiegavano al papa i motivi per cui ribattezzavano e argomentavano che questa era una faccenda in cui i vescovi erano liberi di decidere. Stefano non era d'accordo. Questi, immediatamente, pubblicò un decreto molto perentorio in cui imponeva che non doveva essere fatta alcuna "innovazione", ma doveva essere osservata la tradizione romana dell'imposizione delle mani sugli eretici convertiti in segno di assoluzione, a pena di scomunica. Questo provvedimento, evidentemente indirizzato ai vescovi africani, conteneva alcune severe censure su Cipriano stesso.

Nel settembre 256, si riunì a Cartagine un concilio ancora più grande. Tutti furono d'accordo con Cipriano; Stefano non fu neanche menzionato; al punto che alcuni studiosi hanno persino supposto che il concilio si fosse tenuto prima dell'arrivo del provvedimento di Stefano ( Albrecht Ritschl, Grisar, Ernst, Bardenhewer). Cipriano non voleva assumersi tutta la responsabilità, così dichiarò che nessuno si era fatto vescovo dei vescovi e che tutti avrebbero dovuto esprimere il proprio parere. Il voto di ciascuno fu quindi espresso con un breve intervento. Il resoconto del concilio ci è giunto nella corrispondenza di Cipriano con il titolo di Sententiae Episcoporum. Ma, ai messaggeri inviati a Roma con questo documento, il papa rifiutò un'udienza e negò persino ospitalità. Cipriano, pertanto, cercò appoggio ad oriente. Scrisse, quindi, a Firmiliano di Cesarea inviandogli il trattato De Unitate e la corrispondenza sulla questione battesimale. La sua risposta giunse a metà novembre, in toni ancora più aspri di quelli di Cipriano. Dopo di ciò non si conosce altro sulla polemica.

Stefano morì il 27 agosto 257 e fu seguito da papa Sisto II che, certamente, era in comunione con Cipriano. Probabilmente, quando a Roma si accorsero che gran parte delle chiese orientali adottavano tale pratica, la questione fu tacitamente accantonata. Si dovrebbe inoltre ricordare che, benché Stefano richiedesse obbedienza assoluta, abbia, apparentemente come Cipriano, considerato la questione come punto di disciplina. San Cipriano sosteneva la sua posizione partendo da una concezione errata dell'unità della chiesa e non dal principio elaborato in seguito da sant'Agostino, secondo il quale, poiché Cristo è sempre l'agente principale, la validità del sacramento è indipendente dal ministro che lo imparte: Ipse est qui baptizat. Tuttavia, questo concetto era implicito nell'insistenza di Stefano sulla forma corretta, "perché il battesimo è impartito in nome di Cristo" e "il suo effetto è dovuto alla maestà del suo nome". L'imposizione delle mani incoraggiata da Stefano era ripetutamente detto essere in poenitentiam, tuttavia Cipriano continuava a sostenere che il dono dello Spirito Santo tramite l'imposizione delle mani non portava alla rinascita, ma doveva essere successiva ad esso ed implicarla. Ad oriente, l'uso di ribattezzare gli eretici, forse, proveniva dal fatto che molti di loro non credevano nella Trinità e, probabilmente, non usavano neppure la giuste formula. La pratica sopravvisse per secoli, almeno nel caso di alcune eresie. Ma ad occidente il ribattezzare era considerato eresia e l'Africa rientrò nei ranghi poco dopo San Cipriano. Sant'Agostino, San Girolamo e San Vincenzo di Lerino elogiarono Stefano per la fermezza dimostrata nella vicenda. Ma le lettere di Cipriano divennero lo strumento principale delle dissertazioni donatiste. Sant'Agostino, nel suo De Baptismo, le confutò una per una.

Appelli a Roma

L'Ep. lxviii fu scritta a Stefano prima della frattura. Cipriano venne a sapere da Faustino, vescovo di Lione, che Marciano, vescovo di Arles, si era unito ai novaziani. Il papa, certamente, era già sarà stato informato di questo fatto da Faustino e dagli altri vescovi della provincia. Cipriano diceva:

  « Dovreste inviare lettere ai nostri colleghi vescovi di Gallia affinché non permettano al fiero ed ostinato Marciano di insultare ulteriormente la nostra amicizia… di conseguenza, dovreste inviare lettere alla provincia ed al popolo di Arles affinché si sostituisca lo scomunicato Marciano… poiché l'intero corpo episcopale unito dal collante dell'accordo reciproco e dal legame di unità, se uno dei nostri fratelli cadesse nell'eresia e tentasse di lacerate e devastare la moltitudine di Cristo, il resto possa fornire il suo aiuto… Benché siamo molti pastori, tuttavia sovrintendiamo a una moltitudine. »

Sembra incontestabile che Cipriano, in questo passo, stesse spiegando al Papa perché avesse osato interferire, e che gli attribuiva il potere di deporre Marciano e di ordinare una nuova elezione.

Un'altra lettera, forse successiva, prodotta da un sinodo di 37 vescovi ed ovviamente composta da Cipriano, era indirizzata al presbitero Felice ed al popolo di Legio e di Asturica Augusta, al diacono Elio ed al popolo di Augusta Emerita, in Spagna. Qui si riferiva che i vescovi Felice e Sabino erano venuti a Cartagine per lamentarsi. Erano stati legittimamente ordinati dai vescovi della provincia al posto dei precedenti, Basilide e Marziale, che avevano, entrambi, accettato i libelli durante la persecuzione. Basilide, inoltre, aveva ulteriormente bestemmiato dio, poiché nella malattia, aveva confessato la sua blasfemia, si era dimesso volontariamente dal suo ufficio e si era accontentato della comunione laica. Marziale aveva partecipato a banchetti pagani ed aveva sepolto i suoi figli in un cimitero pagano. Aveva pubblicamente negato, davanti al procurator ducenarius, Cristo. Pertanto, diceva la lettera, tali uomini erano indegni di essere vescovi. Sia la chiesa che papa Cornelio avevano deciso che tali uomini potessero essere ammessi alla penitenza ma mai all'ordinazione; non gli avrebbe giovato che avessero ingannato papa Stefano, che era ignaro dei fatti, in modo da essere ristabiliti nelle loro sedi; questa frode aveva solo ingrandito la loro colpa. La lettera, così strutturata, era, pertanto, una dichiarazione che Stefano era stato ingannato. Non gli imputava alcuna colpa, non c'era alcuna richiesta di cambiare la sua decisione o di negare il suo diritto di prenderla; sosteneva semplicemente che la sua decisione era fondata su false informazioni e quindi era nulla.