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Il 27 ottobre 1998 su un numero speciale di Health Education & Behavior, i due ricercatori ohn M. Wallace e A. Forman dell’University of Michigan, hanno rilevato che gli adolescenti religiosi sono anche coloro che hanno comportamenti più sani: meno propensi a bere prima di guidare, propensi ad impegnarsi in attività insalubri e più propensi a mangiare bene. «Le istituzioni religiose sono un importante alleato, anche se spesso ignorato, nello sforzo della nazione per promuovere la salute dei giovani di oggi e degli adulti di domani», hanno dichiarato. Hanno poi spiegato di aver indagato le risposte di un campione rappresentativo a livello nazionale di 5.000 scuole superiori, chiedendo agli intervistati, fra le altre cose, anche della frequenza di partecipazione in chiesa e le loro credenze religiose. Almeno un terzo degli intervistati ha detto di partecipare alle funzioni religiose una volta alla settimana e che la religione era molto importante per loro. Wallace e Forman hanno anche rilevato che questi adolescenti altamente religiosi erano meno propensi a portare un’arma, ad usare tabacco o marijuana o a fare a botte. Essi sono risultati avere maggiori probabilità di indossare le cinture di sicurezza, seguire una dieta sana, fare esercizio fisico ed avere un sonno adeguato. I risultati suggeriscono che «la religione non solo condiziona semplicemente il comportamento, ma incoraggia anche e promuove gli adolescenti a proteggere o migliorare la loro salute», scrivono i due riceractori americani. Per arrivare a questo risultato è stata anche tenuta in considerazione -ovviamente- la varietà dei fattori sociali e demografici, tra cui razza, struttura familiare, educazione dei genitori, regione di residenza ecc..[3].

 

  • Nel maggio 1999 sulle maggiori riviste scientifiche è apparso uno studio americano del National Health Interview Survey-Multiple Cause of Death, il quale si è occupato dei legami tra la vita religiosa, la salute psico-fisica e il tasso di mortalità. I ricercatori hanno stabilito che le persone che non frequentano le funzioni religiose hanno l’1,87 di probabilità di morte in più, rispetto alle persone che frequentano la chiesa più di una volta alla settimana. Questo -calcolano gli studiosi- si traduce in una differenza media di sette anni di vita in più per le persone religiose e in meno per quelle non religiose. Le persone che non frequentano la Chiesa hanno anche maggiori probabilità di essere malate. La partecipazione ad una comunità religiosa permette anche una maggiore possibilità di legami sociali e comportamente salutari che aiutano a ridurre i rischi di morte[4].

 

  • Sempre nel maggio 1999, una ricerca condotta in parte presso l’Università del Colorado ha scoperto che coloro che frequentano regolarmente la chiesa, vivono più a lungo rispetto alle persone che ci vanno raramente o non ci vanno proprio. Per la prima volta, sostengono i ricercatori, la durata extra della vita è stato quantificata: infatti chi va in chiesa una volta o più alla settimana ha più probabilità di vivere circa sette anni in più di coloro che non lo fanno. I risultati sono contenuti in uno studio condotto congiuntamente da Rick Rogers, del CU-Boulder, da Hummer e Christopher Robert Ellison, dell’Università del Texas, e da Charles Nam, della Florida State University. Questi studiosi hanno valutato che la speranza di vita al di là dei 20 anni, è in media di altri 55,3 anni (75 anni), per chi non frequenta la chiesa e 62,9 anni (83 anni), per coloro che la frequentano più di una volta alla settimana. La ricerca ha anche dimostrato coloro che non hanno mai partecipato a funzioni religiose hanno un rischio dell’87% di mortalità in più rispetto a coloro che vi hanno partecipato più di una volta alla settimana. La questione si amplifica poi se i soggetti sono donne e neri. Lo studio si è basto un dati raccolti da National Health Interview Survey su più di 28.000 persone e focalizzato su più di 2.000 morti tra il 1987 e il 1995. I ricercatori hanno anche scoperto che le persono meglio educate ed istruite, che avevano minor tasso di mortalità, mostravano più probabilità di andare in chiesa, e queste persone erano in genere meno propense ad impegnarsi in comportamenti a rischio elevato per la salute come il l’abuso di fumo e di alcool. Il sociologo Rogers ha sottolineato che questa ricerca sancisce l’importanza del coinvolgimento religioso come fattore incidente sui tassi di mortalità. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nell’ultima edizione della prestigiosa rivista National Journal Demography[5].

 

  • Nel luglio 1999 alcuni ricercatori della Duke University of Medical Center hanno studiato per circa 7 anni un campione di 3.968 adulti tra i 64 e i 101 anni residenti in un’area ristretta come la regione del Piedmont nella Carolina del Nord. Una parte del programma consisteva nello studiare gli effetti della partecipazione a funzioni religiose sulla salute psico-fisica e il tasso di mortalità. Durante questi anni, 1.777 soggetti (il 29,7%) sono deceduti. Si è valutato che fra essi, coloro che partecipavano alle funzioni religiose una volta alla settimana o più (i cosiddetti “frequentanti frequenti”), ne sono morti il 22,9% rispetto al 37,4% di coloro che frequentavano la chiesa meno di una volta alla settimana (“frequentatori infrequenti”). Il tasso di mortalità per i “frequentanti frequenti” è risultato del 46% in meno dei “frequentanti infrequenti”. I ricercatori americani Koenig, Hays e Larson concludono: «Gli anziani, e in particolare le donne, che partecipano a funzioni religiose almeno una volta alla settimana godono di un tasso di mortalità minore rispetto a coloro che frequentano la chiesa più raramente»[6].

 

  • Il 1 marzo 2000 è apparsa la conclusione di uno studio su religione, depressione e disperazione, condotto da Patricia Murphy, del Department of Religion, Health and Human Values at Rush-Presbyterian-St. Luke’s Medical Center di Chicago e dai ricercatori del Loyola College nel Maryland, secondo cui la religione determina una riduzione dei livelli di depressione e ha un impatto ancora maggiore sui livelli più bassi di disperazione. La ricercatrice afferma: «Le persone che vedono il mondo con un punto di vista senza speranza sono più inclini alla depressione. La ricerca dimostra che la religione ha la sua maggiore potenza nel compensare la depressione grazie alla sua capacità di contrastare la disperazione». La religione aiuta quindi le persone depresse, dando loro un visione del mondo che le rende meno disperate di coloro che non sono religiose. Questo genere di informazioni, continua la ricerca, potrebbero aiutare gli operatori sanitari che hanno in cura le persone depresse, così di utilizzare al meglio le convinzioni religiose della persona per aiutarle nel recupero. I risultati dello studio sono stati presentati presso il 58° meeting scientifico annuale della Psychosomatic Society. Un numero crescente di studi -continua l’articolo- ha evidenziato i benefici in campo sanitario della religione. Tuttavia, nessuno studio aveva ancora esaminato l’effetto nelle persone con diagnosi di depressione. L’inchiesta ha coinvolto 271 adulti, religiosi e non religiosi in trattamento per depressione presso un ospedale o un ambulatorio[7].

 

  • Il 4 aprile 2000 una ricerca realizzata dall’Ohio State University e pubblicata sul Journal for the Scientific Study of Religion ha suggerito che il desiderio di indipendenza è la differenza chiave, in termini psicologici, che separa le persone religiose e non religiose. Dopo aver campionato 558 studenti e professionisti, i ricercatori hanno notato che la differenza più grande è stata che le persone religiose hanno espresso un forte desiderio di interdipendenza con gli altri, mentre coloro che non erano religiosi hanno mostrato una maggiore necessità di essere autosufficienti e indipendenti. Steven Reiss, co-autore dello studio e professore di psicologia e psichiatria presso la Ohio State University, ha dichiarato: «Gli scritti di molte religioni esprimono il desiderio di diventare uniti in Dio. Al contrario, le persone non religiose amano non aver bisogno di nessuno, nemmeno di Dio». Tuttavia -specifica lo psicologo-, il forte desiderio di interdipendenza non significa certo che le persone religiose sono deboli o sottomesse. I risultati hanno mostrato che le persone religiose non erano diverse rispetto alle altre nel loro desiderio di potere, che comprende obiettivi di leadership e dominanza. Continua il ricercatore: «Le persone che hanno mostrato uno score elevato per l’indipendenza sono coloro che vogliono prendere le loro decisioni senza appoggiarsi su altre persone. Al contrario, le persone religiose preferiscono trovare la forza contando anche sull’aiuto degli altri, incluso Dio». Storicamente, la dipendenza religiosa da Dio è stata criticata come un segno di debolezza, continua Reiss. Famosi filosofi, come Nietzsche e Marx, credevano che la religione insegnava alla gente il valore della debolezza. Anche recentemente la religione organizzata è vista da qualcuno come un imbroglio, una stampella per le persone deboli di mente. Tuttavia, «questa ricerca dimostra che il desiderio di interdipendenza è estraneo a qualsiasi desiderio di debolezza. Le persone religiose hanno ottenuto un punteggio basso verso l’indipendenza, riflettendo probabilmente il loro desiderio di dipendenza da Dio. Ma contemporaneamente hanno anche mostrato uno score medio di potere, e questo implica che non cercano la sottomissione ai leader. Così Nietzsche e Marx hanno commesso un errore quando hanno affermato che la religione incoraggia la gente verso la debolezza». I risultati hanno anche mostrato che le persone religiose erano più motivate dall’onore (desiderio di essere fedeli alla moralità dei genitori e del gruppo etnico), dal desiderio di famiglia e della cura dei propri figli rispetto alle persone non religiose. Non solo, ma si è registrato sempre per le persone religiose, un basso desiderio di vendetta ma anche di romanticismo[8].