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In merito alla deportazione degli Ebrei romani del 16 ottobre 1943, che Rossi e Kung sottolineano, bisogna ricordare che essa durò un giorno solo. Avuta notizia della deportazione, Papa Pacelli intervenne direttamente e di persona, tramite suo nipote, Carlo Pacelli, presso il generale Hudal, un vecchio cattolico, ed ottenne una lettera di questi al generale Stahel al mezzogiorno dello stesso giorno, cosa che determinò la sospensione della razzia delle SS, in forma temporanea, mentre – se è vero che sull’Osservatore Romano apparve un corsivo, relativo alla Carità del Papa, in cui si affermava che il Santo Padre «estenderebbe la sua cura paterna a tutti gli uomini senza distinzione di nazionalità, di religione e di razza» - in gran segreto, diversi esponenti della Chiesa, per i canali non ufficiali e senza pubblicità, si preoccupavano di avvertire gli ebrei, salvandoli in Vaticano. Ciò grazie al non intervento dell’esercito tedesco, a quanto asserisce la testimonianza dell’uf ficiale tedesco Nikolaus Kunkel, apparsa recentemente. 

L’ufficiale tedesco, oggi ottantenne, racconta dell’atmosfera pesante di quei giorni, quando era nell’aria persino una occupazione del Vaticano, e dei frequenti contatti tra il comandante della Piazza di Roma Stahel e la Santa Sede. Narra come le SS avessero ricevuto l’ordine di deportare gli ebrei, ma il comandante della piazza si disse contrario e invitò Berlino a desistere, senza esito. Tuttavia, l’esercito tedesco non impedì, dopo la sospensione della razzia, che gli Ebrei trovassero rifugio tra le Mura Leonine : «In effetti i perseguitati vi poterono trovare rifugio in modo relativamente semplice… probabilmente, entrando soprattutto da Piazza San Pietro… Per noi era un successo che tra circa 8.000 oppure 9.000 ebrei solo 1.000 fossero stati arrestati dalle SS» . Secondo l’ufficiale tedesco, il successo era stato coronato dal “silenzio” ufficiale del Papa, in quanto una sua presa di posizione ufficiale avrebbe cost retto l’esercito a dover far rispettare gli ordini di Hitler : «E’ facile parlare dopo. Noi, al servizio del Comandante tedesco a Roma, eravamo in ogni caso dell’opinione che una presa di posizione forte avrebbe avuto conseguenze negative» . Fu proprio la mancanza di reazioni ufficiali che favorì il resoconto “tranquillizzante” a Kappler, a Ritter e a Berlino di von Weizsacher, e che favorì anche il non precipitare degli eventi.
 
La Segreteria di Stato non esitò ad essere ambigua nel rispondere alle “interessate” domande del Maresciallo Petain, sull’opportunità della legislazione antirazziale, nei rapporti ufficiali con il governo italiano e tedesco, con i regimi fantoccio insediati dai nazifascisti: e questo non per collusione, ma perché era perfettamente inutile discutere con loro, se non a rischio di svelare i piani della Santa Sede, rendendo impossibile l’azione umanitaria.
Se dall’opera di John F.Morley emerge invece un severo giudizio sulla diplomazia pontificia, secondo il quale essa è fallita perché non ha fatto tutto quello che le sarebbe stato possibile e perché, trascurando gli ebrei e perseguendo un obiettivo di riserbo «invece di un impegno umanitario, ha tradito gli ideali che essa stessa si era dati» , dallo studio della documentazione emerge esattamente che la diplomazia vaticana fece tutto quanto era in suo potere di fare per gli ebrei. Il Morley, vivente in un regime libero, non ha considerato tutte le situazioni contingenti e limitanti imposte dall’operare in un contesto di totalitarismo e negatore dei diritti umani. Storicamente, non si è potuti arrivare dove si voleva, ma idealmente la Chiesa ci ha provato.

d. Il Silenzio di Pio XII

Al termine di questo viaggio, occorre da affrontare un’ultima questione, quella del “silenzio di Pio XII”, che nella ricerca storica fin qui condotta, già fa trasparire la sua soluzione.
Tutti i commentatori si sono scagliati contro questo “silenzio”, ma come abbiamo visto, con il senno del poi è facile fare della grossolana critica storica, senza aver presenti tutti i termini del problema, almeno per “capire” l’atteggiamento di Papa Pacelli. In realtà, il Papa fu totalmente partecipe del dramma ebraico, ma non lo divulgò ai quattro venti. 
La questione posta dagli storici è vedere in che modo un papa in forza del suo ufficio è tenuto a dare testimonianza contro la violazione degli elementari diritti dell’uomo, come il genocidio della seconda guerra mondiale . Papa Pacelli fu il primo a porsi questa domanda, e gli fu posta per le vie diplomatiche sia attraverso una lettera di Radonski a Maglione, via Londra, nel 1942, sia attraverso l’Arcivescovo Preysing di Berlino il 6 marzo 1943, che lo sollecitava a prendere posizione . Rispondendo all’arcivescovo Frings, il 3 marzo 1944, il Papa riconosceva che decidere era «dolorosamente difficile» . Tuttavia, le decisioni papali furono responsabilmente ponderate.

Il suo dilemma era quanto chiara dovesse essere la parola che è richiesta dall’ufficio e quanto concreta essa può essere in base alle conseguenze. Il Papa, poi, preferiva parlare più dei “peccati” che non dei “peccatori”: a lui competeva illuminare sui principi fondamentali, mentre spettava ai vescovi concretizzare sul luogo, e considerando tutte le conseguenze, i principi. 
Si pose comunque spesso in maniera drammatica il problema se, di fronte al terrore scatenato, con questo atteggiamento assolveva a tutti gli obblighi del suo ufficio, e meditò molte volte di andare oltre le condanne generali. L’intento di evitare il peggio è «uno dei motivi fondamentali per i quali ci poniamo limiti alle nostre dichiarazioni», scriveva a Preysing, Arcivescovo di Berlino, il 30 aprile 1943 . Il papa e i suoi collaboratori, sulla base di quanto sapevano ed avevano sperimentato del nazionalsocialismo, erano fermamente convinti che un’infiammata protesta non avrebbe interrotto la carneficina, bensì l’avrebbe aggravata a seconda del momento e delle circostanze, e al tempo stesso avrebbe distrutto le possibilità che erano rimaste di agire per via diplomatica in favore degli Ebrei ungheresi o rumeni.

In questo modo, prima degli altri, il Vaticano potette essere informato dell’Olocausto, e agire di conseguenza. Già nella primavera del 1942 in Vaticano erano note fonti ebraiche di Bratislavia e di Budapest che la deportazione era per molti colpiti sicura condanna a morte, e dell’esistenza dei Lager. Poiché il silenzio era vincente in simili circostanze, a Roosevelt, che tramite il delegato a Washington, mosso da tre rabbini, aveva chiesto al papa un “pubblico appello” per richiedere la sospensione dello sterminio degli ebrei, era stato risposto il 3 aprile 1943, non senza motivo il laconico «Santa Sede continua occuparsi favore Ebrei» . La Segreteria di Stato, infatti, riteneva in un documento interno che un appello pubblico non sarebbe stato conveniente, perché bisognava evitare che la Germania lo prendesse come pretesto per rendere ancora più gravi le misure antiebraiche nei territori occupati ed esercitasse nuove e più forti insistenze sulla politica ebraica degli stati!
satelliti .

Sotto questo sfondo andava inteso il radiomessaggio del Natale 1942, poiché lo stesso Pio XII, in privato, parlando del discorso tenuto, aveva confidato ai collaboratori più stretti che quella sua parola: «era breve, ma fu ben capita», cosa che ripetette nella missiva a Preysing del 30 aprile .
Conclude Repgen : «Il papa, dunque, ha anche parlato, ma la parola non fu il suo mezzo principale o esclusivo nella lotta contro la politica ebraica di Hitler… Dominante fu per lui l’aspetto, di responsabilità morale, di dover evitare di scegliere una forma di provocazione che non avrebbe fermato, bensì aumentato le disgrazie: con un pubblico appello non si sarebbe ottenuta la cessazione dello sterminio degli Ebrei, ma la drastica rappresaglia verso ebrei, cattolici e chiese, connaturata nella logica del sistema di dominio nazionalsocialista. Al contrario la politica del Papa conservò alla Santa Sede la possibilità di salvare ancora degli Ebrei. Poiché questa chance venne sfruttata efficacemente, al Papa già allora dalle centrali ebraiche fu espresso il più vivo riconoscimento per la sua opera di salvezza» .

6. Conclusione.

Tutto questo percorso storico ci fa comprendere come, per la Chiesa Cattolica, molta acqua sia passata sotto i ponti : nella comunità cattolica c’è stata una radicale conversione dall’antisemitismo “discriminatorio” professato dal Concilio di Elvira del 306, e fino alla seconda metà dell’800, anche attraverso la purificazione dell’Olocausto della Seconda Guerra Mondiale, all’accettazione piena e convinta dei nostri fratelli maggiori. 
Questo cammino della Chiesa, già evidente, anche se mancante il coraggio finale di riconoscimento dello Stato Ebraico, avvenuto oggi con Giovanni Paolo II, era presente già in Pio XII e in gran parte dei cattolici testimoni della Seconda Guerra Mondiale, ma è maturato in pienezza solo nel dopoguerra, prima con Giovanni XXIII, quindi con la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, ed in modo speciale nell’occasione di questo Giubileo.
Già nella Terzo Millennio Adveniente, il Santo Padre aveva chiesto ai cattolici e quindi ai cristiani la “Purificazione della Memoria”, chiedendo perdono per tutte le colpe della Chiesa Cattolica contro l’umanità, ed anche per l’Olocausto, scatenato da cattolici o pseudo cattolici, come anche per tutte quelle violenze verbali degli uomini di Chiesa contro gli Ebrei.
 
Si era posto nella linea di Don Gaetano Tantalo, che un giorno del 1947, dopo aver letto lo scritto di D’Azelio, aveva ammesso «La Chiesa doveva fare pubblica ammenda, per denunciare al mondo i gravi errori, che ha commesso contro gli Ebrei» . Proprio a queste parole del Servo Dio sembra ben corrispondere l’immagine della primavera 2000 di Giovanni Paolo II in preghiera davanti al Muro del Pianto in Gerusalemme, che infila con un gesto significato in questo luogo sacro per l’Ebraismo, un documento in cui afferma che mai più ci sarà persecuzione degli ebrei da parte dei cristiani e che la Chiesa chiede perdono di questi suoi errori, concludendo dopo duemila anni un cammino molto duro, con aspetti riprovevoli.
Se Kung era critico sulla volontà della Chiesa di fare ammenda dei propri errori, quel gesto luminoso ed immenso, di portata eccezionalmente storica, lo ha accontentato. Ma un gesto che deve ricordare a noi tutti la necessità di voltare pagina, e favorire l’impegno di non perseguitare mai più un uomo per le sue convinzioni di razza, lingua e religione. 
Per concludere, si riporta il discorso del 23 marzo 2000 ai Rabbini di Terra Santa di Giovanni Paolo II: 
«Molto reverendi Rabbini Capi, è con grande rispetto che vi faccio visita qui oggi e vi ringrazio per avermi ricevuto a Hechal Shlomo. Questo incontro ha un significato veramente unico, che - spero e prego - condurrà a maggiori contatti fra Cristiani ed Ebrei, volti a raggiungere una comprensione sempre più profonda del rapporto storico e teologico fra le nostre rispettive eredità religiose. Personalmente, ho sempre desiderato essere annoverato fra coloro che, da entrambe le parti, operano per superare i pregiudizi e per garantire un riconoscimento sempre più ampio e pieno del patrimonio spirituale condiviso dagli Ebrei e dai Cristiani. Ripeto ciò che ho detto in occasione della mia visita alla comunità ebraica di Roma, ossia che noi Cristiani riconosciamo che l'eredità religiosa ebraica è intrinseca alla nostra fede: "siete i nostri fratelli maggiori" (cfr. Incontro con la Comunità ebraica della città di Roma, 13 aprile 1986, n. 4). Speriamo che il popolo ebraico riconosca che la Chiesa condanna totalmente l'antisemitismo e ogni forma di razzismo perché in radicale contrasto con i principi del cristianesimo. Dobbiamo cooperare per edificare un futuro nel quale non vi sia più antigiudaismo fra i Cristiani e anticristianesimo fra gli Ebrei.Abbiamo molto in comune. Insieme possiamo fare molto per la pace, per la giustizia e per un mondo più fraterno e umano.