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Prime reazioni dei Vescovi e della Santa Sede

La dissoluzione della Compagnia fu il preambolo della dura persecuzione che sarebbe seguita contro tutto il clero e i religiosi. Fu vista dai Vescovi come una ingiuria diretta al Sommo Pontefice. La maggior parte dei Vescovi protestarono per il fatto. Da notare che il decreto della Dissoluzione della Compagnia è paradigmatico della discriminazione giuridica dei cittadini e della fobia contro la Chiesa in quanto andava contro la stessa Costituzione della Repubblica che riconosceva i diritti fondamentali dei cittadini anche in riferimento dei beni la cui confisca era proibita dall’art. 44 della stessa Costituzione. La Gerarchia cattolica spagnola ebbe fin dagli inizi la percezione di una tale posizione come è dimostrato dal rapporto del Cardinale Vidal y Barraquer, Arcivescovo di Tarragona, al Segretario di Stato, Cardinale Pacelli del 16 ottobre 1931. Anche la Santa Sede iniziò a parlare di fronte ad alcuni gesti violenti ed arbitrari contro la Chiesa e le sue istituzioni. Ma la Chiesa spagnola voleva la pace ad ogni costo. Non soltanto il Cardinale di Tarragona e il Nunzio Tedeschini la volevano, ma anche tutti i metropoliti e i religiosi, specialmente i più colpiti che erano i gesuiti. È storicamente fondato affermare che dal 1931 al 1936 ci troviamo di fronte a una catena crescente di misure eccezionali adottate contro la Chiesa e la pratica della fede cattolica. Tali misure erano chiaramente settarie, antiecclesiali e anticattoliche nel loro spirito e scopo preciso, e non solo anticlericali. Queste leggi persecutorie misero in pratica una concezione radicale e ostile della separazione fra Chiesa e Stato. Gli esempi sarebbero numerosi come la legge sulle «Confesiones y Congregaciones religiosas» del 2 giugno 1932 in virtù dell’articolo 26 della Costituzione, quelle contro il patrimonio ecclesiastico, e quelle contro l'insegnamento religioso nelle scuole e la proibizione dell’insegnamento ai religiosi, ecc.

La Santa Sede inviò ai Vescovi Spagnoli una nota: «Gravis theologi sententia» (redatta dal Segretario di Stato Card. Pacelli) in cui si davano alcuni orientamenti ai Vescovi sul modo di procedere e al bisogno di non tacere più di fronte ai gravi soprusi. I Vescovi, che erano stati all’inizio prudenti e concilianti presero una coscienza più critica dei loro doveri pastorali e di quanto era in gioco in rapporto alla fede dei cristiani. I loro interventi si fecero più numerosi e precisi col passare del tempo. Fra i più significativi bisogna ricordare la «Declaración» (25. V. 1933) dei Metropoliti di fronte alla legge sulle Confessioni e congregazioni religiose. In essa i Metropoliti esaminavano la storia recente delle offese e violazioni del diritto contro la Chiesa e i suoi fedeli. Questo documento, quelli del 1931 in occasione della promulgazione della Costituzione e quello del 1937 sulla guerra civile, costituiscono i più importanti interventi dell’episcopato spagnolo prima del Vaticano II.

Da parte sua, il nuovo Arcivescovo di Toledo e primate della Spagna, il Cardinale Isidro<o:p> </o:p>Gomá y Tomás, pubblicò una prima lettera pastorale sul tema, intitolata «Horas graves»,<o:p> </o:p>seguendo le tracce del Papa, il 12.VII.1933. Essa fu appoggiata dal dinamico e prudente Cardinale di Tarragona Vidal i Barraquer.


Gli interventi di Pio XI

Parallelamente alla «Declaración», appariva l’enciclica di Pio XI Dilectissima Nobis del 3. VI.1933 sulla situazione in Spagna. Non era la prima volta che Pio XI protestava ufficialmente per le aggressioni fatte alla Chiesa dal Governo della Repubblica. Gli interventi del Papa — come quelli dei Vescovi — furono atti di difesa e di protesta rispettosissima contro le continue aggressioni del Governo alla fede cattolica attraverso le sue leggi durissime. Le parole del Papa non esprimevano ostilità alcuna nei confronti della Repubblica.

Il 1° aprile 1936, il Pontificio Collegio Spagnolo celebrava il Centenario della nascita del benemerito e venerato fondatore Don Manuel Domingo y Sol, oggi beato, con una riuscitissima «giornata sacerdotale». Essa fu resa più solenne dalle sante prime Messe, celebrate da un eletto gruppo di alunni, ordinati il sabato precedente 29 marzo, e da sacre funzioni di ringraziamento al Signore per il nuovissimo dono fatto al Clero con la Enciclica del Santo Padre Ad catholici sacerdotii. Bellissima corona alle varie celebrazioni fu l’udienza pontificia, nel corso della quale il Papa rilevò una cosa che la delicatezza di quei suoi figli non aveva enunciata nel timore di un dolore troppo vivo per il cuore del Padre, misurando tale dolore da quello stesso del loro cuore filiale. Erano andati a far visita a Sua Santità in momenti ancora così turbolenti per la loro e sua cara Spagna; in momenti di Calvario, di Via Crucis!. «Vero è che quando si dice Calvario e Via Crucis non si può fare a meno di mettere accanto al primo l’altro colle, l’altro monte: il monte<o:p> </o:p>della glorificazione, e non si può non accostare alla Via Crucis e ricordare la Via lucis», affermò il Papa.

Altri furono gli interventi pontifici prima e durante il conflitto armato. Ma il più significativo di essi ebbe luogo il 14 settembre 1936. Il Pontefice, davanti a un gruppo di laici e sacerdoti spagnoli, presieduti dai Vescovi di Cartagena, Vich, Tortosa e Seo de Urgel esprimeva il suo dolore e ammirazione per tutti quelli che erano stati perseguitati e maltrattati perché ministri di Cristo e dispensatori della grazia di Dio o che avevano sofferto il martirio.


Il movimento militare e la Chiesa

Buona parte degli storici è concorde nell’affermare che il movimento militare nazionalista contro il Governo della Repubblica (18 luglio 1936) prese di sorpresa la Chiesa. Quale doveva essere il suo atteggiamento di fronte a quegli avvenimenti? Poteva la Chiesa, amante della pace e della convivenza, prestare il suo appoggio ai promotori della guerra? Quali conseguenze potevano derivare dalla sua adesione al movimento nazionalista tanto dentro come fuori Spagna? Già il 13 agosto 1936, il Cardinale Gomá mandava un rapporto al Segretario di Stato, Cardinale Pacelli, nel quale esaminava la genesi della sollevazione militare e le cause della guerra: la politica della Repubblica in campo religioso, civile ed economico, il modo in cui erano state celebrate le elezioni del febbraio del 1936 con le coazioni e violenze governative al fine di ottenere il potere (Frente Popular), la persecuzione chiara a tutti i livelli e ormai dichiarata contro la Chiesa e la complicità del Governo con le bande di sediziosi che avevano in mano la situazione pubblica, l’assassinio dello statista Calvo Sotelo e la programmata rivoluzione comunista che avrebbe dovuto prendere il potere il 20 luglio 1936, l’esistenza di liste di persone da eliminare iniziando da tutti i sacerdoti e il fatto comprovato che questa rivoluzione era appoggiata dal comunismo internazionale.

Il Cardinale esaminava poi la natura e il carattere della rivolta militare come una protesta della coscienza nazionale; si soffermava sul suo sviluppo, sulle sue difficoltà e sulle caratteristiche della lotta dal punto di vista religioso. Sottolineava anche la ferocia e gli eccessi antireligiosi dei<o:p> </o:p>«rossi» e li paragonava a quelli della Rivoluzione Francese e della persecuzione russa e messicana. Finalmente si interrogava sulle possibili conseguenze sia nel caso della vittoria come della sconfitta del movimento nazionalista. Se fosse fallito, il futuro sarebbe stato ancora più buio per la Chiesa, perché si sarebbe impiantato in Spagna il regime della Russia sovietica con tutte le conseguenze delle sue persecuzioni; se avessero trionfato i nazionalisti ci si sarebbero potute aspettare misure di libertà per la Chiesa; ma il Cardinale non nascondeva le difficoltà, le contraddizioni interne e le diversità dei nazionalisti non soltanto in campo politico (per le visioni a volte contrapposte), ma anche dal punto di vista religioso. Perciò vedeva anni duri per la Chiesa anche nel caso della sua vittoria. Diversi Vescovi spagnoli, come quelli di Vitoria,<o:p> </o:p>Pamplona (6 agosto 1936), Mallorca (8.IX.1936), Palencia (15.IX.1936), Tuy (16.IX.1936) e altri 17 interventi episcopali successivi, fra i quali quello del beato Anselmo Polanco, Vescovo di Teruel, si pronunciarono in favore dell’«alzamiento» nazionalista. Intervento importante fu quello del Vescovo di Salamanca, futuro Arcivescovo Cardinale di Toledo e primate di Spagna, Enrique Pla y Deniel (1876 1968), noto per il suo impegno in favore dei diritti sociali degli operai. La sua lettera pastorale «Las dos ciudades» fu uno dei testi episcopali più chiari in proposito.


La pubblicazione della «Carta Colectiva del Episcopado Español a los obispos del mundo entero»

La «Carta Colectiva del Episcopado Español a los obispos del mundo entero» del 1° luglio 1937<o:p> </o:p>costituisce la somma di tutti questi interventi. Fu firmata da 43 Vescovi (alcuni con diverse amministrazioni apostoliche accumulate) e 5 vicari capitolari.

Il suo promotore fu certamente il Cardinale primate Gomá. Non la firmarono 5 vescovi assenti dalle loro diocesi, fra cui Vidal i Barraquer che, pur condividendo il suo contenuto, temeva che la sua pubblicazione producesse ancora più dure rappresaglie. Anche il Vescovo di Vitoria, Mons. Múgica, ebbe delle riserve circa l’opportunità della lettera, e non firmò. I Vescovi non furono affatto moralmente costretti a firmarla, come confermò lo stesso Gomá al Segretario<o:p> </o:p>di Stato. I Vescovi non pretesero dimostrare una tesi politica in favore d’una delle parti, ma esporre a grandi linee dei fatti che caratterizzavano quella guerra terribile e fratricida. Quindi giustificavano la posizione dei Vescovi di fronte ad essa, analizzavano le radici della stessa, le caratteristiche della rivolta nazionalista e della rivoluzione marxista e ribattevano alcune accuse lanciate contro la Chiesa spagnola da alcuni circoli cattolici esteri, per finire appellandosi alla ragione, alla verità e alla giustizia nella diffusione di notizie sulla guerra civile spagnola. La posizione dei Vescovi ripeté quella di Pla y Deniel, lamentando anche la guerra come un «male gravissimo». Secondo i Vescovi non esisteva ragionevole proporzione tra i beni emblematici che si possano raggiungere con una guerra e i mali enormi che derivano sempre da essa. Sottolineano anche la loro missione di riconciliazione e di pace.

Sono importanti le quattro conclusioni della Lettera:

1. La Chiesa non ha voluto mai la guerra, ma non può essere indifferente alla lotta in corso per i connotati che essa va assumendo.

2. La Chiesa non può essere solidale con condotte o tendenze che possano snaturare le ragioni del «movimento nazionale».

3. I Vescovi vedono nell’insurrezione civico militare una radice patriottica e religiosa in ordine alla salvaguardia della propria identità e della storia culturale della nazione.<o:p></o:p>

4. Allo stato presente delle cose: vedono nel trionfo dei nazionalisti l’unica speranza di sopravvivenza di tali diritti e valori.

Tale lettera fu pubblicata un anno dopo l’inizio della guerra, quando erano già stati sacrificati oltre 6.500 ecclesiastici ed esisteva il timore fondato della distruzione totale della Chiesa cattolica nella zona «rossa», mentre in essa erano autorizzati dal Governo repubblicano i culti protestanti ed ebreo, i cui seguaci erano una minoranza esigua e quasi insignificante.

Non si deve più parlare di vittime della guerra civile spagnola, ma piuttosto della persecuzione religiosa in Spagna, e questo per due ragioni: innanzitutto perché la persecuzione cominciò nel 1931 (i primi martiri sono dell'ottobre 1934) mentre la guerra civile scoppiò nel 1936, cinque anni dopo; e poi perché questi martiri non avevano nulla a che vedere né con il conflitto armato né con le due parti in lotta, non impugnarono mai le armi per difendersi, furono uccisi per motivi unicamente ed esclusivamente religiosi, perché erano ecclesiastici oppure cattolici ferventi e perché difesero la loro fede. Tutti morirono perdonando i loro carnefici e pregando per loro, ad imitazione di Cristo sulla Croce.