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Anche il dono della pietà tocca la sfera emozionale volitiva, creando delle disposizioni abituali che qualificano il rapporto del cristiano con Dio. Innanzitutto va chiarito il termine: il dono della pietà non riguarda il rapporto col prossimo, perciò con questo termine non ci si riferisce alla disposizione d'animo di chi ha compassione del prossimo o è misericordioso verso chi lo offende; col termine "pietà" qui si intende descrivere la cosiddetta virtù di religione, ossia la disposizione di filiale ubbidienza, sentita dal cristiano come una esigenza interiore, insieme al dovere di sottomettersi alla volontà di Dio non per paura ma per amore. Il dono della pietà qualifica, appunto, il rapporto con Dio. Di riflesso, però, esso qualifica anche il rapporto con tutto ciò che sulla terra ha valore di "segno" della divina Presenza. Così, se da un lato il dono della pietà dispone il cristiano a sentirsi figlio di Dio, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle decisioni e dei sentimenti, dall'altro lato lo dispone anche a un atteggiamento di delicatezza e di rispetto verso tutto ciò che Dio ha istituito nella Chiesa e nel mondo come un riflesso della propria universale Paternità. Sarà opportuno cercare qualche riscontro biblico.
L'atteggiamento della pietà religiosa è tenuto in grande considerazione nella tradizione veterotestamentaria. Esso si iscrive in un preciso orientamento della volontà di Dio: "Uomo, ti è stato insegnato ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio" (Mi 6,8). La pietà corrisponde dunque a una delle aspettative di Dio, insieme alla giustizia e alla disponibilità a lasciarsi guidare da Dio nella vita, senza ostinarsi a perseguire i propri progetti personali e le proprie personali mete.
Gli atteggiamento concreti della pietà si collegano a quella che comunemente viene definita "virtù di religione", vale a dire l'insieme di disposizioni necessarie per rapportarsi a Dio. Tra i personaggi biblici dell'AT che incarnano l'ideale della pietà possiamo ricordare soprattutto Giobbe e Tobi. Giobbe rimane convinto che Dio governa il mondo con perfetta sapienza, anche quando lo affligge misteriosamente: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto" (Gb 1,21); in sostanza, l'uomo che è illuminato dal dono della pietà religiosa sente con chiarezza che il proprietario di tutto è Dio, proprietario anche dei beni personali, che ciascun uomo ritiene di possedere a buon diritto, avendoli acquistati col proprio lavoro; ma Dio è proprietario anche delle vite umane create da Lui, e si riserva una libertà assoluta di decretare i tempi delle nascite e delle morti. Dio è il proprietario di ogni vita, anche di quella che una madre partorisce dolorosamente e che, essendo carne della sua carne, considera come qualcosa di "proprio". Anche su questa vita concepita e partorita, e su questo rapporto materno, Dio ha il primato e il diritto assoluto di proprietà: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani" (Is 49,15-16); "Dice il Signore Dio… Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia" (Ez 18,4). Il NT attribuisce al Cristo risorto questo potere assoluto sui viventi: "E Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18).
Nell'AT anche Tobi è una figura che incarna l'ideale della pietà religiosa (cfr. Tb 1). Pur vivendo in terra straniera non perde l'antica fede e continua a vivere da israelita fedele; però, nella vita non tutto gli va bene: come accade a Giobbe, viene colpito anche lui da una malattia. Sua moglie assume allora un atteggiamento simile a quello della moglie di Giobbe, che si può sintetizzare nella frase, "Che ci hai guadagnato a essere un uomo religioso?" (cfr. Tb 2,14 e Gb 2,9). Tobi non le risponde e si raccoglie nella preghiera, riaffermando la propria sottomissione ai decreti di Dio: "Tu sei giusto, Signore, e giuste sono le tue opere… Tu sei il giudice del mondo" (Tb 3,2). L'uomo illuminato dal dono della pietà ha dunque un senso acuto della sua piccolezza di creatura davanti a Dio, che invece è padrone e giudice del mondo. Per questo si astiene dal giudicare i decreti di Dio, il suo operato e il suo modo di guidare la vita delle società come pure dei singoli esseri umani. Il Signore però risponderà alla fedeltà di Tobi con la sua solita misura traboccante: gli restituirà la salute, proteggerà suo figlio Tobia in un difficile viaggio, e libererà la fidanzata di Tobia da un maleficio che le impediva il matrimonio. L'epilogo della storia dà quindi torto alla moglie di Tobi, come anche la moglie di Giobbe viene smentita dai fatti, ma in entrambi i casi, però, la risposta di Dio arriva parecchio tempo dopo. Il giusto non è mai abbandonato al potere del male, ma è soccorso da Dio in tempi e modi che non sempre coincidono con le aspettative della logica umana. In questo senso il libro della Sapienza dice che "la pietà è più potente di tutto" (Sap 10,12): al legame religioso, che unisce l'uomo a Dio, corrisponde, da parte di Dio, una benedizione più potente di qualunque male. Una benedizione divina che comunque deve essere intesa non come uno scudo che preserva, ma come una corazza che ci permette di combattere senza che i colpi del nemico possano ucciderci. Il combattimento è infatti inevitabile. Il NT riafferma questo concetto: "La pietà è utile a tutto" (1 Tm 4,8). Essa è una caratteristica inalienabile nella personalità dell'uomo di Dio (1 Tm 6,11). Nello stesso tempo, per realizzare un rapporto pieno e integrale con Dio, "la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la pietà" (2 Pt 1,3); qui l'Apostolo si riferisce ovviamente in modo esplicito al dono dello Spirito che viene a perfezionare la virtù di religione: il dono della pietà.
Il prototipo di questo atteggiamento che definiamo "dono della pietà" è Gesù stesso nel suo modo di rapportarsi a Dio nei giorni della sua vita terrena. La nota più importante che caratterizza la pietà del Gesù storico è tutta racchiusa nel termine aramaico "Abbà", ricorrente nella sua preghiera personale. Si tratta di una parola tratta dal linguaggio dell'infanzia, che esprime l'intimità dell'ambiente domestico. In questo modo il Maestro costruisce il modello di riferimento del rapporto religioso tra i discepoli e Dio, un rapporto fatto di confidenza e di intimità come quello dei bambini verso i loro genitori, tra le mura domestiche. "Quando pregate, dite Abbà…" (Lc 11,2). Il senso della pietà cristiana è tutto qui. Il dono della pietà genera in noi gli stessi sentimenti di Cristo verso il Padre.
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Il dono del timore di Dio è strettamente connesso a quello della pietà. Infatti, questo timore di cui parliamo non è il timore dello schiavo, bensì il timore del figlio, preoccupato di non addolorare il padre con la propria disubbidienza. E' proprio questo che Giovanni intende, dicendo: "Nell'amore non c'è timore" (1 Gv 4,18): il timore di Dio scaturisce dall'amore, e per questo è un timore filiale, mentre è assente il timore dello schiavo, che non può convivere con l'amore. L'amore purifica il timore. Nell'amore non c'è il timore, ossia il timore umiliante dell'estraneo verso un potente, ma c'è certamente il timore confidente del figlio che, come tale, impone a se stesso dei limiti, nella consapevolezza di essere infinitamente amato dal Padre, ma senza mai innalzarsi sul suo stesso piano. Vediamo quali sono i riscontri biblici di questo insegnamento.
Dobbiamo per prima cosa riconoscere che l'idea del timore di Dio ha subito una notevole evoluzione nel corso dello sviluppo della divina rivelazione. Il primo concetto di timore di Dio che si incontra nella Scrittura è quello rappresentato dalla fuga di Adamo dopo il peccato originale: Dio lo chiama e lui si nasconde (cfr. Gen 3,8-10). Questa forma di timore di Dio è negativa sotto tutti gli aspetti; si tratta di una conseguenza psicologica del senso di colpevolezza. All'uomo in quanto tale, tutto ciò che appartiene al mondo divino della trascendenza fa paura. Il filosofo greco Epicuro elabora un'etica partendo dal presupposto che gli uomini hanno paura degli dèi, e si propone una filosofia di liberazione. Per l'uomo non ancora illuminato dallo Spirito di Cristo, tutte le realtà invisibili, quando non le nega in nome del materialismo, gli sono in certo senso estranee, e tra esse anche Dio, percepito come il lontano ordinatore del cosmo o come il capriccioso arbitro dei destini umani. Il dono del timore viene perciò a risanare una disposizione volitiva emozionale comune a tutti gli uomini, infondendo nell'animo quella confidenza rispettosa che non ci fa sentire estranei al mondo di Dio, ma che al tempo stesso ci mantiene nella nostra realtà di creature. Il difficile equilibrio tra figliolanza e creaturalità è dato dal dono del timore.
La ferita del peccato originale ha dunque creato una frattura nei rapporto tra l'uomo e Dio, creando nella sensibilità religiosa degli uomini un senso di timorosa estraneità. Nell'AT questa forma negativa del timore di Dio è comune a tutti i personaggi che sono chiamati a particolari ruoli nel disegno di Dio. Possiamo ricordare Abramo: nella notte in cui Dio stipula con lui l'Alleanza, egli viene assalito da un oscuro terrore (cfr. Gen 15,12). E' la percezione della vicinanza di Dio ciò che lo terrorizza. Giacobbe, quando si sveglia dopo il sogno della scala su cui salivano e scendevano gli angeli, "ebbe timore e disse: Quanto è terribile questo luogo" (Gen 28,17). In Esodo 3 Mosè è descritto nell'atto di velarsi il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio (cfr. v. 6). Un atteggiamento simile si riscontra anche nel grande profeta Elia, che, sul monte Oreb, si vela il volto col mantello al passaggio del Signore (cfr. 1 Re 19,13). Isaia vede il Signore nel Tempio e si sente impuro: "Ohimè! Io sono perduto" (Is 6,5), Ezechiele rimane stordito per una settimana (cfr. Ez 3,15) e Daniele cade con la faccia a terra (cfr. Dn 8,17-18). Ecco le reazioni dei santi dell'AT dinanzi alla rivelazione del mistero di Dio.
Alle soglie della Nuova Alleanza sembra che questo atteggiamento di timore del divino continui a sussistere. Ad esempio, quando Zaccaria vede l'angelo Gabriele ritto alla destra dell'altare, "si turbò e fu preso da timore" (Lc 1,12). Lo stesso angelo porta l'annuncio a Maria, ma non ci sembra che la Vergine abbia provato lo stesso tipo di paura. Lei, nella sua Immacolata Concezione, non poteva provare lo stesso genere di paura: è detto infatti che non l'apparizione celeste, ma il contenuto delle parole dell'angelo provoca in Lei un certo turbamento: "A queste parole Ella rimase turbata…" (Lc 1,29). Queste parole svelavano infatti un grande e incomprensibile privilegio di cui Maria non sapeva di essere stata destinataria.
Il timore di Dio comincia ad assumere le sue giuste proporzioni quando dal timore scaturisce la lode, e ciò avviene solo dove Cristo compie i suoi gesti di liberazione: il racconto dell'episodio in cui Gesù risuscita il figlio della vedova di Nain, si conclude dicendo che "tutti furono presi da timore e glorificavano Dio" (Lc 7,16). Il termine di passaggio dal timore servile veterotestamentario al timore filiale del discepolato è lo squarcio del velo del Tempio, che ha luogo in concomitanza con il terremoto che accompagna la morte di Gesù (cfr. Mt 27,51). Il velo separava infatti il "santo dei santi", luogo sacro dove nessuno poteva entrare, se non il sommo sacerdote una volta all'anno. Squarciato questo velo, il luogo sacro dove abita Dio non è più inaccessibile: la morte di Cristo inaugura un'epoca nuova e noi siamo accolti presso Dio come figli a cui è promessa l'eredità (cfr. Rm 8,16-17).
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La riflessione più ampia sul timore di Dio si trova nei libri sapienziali, a cui è opportuno dedicare una riflessione accurata. Innanzitutto, nell'insegnamento sapienziale, il timore di Dio, come atteggiamento religioso, non ha nulla a che vedere con la paura istintiva che si è soliti provare dinanzi a tutto ciò che può spaventarci. Tant'è vero che il timore di Dio si apprende: "Venite, figli, ascoltatemi e vi insegnerò il timore del Signore" (Sal 34,12). Si viene dunque educati al timore religioso, e ciò presuppone un cammino di iniziazione e di conoscenza del mistero di Dio. Non a caso il timore di Dio nasce dall'ascolto. E ancora: "Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole… allora comprenderai il timore del Signore" (Prv 2,1.5). Del re Ozia si racconta che "ricercò Dio finché visse Zaccaria, che l'aveva istruito nel timore del Signore" (2 Cr 26,5). Senza un'adeguata istruzione il timore di Dio non si comprende. Nel medesimo tempo, mentre l'uomo è istruito nei misteri di Dio, gli viene comunicato come dono l'autentico timore, che è una disposizione liberatoria: "non mi allontanerò più da loro per beneficarli; metterò nei loro cuori il mio timore, perché non si distacchino da me" (Ger 32,40). Inoltre, la mancanza di timore religioso è la caratteristica principale dell'empio: "Nel cuore dell'empio parla il peccato, davanti ai suoi occhi non c'è timor di Dio" (Sal 36,2). Al timore di Dio si è dunque educati mediante l'insegnamento sapienziale, ma questo atteggiamento religioso può prendere consistenza solo nel contesto di una vita retta e innocente. L'empio infatti può conoscerne la nozione, ma non lo può vivere, perché nel suo cuore parla il peccato.
Il timore del Signore, lungi dall'essere una condizione di infelicità o di mancanza di serena disinvoltura, è al contrario una fonte di energia positiva per l'uomo retto: "Tu avrai una grande ricchezza se avrai il timore di Dio, se rifuggirai da ogni peccato e farai ciò che piace al Signore tuo Dio" (Tb 4,21); l'uomo che è rivestito di fortezza non confida nella medesima fortezza che ha ricevuto, ma nel timore di Dio: "Nel timore del Signore è la fiducia del forte" (Prv 14,26). Anzi, perfino la salute, la longevità e il prolungarsi dei propri giorni hanno causa e origine nel timore di Dio: "Il timore del Signore prolunga i giorni, ma gli anni dei malvagi sono accorciati" (Prv 10,27). Infatti: "con il timore del Signore si evita il male" (Prv 16,6).
Per il libro del Siracide, il timore di Dio non solo non è un atteggiamento umiliante ma è addirittura "gloria e vanto, gioia e corona di esultanza… dà contentezza, gioia e lunga vita" (Sir 1,9-10). Prima di giungere alla sapienza occorre passare per il dono del timore, perché "principio della sapienza è temere il Signore" (Sir 1,12), "il timore di Dio è una scuola di sapienza" (Prv 15,33). Il discepolo trova rifugio nel timore del Signore quando arriva il momento della sua morte: "Per chi teme il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte" (Sir 1,11), "Vanto dei vecchi è il timore del Signore" (Sir 25,6).
Che il timore servile non abbia niente a che vedere col dono del timor di Dio è riaffermato dal Siracide in questi termini: "Quanti temete il Signore, aspettate la sua misericordia; voi che temete il Signore confidate in Lui; voi che temete il Signore, sperate i suoi benefici" (Sir 2,7-9). In sostanza, il dono del timore di Dio si specifica in tre atteggiamenti particolari: l'attesa della misericordia, la confidenza in Dio e la speranza di essere da Lui beneficati. Esattamente il contrario di qualunque timore servile e oppressivo. Ma a questi atteggiamenti se ne aggiungono altri, descritti più avanti, per completare il quadro: "Coloro che temono il Signore, non disobbediscono alle sue parole, cercano di piacergli, tengono pronti i loro cuori, umiliano l'anima loro davanti a Lui" (Sir 2,15-17). In fondo, insieme ai tre precedenti, non sono altro che questi gli atteggiamenti tipici del discepolato: la venerazione della Parola e la sottomissione gioiosa al suo insegnamento; l'indifferenza per il giudizio umano, allo scopo di essere graditi e lodati solo da Dio; la prontezza e l'attenzione vigile ai segnali che Dio dissemina nella nostra vita quotidiana; l'umiltà della creatura che non presume nulla dinanzi al suo Creatore, e che, anzi, tutto attende da Lui.