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Il linguaggio  mathetico


John Eccles, premio nobel per la neurofisiologia, spiega che negli antropoidi è presente il linguaggio pragmatico ma è assente il linguaggio mathetico. Gli antropoidi non usano il linguaggio per capire le cose e per trasmettere ciò che hanno capito.  Dice Eccles che nel linguaggio delle scimmie non c’è nulla di equivalente al pensiero umano. Mathetico ha origine dal sanscrito – mati -, da cui deriva anche matematica, che significa pensiero. Anche dopo le più diligenti procedure d’insegnamento, le scimmie rimangono prive del linguaggio mathetico. Il linguaggio pragmatico è solo un suono che serve per manifestare un istinto: serve per richiamare al volo, alla corsa, al cibo, al sesso ma non per capire una cosa, non per nominare una determinata cosa.
  Nell’uomo il suono diventa parola, cioè simbolo della coscienza di sé e quindi della consapevolezza della propria conoscenza: quando si parla di conoscenza non si intende la semplice conoscenza sensitiva ma la conoscenza nella sua completezza, con l’intervento della facoltà intellettuale. I sensi hanno il compito di registrare come le cose si presentano ma l’intelletto si chiede perché una cosa esiste e perché esiste in quel modo e, solo dopo aver definito le cose,   – essenza -,  può  esprimere dei giudizi e ragionare.
  Gli animali, non sapendo di essere, non hanno intenzione di capire l’essenza delle cose  – procedimento che, vedremo, avviene attraverso l’astrazione –  né di trasmettere le proprie definizioni.
  L’uomo, quando fa uno sforzo fisico o mentale, quando lotta attivamente contro forze opposte, scopre sorgere in sé una forza interiore che gli dà l’esperienza della volontà: la scoperta della volontà e la scoperta dell’io sono intimamente legati. Gli animali sono coscienti ma non autocoscienti: gli esseri umani, invece, non solo percepiscono le cose ma sanno di percepirle, esistono e sanno di esistere, soffrono e sanno di soffrire, muoiono e sanno di morire. Solo gli uomini, Dio e gli Angeli possono dire una frase che è il simbolo e la manifestazione dell’autocoscienza: - io sono -.
  L’autocoscienza è la conoscenza riflessa o riflessione: una facoltà puramente corporea ha una estensione e può conoscere solo secondo la dimensione dell’estensione, al più una parte può ripiegarsi sull’altra ma non il tutto sul tutto. Per esempio, l’occhio, da solo, senza lo specchio, non può vedere se stesso, il dente, da solo, non può mordere se stesso. L’intelligenza, invece, è cosciente di se stessa, riesce a piegarsi completamente su stessa perché può porsi da punti di vista diversi: soggetto conoscente in alcune operazioni e oggetto conosciuto in altre.
  Negli anni ’70, Allen e Beatrice Gardner insegnarono allo scimpanzé femmina Washoe il linguaggio dei muti, supponendo che l’incapacità degli animali a parlare fosse solo fonetica.   
  Incoraggiati dai Gardner, i coniugi A. J. E D. Premack adottarono altri sistemi di comunicazione muta con lo scimpanzé Sarah. Duan M. Rumbaugh addestrò lo scimpanzé femmina Lana a battere i tasti di un computer nei quali erano incisi segni che venivano associati ad azioni e oggetti vari. R. S. Fouts, seguendo il metodo dei Gardner, ammaestrò più scimpanzé e Francise Patterson addestrò un gorilla femmina di nome Koko, sempre con il metodo dei Gardner.
  Nel 1979 H. S. Terrace, professore di psicologia alla Columbia University di New York, convinto da questi esperimenti che gli antropoidi potessero apprendere il linguaggio umano, pensò di addestrare un piccolo scimpanzé nel dipartimento di psicologia della Columbia University: lo scimpanzé fu chiamato Nim Chimpsky, quale allusione canzonatoria al celebre linguista Noam Chomsky, il quale riteneva il linguaggio essere esclusivo dell’uomo. L’addestramento fu condotto sull’esempio dei Gardner e dei Fouts. Terrace riesaminò tutti i films e le registrazioni delle espressoni apprese da Nim e si rese conto che Nim non aveva mai dimostrato alcun progresso nelle sue espressioni. In 19 mesi, Nim non fece alcun progresso di contenuto: i progressi, invece, con tre bambini normali e due muti erano stati imponenti. Inoltre Terrace notò che lo scimpanzé non conversava ma gesticolava quasi fosse solo e le espressioni più significative, in realtà, erano suggerite dall’addestratore stesso. Terrace, a questo punto, riesaminò anche gli esperimenti dei Gardner evidenziando la stessa situazione. Nessuno si sarebbe accorto di questa realtà se non si fossero analizzate le trascrizioni filmate perché queste osservazioni sfuggono nel momento in cui si sperimenta. Rumbaugh e collaboratori spinsero più avanti la critica dimostrando che gli antropoidi non sanno arrivare al simbolo: essi pervennero a tali conclusioni nel 1980, dopo sette anni dal progetto Lana. (8)
  Nel 1969 Gordon Gallup, Jr, che lavorava con il – test dello specchio-, per esplorare il tema dell’autoconsapevolezza  nelle scimmie, presso il Delta Regional Primate Research Center della Tulane University, concludeva che gli scimpanzé avevano consapevolezza di se stessi perché riuscivano ad imparare che l’immagine riflessa nello specchio era una rappresentazione di se stessi.
  Daniel J.Povinelli rimase colpito dalle ricerche di Gallup e, convinto del fatto che le scimmie erano dei – bambini pelosi -, cominciò a studiare il comportamento di questi animali fin dall’età di 15 anni.  Povinelli oggi è considerato il massimo esperto mondiale nello studio della vita degli scimpanzé. Ha conseguito il dottorato in antropologia biologica alla Yale University e dirige la divisione di biologia comportamentale al New Iberia Research Center della Southwestern Louisiana University. Dopo 30 anni di studio e di esperimenti dalla scoperta di Gallup, Povinelli, nel 1999, è giunto alla conclusione che gli scimpanzé non hanno consapevolezza di se stessi. Il superamento del test dello specchio, per gli scimpanzé, non significa che questi animali hanno consapevolezza psicologica di se stessi ma soltanto che riescono a mettere in relazione con il proprio corpo i segni colorati che vedono nell’immagine riflessa. Gli scimpanzé hanno un immagine mentale esplicita della posizione e del movimento del proprio corpo: un’immagine cinestesica del proprio corpo.
  Gli scimpanzè hanno bisogno di avere un’immagine cinestesica del proprio corpo ad alto livello perché devono saltare da un ramo all’altro. I Gorilla, invece, che sono i più grandi primati non umani, non superano il test dello specchio perché, essendo enormemente pesanti, vivono sul terreno e non hanno bisogno di eseguire i complessi movimenti necessari per trasportare il loro corpo da un ramo all’altro. Dice Povinelli:- ci è voluta una grande pazienza da parte degli scimpanzé. Ma alla fine mi hanno insegnato che non sono bambini pelosi-. ( 9 )
  Gli esperimenti fatti dimostrano che gli scimpanzé non comprendono il simbolo; ma cosa è propriamente il simbolo?  Simbolo significa mettere insieme: in Grecia il simbolo era il contrassegno che si otteneva mettendo insieme le due metà spezzate di un anello o di una tessera in terracotta e la parte intera serviva da segno di riconoscimento. Quindi simbolo significa mettere insieme due realtà: il simbolo è un segno sensibile, materiale che rimanda ad un significato immateriale, ad un concetto mentale. Per capire la natura del concetto mentale bisogna distinguere la conoscenza intellettiva dalla semplice conoscenza sensitiva che è l’operazione con la quale l’animale si mette in contatto con la realtà per mezzo dei sensi.
  Conoscere nel senso intellettuale non consiste nel semplice prendere, toccare, sentire o vedere le cose con i sensi e con il cervello che è il centro di integrazione dei sensi: il cervello, infatti, è dotato di immaginazione riproduttrice  – capacità di riprodurre l’oggetto visto -, immaginazione associatrice – capacità di associare le immagini degli oggetti visti – e memoria – capacità di conservare le immagini-. I sensi hanno il compito di registrare le cose come si presentano ma solo l’intelligenza ha bisogno di porre la domanda: che cos’è questo ? Questa domanda è il segno che, per l’uomo, nei dati provenienti dai sensi resta un oggetto da conoscere che i sensi non possono cogliere. Qual’ è dunque questo oggetto? Questo oggetto è l’essenza di una cosa, ciò per cui una cosa è quella che è: il perché esiste e perché esiste in quel modo.
    Per esempio, mentre con l’occhio vedo molte piante particolari, diverse le une dalle altre, con l’intelletto sono capace di fare astrazione delle differenze delle piante particolari e di formare il        – concetto – di pianta che posso applicare a tutte le piante, dall’insalata al pino: primo processo astrattivo che coglie l’unità estraendola dalla diversità. L’animale vede  una pianta particolare ma è incapace di concepire la caratteristica unitaria che accomuna tutte le piante. In virtù di questa capacità astrattiva l’uomo può dire: la pianta appartiene al regno vegetale e non a quello animale, come il cane, né a quello minerale come il ferro. Può, cioè, formulare giudizi che si applicano a tutte le piante, a tutti gli animali, a tutti i minerali. Per noi esseri umani questa operazione di astrazione intellettuale è talmente naturale che non ci rendiamo conto dell’esistenza di questa capacità per il semplice fatto che la mettiamo continuamente in funzione in modo del tutto naturale, così come mettiamo in funzione i nostri cinque sensi. Questa capacità astrattiva è più evidente nei concetti quantitativi di ordine fisico – matematico, cioè in quei concetti dove definiamo la misurabilità delle cose per la loro grandezza. La lunghezza, per esempio, è una parola che serve ad indicare una proprietà comune delle cose – gli oggetti sono più o meno lunghi -, ma anche ad esprimere l’idea o modello della lunghezza che possiede la proprietà della lunghezza al massimo grado, cioè l’infinitamente lungo. Questa misura massima è un’idea o modello che i sensi non possono conoscere perché nessun oggetto che noi vediamo o tocchiamo possiede totalmente questa proprietà ma la riceve solo in parte da qualcosa che trascende le cose stesse: secondo processo astrattivo che riesce a cogliere l’essenza di un oggetto senza l’oggetto particolare, che riesce, cioè, a cogliere l’idea direttrice, il progetto da cui ha avuto origine la proprietà di una cosa.
  Il nostro intelletto, dunque, non solo conosce una proprietà comune delle cose, per cui affermiamo che gli oggetti sono più o meno lunghi – primo processo astrattivo che coglie l’unità estraendola dalla diversità - ma riesce anche ad estrarre da questa proprietà unitaria la sua misura massima.
   Dopo la conoscenza sensitiva, dunque, l’intelletto è capace di ottenere una ulteriore conoscenza e riesce a vedere, per esempio,  non solo che le cose sono più o meno belle, ma anche a concepire l’idea della bellezza assoluta, riesce a vedere non solo che le cose sono più o meno lunghe, ma anche a concepire l’idea dell’infinitamente lungo.
  Quando definiamo le cose, la definizione presenta le cose nella loro essenza e questa essenza viene estratta fuori dalla materia, liberata dalla materia, - detemporalizzata -, - despazializzata -, sradicata dal suo contesto materiale, particolare, limitato, finito. Per esempio, quando dico che l’uomo è un animale razionale “- la definizione dell’uomo – animale razionale - non implica, in sé, né dimensioni, né colori, né età, né lingua, nulla cioè di ciò che caratterizza i singoli individui e che quindi non è comune a tutti gli uomini. Quando definiamo le cose, la nostra intelligenza prescinde totalmente dalla materia sensibile. La definizione presenta le cose nella loro essenza e astrae da tutto ciò che è sensibile e materiale. Questo prova che l’anima umana strappa le essenze dal mondo della natura e le – detemporalizza- e – despazializza-“-. ( 10)
  Ogni volta che nominiamo una cosa in realtà la definiamo: la parola, verbale o scritta, è il simbolo sonoro, grafico o gestuale – nel linguaggio dei muti -  che racchiude e trasmette un concetto interiore - verbum mentis - .
 “- Guardo le cose attorno a me. Quando ne parlo, se voglio comunicare con te, sono obbligato, affinché tu possa capire il mio pensiero, a sradicarle dal loro contesto materiale. Io ti comunico la loro essenza, e tu, a tua volta, ricevi questa comunicazione – in un modo che un animale non potrebbe mai ricevere- come despazializzata e detemporalizzata. In chi fa l’azione di strappare una realtà al contesto spazio-temporale, e anche in chi riceve questa comunicazione, esiste la capacità di stabilire un linguaggio che si pone al di sopra dello spazio e del tempo”-. (11)
  San Tommaso d’Aquino spiega che quando comprendiamo una cosa, allo stesso tempo la definiamo e quando la definiamo, contemporaneamente la nominiamo: le parole sono segni o espressioni dei concetti. Un errore o un’imprecisione nella comprensione intellettuale di una cosa comporta un errore o un’imprecisione nella espressione orale o scritta. Nello stesso tempo un uso improprio delle parole e un disordine nella grammatica rendono difficile la comprensione intellettuale della realtà. (12 )
  Mentre il linguaggio animale è un linguaggio pragmatico che serve per manifestare un istinto, il linguaggio umano è un linguaggio mathetico. Il linguaggio matethico è il linguaggio che serve per capire una cosa e quindi per definirla nominandola.

                                                 
                                                        
( Bruto Maria Bruti )
 

                                                              
  bibliografia


cfr John Eccles, Daniel Robinson, La meraviglia di essere uomo, trad. italiana, Armando, Roma 1985,  p.89
cfr Joseph Nuttin, Psicanalisi e personalità, trad. italiana, ed. Paoline, Roma, 1984, pp.219-221, nota n.3 di p.220 e pp. 283-284
cfr Attilio Mordini, Verità del linguaggio, Volpe, Roma, 1974, p.177
cfr Battista Mondin, L’uomo: chi è? Elementi di antropologia filosofica, editrice Massimo, Milano, 1982, p.35
cfr  Vittorio Marcozzi, Le origini dell’uomo, Massimo, Milano, 1983, p.84; cfr John Eccles, Daniel Robinson, op. cit., pp.41-42
cfr J. Eccles, D. Robinson, op. cit., p.24
cfr Guido Sommavilla, Il pensiero non è un labirinto, dialettica e mistero, Jaca Book, Milano, 1981, pp.40-41 e p.52.
cfr Vittorio Marcozzi, Alla ricerca dei nostri predecessori, ed. Paoline, Milano 1992, pp.106-110; cfr J. Eccles, D. Robinson, op. cit., pp. 22-25 e 120-122
cfr Gli animali possono essere empatici, Si di Gordon Gallup, Jr, Probabilmente No di Daniel Povinelli, Le Scienze Dossier, n.1, 1999, ristampa, pp.76-86, citazione p.86
Pierre-Marie Emonet O.P., Mirella Lorenzini O.P., Conoscere l’anima umana, elementi di antropologia filosofica, edizioni Studio Domenicano,Bologna, 1997, p.71
 ivi, p.72
cfr San Tommaso d’Aquino Summa Teologica I, q.13, a 1;