00 04/06/2010 18:15
Il Vangelo di Giovanni

Le nozze di Cana

(Gv 2,1-12)


E’ il primo episodio del IV Vangelo in cui Gesù compare come protagonista centrale. Accanto a Gesù sta la madre sua, che svolge un ruolo attivo nella prima parte del racconto. Alla fine vengono menzionati, insieme con la madre e Gesù, i discepoli ed i “fratelli” di quest’ultimo. Fanno da sfondo al racconto il maestro di tavola (architrìklinos) e le impalpabili figure dello sposo e dei convitati. Della sposa non viene fatto nemmeno un cenno. La scena si svolge a Cana di Galilea, piccola borgata da cui proviene Natanaele (21,2) e menzionata anche dallo storico ebreo Giuseppe Flavio (Vita, § 86). Questa località, individuata con l’odierna cittadina di Hirbet Cana, si trova circa 14 Km a nord di Nazareth. Alla festa di nozze è presente, probabilmente come ospite di diritto, Maria, la madre di Gesù; i novelli sposi appartengono verosimilmente allo stesso clan familiare. Secondo l’usanza del tempo, vengono invitati alle nozze non solo i parenti (Gesù ed i suoi “fratelli”) ma anche gli amici del parentado (i discepoli).

Nella sua sequenza, il testo presenta le principali caratteristiche di un “racconto di miracolo”: situazione (vv.1-2), domanda di intervento (vv.3-5), intervento (vv.6-8), constatazione del prodigio (vv.9-10), espressione finale di ammirazione (v.11). Se l’evangelista è partito da un ricordo autentico, ha trasfigurato a tal punto la storia caricandola di un significato teologico così profondo e molto ben articolato, che conviene di più cogliere il messaggio del racconto in sé che cercare di definirne il genere letterario. Commentando l’accaduto (2,11), l’evangelista qualifica l’avvenimento come un “miracolo”, un “segno” (semèion). Questo termine tipico di Giovanni (i colleghi Sinottici preferiscono definire il miracolo come “atto di potenza” o dynamis) include sempre due aspetti: uno dimostrativo, in quanto il segno suscita la fede dei discepoli in Gesù, e l’altro espressivo, perché manifesta la gloria di colui che lo compie.

Per definizione, il “segno” rimanda a qualcosa d’altro oltre se stesso. Esso acquista il massimo valore se può venire messo in relazione con la presenza di testimoni, sollecitati a trarre delle conseguenze che sappiano andare al di là dell’evento prodigioso cui hanno assistito. Attraverso il potere sorprendente che esso fa constatare, il miracolo o “segno” ha la funzione di orientare la fede dei testimoni verso la persona e la dignità di chi lo ha compiuto. A conclusione del suo Vangelo (20,31), Giovanni precisa di aver descritto i “segni”, operati da Gesù, allo scopo di suscitare la fede in Lui. Quello di Cana è il primo miracolo compiuto da Gesù nella sua vita pubblica e si tratta di un prodigio sui generis, capace di illuminare il senso di tutti i miracoli attribuiti a Gesù dagli evangelisti; pur non comprendendo pienamente il senso dei “segni” compiuti da Gesù, “i discepoli credettero in Lui” (2,11). Con questa comprensione del miracolo, Giovanni si allinea all’antica tradizione biblica: attraverso i prodigi, Dio aveva manifestato la sua presenza salvatrice (cf. Es 3,20) ed aveva autenticato i suoi inviati (cf. Es 4). I miracoli compiuti da Gesù ne esprimono e sottolineano il mistero, racchiuso nella sua persona e, al contempo, anticipano ed esplicitano il messaggio di salvezza di cui Egli è il portatore nel nome del Padre.

L’evangelista Giovanni non si limita a chiamare “segno” il miracolo di Cana, ma lo qualifica come inizio (in greco, arché) dei segni. Non a caso l’evangelista usa il vocabolo arché: non si tratta, infatti, del semplice inizio numerico di una serie di prodigi, ma dell’inizio di una nuova era, quasi una nuova creazione (Gen 1,1). Mediante i gesti e le parole di Gesù di Nazareth, Dio comincia a regnare. Secondo la prospettiva teologica di Giovanni, il Regno di Dio si mostra all’opera mediante ciò che Gesù compie alle nozze di Cana, manifestando la sua gloria.

La “gloria” (dòxa) di Gesù si manifesta e si rende concreta in tutti i segni che egli opera, ma ciascun “segno” particolare mostra una sfaccettatura del mistero di Gesù salvatore. Così, il dono della vista ad un cieco nato attesta la gloria di Gesù, che dimostra di essere la luce del mondo (8,12); mediante la risurrezione di Lazzaro Gesù rivela d’essere Lui stesso la risurrezione e la vita (11,25); con la moltiplicazione dei pani Gesù si presenta come il pane di vita disceso dal cielo (6,33.48-51).

Il segno di Cana è un “miracolo – dono” e simboleggia la gratuità e la sovrabbondanza di vita che Dio comunica all’uomo, anche senza che sia richiesta una fede previa, ponendo l’accento sull’iniziativa di Dio nell’incontro col suo popolo. Per di più, il miracolo rimane nascosto; pochi se ne accorgono, cioè Maria, i servi, i discepoli che hanno assistito al dialogo tra Maria e Gesù. I beneficiari del dono ne restano all’oscuro. Le tante incongruenze del racconto c’inducono ad escluderne la finalità biografica e storico – “giornalistica”: perché i protagonisti delle nozze, vale a dire gli sposi, sono ignorati? Perché il vino era esaurito? Perché Maria, una dei tanti invitati, se ne accorge prima dei responsabili del banchetto? Perché ha tanto spazio il dialogo tra Maria e Gesù? Perché il dettaglio delle giare? Perché i servi sono così scrupolosamente obbedienti ai comandi che Gesù dà loro quasi in sordina? Perché la sottolineatura dell’ora?

Evidentemente il racconto del miracolo compiuto da Gesù a Cana è stato caricato dall’evangelista di un profondo significato “simbolico”, tutto da scoprire.


2,1 E al terzo giorno ci fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era là la madre di Gesù. 2 Fu invitato anche Gesù ed i suoi discepoli alle nozze.

Il tema delle nozze richiama subito alla mente un’immagine biblica divenuta tradizionale, a partire dall’esperienza coniugale del profeta Osea fino al Cantico dei Cantici ed a Gesù stesso, che ha presentato il Regno dei Cieli come un banchetto di nozze (Mt 22,2; 25,1). La festa umana per eccellenza, quella che dice l’amore dell’uomo e della donna, destinati a diventare “uno” (Gen 2,24) in conformità con l’immagine divina, è servita da metafora per esprimere l’alleanza di Dio con il suo popolo ed in modo più particolare la sua realizzazione escatologica, quando cioè Dio stringerà il patto non solo con Israele bensì col mondo intero (cf. Os 2,18-21; Ez 16,8; Is 62,3-5). La ripetizione della parola “nozze” all’inizio del racconto (vv.1-2) è chiaramente intenzionale ed intende rimarcare la connotazione simbolica dell’episodio, che è ben situato nello spazio e nel tempo. Le nozze, infatti, si svolgono in Galilea, altro dato ripetuto due volte (2,1.11); Gesù ha sempre mostrato una grande predilezione per questa terra, posta al confine con i popoli pagani e trampolino di lancio per l’annuncio della Buona Novella (= Vangelo) del Regno di Dio a tutti gli uomini (Gv 4,43-54; 6,1; 21,2). Anche la collocazione temporale delle nozze ha un preciso significato simbolico: esse sono celebrate “al terzo giorno”, ma è difficile precisare a quale data intenda riferirsi l’evangelista. Alcuni autori hanno cercato di agganciare “il terzo giorno” a quelli segnalati in precedenza, a partire cioè dalla testimonianza di Giovanni Battista (1,19-51) ed hanno così tentato di ricostruire una “settimana inaugurale” del IV Vangelo, con il chiaro intento di ricollegarla alla settimana della Creazione (Gen 1,3-2,3) e di caricarla di significato simbolico.

Molto probabilmente, però, l’evangelista ha inteso assimilare l’episodio delle nozze di Cana ai grandi eventi della storia sacra e che avvengono “al terzo giorno”. Questa datazione, infatti, richiama una svolta decisiva nella storia dell’alleanza come, ad esempio, la grande teofania del Sinai (Es 19,11; Lc 13,32ss; inoltre, Gen 22,4; 42,18; Os 6,2). Il “terzo giorno” è anche quello della risurrezione di Gesù, il giorno della nostra redenzione, del nostro definitivo riscatto da un tragico destino di morte ereditato a causa del peccato originale. Il “terzo giorno” è il giorno di Dio (yôm YHWH) e della sua giustizia, divenuta realtà storica nell’Uomo della croce, che ha conosciuto l’angoscia della morte e del sepolcro e che ha vinto la morte risorgendo dai morti.

Il lettore attento, che è già a conoscenza del fatto che nella persona del Figlio dell’Uomo il cielo e la terra hanno stabilito una relazione permanente (1,51), si aspetta che possa accadere, da un momento all’altro, qualcosa di straordinario. Questo inizio solenne ha lo scopo di rendere il lettore ancora più attento.

Come si è accennato in precedenza, prima che Gesù giunga a Cana come invitato alle nozze, Maria è già presente sul posto, forse per dare una mano nei preparativi delle nozze. D’altronde, le poche volte che Maria viene nominata in tutti e quattro i Vangeli viene sempre descritta in atteggiamento di servizio. Anche questa volta Maria non viene meno alla sua vocazione di Donna del “sì”, umile ed obbediente, al servizio di Dio e dell’uomo.


3 E poiché era venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice: “Non hanno più vino”. 4 Gesù le dice: “Che cosa c’è tra me e te? Donna, non è forse ancora arrivata la mia ora?”. 5 Sua madre dice ai servi: “Qualunque cosa vi dica, fatela!”.

Il racconto entra subito nel vivo, introdotto da un dialogo a due, rapido ed incalzante, tra Gesù e sua madre; il tono drammatico del dialogo ha fatto allibire ed inquietare anche gli antichi esegeti cristiani come s. Agostino e s. Ireneo.

Il vino accompagnava normalmente un banchetto di nozze ed era offerto con abbondanza. Col grano e l’olio, il vino è uno dei tre raccolti essenziali per la vita dell’uomo (Dt 7,13; 11,14) ed è un dono di Dio, creato per la gioia degli uomini come segno di prosperità (Sal 104,15; cf. anche Gdc 9,13; Sir 31,27ss; Zc 10,7). Ecco perché il vino scorrerà abbondante alle nozze escatologiche (Am 9,13; Is 25,6). Gesù di Nazareth si richiama alla simbolica del banchetto celeste quando annuncia che non berrà più del frutto della vite “fino a quando lo berrà nuovo nel regno del Padre” (Mt 26, 29). Così s. Papia, vescovo di Geràpoli all’inizio del II secolo d. C., s’immaginava la beatitudine celeste: ”Ecco dunque queste parole del Signore: «Verranno giorni in cui cresceranno delle vigne che avranno diecimila ceppi ciascuna e su ogni ceppo vi saranno diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini ed ogni acino spremuto darà venticinque metrete di vino»” (cit. da s. Ireneo, Adversus Haereses, V, 33,3). Una metreta corrispondeva a 40 litri, sicché 25 metrete corrispondevano a mille litri di vino per acino d’uva! Uno sproposito, per indicare la sovrabbondanza smisurata della grazia del tempo messianico, che si compie nella persona di Gesù. L’eccesso del dono è tipico dell’infinita generosità di Dio nel suo rapportarsi con gli uomini.

A Cana viene a mancare all’improvviso il vino e Maria, donna attenta, solerte e premurosa si accorge dell’imbarazzante inconveniente. Chi doveva preoccuparsi di questo non trascurabile dettaglio era il maestro di tavola, evidentemente incapace di calcolare la quantità di vino necessaria per affrontare una ricorrenza festosa, come le nozze, che in Israele durava anche sette giorni. Trasferendoci sul piano della simbologia, la mancanza del vino indica che la spiritualità dell’antico Israele ha esaurito il suo compito di essere premessa e preparazione dei tempi nuovi, dei tempi messianici. Venendo meno il suo rapporto assolutamente privilegiato con Dio, Israele si accorge di essere nella piena indigenza e di aver bisogno di un radicale rinnovamento interiore, peraltro già ampiamente previsto e preannunciato dai Profeti. Maria fa da tramite fra l’antico ed il nuovo popolo di Dio; Ella raccoglie l’esigenza del cambiamento (“… non hanno più vino”) e guida gli uomini, a Lei affidati da Gesù dall’alto della croce (19,25-27), ad accogliere il Figlio di Dio, da Lei generato alla vita umana con un gesto di fede umile ed obbediente, come la causa e lo scopo della conversione del cuore e della mente (metànoia).

Il progetto della salvezza si sviluppa e si realizza in modo dinamico; da una parte c’è l’offerta di un dono (Dio) e, dall’altra, l’accoglienza del dono (l’uomo). La dinamica della salvezza non sfugge alla logica del dialogo tra Dio (Gesù) e l’uomo (Maria), ma non può sottrarsi alla scelta decisiva della fede (“…Qualunque cosa vi dica, fatela!”).

Con la constatazione che “non hanno più vino”, la madre di Gesù non chiede semplicemente un miracolo; Maria sembra ancora ignorare la dignità messianica di suo Figlio (cf. 1,26) ma, ad ogni modo Ella mette Gesù in presenza della miseria di Israele, da Lei rappresentato. Apparentemente, Maria si pone al livello della concreta mancanza del vino, ma nel dialogo tra Maria e suo Figlio possiamo scorgere, simbolicamente, il dialogo tra Israele (Maria) e Dio (Gesù). La madre (Maria = Sion) dichiara la situazione soggettiva in cui si trovano i suoi figli (“…non hanno più vino”), dimostrando di non essere una testimone neutrale dello stato di indigenza e di bisogno; Ella si prende a cuore la pena del suo popolo e la esprime come, secondo la tradizione, faceva Israele che, nel momento del bisogno, esponeva a Dio nella preghiera le circostanze della sua afflizione, fiducioso che Egli sarebbe intervenuto secondo il suo beneplacito (Sal 12; 31; 38; 39; 44,10-27; 79; 130; Ne 9,16-37; Bar 3,1-8). Per l’evangelista, la parola di Maria implica la fede in un intervento che qui, nel contesto dell’Alleanza, è quello della salvezza definitiva.

Che cosa c’è fra me e te? Si tratta di una formula semitica (ma li walak) propria del linguaggio diplomatico ed il cui senso dipende dal tono e dal gesto che l’accompagnano. Questa espressione, estranea alla nostra cultura e sensibilità, metteva in questione il legame esistente fra due alleati e poteva indicare sia una rottura dell’alleanza (Gs 22,25; 2Re 3,13) che la presentazione, all’interlocutore, di un punto di divergenza su cui discutere per giungere ad un chiarimento e rafforzare l’alleanza (Gdc11,12; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18; 2Re 9,18; 2Cr 35,21; Mc 1,24ss; 5,7ss; Mt 27,19). Certo è che Gesù non si pone al livello della madre, di cui pure accoglie la richiesta. Egli lascia intendere che, se si decide ad intervenire, non lo farà per un intervento umano, fosse pure di sua madre (Israele) e che, comunque, la sua azione avrà effetti molto superiori a quelle richieste dalle circostanze concrete. Se Maria si è limitata a richiedere un normalissimo intervento per rimediare ad una situazione imbarazzante per dei novelli sposi, che, con molta probabilità sono anche dei parenti, Gesù va ben oltre le buone intenzioni della madre ed agisce su un piano sicuramente superiore, secondo la missione ricevuta dal Padre. Egli darà compimento alle attese di Israele, ma superando l’interpretazione riduttiva della salvezza che il suo popolo si aspetta da Dio.

Donna. Il lettore moderno rimane perplesso di fronte ad un simile modo di rivolgersi a propria madre ma, se si considera l’ambiente sociale e culturale del tempo in cui fu scritto il Vangelo, ci si rende conto del fatto che Gesù ha usato un termine assai elogiativo nei confronti di colei che altri avrebbero semplicemente chiamato ‘immà (mamma), corrispondente ad ‘abbà (papà). Gesù sembrerebbe assumere, ad una lettura frettolosa e superficiale, un atteggiamento di distacco nei confronti di una donna che gli ha dato la vita (Mc 3,33ss; Lc 11,27ss), quasi volesse porre l’accento sulla sua origine ultraterrena e focalizzare l’attenzione dei suoi interlocutori sul Padre celeste, dal quale Egli è stato inviato sulla terra. Gesù, al contrario, vede nella madre sua la “Donna” che s’identifica non più con l’antico Israele, che gli ha dato la vita umana, ma con l’escatologica Sion, che attende e spera il tempo della salvezza definitiva. Con l’inatteso appellativo usato per rivolgersi a Maria, Gesù invita ad una nuova presa di coscienza sul tempo della salvezza, quell’ora tanto cara alla teologia giovannea.

Occorre, a questo punto, fare una breve considerazione sui segni di punteggiatura che caratterizzano gli scritti odierni e che rendono la traduzione degli scritti antichi, assolutamente privi di punteggiatura, non sempre univoca. Alcuni traduttori trasferiscono l’appellativo “donna” alla frase precedente, rendendo il senso dell’osservazione di Gesù in modo ancora più crudo: “che cosa c’è tra me e te, donna?”. Ma chi conosce le regole stilistiche della lingua greca sa che un vocativo (“donna!”) solitamente non segue la frase di cui fa parte, ma la precede. Vari altri passi del Vangelo confermano l’uso del vocativo nel senso ora descritto: “Figlio di Dio, abbi pietà di me!”; “Donna, ti sono perdonati i tuoi peccati!” e simili (cf. Mc 5,41ss; Mt 15,28; Lc 7,14; 13,12; Gv 19,26; 20,15). D’altra parte, non è forse normale che la rivelazione relativa all’ora sia preceduta da un vocativo solenne?

Non è forse arrivata la mia ora? Anche in questo caso, mancando negli antichi manoscritti la punteggiatura, la frase potrebbe essere tradotta come un’affermazione negativa (“La mia ora non è ancora arrivata!”) o come una domanda e, in tal senso si sono pronunciati autori autorevoli dell’antichità come Taziano, s. Gregorio di Nissa, s. Efrem oltre a diversi commentatori moderni (Viteau, Knabenbauer, Boismard, Vanhoye, Léon-Dufour et alii). I traduttori optano, in maggioranza per l’asserzione negativa, basandosi sui versetti in cui Giovanni, dopo i tentativi falliti di arrestare Gesù, annota che “la sua ora non era ancora arrivata” (7,30; 8,20). In questi passi, però, non è Gesù che parla, bensì il narratore, il quale riflette sugli eventi a cose fatte. Il seguito del racconto lascia supporre che Gesù si sia rivolto a sua madre non opponendo un rifiuto netto e deciso, nel qual caso Maria non avrebbe detto ai servi di assecondare i comandi del Figlio, ma in forma interrogativa, lasciando alla madre lo spazio per prendere autonomamente una decisione. La forma interrogativa, poi, permette di connettere molto bene la risposta data da Gesù con la reazione immediata di Maria, che sembra non aspettare altro per entrare in azione! La risposta di Gesù, infatti, sembra un incoraggiamento ad avere fede in Lui, per il quale è giunta l’ora di intervenire secondo il disegno del Padre (cf. anche Mt 16,8-9; Mc 4,40).

La mia ora. Qual è, in definitiva, l’ora di cui parla Gesù e su cui Giovanni ha costruito in buona misura l’architettura del suo pensiero teologico?

In senso strettamente fisico, Giovanni conosce l’ora come spazio di tempo ben preciso (1,39; 4,6; 4,52; 5,35; 11,9; 19,14; 19,27), mentre in senso propriamente teologico l’evangelista ha attinto il concetto di “ora” dalla letteratura apocalittica (Dn 8,17-19 ed altri testi extrabiblici), laddove l’ora indica il momento in cui si compirà definitivamente il disegno di Dio, ineluttabile proprio come il giorno del Signore (ovvero lo yôm YHWH di cui parla il libro di Gioele in 4,15-17). Tale terminologia apocalittica è presente anche nei Sinottici (Mt 24,36.44; 25,13; Lc 12,40.46), oltre che nel IV Vangelo (Gv 5,25.28).

Con la risurrezione di Gesù, i credenti hanno compreso che la fine dei tempi li ha raggiunti (1Cor 10,11) e sono stati indotti a vedere l’ora escatologica attualizzata negli eventi della Pasqua, se non già a partire dal momento dell’arresto di Gesù nel Getsémani (Mt 26,45; Mc 14,35.41; Lc 22,53). Secondo Giovanni, l’ora finale si compie al momento della glorificazione di Gesù sulla croce (12,23.27; 17,1; è questo il senso fatto proprio dal narratore: 7,30; 8,20; 13,1). L’ora di Gesù coincide col momento del suo ritorno al Padre (13,1), da Lui accettato pienamente e volontariamente (12,27), pur avendo chiesto al Padre suo di attraversare indenne il trapasso da questa vita. Quando i discepoli lo abbandonano al suo destino (16,32), fuggendo davanti alle guardie venute ad arrestarlo, Gesù affronta la sua “ora” completamente solo! L’ora è stata fissata dal Padre ed è in funzione di essa che Gesù coordina tutta la sua attività, perché in essa culmina la sua missione tra gli uomini. Tuttavia, dal momento stesso in cui inizia la sua vita pubblica, quest’ora, méta verso cui Egli avanza, è già presente in tutto ciò che Gesù dice e fa ed è già una manifestazione definitiva della salvezza che Dio offre agli uomini. Si può ben dire che tutta l’attività ministeriale di Gesù appartenga all’ora finale.

Nel contesto delle nozze di Cana l’ora, di cui parla Gesù, è quella della sua manifestazione, concretizzata dai “segni” che d’ora in poi accompagneranno la sua vita pubblica, dando corpo alla sua “gloria” (dòxa) ed è l’ora dell’annuncio del Regno da parte del Figlio di Dio. In questo senso si può ritenere che l’ora corrisponda all’inaugurazione del tempo messianico.

In questa prospettiva si può comprendere meglio il senso della replica, che Gesù rivolge alla madre formulando una domanda: “Donna, non è forse ancora arrivata la mia ora?”. Quando Gesù pone una domanda, di solito sollecita una risposta e questo succede spesso nel corso del IV Vangelo. Gli interlocutori di Gesù sono sempre indotti da Lui a prendere posizione nei confronti del mistero, racchiuso nella sua Persona. La forma interrogativa, allora, tradurrebbe una sorta di richiamo a Maria e, indirettamente, ad Israele di recepire e di accogliere il compimento del tempo della salvezza nella persona stessa di Gesù.

Secondo un’altra interpretazione, infine, la domanda rivolta da Gesù a sua madre è da porre sullo stesso piano di quella che, più avanti, Egli rivolgerà ai suoi discepoli nell’immediatezza della sua passione e morte: “Non berrò la coppa che mi ha dato il Padre?” (18,11). Dal momento che Giovanni non riporta nel suo Vangelo l’esperienza delle tentazioni, che Gesù ha voluto affrontare prima dell’inizio della sua vita pubblica, si sarebbe indotti a ritenere che Gesù rivolga più a se stesso che a Maria la domanda circa la sua ora, quasi sottintendendo che, davanti alla terribile prospettiva della croce, il Figlio di Dio possa aver tentennato. Gesù, però, nonostante la naturale ed umanissima paura della sofferenza e dell’annientamento, proprio della morte, non esita ad impegnare tutto se stesso nel dono totale del proprio essere, obbedendo alla volontà del Padre e mettendosi al servizio dell’uomo. Di fronte all’indigenza di Israele, Gesù è provocato a consentire di essere la via che conduce alla salvezza; la forma interrogativa sul proprio destino implica che, per Lui, è impensabile sottrarsi alla sua missione, il cui inizio è segnato dal prototipo dei “segni”, il miracolo di Cana di Galilea.

Sua madre dice ai servi: “Qualunque cosa vi dica, fatela!”. Maria non risponde direttamente alla domanda di Gesù. Resasi conto che per suo Figlio è giunta l’ora di agire secondo il volere del Padre, cessa di parlare come madre secondo la carne e trasmette ai servi la sua totale fiducia. È questo anche il tipico atteggiamento di Israele che, nelle sue prove, ripete continuamente di essere pronto a fare la volontà di Dio: “Tutto ciò che ha detto YHWH noi lo faremo” (Es 19,8; 24,3.7; Gs 24,24). Maria è figura d’Israele, che accoglie le ancora sconosciute condizioni della nuova e definitiva Alleanza, che Dio stringerà mediante Gesù. Ella non prende il posto d’alcun mediatore, sia esso Mosè od un profeta od il re; Ella è Israele che si dispone ad obbedire a Dio ed al suo inviato.

Maria è assai delicata almeno in due punti: non suggerisce ai servi di obbedire al figlio e non lo indica neppure per nome: ormai Gesù appartiene solo al Padre e non più a sua madre. L’ordine di Maria ai servi ricorda, alla lettera, quello rivolto dal faraone agli egiziani all’epoca della grande carestia, di cui si narra nel libro della Genesi: “Andate da Giuseppe e qualunque cosa vi dica, fatela” (Gen 41,55). L’analogia della situazione rende evidente la tipologia Giuseppe/Gesù, colta dalla Chiesa primitiva (At 7,9-13). Come Giuseppe ha donato il pane, Gesù dona il vino e dà compimento alla figura di Giuseppe, di cui il faraone affermava: ”Potremo trovare un uomo come costui, in cui vi sia lo Spirito di Dio?” (Gen 41,38). Secondo la prospettiva teologica di Giovanni, Maria vede nel Figlio suo il vero Giuseppe ed aderisce liberamente alle implicazioni suggerite dalla domanda di Gesù circa l’ora. Maria è veramente la “Donna” (Sion, Israele) interpellata e sollecitata ad avere fede in Gesù, il Figlio di Dio.


6 Ora c’erano là sei giare di pietra, destinate alla purificazione dei giudei e contenenti da ottanta a cento litri ciascuna. 7 Gesù dice loro: “Riempite le giare di acqua”. E le riempirono fino all’orlo. 8 Dice loro: “Ora attingete e portatene al direttore di mensa”. Ed essi gliene portarono.

Il particolare dettagliato delle giare di pietra, il loro numero, la loro capienza (dai 500 ai 700 litri circa) e la loro destinazione cultuale, è almeno curioso. Forse l’evangelista ha voluto fornire queste informazioni a lettori non propriamente a conoscenza delle usanze ebraiche o, più probabilmente, ha inteso esibire ancora una volta la sua predilezione per il significato simbolico dei “segni” compiuti da Gesù.

Mediante il suo gesto, Gesù manifesta in figura che è giunto il tempo in cui Israele entrerà nella comunione definitiva con Dio, come pure l’intera umanità. Al posto delle anfore di terracotta, in cui era normalmente conservato il vino e che a Cana erano ormai desolatamente vuote, Gesù si serve d’inusuali giare di pietra, destinate alla purificazione rituale e non alla conservazione delle bevande. Ciò conferma il carattere simbolico del racconto, tanto più che il numero delle giare (sei, cioè: sette meno una) implica un’idea d’imperfezione. Tenendo presente il rapporto che il Precursore ha stabilito tra il battesimo d’acqua ed il battesimo nello Spirito (1,33), si può supporre che il vino donato da Gesù sta all’acqua delle giare giudaiche come lo Spirito Santo sta all’acqua del rito battesimale amministrato da Giovanni Battista. Quest’accostamento è tanto più plausibile in quanto il battesimo di Giovanni prefigurava la purificazione che lo Spirito avrebbe operato alla fine dei tempi, ormai presente con Gesù.

Le giare erano dei grandi recipienti, di varie dimensioni (le più grandi potevano contenere anche 80-100 litri d’acqua) ed utilizzandole per i propri riti, riempiendole fino all’orlo, Israele aveva dato fondo a tutto ciò che poteva offrire nel suo desiderio di corrispondere alle esigenze del suo Signore.

L’acqua, che i servi mettono nelle giare per ordine di Gesù, diventa vino solo quando viene attinta e portata al direttore di mensa. “Ora attingete e portatene…”: la parola “ora” non è richiesta dal contesto e sottolinea che il tempo delle nozze escatologiche è ormai giunto. Con la presenza di Gesù, nel quale cielo e terra si uniscono (1,51), l’Alleanza di Dio con gli uomini raggiunge il suo compimento. È il momento inaugurale di una realtà che si prolunga lungo tutta la vita della Chiesa, nella quale si potrà attingere e gustare di giorno in giorno il frutto dell’acqua e della parola. Questo “ora” si apre su una presenza che non cesserà mai più.

Le giare sono di pietra perché, a differenza delle otri di pelle e delle anfore di terracotta, che usualmente contengono il vino, sono destinate a durare nel tempo. Gesù riconosce alle giare un gran valore simbolico, poiché in esse, per motivi religiosi, viene raccolta l’acqua della Creazione: le giare rappresentano l’istituzione di Israele. Dapprima l’acqua della creazione è diventata l’acqua della purificazione, quindi, in queste giare e mediante la parola di Gesù, quest’acqua può diventare vino. L’alleanza con Noè, che significa la presenza di Dio in tutta la creazione, è stata raccolta da Israele e, attraverso Israele, Gesù la riprende per portarla alla sua perfezione nell’Alleanza definitiva simboleggiata dal vino, prodigiosamente donato da Cristo in quantità sovrabbondante.

In breve: le anfore di vino, che nel bel mezzo della festa appaiono vuote, sono figura dell’antico Israele e dell’Alleanza mosaica. Entrambi hanno esaurito la loro tipica funzione, quella dell’attesa del messia e della preparazione dei tempi messianici. Le sei giare colme d’acqua sono figura della Legge (la Torâh), che, nonostante la sua imperfezione (racchiusa nel numero 6=7-1), è pur sempre un dono ricevuto da Dio in attesa della venuta della pienezza della Legge, cioè di Gesù Cristo. Il vino nuovo ed eccellente, che sostituisce l’acqua contenuta nelle giare di pietra, è la nuova e definitiva Alleanza stipulata tra Dio e gli Uomini in Cristo Signore. La quantità smisurata del buon vino è segno della sovrabbondante grazia, che scaturisce dal sacrificio di Cristo sulla croce. Il novello sposo, di cui si parla nella pericope, è lo stesso Cristo Gesù che presiede le nozze celesti (figura del Paradiso, il Regno di Dio). La sposa, che nel racconto non viene nemmeno citata ma di cui si intuisce la presenza discreta e silenziosa accanto allo sposo, è figura della Chiesa, la cui esistenza è giustificata dalla volontà redentrice di Cristo. Maria ed i servi sono la figura del nuovo Israele, cioè del popolo cristiano, che sa mettersi in ascolto con fiducia della Parola di Dio, incarnata in Gesù Cristo.

Come si può notare, il racconto del miracolo alle nozze di Cana va ben oltre il dato biografico o la semplice cronaca di un fatto realmente accaduto. L’evangelista vi ha colto tutti gli elementi giusti per costruire un preciso ed articolato pensiero teologico


9 Quando il direttore di mensa ebbe gustata l’acqua divenuta vino (egli non sapeva donde veniva, mentre lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiama lo sposo 10 e gli dice: “Ognuno offre da principio il vino buono e, quando si è brilli, quello meno buono. Tu, invece, hai conservato il vino buono fino a questo momento”.

Il miracolo avviene in modo “silenzioso”, senza clamore e senza alcun proclama da parte di Gesù. Solo Maria, che ha sentito l’ordine di Gesù, i servi di mensa, che hanno eseguito tale ordine ed i discepoli di Gesù, che con tutta probabilità erano i commensali a Lui più vicini, si sono accorti del prodigio. Il direttore di mensa non ne sa nulla e lo sposo ne sa ancora meno di lui, mentre gli altri invitati sono già un po’ alticci (“brilli”, dice il testo) e solo sorpresi dal fatto che sia arrivato a mensa del vino eccellente, sicuramente migliore di quello bevuto fino allora.

La battuta spiritosa del direttore di mensa serve a costatare l’avvenuto prodigio, senza che sia fatta menzione del suo autore. Senza attirare l’attenzione sul taumaturgo, l’evangelista dà risalto, in ogni caso, all’avvenimento: non solo l’acqua è diventata vino, ma questo è di qualità extra (come diremmo noi, oggi)!

Il commento sorpreso del direttore di mensa serve ad introdurre la figura dello sposo. Di lui si afferma che il direttore di mensa lo ha “chiamato”, come se fosse assente proprio sul più bello della festa. Attribuendo allo sposo l’iniziativa di far portare a mensa il vino eccellente dopo aver fatto servire del vino buono, ma di qualità inferiore, il direttore di mensa colloca lo sposo su un piano diverso dalla generalità degli uomini: “ognuno offre…Tu,invece…”. Elevare lo sposo sulla mediocrità degli uomini è un modo, utilizzato dall’evangelista, di procedere per simbolismi. La figura piuttosto anonima dello sposo si sovrappone a quella di Cristo, dalla quale viene sovrastata e “sostituita”; così, le nozze celebrate a Cana sono figura delle Nozze escatologiche celebrate da Cristo Signore nella Gerusalemme celeste.

Grazie all’esperienza religiosa di Israele, l’umanità ha avuto solo un “assaggio” delle delizie celesti promesse da Dio dopo il disastro del peccato originale. Donando agli uomini le “Dieci Parole” (Decalogo) tramite Mosè, sul monte Sinai, Dio aveva offerto uno spiraglio di salvezza; donando il proprio Figlio Unigenito, Dio ha inteso celebrare le sue Nozze eterne con l’Umanità, riscattata dal peccato grazie al sangue redentore di Cristo.


11 Facendo a Cana di Galilea questo prototipo dei segni, Gesù manifestò la sua gloria ed i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.

L’evangelista Giovanni non si limita a chiamare “segno” il miracolo di Cana, ma lo qualifica come il prototipo (o “inizio”) dei segni. L’uso del vocabolo greco archè (inizio) implica alcune considerazioni: non si tratta semplicemente del “primo” di una lunga serie di miracoli, ma sottolinea e caratterizza il “principio” di una nuova era, quella dell’affermazione su questa terra del Regno di Dio, che s’identifica con Gesù Cristo, la Buona Novella della salvezza (cf. Mc1,1; Mt 4,17; Lc 3,23; Gv1,1). Mediante i gesti e le parole di Gesù di Nazareth, Dio comincia a regnare nel cuore, nella mente e nella volontà degli uomini. Secondo tale prospettiva, il Regno di Dio si mostra all’opera mediante ciò che Gesù compie alle nozze di Cana, dove inizia a manifestarsi la “gloria” del Figlio di Dio. La “gloria” (dòxa) di Gesù si concretizza in tutti i segni da lui compiuti ed il segno compiuto a Cana è un “segno” originale, esemplare, che dà un senso a tutti i segni compiuti in seguito ed il cui scopo dichiarato è quello di suscitare la fede in Gesù di Nazareth.

I discepoli cominciarono a credere in lui. Come il miracolo di Cana è l’inizio dei segni, l’inizio dell’era messianica, l’inizio dell’affermazione del Regno di Dio tra gli uomini, così a Cana si registra l’inizio della fede degli uomini nel Figlio di Dio.

La fede dei discepoli, i primi a credere in Gesù, troverà un grande inciampo (skàndalon) nella croce, sulla quale finirà per morire in modo atroce l’oggetto della loro fede. Sarà necessaria l’esperienza sconvolgente e gioiosa della risurrezione per convincere definitivamente i discepoli di non essersi sbagliati nel fondare tutta la loro fiduciosa speranza in Gesù di Nazareth, di cui saranno testimoni fedeli e coraggiosi fino all’effusione del proprio sangue.

Cominciarono a credere. La fede è un dono che va, prima di tutto, accolto come tale nella sua totale gratuità dalle mani generose di Dio, il quale consente a tutti di credere in Lui e di salvarsi, anche percorrendo strade per noi misteriose; in secondo luogo, la fede va coltivata attraverso lo studio e l’ascolto attento della Parola di Dio, la preghiera perseverante e la continua disponibilità alla conversione personale. La fede, infatti, implica una relazione dinamica tra l’uomo e Dio e, come succede spesso nell’ambito delle relazioni umane, anche il rapporto tra l’uomo e Dio può interrompersi o modificarsi a causa della buona o della cattiva volontà dell’uomo, lasciato libero da Dio di decidere il proprio destino di salvezza o di perdizione. L’uomo non deve mai stancarsi di chiedere a Dio il dono della fede e della perseveranza, consapevole che la propria libertà, di cui va pure tanto fiero, subisce continui attentati da parte del male profondamente radicato nel suo cuore in forza dell’originario peccato di disobbedienza e di ribellione al progetto di Dio compiuto dai progenitori. Anche nel gruppo dei Dodici ci fu chi preferì barattare la propria libera scelta di fede con una manciata di monete e liberamente decise che non valeva la pena di “fidarsi” di Cristo.


L’incontro di Gesù con Nicodemo

(Gv 3,1-21)


Nicodemo è un fariseo, un maestro molto stimato in Israele e membro del Sinedrio, il tribunale amministrativo e religioso ebraico cui il potere romano concede autonomia in materia religiosa e nella gestione degli affari interni di Israele, avocando a sé, però, il diritto di comminare ed eseguire le eventuali condanne a morte pronunciate dal tribunale ebraico, in osservanza delle norme sancite dalla Torâh. Questo notabile autorevole di Israele si presenta a Gesù, di notte, non certo per una visita di pura cortesia.