00 04/06/2010 18:10
Il Vangelo di Giovanni

Giovanni ed i Sinottici

Confrontando il testo del IV Vangelo con quello dei Sinottici, si osservano alcune divergenze di carattere cronologico e geografico solo apparentemente tra loro contrastanti, se non si tenesse conto della finalità teologica sottesa ai racconti evangelici. Chi legge i Sinottici ne ricava l’immediata sensazione che Gesù abbia svolto la sua attività pubblica senza alcuna soluzione di continuità, partendo dalla Galilea ed avvicinandosi gradualmente a Gerusalemme, luogo della sua morte violenta e della sua gloriosa resurrezione, portando a termine la sua missione di redenzione nell’arco di un lungo ed intensissimo anno solare. Se si legge poi il Vangelo giovanneo, ci si rende conto che Gesù si è recato a Gerusalemme più volte, celebrandovi tre differenti festività pasquali ebraiche e partecipando anche ad una festa dei Tabernacoli o Capanne (festa di sukkôt)1e ad una festa della Dedicazione o delle Luci (festa di hannukkà).2 Da queste notizie si deduce che il ministero pubblico di Gesù sia durato almeno tre anni. Per quanto riguarda le indicazioni topografiche, Giovanni è più preciso dei Sinottici, il che dimostra anche una conoscenza diretta dei luoghi descritti: egli distingue la cittadina di Betania che si trova in Transgiordania dall’omonimo villaggio residenziale di Lazzaro, ubicato in Cisgiordania (1,28; 11,18); precisa che il Battista svolgeva la sua attività ad Ennon, vicino a Salim (3,23); qualifica con precisione il pozzo di Giacobbe (4,5); descrive la piscina di Bethesda con cinque portici (5,2), com’è stato recentemente scoperto dagli archeologi; fornisce notizie precise sulla piscina di Siloe (9,11); ubica il giardino degli Ulivi di là del torrente Cedron (18,1). I critici danno la loro preferenza alle indicazioni cronologiche e topografiche di Giovanni, specie per ciò che attiene alle circostanze delle ultime ore di vita terrena del Signore Gesù. Secondo i Sinottici, i miracoli compiuti da Gesù hanno come movente la sua compassione nei confronti degli emarginati d’Israele (lebbrosi, ciechi, storpi, malati nel corpo e nello spirito come gli indemoniati); tali miracoli comportano poi, secondo Marco, l’imposizione del silenzio e del segreto da parte di Gesù, il quale non vuole che il suo potere taumaturgico sia frainteso. Le malattie fisiche, che vengono guarite, sono simbolo di quelle dell’anima ed è di queste che il Messia d’Israele deve occuparsi, non delle questioni politiche del suo popolo! La prospettiva teologica di Giovanni, riguardo il potere taumaturgico di Gesù, è differente. I miracoli compiuti da Cristo sono segni della sua divinità ed Egli stesso li indica come prova della sua messianicità (10,38). Dei miracoli narrati dai Sinottici, 29 per la precisione, Giovanni ne riporta soltanto 2 e comuni a tutti gli evangelisti: la moltiplicazione dei pani (6,1-13) ed il cammino sulle acque (6,16-21). Sono propri di Giovanni il miracolo compiuto da Gesù alle nozze di Cana di Galilea, la guarigione del paralitico presso la piscina di Betesda e del cieco nato, la resurrezione di Lazzaro. Nel Vangelo di Giovanni non sono descritti gli incontri di Gesù coi pubblicani, i lebbrosi e gli indemoniati, cui i Sinottici danno invece grande spazio. Nei Sinottici le parole di Gesù sono presentate in forma di “detti brevi” (in greco lòghia), coordinati da un’unità tematica; in Giovanni, invece, i discorsi del Maestro sono complessi, ben strutturati, ampi, sovente in forma dialogica e, talvolta, collegati a racconti di miracolo di cui svelano il senso profondo. Nei racconti sinottici gli uditori di Gesù compongono una folla eterogenea, intenta ad ascoltare una predicazione centrata sul Regno di Dio, impersonato da Cristo stesso. Nel Vangelo giovanneo la folla, che ascolta e segue Gesù, è sempre divisa in “buoni” e “cattivi”, in “credenti” e “giudei”. Anche i singoli interlocutori di Gesù, come Nicodemo e la Samaritana, non rappresentano solo se stessi ma un gruppo. In Giovanni il tema centrale della predicazione di Gesù è la sua stessa Persona; nel IV Vangelo mancano elementi narrativi che, per i Sinottici, sono rilevanti dal punto di vista teologico, come l’invito alla conversione (metànoia), il discorso della montagna, il discorso in parabole, l’invio dei Dodici in missione, la Trasfigurazione (di cui Giovanni fu diretto testimone), la preghiera del Padre Nostro. Detto delle divergenze tra Giovanni ed i Sinottici, occorre sottolineare anche le convergenze tra i quattro Vangeli, che hanno in comune: la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme, la guarigione del figlio dell’ufficiale regio, la moltiplicazione dei pani ed il cammino di Gesù sulle acque, l’unzione di Betania, l’ingresso messianico in Gerusalemme. Le convergenze aumentano nel racconto della Passione, anche se Giovanni omette di raccontare l’istituzione dell’Eucaristia e l’agonia del Getsémani, la circostanza del bacio di Giuda e la fuga degli apostoli, il processo davanti al Sinedrio e gli oltraggi nella casa del sommo sacerdote ed alla corte di Erode, gli scherni ai piedi della croce ed il grido di Gesù prima di morire, l’esecuzione capitale dei due ladroni e la morte suicida di Giuda. Grande spazio ha, invece, nel racconto giovanneo il processo di Gesù davanti a Pilato. Sono propri di Giovanni i particolari della discussione tra Pilato ed i giudei circa la motivazione della condanna a morte di Gesù, fatta scrivere sulla tavoletta posta sulla croce, sopra la testa del condannato (titulum crucis); l’interpretazione della divisione delle vesti; la presenza di Maria ai piedi della croce; la trafittura del costato di Gesù, ormai morto, con una lancia.


Valore storico del IV Vangelo

Il vangelo appartiene ad un genere letterario sui generis, giacché non ha la pretesa di essere un libro di storia o di biografia, almeno non secondo i canoni storiografici e biografici del nostro tempo. Il vangelo è un libro di fede basato, però, su tradizioni storicamente fondate sui detti e sui fatti di Gesù, interpretati alla luce dell’esperienza apostolica della Pasqua di Resurrezione e della Pentecoste. Più dei Sinottici, il IV Vangelo si attiene ad una testimonianza di fede e ci fornisce uno scritto di elevato contenuto teologico. Va precisato che i fatti ed i detti, da esso riportati, sono impreziositi da informazioni ricche e ben documentate e sono collocati in una cornice storica, ambientale e topografica palestinese così circostanziata da trovare ampie conferme tanto nei rinvenimenti archeologici quanto negli scritti extra - biblici (su tutti, lo scrittore Giuseppe Flavio ed i manoscritti di QÅ«mran). L’autore riflette, anche, una conoscenza della Palestina anteriore al disastro politico e militare del 70 d.C., quando Gerusalemme fu distrutta dai romani e la Palestina fu devastata dagli eserciti di Vespasiano e di Tito, con la conseguente perdita di alcuni importanti punti di riferimento di carattere topografico e socio-culturale. Giovanni parla di:

  • Betania, al di là del Giordano (1,28)

  • Cana di Galilea (2,1; 4,46)

  • Pozzo di Giacobbe (4,6)

  • Villaggio di Sicàr (4,5)

  • Tempio dei samaritani (sul monte Garizim) in antagonismo con quello di Gerusalemme (4,20.21)

  • Piscina di Bethesda con cinque portici, recentemente riportati alla luce (5,3)

  • Portico di Salomone, come riparo invernale nell’interno del Tempio (10,23)

  • Lithòstrotos, situato fuori del pretorio di Pilato ed anch’esso riportato alla luce dagli archeologi (19,13)

  • Piscina di Siloe (9,7)

  • Efraim vicino al deserto (11,54)

  • Torrente Cedron (18,1)

  • Giardino accanto al Golgota, in cui c’era una tomba nuova (!9,17.41)

  • Uso del crurifragium per accelerare la morte dei condannati alla morte di croce (19, 31-32).

La cronologia di Giovanni è più precisa rispetto a quella dei Sinottici. Infatti, l’autore del IV Vangelo colloca la crocifissione di Gesù alla vigilia della Pasqua ebraica (19,14.31), mentre i Sinottici la situano lo stesso giorno di Pasqua, contro ogni logica; inoltre, Giovanni lascia intendere che il ministero di Gesù sia durato più di due anni ed è più preciso degli autori sinottici sui luoghi in cui Gesù ha esercitato il suo ministero nella valle del Giordano. Tutto ciò fa supporre che a scrivere il IV vangelo sia stato un diretto testimone dei luoghi, degli ambienti e dei costumi palestinesi o che, chi lo compose, abbia ricevuto direttamente le notizie di prima mano da questo testimone diretto.


Giovanni e la cultura del suo tempo

Il Vangelo di Giovanni non è un trattato di teologia, bensì il racconto di una storia vera, riguardante una Persona reale: Gesù Cristo.

Il valore del Vangelo è universale ma non generico, nel senso che ogni essere umano può trovare in esso una risposta personale alle proprie esigenze spirituali ed esistenziali. Quando Giovanni compose od ispirò la stesura del suo Vangelo dovette tenere presente le differenti culture espresse sia dal mondo greco sia da quello giudaico, ma anche quella vissuta dalla propria comunità cristiana.

I greci erano permeati dalla cultura ellenistica ed ispirati dalla filosofia platonica, in conseguenza della quale esprimevano una concezione del corpo e dello spirito ben diversa da quella propria della cultura ebraica. Per i greci valeva il principio del dualismo platonico: da una parte veniva affermata la realtà effimera e sostanzialmente negativa del corpo, alla morte del quale non rimaneva nulla e, dall’altra, s’inneggiava alla grandezza ed alla nobiltà dello spirito, valore positivo in assoluto ma autonomo e svincolato dalla realtà umana. Data una simile concezione filosofica dell’essere umano, si possono comprendere le ambiguità etiche che erano vissute da quei cristiani di origine ellenistica, i quali accettavano con disinvoltura gli atteggiamenti immorali, specie in materia sessuale, convinti che lo spirito non risentisse minimamente di un comportamento peccaminoso. Si possono anche comprendere i motivi culturali del sorgere delle prime eresie, specie dell’eresia gnostica.

Per Giovanni, invece, essendo di cultura ebraica, l’uomo è dal punto di vista ontologico un essere unico, formato “da corpo e da spirito”. Il corpo o carne (in greco sàrx) non è una realtà negativa, ma esprime soltanto il limite dell’uomo, la sua fragilità e debolezza, la sua tendenza al male. Divenendo “carne”, cioè uomo carnale, Gesù ha accettato ed assunto il limite proprio della natura umana, facendo di questo limite (il corpo) il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo. Facendosi uomo, Dio ha reso l’uomo partecipe della sua natura divina.

Per contro, lo spirito è la vita che dà sostegno e significato al corpo, da cui non è separato. Per dirla con s. Paolo, “il corpo è tempio dello spirito”. L’uomo, insieme di corpo e spirito, è un assoluto unico ed irripetibile, anche se limitato. Da ciò l’esplicita condanna di coloro che consideravano Gesù un essere puramente spirituale (un éone, secondo gli gnostici), che aveva preso a prestito un corpo “da schiavo” al solo scopo di poter giustificare un’apparente morte sulla croce. Secondo questi eretici era impossibile che il Figlio di Dio potesse morire sulla croce, in quanto Dio; sulla croce doveva essere morta una sua controfigura! Secondo gli gnostici, Gesù era vero Dio ma uomo da burla, poiché negavano la sua vera umanità. Descrivendo nei particolari la morte umiliante e dolorosa di Gesù, Giovanni ha inteso affermare che Egli è vero uomo e vero Dio.

Dal canto suo il mondo ebraico era in piena crisi negli anni in cui fu composto il IV Vangelo, cioè quasi 30 anni dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio (70 d.C.). Il cristianesimo era, per i giudei, una setta giudaica e come tale era considerato anche dalle attente e sospettose autorità di Roma. In virtù di un particolare privilegio concesso da Augusto, quello ebraico era l’unico popolo di tutto l’immenso impero romano ad essere esentato dal rendere culto all’imperatore (a favore del quale però dovevano essere offerti a Dio dei sacrifici nel Tempio), libero di praticare la propria religione ed esentato anche dal servizio militare obbligatorio.

Furono proprio i giudei a perseguitare, per primi, i cristiani ritenendoli eretici e politeisti, adoratori di tre persone divine. In seguito a ciò, le autorità romane cominciarono a prendere di mira i cristiani tacciandoli di ateismo, poiché rifiutavano la religione dello stato romano. Persino in seno alla comunità cristiana si ebbe un momento di crisi: i cristiani provenienti dal giudaismo (giudeo cristiani) erano del parere che i confratelli provenienti dal paganesimo (etnico cristiani) dovessero sottostare alla Legge ebraica (Torâh) e farsi, pertanto, circoncidere. La questione era spinosa e, in un primo tempo, in occasione del primo Concilio (Gerusalemme, 49 d.C.) s. Paolo era riuscito a fare chiarezza nella disputa, ottenendo per gli etnico cristiani la sola astensione dal mangiare le carni offerte agli idoli pagani ed evitando loro una circoncisione coatta, in forza del fatto che la fede in Cristo era superiore alla forza salvifica della Torâh. In seguito, quando ormai la nazione ebraica era stata sconfitta, umiliata e dispersa (70 d.C.) dagli eserciti di Roma, i superstiti capi religiosi di Israele, in prevalenza farisei, si riunirono a Jamnia intorno al 90 d.C. e fissarono i fondamenti del giudaimo, religioso e politico:

  • fu ribadita la fede dei patriarchi di Israele (Genesi)

  • fu affermato il bene della libertà, ottenuta con l’uscita di Israele dall’Egitto oppressore (Esodo)

  • fu riconosciuto, come valore specifico del popolo eletto, il dono della Terra Promessa (Deuteronomio)

  • quanto al messia, questi sarebbe venuto a spiegare in modo definitivo la Torâh, rimanendo dentro di essa.

La chiusura del giudaismo nei confronti della nuova realtà cristiana era totale e senza ripensamenti. Dal canto suo, anche Giovanni era fermamente convinto che il Messia – Gesù è assai superiore alla Torâh, n’è anzi il padrone. Questa sua ferma fede in Cristo Gesù traspare dalle pagine del suo Vangelo, dalle quali emergono a forti tinte i termini del drammatico confronto tra Gesù stesso ed i suoi antagonisti “giudei”. La croce, su cui morì il Figlio di Dio a causa dell’iniqua condanna pronunziata dalle autorità giudaiche e da quelle di Roma, solo in apparenza fu una sconfitta; in realtà, sulla croce si è manifestata la gloria di Dio e del suo Cristo.

Infine, per quanto riguarda la Chiesa del I secolo d.C., Giovanni ha davanti ai suoi occhi le conseguenze causate dalle persecuzioni e dalle eresie sulla fede dei cristiani della seconda generazione. Come sostiene il Bultmann, il IV Vangelo è una sorta di grande processo al mondo, un giudizio divino che è anche un invito alla pazienza rivolto a tutti i cristiani (Ap 6): il tempo della prova finirà ed il mondo verrà giudicato.


Antropologia del Vangelo di Giovanni

Per antropologia s’intende lo studio dell’uomo nei suoi aspetti esistenziali, culturali, psichici, etici, comportamentali, sociali: si tratta di una valutazione a 360 gradi del “pianeta – uomo”.

Nel Prologo del suo Vangelo, Giovanni definisce Gesù come il LOGOS, vocabolo greco traducibile in diversi modi: parola, discorso, progetto. Gesù è il progetto di Dio, che si rende concreto in una persona umana. Da questa considerazione scaturiscono tre linee antropologiche:

  1. per vivere, l’uomo ha bisogno di conoscere se stesso. All’uomo incerto di sé, che s’interroga sulla sua origine e sullo scopo della sua vita, Gesù insegna cosa vuol dire essere uomo. L’uomo è figlio di Dio ed è fratello di tutti gli uomini, un essere donato, cioè creato da Dio. Non si può parlare dell’uomo se si ignora Gesù Cristo, attorno al quale l’uomo è “arrotolato” o “ricapitolato”, cioè avvolto come un libro attorno al suo bastone o “capitolo”, per dirla con s. Paolo.3 L’antropologia di Giovanni è fortemente cristologica, giacché l’uomo trova il suo senso compiuto solo se strettamente collegato a Cristo.

  2. L’uomo è un essere libero, non predeterminato. Per Giovanni, il vero uomo, cioè l’uomo libero, è colui che imita Gesù Cristo e che, ascoltando la parola di Gesù, sa tenerla a mente e metterla in pratica. Gesù è l’obbedienza perfetta e, poiché Gesù stesso si realizza obbedendo al Padre, così il cristiano si realizza se ascolta la Parola di Dio, rivelata in Gesù Cristo. Gesù, infatti, è colui che è “di fronte al Padre” (ovvero, ” presso Dio”) e riferisce all’uomo la Parola di Dio. La libertà è un obbligo ad essere liberi e tale obbligo deriva dal fatto che l’uomo è figlio di Dio. Il vero figlio è in comunione col Padre e fa la sua volontà, realizzandola nella sua vita. Gesù è la Parola di Dio rivelata e chi lo accoglie obbedisce a Dio ed è un uomo libero.

  3. L’antitesi giovannea luce – tenebre sta ad indicare che Dio si è incontrato con l’uomo sul terreno dell’esperienza umana, fatta di luce e di tenebre. Le tenebre non hanno accolto (com-preso, catturato) la Luce – Gesù. Il Lògos-Gesù s’incarna in un’umanità nuova, in cui esiste anche il male (le tenebre): in questo consiste il realismo giovanneo. I cristiani sono invitati ad essere il lievito capace di agire dentro la storia umana, che è la vera manifestazione (epifania) di Dio.


Storia di Gesù nel Vangelo di Giovanni

Quando Giovanni scrisse o dettò il suo Vangelo, l’evento storico di Gesù era già concluso da circa 60-70 anni, durante i quali si era svolto un vivace dibattito sulla figura del messia, imperniato sul contrasto tra Torâh (Mosè) e Parola di Dio (Gesù) in ambiente ebraico e sul sorgere delle prime eresie in ambiente culturale ellenistico. Per forza di cose, Giovanni dovette interpretare il fatto storico passato, ormai concluso e non più ripetibile, in funzione delle istanze religiose e culturali del momento.

La distanza temporale dell’evento storico di Gesù non fu un limite per il Vangelo di Giovanni, il quale, anzi, poté trasmettere ai cristiani della seconda generazione una conoscenza più distaccata e teologicamente più matura e riflessiva dell’evento stesso.

Oltre a ciò, negli scritti giovannei si arguisce che la comunità cristiana guidata da Giovanni era ben consolidata e radicata su due fondamenta: la tradizione e la testimonianza evangelica. Pur usando un linguaggio che cerca di conciliare la cultura greca e quell’ebraica, Giovanni è fedele alla Tradizione apostolica, cui aggiunge il tema dell’amore e dello Spirito Santo.


I termini più significativi del Vangelo di Giovanni

Il Vangelo di Giovanni ha un vocabolario piuttosto ridotto rispetto ai Sinottici, ma alcuni termini da lui usati sono ricchi di significato teologico e di sfumature interpretative.

VEDERE

In Gv 1,14 il verbo “vedere” è coniugato in aoristo (“noi vedemmo” ), un tempo che, in greco, conferisce un significato continuativo all’azione compiuta nel passato. L’incontro con Cristo è sì avvenuto nel passato, ma i suoi effetti permangono nel tempo, perciò l’incontro continua ad accadere. Inoltre, il verbo è coniugato al plurale, per sottolineare la testimonianza di più persone; si tratta di un “vedere” comunitario e ciò denota una forte sottolineatura ecclesiale. I giudei “hanno visto” Gesù, ma in realtà “non l’hanno visto”, cioè non gli hanno creduto poiché lo hanno visto solo con gli occhi della carne, con il ragionamento umano. Coloro che videro Gesù secondo lo Spirito, invece, credettero in Lui riconoscendolo come Salvatore già sul patibolo della croce.

ASCOLTARE

Nella lingua ebraica questo verbo (shemâ) non significa solo ascoltare con le orecchie, ma anche accogliere nel cuore e mettere in pratica ciò che si ascolta. La vicenda di Gesù non è solo da vedere ma anche da ascoltare, perché Gesù è la Parola di Dio. L’ascolto può essere superficiale e non coinvolgere la vita di chi ascolta, oppure può trasformare radicalmente la sua esistenza. Dio Padre parla e Gesù, Parola del Padre, è rivolto al Padre (pròs tòn Theòn, in greco) per riferire all’uomo ciò che gli dice il Padre. Su questa dinamica di testimonianza si modella la modalità di trasmissione della tradizione da una generazione cristiana all’altra lungo il corso dei secoli. Noi dobbiamo trasmettere alle generazioni future il messaggio evangelico, fedelmente, come l’abbiamo ricevuto dalle generazioni passate, che ci hanno preceduto.

CONOSCERE

Nella Bibbia questo verbo assume vari significati: dalla conoscenza in senso tecnico ed intellettuale, alla conoscenza carnale – sessuale tra uomo e donna, tra marito e moglie (rapporto sessuale). Nel linguaggio di Giovanni, conoscere significa “fidarsi di Dio” e sperimentare la vita in senso spirituale. Attraverso Gesù Cristo noi arriviamo a conoscere noi stessi. In Gv 8,55 “conoscere Dio” significa osservare la sua Parola e metterla in pratica. Chi ascolta il Padre è figlio di Dio e fratello di Cristo e chi conosce Cristo entra in comunione con Lui e, amando Lui, ama il prossimo.

RICORDARE

Questo verbo significa “mettere nel cuore, tenere nel cuore”. Giovanni usa il vocabolo “ricordo” nel senso di “memoria viva”, che collega un’anticipazione con un compimento. Molte delle parole dette da Gesù e molti dei gesti da Lui compiuti non furono compresi dagli apostoli nel momento in cui le une furono dette e gli altri compiuti, ma furono pienamente ricordati e compresi dopo l’evento pasquale. Ciò che fu compreso entrò nella vita della comunità. Dal ricordo del fatto vissuto conseguì la conservazione della tradizione, della fede per virtù dello Spirito Santo, che ispirò ciò che veniva tramandato dalla comunità.


Il peccato in Giovanni

Lo specifico cristiano del peccato può essere compreso solo quando viene pensato come rifiuto della chiamata in quella filiazione, la cui natura intrinseca consiste nell’essere l’irradiazione della filiazione eterna nella creazione. Veramente il peccato “accade” quando il proprio Io rifiuta la grazia di questo dono e rifiuta di essere il luogo terreno della dedizione trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La vera radice del peccato è l’egoismo. Il peccato si contrappone all’irradiazione di Cristo, che vuole rendere evidente questo rapporto trinitario presente dentro di noi. Peccare è andare fuori posto ed il nostro posto è essere figli nel Figlio. Peccare è non accettare la nostra vocazione ad essere figli a fianco di Gesù. Lontano dal Padre, il figlio non può vivere (v. parabola del figlio prodigo). Entrando nella nostra storia e salendo sulla croce, Gesù ha trasformato la nostra libertà sul piano storico ed ha accolto in Sé la libertà fuggiasca e peccaminosa di Adamo, per ricondurre il nuovo Adamo alla sua libertà di figlio. In questo consiste la redenzione.


Il tema della “rivelazione”

Dio si è manifestato al mondo incarnandosi, facendosi uomo in Gesù di Nazareth. Di fronte a questa “rivelazione” Giovanni registra diverse reazioni da parte del mondo (Gv 1-12) e da parte della comunità dei credenti (Gv 13-20).

Nell’ambito del mondo c’è chi reagisce alla novità della “rivelazione” accogliendo Gesù, crescendo nella Luce e vedendo sempre di più, ma c’è anche chi rifiuta Gesù ed il suo Vangelo, allontanandosi da Gesù e vedendo sempre meno. Lo sguardo della fede non ha bisogno degli occhi del corpo; anche uno cieco dalla nascita può avere fede e non sempre chi è sano di vista è anche capace di credere. Nei primi 12 capitoli del IV Vangelo i miracoli o “segni” (semèia) compiuti da Gesù sono l’annuncio della presenza di Dio in mezzo agli uomini e non devono essere per niente intesi come fatti magici. Quando l’evangelista parla di “opere” (èrga) fa sempre riferimento ai prodigi compiuti da Dio per liberare il suo popolo dall’Egitto oppressore.

Nella seconda parte del IV Vangelo (Gv 13-20) Giovanni concentra la sua attenzione e quella della sua comunità cristiana sul miracolo della croce, che per l’evangelista è l’equivalente della gloria. Morendo sulla croce, Gesù “esala lo spirito”, cioè effonde e dona lo Spirito Santo salvando l’intera umanità. Questo dono dello Spirito rende un tutt’uno la Pasqua e la Pentecoste. Con la creazione Dio dona lo Spirito ad Adamo, il quale, spinto dalla prepotente volontà dell’autodeterminazione, lo perde commettendo il peccato di disobbedienza, ma lo riceve nuovamente in dono da Cristo morente sulla croce. Ne derivano due atteggiamenti molto differenti nelle loro conseguenze: chi sa accogliere la vita come un dono è disposto ad accogliere anche la salvezza, mentre chi considera la vita come un diritto (peccato originale) rifiuta persino la salvezza, che gli viene donata gratuitamente. In questa seconda parte del suo Vangelo, Giovanni dà ampio spazio alle parole di Gesù, cioè ai suoi discorsi di addio (Gv 11-17) ed alle apparizioni successive alla sua Resurrezione (Gv 18-20).

Il filo conduttore del racconto evangelico è l’ORA, che fa da cornice ai cinque discorsi dell’addio per poi esplodere nel mistero pasquale della passione, morte e resurrezione di Cristo Signore.


L’atmosfera del Vangelo di Giovanni

Il fondale del IV Vangelo sarebbe, secondo alcuni autori, quello di un grande processo che si svolge sul piano storico e sul piano della fede.

Dal punto di vista puramente storico, la vicenda di Gesù di Nazareth si conclude con un grande insuccesso, un fallimento totale a causa della sua morte in croce.

Secondo la prospettiva della fede, invece, ogni giudizio circa la vicenda storica di Gesù va rivisto o, meglio, ribaltato. Non solo Gesù Cristo non è uno sconfitto, ma è anzi l’unico che, in virtù della sua obbedienza al Padre, esce “pulito” da questo processo, nel corso del quale tutti fanno una pessima e meschina figura, dai giudei che peccano di idolatria avendo riconosciuto come loro unico re Cesare, l’imperatore – dio, a Pilato che si rende ridicolo facendo la spola tra Gesù ed i giudei, al fine di conservare al processo - farsa la parvenza della legalità. La vicenda storica di Gesù può essere letta, anche, in una prospettiva liturgica. La sua vita pubblica, infatti, è scandita e ritmata dalle feste giudaiche, che l’evangelista reinterpreta alla luce dell’esperienza del Risorto. Giovanni seguirebbe il seguente schema liturgico:

  • cap. 2: Gesù, in occasione della sua prima Pasqua celebrata in Gerusalemme, purifica il Tempio cacciando i venditori ambulanti e propone Se stesso come il Nuovo Tempio;

  • cap. 5: Gesù rinnova e reinterpreta il riposo del Sabato, che è fatto per l’uomo e che ha un valore salvifico per l’uomo stesso (guarigione del paralitico);

  • cap. 7: durante la festa delle Capanne, Gesù dichiara di essere la luce del mondo ed affronta il tema dell’acqua, svelandone il significato salvifico;

  • cap. 10: la festa della Dedicazione del Tempio diventa l’occasione per Gesù di dichiararsi il Buon Pastore, la Porta del Nuovo Tempio attraverso cui passare per salvarsi;

  • cap. 12: durante la sua ultima Pasqua, la terza, Gesù viene ucciso proprio nel giorno in cui i sacerdoti uccidevano gli agnelli pasquali: Gesù è l’Agnello pasquale offerto in sacrificio per tutta l’umanità.


Prologo (Gv 1,1-18)


Il Prologo del IV Vangelo è un inno cristologico di composizione anteriore al Vangelo giovanneo ed è tipico dell’Asia Minore. Secondo gli studiosi, non si tratta di un inno gnostico cristianizzato. Il redattore, che lo ha utilizzato come introduzione al IV Vangelo, ha inserito degli adattamenti evidenti (vv. 6-8.15), facendo irrompere la figura di Giovanni il Battista, il quale nega di essere il messia (1,20; 3,27-28; 10,41) ma rende testimonianza alla messianicità di Gesù, l’Agnello di Dio venuto a togliere il peccato dal mondo (1,29-31) e di cui egli è solo il precursore.

Il Prologo è strutturato in modo chiasmatico, con parallelismo inverso (tipo a-b-c/ c’-b’-a’). Lo schema seguente è stato proposto da Boismard-Lamarche:

  1. il Verbo con Dio Padre vv. 1-2 a’- Unigenito del Padre vv. 18

  2. suo ruolo nella creazione “ 3 b’- suo ruolo nella nuova creazione “ 17

  3. il dono agli uomini “ 4-5 c’- dono agli uomini “ 16

  4. testimonianza del Battista “ 6-8 d’- testimonianza del Battista “ 15

  5. venuta del Verbo “ 9 e’ - Incarnazione “ 14

f- coloro che non accolgono il Vangelo “ 10-11 f ’ - coloro che accolgono il Verbo e credono “ 12-13

Questo movimento di discesa – ascesa è sintetizzato da Gv 16,28 (“Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e vado al Padre”) e ricorda Fil 2,6-11.


Analisi del testo

1,1 In principio era il Verbo ed il Verbo era presso [il ] Dio e Dio era il Verbo. 2 Egli era in principio presso [il ] Dio.

I primi due versetti del prologo formano un’unità letteraria racchiusa dall’inclusione “in principio”. Il v. 1 è formato da tre emistichi, posti in parallelismo progressivo; i primi due emistichi sono disposti in forma chiasmatica. Il v. 2 è una sintesi di 1,1.

a- In principio era il Verbo

b- il Verbo era presso [ il ] Dio

c- e Dio era il Verbo

a + b + c Egli era in principio presso [ il ] Dio


“In principio”

Sono le parole d’inizio di Gen 1,1 (in ebraico bereshît): non si tratta tanto dell’inizio del tempo nel mondo, quanto piuttosto del principio assoluto. Prima che l’universo avesse il suo inizio, esisteva già l’Inizio assoluto da cui tutto ha avuto origine e principio. Gesù si presenta agli uomini come il compimento di tutta la rivelazione, il dono ultimo e definitivo di Dio, il rivelatore supremo, la sola via di salvezza, il Volto di Dio in mezzo agli uomini (“Il Padre è in me ed io nel Padre” Gv 10,38).


era”

Quando le cose create hanno avuto inizio ed hanno cominciato ad esistere, “ad essere”, Egli “era” già, cioè esisteva fuori del tempo, nell’eternità. L’esistenza eterna, sottolineata dall’imperfetto, non impedisce al Verbo di entrare in una nuova dimensione, quella terrena, irrompendo nella storia dell’uomo. Questa irruzione è resa in greco con l’aoristo (passato remoto), tempo che indica un’azione compiuta nel passato ma i cui effetti non si esauriscono nel tempo (“il Verbo si fece carne” Gv 1,14).


1 Questa festa, detta anche delle Tende, era considerata “la festa più santa e più grande presso gli ebrei” da Giuseppe Flavio, autore di una storia d’Israele intitolata Antichità giudaiche (VIII, 4,1). Si trattava di una festa agricola, che celebrava il raccolto degli ultimi frutti della terra, le olive e l’uva, dalle quali erano estratti dei prodotti molto significativi per la cultura liturgica e religiosa di Israele: l’olio ed il vino. La Festa delle Tende era molto gioiosa, allietata da divertimenti popolari e vivacizzata da qualche ubriacatura di troppo per l’uso generoso del vino novello! La festa durava sette giorni e con essa s’intendeva celebrare il ricordo degli anni trascorsi da Israele nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto e durante i quali gli ebrei erano vissuti nelle tende. Essa era celebrata in autunno, dopo lo yom-hakippurîm o “giorno del perdono” (settembre – ottobre), che si teneva pochi giorni dopo il capodanno autunnale ebraico (rosh-ha-shanà).

2 La festa di hannukkà o delle Luci cadeva in dicembre e veniva celebrata per ricordare la purificazione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 164 a.C. ad opera di Giuda Maccabeo dopo la vittoria riportata su Antioco Epifane, colui che aveva profanato il Tempio avendovi collocato la statua di Zeus Olimpio. La festa durava otto giorni ed ogni giorno si aggiungeva, davanti ad ogni casa, una luce (una torcia), per un totale di otto luci. Nell’ultimo giorno di festa la città di Gerusalemme era illuminata a giorno dalle migliaia di torce accese! Doveva essere uno spettacolo affascinante per chi era abituato a trascorrere le notti nel buio più completo.

3 Cf. Ef 1,10. I libri antichi, di papiro o di pergamena, erano in realtà dei lunghi fogli avvolti attorno ad un bastone o capitulum. Quando si leggeva il “libro”, il foglio veniva svolto per la lettura ed il bastone o capitulum serviva per riavvolgerlo, una volta conclusa la lettura stessa. Solitamente c’erano due bastoni situati alle due estremità del foglio o “libro”, per facilitarne il riavvolgimento man mano che venivano lette le varie sezioni (le odierne pagine).